Intervento al secondo Seminario di Eddyburg (Sezano (VR) dal 17 al 19 ottobre 2013, sul tema "Le Città metropolitane, tassello essenziale del governo pubblico del territorio". In calce il link al testo con immagini
Introduzione
Un’indagine attenta della realtà metropolitana milanese non può prescindere dal legame che questa intrattiene con la conurbazione che si è consolidata lungo la propaggine nord-ovest, il tradizionale “asse del Sempione”.
Basta un esame delle mappe settecentesche del sistema urbano che si estende senza soluzioni di continuità tra Milano e il lago Maggiore, storicamente organizzato attorno all’asse del Sempione, per vedere le costanti strutturali che ne hanno costituito le “permanenze” che hanno accompagnato fino ad oggi i cambiamenti economici e sociali. Trascurando in questa sede la puntuale ricostruzione filologica delle relazioni storiche costituite lungo questa direttrice, è evidente come questo corridoio si sia evoluto da collegamento della città al contado, a propaggine organica allo sviluppo urbano del “centro”.
La differenza tra collegamento e sistema urbanizzato non è rappresentata solo dalla densificazione degli insediamenti, dalla diversa proporzione tra pieni e vuoti: si tratta di entità affatto diverse. Una sempre più intensa e complessa integrazione di funzioni di rango metropolitano ci permette di sostenere che non si è più in presenza di un “dentro” e un “fuori” da ciò che chiamavamo metropoli e che ora si definisce, in termini più larghi, come area metropolitana o sistema metropolitano.
Esperienze di governo del sistema urbanizzato
L’area metropolitana osservata nel quadrante nord-ovest lombardo acquista oggi un significato nuovo che impone un approccio diverso rispetto alla rapporto città/territorio aperto di un tempo. Il ruolo delle aree di margine è mutato e non si misura più solo con la mobilità verso il centro, da un esterno ad un interno.
Un approccio che non è più centrato sul riscatto delle periferie, politiche differenziate per le aree di minor densità, l’insistenza su vuoti o pause dell’edificato. Tutti questi temi, beninteso, esistono ancora ma sono riassorbiti dentro una realtà urbana più vasta nella quale le parti hanno gradi di autonomia sempre più ridotta, stanno in un equilibrio precario in costante mutazione. Al margine dell’area che consideriamo è localizzato l’aeroporto intercontinentale di Malpensa.Lo scalo costituisce, sia territorialmente sia per la funzione specifica svolta, il terminale del sistema urbano milanese ed esemplifica il ruolo di “città-porta” richiamato nello schema di sviluppo dello spazio europeo (SSSE).
Tra lo scalo e il centro urbano si dipanano e si intrecciano funzioni disparate nelle quali è difficile rintracciare un disegno riconducibile ad una scala territoriale ampia. Su questo asse incontriamo, è bene ricordarlo, il polo fieristico Rho-Pero sul quale si gioca la partita di Expo 2015 con tutta la pirotecnica ragnatela di progetti a supporto di cui si occupano quotidianamente le cronache, non solo politiche.
Ma se riconosciamo una porta d’accesso ad un’area dovremmo anche definire i confini dell’area, ammettendo che da una porta si entra ed anche si esce. Fuori da astratti esercizi nominalistici di scarso interesse dobbiamo considerare che esiste un’entità che non è più città, e nemmeno metropoli, che vive una trasformazione nella quale si dissolvono i tradizionali pilastri della rappresentanza sociale e politica. In assenza di dimensioni territoriali riconoscibili con istituzioni rappresentative solide anche la cittadinanza lascia il posto ad una generica utenza.
Il caso che esaminiamo evidenzia proprio l’impossibilità di pianificare un territorio vasto con un minimo di credibilità ed efficacia senza definire adeguati livelli istituzionali, nuovi o riformati, a cui è affidata l’autorità di promuoverla, coordinarla e monitorarla.
Una breve rassegna del sistema pianificatorio che negli ultimi anni ha investito questi territori con obiettivi diversi può essere utile per capire meglio l’origine delle difficoltà organizzative incontrate.
Trascurando i livelli di piano canonici già definiti dalla legge lombarda per il governo del territorio – Piano Territoriale Regionale, PTCP provinciale, PTC del Parco del Ticino, PGT comunali – nell’area si sono intrecciati piani e programmi settoriali che fanno riferimento ad aggregazioni diverse.
Abbiamo conosciuto Patti territoriali (OGMA), PRUSST, Piano Strategico Area Varesina e molte altre esperienze che hanno in qualche modo anticipato l’esigenza di individuare una dimensione rappresentativa delle effettive ricadute territoriali del tema di volta in volta trattato.
Una speciale menzione dobbiamo riservare al Piano Territoriale d’Area di Malpensa, il piano certamente più strutturato per disposizione legislativa, per cogenza di previsioni e per attenzione al monitoraggio e aggiornamento.
Il Piano d’Area Malpensa e l’inversione delle priorità
Il Piano d’Area Malpensa rappresenta il primo atto di pianificazione territoriale che possiamo definire di “area vasta” adottato in Regione Lombardia. Aveva il compito di programmare interventi riassunti con il termine abusato di “strategici” in funzione dello sviluppo del sistema aeroportuale di Malpensa 2000.
La gestione durata un decennio (1999-2009) ha messo in risalto i limiti metodologici di un progetto territoriale che estrapola un’area da un contesto e stabilisce per essa una gerarchia di priorità di interesse sovraccomunale isolandole dal sistema della pianificazione diffusa.
Oltre agli obiettivi di livello regionale, legati allo sviluppo aeroportuale, hanno trovato spazio in questo piano le proposte di operatori e investitori privati di supporto. Il ruolo delle proposte degli enti locali, invece, è stato condizionato dalla frammentazione e dalla scarsa coesione che questi sono riusciti a costruire sul territorio. Con il risultato che i comuni, enti rappresentativi della democrazia locale, non sono stati in grado di formulare proposte di rilevanza “strategica” e, perciò, non hanno inciso sulle più importanti scelte di trasformazione del territorio che essi stessi amministrano. Il PTA, a sua volta, è apparso uno strumento sovrapposto alla realtà locale della quale ha assunto solo gli aspetti legati alla funzionalità dell’aeroporto ed è rimasto, invece, indifferente alle criticità e alle ricadute negative con le quali devono fare i conti le popolazioni e i loro rappresentanti locali.
Il PTA è stato costruito su un modello che premiava le scelte infrastrutturali al servizio dell’aeroporto e su queste ha selezionato progetti in grado di catturarne le opportunità.
In questa logica è rimasto poco spazio per l’eterogeneità dei problemi posti dai comuni in ordine sparso e a volte persino contradditori tra loro.
L’area è penalizzata, inoltre, dall’assenza di una chiara convergenza dei diversi livelli di pianificazione su obiettivi qualificanti. Le condizioni per una pianificazione inclusiva sono negate alla radice da scenari che hanno al centro investimenti per i quali la realtà locale è solo una fastidiosa pratica da evadere, tuttalpiù con qualche compensazione caritatevole.
Ci sarebbe voluto un piano multiscalare in grado di stabilire relazioni forti tra progetti di dimensioni diverse e contestualizzare programmi di competenza di enti istituzionali di diverso livello.
Gli esiti del PTA Malpensa segnalano l’urgenza di un ripensamento degli strumenti di intervento sul territorio a scala sovracomunale e non solo in aree su cui insistono infrastrutture di grande rilievo.
Se pensiamo alla miriade di studi e analisi (tanti studi disciplinari, tante VAS locali) sommate a quelli prodotti da altri enti (Regione, Provincia, Parco del Ticino etc.) in assenza di forti momenti di coordinamento a tutti i livelli ci rendiamo conto della dispersione di risorse professionali, economiche e di impegno di cittadini e associazioni senza riuscire a dare risposte ai fenomeni che si intendevano pianificare e, forse, neanche a conoscerli a fondo.
Un progetto al posto del piano
Il caso Malpensa è un paradigma, o un laboratorio se si preferisce, che ci propone sempre nuove frontiere per chi osserva la costruzione di un sistema territoriale e ci conduce dal piano senza coesione territoriale, di cui abbiamo detto, ad un progetto senza più il piano. In termini edipici “l’uccisione del padre”.
A PTA scaduto compare un Piano di Sviluppo aeroportuale di Malpensa (Master Plan) con l’intento dichiarato di aumentare le capacità di traffico passeggeri da 18.675.050 a 49.557.179 (+ 165%) e merci da 450.446 a 1.344.936 tonnellate (+ 198,58%). A nulla rileva il fatto che i dati sulla domanda effettiva segnalano un calo reale dei passeggeri.
Nel regno del libero mercato, si sa, basta la suggestione e non servono i fatti che hanno il pessimo vizio di presentare le cose come stanno ostacolando le pulsioni dei coraggiosi investitori.
Tanto meno conta il fatto che il potenziamento (alias ampliamento) sia stato predisposto da SEA, la società di gestione degli aeroporti milanesi, un soggetto privato, anche se controllato da enti pubblici come Comune e Provincia di Milano, che non ha competenze in materia di pianificazione territoriale. Per questa ragione il piano diventa progetto e sottoposto a Valutazione d’Impatto Ambientale (VIA) anziché a Valutazione Ambientale Strategica (VAS) come si dovrebbe per un piano territoriale.
Quindi siamo in presenza di uno strumento che si chiama Piano di Sviluppo, con connotati e ricadute senza alcun dubbio di area vasta, anzi vastissima, tant’è che si chiama “piano” ma viene sottoposto a un iter di verifica riservato ad un progetto. Un progetto che per sua natura presuppone un piano d’area che, però, non c’è! Bella contorsione non c’è che dire.
Riappare così l’ormai leggendaria “terza pista” (se ne parla da più di vent’anni) con corredo di nuove infrastrutture interne ed esterne all’area aeroportuale e, per condire il tutto, la sfacciata operazione immobiliare che prevede un “parco logistico” di ben 260 ettari, il 60% dell’intero ampliamento aeroportuale previsto.
Una pura e semplice speculazione edilizia che nulla ha a che vedere con le strategie di sviluppo del traffico aereo (ammesso e non concesso che ci sarà mai) ma molto con la quadratura del piano economico-finanziario dell’operazione. Il vero core businness come direbbero quelli che ci tagliano i servizi pubblici per il nostro bene.
Brevi conclusioni provvisorie
Le esperienze che abbiamo esaminato ci segnalano che siamo di fronte a:
Un territorio…
Troppo pianificato
Male pianificato
Inutilmente pianificato
Costosamente pianificato
con esiti di…
Carenza di coordinamento istituzionale
Debole integrazione territoriale
Non si percepiscono con chiarezza obiettivi e finalità
Sono confusi i livelli di responsabilità
Non si riconosce il ruolo del pubblico
Cosa c’è fuori dalla porta?
Definizioni come quella di “città-porta”, sono funzionali a mettere in luce attitudini o ruoli urbani prestigiosi, potenzialmente appetibili, lasciando in ombra molti aspetti legati alle trasformazioni che ne conseguono e al loro impatto su tessuti urbani complessi.
Abbiamo esaminato la porta del nord-ovest milanese con lo sguardo verso la città, il centro che ha costruito nel tempo questo legame che oggi ci appare così solido.Ma l’osservazione non è completa se non ci voltiamo e guardiamo alle nostre spalle. Forse ci può essere utile osservare quali flussi il nostro satellite (per restare ai termini aeroportuali) è destinato a connettere all’area urbana.
Il rapporto dell’area con i sistemi infrastrutturali e di collegamento internazionali
L’area che qui consideriamo si trova nel punto in cui il sistema metropolitano milanese interseca i flussi che si muovono lungo le direttrici europee in direzione nord-sud (Rotterdam-Genova) e in direzione ovest-est (Lisbona-Kiev o quel che ne resta). Naturalmente su questi su questi fatidici corridoi si sono riversate retoriche in dosi massicce, ma tanto fa. Quello che conta è la sfrenata corsa ad accaparrarsi qualche scampolo di opera pubblica, naturalmente “strategica”. Come per Malpensa, per Expo, per l’Alta Velocità basta esibire un progetto gigantesco, con consistenti apporti privati (sulla carta) e cominciare a raccogliere gli appetiti locali e non, nel tentativo di fornirgli un senso che non hanno.
Se allarghiamo lo sguardo verso le prealpi e più in là osserviamo una sequenza di cantieri di una ragnatela di infrastrutture che hanno l’obiettivo di movimentare le merci. La nuova ferrovia Arcisate-Stabio, il potenziamento della Luino-Gallarate si uniscono alle reti della grande viabilità della Rho-Monza, il nodo di Busto-Gallarate della Pedemontana, il collegamento del valico di svizzero di Gaggiolo con l’autostrada Milano-Varese.Le ricadute sul sistema di governo delle trasformazioni territoriali è di un’evidente gravità e mette in mora tutte le discussioni sulla potestà di gestione dei sindaci e anche di Provincia e Regione. Chi governerà e in che modo gli effetti delle scelte devastanti?
Oltre frontiera prosegue a ritmo serrato un’opera di enorme portata come l’AlpTransit, linea ferroviaria dedicata al trasporto delle merci, che attraversa da nord a sud tutto il territorio elvetico e riverserà una quantità impressionante di merci al nostro confine. Il 2019, anno in cui i lavori saranno completati, è dietro l’angolo e gli svizzeri sono solitamente puntuali.
L’impatto sarà ancor più pesante se si considerano i ritardi di adeguamento della rete ferroviaria italiana: la tratta Arcisate-Stabio è in ritardo e priva di copertura finanziaria, il collegamento tra Luino e il centro logistico Hupac (centro di smistamento tra i più importanti d’Europa, di proprietà svizzera) è di là da venire. La vera partita oggi si gioca sulla logistica, nuovo motore dell’organizzazione territoriale, che per sua natura, non conosce confini, ne nazionali ne continentali.
Ma il nostro punto di osservazione ha una sua precisa matrice, si estende su ben precisi territori appartenenti alla Repubblica Italiana e intrattiene strette relazioni con un’area vasta dotata di un ambiente unico come quello del Parco del Ticino con un tessuto socio economico denso e stratificato in continua trasformazione.
Lo stesso Ministero dell’Ambiente ha riconosciuto, nella nota della D.G. 21428 del 7.10.2010, “disastro ecologico nell’area adiacente a Malpensa in pieno parco del Ticino dovuto al sorvolo degli aeromobili in decollo dalla stessa” e due sentenze di TAR e Consiglio di Stato hanno condannato SEA a risarcire una estesa proprietà fondiaria adiacente l’area aeroportuale per i danni fito-sanitari patiti per oltre 5 milioni di euro.
Per tacere dello spregio degli interessi pubblici dimostrato dalla procedura di infrazione avviata dalla Commissione UE contro la Repubblica Italiana per non aver adottato le “opportune misure per evitare il degrado degli habitat naturali e degli habitat di specie nonché la perturbazione delle specie per cui il SIC della “Brughiera del Dosso” sempre nell’area di intorno all’aeroporto di Malpensa.
Tutte queste opere, ma sarebbe più appropriato dire saccheggi, non sono solo gravi perché destinate a stravolgere i connotati fisici del territorio che conosciamo ma, soprattutto, perchè disegnano uno spazio sempre più indeterminato, frammento di un insieme che sfugge alla comprensione prima ancora che alla capacità di governo delle istituzioni che ne sarebbero depositarie.
Come si può pensare di pianificare (nel senso di dare ordine) a uno spazio di cui non si definiscono i confini perché non ce ne sono o, al contrario, sono addirittura troppi? Un territorio attraversato da “flussi” eterogenei con origine e destinazione ignoti?
Qualcuno ci prova, anche vicino a noi. Il territorio svizzero non ci sono metropoli paragonabili a quelle che noi conosciamo, e tuttavia il problema delle politiche di area vasta si pone con molta forza e si procede ad aggregazioni con processi articolati di incentivi e penalizzazioni.
Si può pianificare senza e oltre i confini amministrativi?
Se il territorio, in senso urbanistico, è la rappresentazione spaziale che noi diamo alla soluzione dei nostri problemi la civiltà dei flussi (di merci e di informazioni soprattutto) ci propone nuove sfide.
Una condizione che possiamo utilizzare sperimentando ed elaborando modelli di piano inediti.
Le ipotesi di lavoro sono diverse e si rifanno spesso ad esperienze anche interessanti di altri contesti. Ognuna ha delle affinità che le avvicinano al nostro caso e delle particolarità che le allontanano. In questo ambito rinviamo ai contributi che Maria Cristina Gibelli, in particolare, ha fornito in più occasioni alla scuola di Eddyburg e altrove.
Emerge chiaro, però, il peso rappresentato dal gap politico-istituzionale nel nostro paese. Non abbiamo un quadro di riferimento politico-legislativo che accompagni e sostenga il rinnovamento del sistema di pianificazione territoriale. Il dibattito sulla legge urbanistica nazionale si è inabissato e non se ne parla più. L’accorpamento delle Province è un primo passo verso il loro smantellamento senza un piano di riordino delle istituzioni rappresentative a scala sovracomunale.
Senza un chiaro riferimento legislativo e istituzionale si enfatizza la debolezza e l’incoerenza delle pianificazioni di dettaglio dei comuni e questo va a tutto vantaggio delle grandi opere o, più prosaicamente, dei grandi affari che non devono confrontarsi con nessuna autorità pubblica trasparente e con nessuna procedura chiara di selezione, verifica e validazione.
Un insigne geografo come Franco Farinelli ci ha spiegato che il termine “territorio” trova la sua radice in “terrore” inteso come rappresentazione ed esercizio del potere su uno spazio ben definito. Una sovranità certa, chiara e univoca è la premessa per qualsiasi organizzazione del territorio. Non pensiamo certo a quella del tempo di Giustiniano ma a quella diffusa, democratica che vogliamo costruire anche per mezzo della pianificazione territoriale.
Qui il testo integrale con immagini, scaricabile in formato .pdf
(2) concordo pienamente con te sulla necessità assoluta diguardare “fuori” dai confini della penisola. Non solo perché (oltre al paese,la città, la provincia, la regione, il continente) anche il pianeta è una dellenostre patrie, ma anche per la ragione elementare che altrimenti non sicomprendono i nostri stessi problemi di oggi. L’asservimento della politicaall’economia e dell’economia al cosiddetto Mercato, la dequalificazione dellavoro in quanto potere e diritto/doveredell’uomo, la distruzione dei beni attraverso la loro riduzione a merci, lasostituzione del privato al comune e del collettivo all’individuale, delpubblico al privato (insomma, dell’Io al NOI), tutti questi sono i portati diuna mutazione generale prodotta dalla globalizzazione capitalista. Per cercardi cambiare qualcosa di noi dobbiamo avere consapevolezza piena del contesto,storico e geografico, di cui facciamo parte.
Ciao, e ancora grazie dellatua reiterata dichiarazione di disponibilità (e.s.)
eddyburg in termini concreti e operativi
All’incontro di Sezano su eddyburg eravamo in pochi. Le giornate del seminario erano state molto interessanti e produttive ma faticose. Tuttavia è stata molto utile e fruttuosa. Alcuni avevano inviato dei messaggi, commentando e proponendo (Stefano Fatarella, Fabrizio Bottini, Paola Bonora, Dusana Valecic, Antonello Sotgia,
Prima dell’incontro, cui non avrebbero potuto partecipare hanno espresso la loro piena disponibilità a collaborare alle varie fatiche che eddyburg comporta molti dei giovani presenti al seminario, con cui abbiamo chiacchierato nel corso di giovedì, venerdì e sabato (Francesco Ranieri, Alessandro Ziglio, Anna Frascaroli, Anna Richiedei, Roberta Signorile, Pasquale Pulito, Chiara Ciampa, Matteo Lecis Cocco-Ortu). Alla riunione di sabato pomeriggio hanno partecipato in definitiva, oltre a Eddy, Ilaria e Mauro: Paola Somma ed Elisabetta Forni, che erano venute a Sezano apposta pur non essendo tra i docenti direttamente impegnati; Oscar Mancini, Carla Maria Carlini, Andrea Schiavone, Paula De Jesus, Danilo Andriollo e Norberto Vaccari, consolidati frequentanti della Scuola, e i “nuovi” Paolo Dignatici, Johnny Nicolis, Raffaele Pisani.
La discussione si è articolata su tre ordini di questioni, presentate nell’ultima parte del documento di base ( “ragioniamo insieme su eddyburg”: come aumentare l’efficacia di eddyburg; come affrontare ii problemi emersi nel passaggio dalla vecchia alla nuova piattaforma, come allargare la modestissima base finanziaria che consente la vita de eddyburg e delle sue iniziative.
Speriamo che i partecipanti all’incontro invieranno interventi che consentano di arricchire questo sommario resoconto il quale, per accelerare le decisioni maturate, vuole essere sintetico e rapido.
1. Tutte le operazioni da compiere (dal completamento e collegamento degli archivi alla partecipazione di redazione del sito) richiedono che un buon numero di persone si impadronisca della capacità di adoperare lo strumento Blogger e abbiano una buona conoscenza della logica interna del sito e dei suoi archivi, sia nella vecchia che nella nuova edizione. A tal fine abbiamo deciso che organizzeremo alcuni incontri nei quali Eddy aiuterà alcuni (Ilaria, Stefano, Francesco, Johnny, Alessandro, Raffaele, Paolo, …) tutti residenti al Nord e perciò con facile accesso a Venezia, a comprendere che cosa c’è dietro la homepage e come ci si lavora. Preliminarmente Eddy dovrà rivedere e completare la struttura dell’archivio del nuovo eddyburg e indicare le corrispondenze tra le vecchie e le nuove “cartelle”. A Ivan chiederemo di fornire un accesso di administrator a quanti vorranno collaborare (eventualmente a termine). A Ivan chiederemo anche di aiutarci a individuare e addestrare nel Continente qualcuno che possa aiutarlo a risolvere le questioni più urgenti nella gestione della struttura informatica del sito, a partire dal completamento del programma iniziale (Andrea ha già espresso la sua disponibilità).
2. Per rendere più efficace eddyburg e agevolare l’allargamento delle persone le quali, condividendo principi e obiettivi del sito, possano collaborare alla sua redazione si è convenuto sulla proposta di aumentare la sinergia tra il sito e la scuola. Nei dieci anni trascorsi la scuola (la costruzione di ciascuna delle edizioni e la “digestione” successiva per la formazione dei libri) ha preceduto il successivo lavoro del sito aiutando a individuare i temi ai quali dedicare il lavoro di ricerca e di preparazione dei testi da pubblicare. Nella discussione è emerso che che il lavoro post-scuola non ha prodotto quanto si poteva sperare: al di là della preparazione dei testi per la pubblicazione, pochi sono stati i successivi contributi.
3. E’ emersa la necessità di individuare un ‘progetto’ più circoscritto e con obiettivi più specifici con il quale stimolare contributi, discussioni, e attraverso il quale alimentare anche la scuola. E’ stato osservato da più persone (anche per email) che inviare degli scritti a eddyburg senza un tema/obiettivo preciso non sollecita a scrivere. Al tal fine si è avanzata la proposta, da applicare per ora in via sperimentale, di definire un progetto con un suo tema e obiettivi e un suo spazio preciso sul sito.
4. Ci si è anche chiesti, con lo stimolo di Paula, quale fosse l’obiettivo della scuola e di eddyburg. Cioè se la nostra produzione di conoscenza (critica, proposte, opinioni, etc.) abbia il solo obiettivo di essere condivisa e messa a disposizione di chi vuole, oppure se si voglia andare un po’ oltre e provare a far si’ che quanto prodotto possa in qualche modo produrre a sua volta delle ricadute: come è avvenuto, ad esempio, nella formazione e presentazione della “legge di eddyburg” in risposta alla legge Lupi e in seguito alla scuola sul tema del consumo di suolo . Abbiamo tutti convenuto che il secondo obiettivo sarebbe molto desiderato e che l’allargamento del lavoro comune e dei suoi attori è l’unico strumento che può consentire di trasformare il desiderio in un obiettivo concreto.
5. Da un ragionamento successivo all’incontro è nata nei sottoscritti l’idea, che qui proponiamo, di raggiungere gli obiettivi di cui ai precedenti punti invertendo il rapporto tra sito e scuola: individuato un tema (o più temi o sottotemi) ai quali dedicare le prossime attività della scuola, si potrebbe adoperare il sito come strumento per la predisposizione di articoli, raccolta di materiali, svolgimento di ricerche, dibattito interno ed esterno sulla cui base svolgere i seminari/scuole di eddyburg siano essi di breve durata (1-2 gg) o vere sessioni di scuola estiva (3-6gg). Per proseguire, come promesso, il lavoro sulla pianificazione d’area vasta si sono già individuate alcune persone in grado di lavorare e disponibili a farlo, sia tra i “vecchi” che tra i “nuovi”.
6. Per avviare la sperimentazione del progetto che si comincia a configurare progetto e di quello risolvere i problemi di cui al punto 1 si è convenuto di realizzare una specie cartella/sito, curata, redatta da e messa in pagina da un gruppo di redattori dotato di autonomia di decisione, cui affidare il compito di lavorare per la preparazione della iniziativa (o delle iniziative) sul tema prescelto. La cartella dovrebbe essere collocata nel nuovo archivio di eddyburg, nella “scatola” scuola di eddyburg, e dovrebbe raggiungibile, per ora, anche da un link nello spazio della HP “segnalazioni” (dove dovranno essere ripristinati i link ai siti Zone onlus e Mall, appena quest’ultimo sarà ripartito. [Eddy è in dubbio se dare la visibilità sulla HP a tutti i file prodotti per questa cartella, e propende per il no.]. Questa cartella potrebbe rappresentare un “focus” tematico da proporre di volta in volta e sul quale aprire un dibattito e invitare contributi mirati. A questo scopo andrebbe individuato il tema e una sua breve descrizione per definirne i confini e le questioni che si vorrebbero affrontare.
7. A proposito di contenuti abbiamo considerato che le nove edizioni della scuola legano in un’unica collana i temi nodali di un’analisi critica delle trasformazioni dell’Italia nel corso di un processo che nel suo complesso non ci piace. Dal consumo di suolo (2005), alla città pubblica (2006), al paesaggio (2007), agli spazi pubblici (2008), al rapporto tra urbanistica ed economia (2010 e 2011), ai movimenti (2012) all’area vasta (2013) abbiamo studiato e ragionato sulle questioni nodali dello sviluppo distorto del nostro territorio, sia come habitat della società che come patrimonio della civiltà umana. Ne abbiamo messo in evidenza, spesso in anticipo su altre componenti dell’intellettualità, le ombre e – sempre che è stato possibile – le luci: i germi di un possibile futuro. Ora è forse venuto il momento di tirare le somme del “nostro” decennio assumendo un’ottica propositiva, come abbiamo fatto in altre occasioni. Forse è il caso di porre il tema “l’Italia che vogliamo” e di esporre il nostro immaginario: magari approfondendo il lavoro dell’”area vasta” e allargandolo nelle due direzioni dell’interscalarità e dell’integrazione intersettoriale, come emerso dai workshop. Non abbandonando il saggio mix di strategia e tattica, di utopia e realismo, che deve essere presente in ogni ragionamento che voglia concorrere nella trasformazione del territorio.
8. Sulla questione finanziaria, molto noiosa ma essenziale per la sopravvivenza di eddyburg e l’avvio di qualsivoglia progetto, sono state avanzate e discusse proposte su cui è necessario lavorare, sulla base delle informazioni e degli indirizzi proposti nel documento di base e delle integrazioni fornite da Ilaria, sebbene non sia ancora chiaro chi ci lavorerà. Tra le proposte,
(a) ripristinare la scuola con tassa d’iscrizione, il che presuppone la collaborazione di qualcuno che si assuma volontaristicamente l’onere di occuparsi della parte amministrativa della gestione.
(b) anche a questo fine, esplorare la possibilità di registrare eddyburg/Zone onlus come ente di formazione, per poter fornire crediti formativi ai frequentanti della scuola
(c) individuare sponsor affidabili dal punto di vista della coerenza con i principi e gli obiettivi di eddyburg
(d) cercare molti piccoli (o meno piccoli) contributi volontari costituendo un gruppetto di persone che impieghino la loro creatività, e una parte del loro tempo, per affiancare Ilaria e Mauro nell’organizzazione e azione anche materiale di iniziative.
Eddy, Ilaria, Mauro
Sezano-Venezia, 21 ottobre 2013
PICCOLA STORIA DI EDDYBURG
La prima fase: dentro l’IUAV
L’inventore di servizi informatici dell’Iuav, Ciro Palermo, mi propose nel 1998 di utilizzare qualche pagina del sito che aveva appena predisposto per i docenti che avessero voluto cimentarsi con quel nuovo strumento di comunicazione. Fui tra primi che ci provarono. La struttura delle mie pagine era molto semplice: tre sezioni dedicate rispettivamente alla didattica, alla ricerca e alla riforma universitaria, e una di carattere personale: in quest’ultima inserivo tutto quello che trovavo in giro e che mi sembrava interessante, e che quindi mi proponevo condividere con i frequentatori del sito, fossero essi studenti, o docenti, o amici, od occasionali navigatori cascati nelle mie pagine. Quindi saggi e articoli di giornale, vignette e ricette di cucina – oltre a pagine e dossier dedicate ai miei lavori di pubblicista e di urbanista.
Ciro, la sua compagna Marina Migliorini e Pierre Piccotti, direttore dei servizi bibliografici e documentali dell’Iuav furono i miei primi maestri. A essi si affiancò poi Fabrizio Bottini, appassionato ricercatore universitario e responsabile di molte interessanti scoperte del patrimonio culturale dell’urbanistica internazionale (di cui spesso altri si impadronirono senza riconoscenza). Lavoravamo insieme a un’associazione internazionale di enti pubblici finalizzata alla costruzione e gestione di una rete di documentazione urbanistica, Urbandata, cui l’Iuav partecipava, soprattutto per l’impegno di Pierre Piccotti, come rappresentante delle strutture italiane coinvolte. Le ricerche di Fabrizio e i miei interessi confluirono nel costruire e dare spazio a due aree che considero ancora fondamentali per eddyburg: la raccolta i testi finalizzati al significato e all’evoluzione di termini chiave dei nostri interessi, quali “città”, “urbanistica”, “urbanista”, “rendita”, e la costruzione di piccoli dossier dedicati a momenti cruciali per l’urbanistica italiana, quali ….
Nasce “eddyburg”
La prima grande svolta fu nel 2003: anno di nascita di eddyburg. L’input me lo diede Ciro Palermo. Mi disse: “Guarda che le pagine personali sono diventate la parte più ricca, viva e interessante del sito; perché non pensi a rifare il sito sviluppando quella e assorbendo in una posizione subordinata le parti “ufficiali”?
La proposta mi sembrò interessante. Ne discutemmo, oltre che con Ciro e Marina, con Pierre Piccotti, con Fabrizio, con uno dei migliori studenti che aveva seguito i miei corsi, geniale nel campo dell’informatica (Ivan Blecic), e con Alesssandra Poggiani, che collaborava con la struttura informatica dell’IUAV e con grandissima pazienza ci aiutò a comporre la struttura e a disegnare il framework del nuovo eddyburg.
Molti mi chiedono perché decidemmo di dare al sito un nome così singolare. Il merito è di Fabrizio. Io volevo una testata che esprimesse due idee: che si trattava di un sito personale, e non coinvolgesse perciò nelle scelte e nelle opinioni la responsabilità di altri; e che avesse una connessione con la Città. Il minimalismo era un requisito al quale tenevo, poiché il mio sport preferito è l’understatement. Scelsi perciò il nomignolo col quale ero più noto, Eddy, e in alternativa al troppo ovvio “city” Fabrizio mi suggerì appunto di ricorrere al suo equivalente proto sassone burg. Il suo suggerimento mi piacque in maniera particolare perché si riallacciava al mio lavoro, pubblicato nel 1969 col titolo “Urbanistica e società opulenta” nel quale individuavo appunto nel borgo - più ancora che il germe - la prima forma della condizione urbana.
Eddyburg si sviluppò seguendo molteplici percorsi. Da un lato si arricchivano le componenti delle mie antiche pagine personali (le cronache di viaggio, le ricette mie e quelle che amici e frequentatori del sito cominciavano a inviarmi, nuove poesie, opere o testi d altro genere che mi sembravano interessanti). Alcuni settori, già presenti nella precedente edizione erano invece progettati da me o da Fabrizio o da altri assidui frequentatori e collaboratori del sito.
Un grande peso avevamo dato fin dal principio dato all’analisi delle parole, a formazione storica dei principi e delle pratiche dell’urbanistica nelle sue due facce della pianificazione e degli studi urbani (parte nella quale è stato particolarmente rilevante l’apporto di Fabrizio), nonché alla documentazione di alcuni momenti storici a nostro parere particolarmente decisivi per l’urbanistica italiana.
Contemporaneamente si estendeva la rassegna stampa. La lettura quotidiana dei giornali era diventata una prassi, nella quale mi aiutò e mi aiuta particolarmente Maria Pia Guermandi, intervenuta dal 1974 nel ruolo di vice direttore, affiancando Vezio De Lucia che era stato fin dall’inizio il mio “consigliere generale”. Un punto di riferimento essenziale – non solo per la parte giuridica e per quella politica – è stato Luigi Scano, fino alla sua scomparsa, che ancora rimpiangiamo.
Un numero consistente di altre persone (amici o appassionati frequentatori occasionali di eddyburg) collaborava dedicare al sito in modo differenziato a seconda delle disponibilità che il loro impegno primario o i loro interessi permettevano di dare. Alcuni hanno assunto il ruolo di redattori specializzati e costanti (come Dusana Valecic), altri forniscono quasi quotidianamente indicazioni, suggerimenti e testi che hanno scoperto nel vasto mondo della rete e che suggeriscono di pubblicare, altri ancora svolgono l’utilissima funzione di rispondere a richeste specifiche di parere su questa o quell’altra questione. . La scelta definitiva e non discutibile dei materiali da elaborare, editare e inserire è verticistica, e me ne assumo piena responsabilità.
L’unica categoria di persone che hanno il privilegio di pubblicare la loro opinione senza alcuna valutazione preventiva del loro testo è un limitato gruppo di opinionisti che ho scelto in relazione alla mia condivisione delle loro posizioni: si tratta, oltre che di Vezio de Lucia e Maria Pia Guermandi, di Piero Bevilacqua, Paolo Baldeschi, Carla Ravaioli, Giorgio Nebbia Giorgio Todde, cui si sono recentemente aggiunti Paola Somma, Maria Cristina Gibelli, Paolo Cacciari. E la cartella ”interventi è aperta a tutti gli amici di eddyburg e quella “posta ricevuta” a chiunque voglia, e scriva cose ragionevoli e brevi.
Gli “amici di eddyburg”
Ho tentato più volte di fare di eddyburg non l’espressione di una singola persona ma lo strumento di un gruppo organizzato di persone. Non solo né tanto per supplire all’assenza di associazioni esistenti, diverse da eddyburg, cui potessimo riferirci con piena identificazione (da qualche anno la storia dl mio gruppo di più stretti amici e collaboratori aveva avuto una netta divaricazione da quella dell’Istituto nazionale di urbanistica, in seguito alla vicenda che raccontai su Urbanistica informazioni), ma soprattutto per condividere la fatica, via via crescente, della gestione quotidiana del sito e per rendere più efficace la disseminazione dei suoi prodotti culturali: i suoi principì, conoscenze, critiche, proposte.
Tentai una prima volta nel settembre 2005: costituimmo formalmente un’ “associazione Amici di eddyburg”, con uno smilzo statuto del tutto generico ed aprimmo una piccola raccolta di fondi tra i frequentatori di eddyburg. Per aumentare la dimensione finanziaria de eddyburg avviammo la Scuola di eddyburg, su cui tornerò più avanti.
Passarono pochissimi anni e mi accorsi che avevamo sbagliato strada: Mentre la scuola aveva avviato il suo percorso e dato luogo a iniziative interessanti, utili e già coronate da successo, l’Associazione non aveva dato altri segni di vita, oltre alla prosecuzione del sito alla maniera di sempre. Non solo, ma il modo del tutto approssimativo in cui avevamo (più precisamente, avevo) gestito l’associazione mi ero trovato un debito personale di qualche migliaio di euro.
Con una lunga riflessione che trasmisi ai soci dell’associazione e ad alcuni altri amici (lettera del 17 settembre 2007) proposi di costituire una vera associazione, rispettando i criteri che la legislazione stabilisce per queste strutture e distribuendo responsabilità e compiti; la dimensione che il sito aveva raggiunto (in termini di contenuti e in termini di rete delle persone che vi facevano riferimento) meritava un impegno più collettivo e meglio organizzato. Nella lettera sottolineavo che la nuova associazione si sarebbe fatta «se ci sono le forze e gli impegni per farla». La riunione dei soci e degli altri amici per discutere e decidere in merito alle mie proposte si svolse nel corso della V edizione della scuola, a Corigliano d’Otranto, nessuno se la sentì di assumere impegni che andassero al di là del contributo che fino ad allora aveva dato e dell’associazione non si parlò più.
Per la prima volta avevo incontrato un limite che pesa fortemente su tutte le iniziative basate sul lavoro volontario. Si tratta – accenno solo alla questione per me sempre più importante – di uno dei limiti che tuttora riduce fortemente l’apporto che le tensioni sociali generate dalla crisi attuale potrebbero dare, anche sul terreno della “questione urbana” per la nascita di una nuova politica. E una questione, tra le tante, sulla quale mi piacerebbe riaprire una riflessione più generale sul ruolo e sul significato del lavoro dell’uomo: su quelli che ha nella società attuale, e su quelli che dovrebbe avere in una società migliore.
Di fatto gli “amici di eddyburg” sono oggi un’ampia galassia a geometria variabile, che oscilla tra i quasi tremila iscritti alla newsletter, che peraltro inviavo molto di rado, e l’inconoscibile universo dal quale emergevano i circa 2000 accessi quotidiani registrati dal contatore di eddyburg.it). Nell’incapacità di trasformare la galassia in qualcosa di diverso ho continuato perciò a gestire il sito in modo sostanzialmente monocratico, avvalendomi per periodi più o meno lunghi dell’apporto vicario di Maria Pia (oltre che della costante assistenza di Ivan per la gestione informatica e di quella di Fabrizio nei vari tentativi di costruire una vera e propria redazione.
Due gemmazioni
Nel frattempo da eddyburg sono nate due iniziative, del tutto diverse tra loro, che a mio parere meritano particolare attenzione perché indicano diverse prospettive di lavoro per il futuro. Mi riferisco a Mall e alla Scuola di eddyburg, nati in momenti diversi, con finalità e protagonisti diversi.
Eddyburg Mall
Mall è stato inventato, diretto e gestito da Fabrizio Bottini. La sua nascita è dipesa dal fatto che l’interesse culturale e le conoscenze di Fabrizio si sono particolarmente approfondite in un settore che, nella logica complessiva di eddyburg, e nell’equilibrio dei miei interessi, non riusciva ad avere lo spazio necessario.
Nato (da qui il nome) dalla decisione di specializzare e ampliare lo spazio limitato che eddyburg dedicava alle varie facce del rapporto tra commercio e città, Mall e diventato un vero e proprio sito caratterizzato da una visione più ampia, sempre più orientato verso un’attenzione internazionale alla letteratura urbanistica del passato e del presente. E’ un sito secondo me molto bello, utile e di grande interesse a chi sia interessato soprattutto all’urbanistica nell’ampiezza delle sua dimensione culturale. Ha anche uno sguardo internazionale - un requisito che eddyburg non è ancora riuscito a costruirsi in modo adeguato - e una grafica fin dall’inizio più ricca e accattivante di quella di eddyburg. Sarebbe bello se Fabrizio vi dedicasse più attenzione; glielo impedisce il suo cronico pessimismo, che lo porta a valutare la sua creatura dal confronto del numero di accessi a Mall a quelli, più alti, di eddyburg. Negli ultimi tempi poi Fabrizio ha avuto l’amara sorpresa di vedere scomparire l’antico Mall prima ancora che si riuscisse a far decollare il nuovo. Ma di questo parleremo più avanti.
La Scuola di eddyburg
Per la Scuola di eddyburg rinvio al testo inserito nel file “che cos’è eddyburg”, che vedete cliccando sulle analoghe parole in fondo alla homepage. Voglio limitarmi qui a sottolineare la vitalità e l’articolazione di quella iniziativa (i viaggi di “una città un piano”, i seminari, le presentazioni dei libri, le partecipazioni a incontri internazionali, le iniziative editoriali), e soprattutto due apporti che la scuola ha dato a eddyburg: il contatto diretto che la scuola ci ha consentito di avere con e tra molte decine (un paio di centinaia) di persone provenienti da diversi territori ed esperienza, e la possibilità di approfondimento di determinati temi. Mi sembra che grazie a Mauro e a Ilaria, e a tutti quelli che hanno collaborato (dai professori universitari agli amanti della città) la Scuola sia stata un po’ la prua di eddyburg. Ma non ci mancherà l’occasione di ragionare anche sulla scuola e sul suo futuro, sulla base degli appunti che concludono questo testo e dei contributi che daranno Mauro e Ilaria.
La riforma del 2012: perché e come
Dal 2003 eddyburg è stato gestito su una piattaforma (non chiedetemi che cosa significa) non commerciale, “open share”, cioè utilizzabile da chiunque; il suo nome è eZ publish, ed è un programma realizzato da una comunità virtuale di cui fa parte Ivan. Un sistema molto intelligente e comodo da gestire. Infatti hanno è stato facile insegnare a utilizzarlo non solo a Fabrizio, Maria Pia, Mauro e i pochi altri che con me inserivano i documenti, ma anche ad altre persone che volta per volta si sono dichiarate disposte a collaborare. Poi, tra il 2011 e il 2012, i programmatori di eZ, hanno attivato una nuova versione del programma che a noi è continuare a utilizzare è diventato impossibile: conflitti tra il programma e i browser che i nostri attrezzi ci consentivano di adoperare. Ivan tentò a lungo di organizzare una “migrazione dal vecchio al nuovo eZ (cioè al trasferimento integrale dei vecchi contenuti alla nuova piattaforma, ma l’impresa si rivelò impossibile.
Si giunse così alla soluzione attuale adoperiamo una nuova piattaforma commerciale (“blogger della Google), nella quale facciamo gli inserimenti del nuovo materiale. Il “vecchio” eddyburg, con il suo contenuto di quasi 20mila pezzi, rimane accessibile e consultabile, e ora è anche direttamente connesso con la nuova edizione. Il lavoro di costruzione del nuovo sito è ancora in corso.
DOMANI? VEDREMO
Gli obiettivi
Al di là delle modifiche che ho raccontato eddyburg ha avuto nel tempo un’evoluzione legata al modificarsi del contesto generale e a quello specifico del gruppo che più attivamente lavorava alla sua produzione. Sono entrati via via temi nuovi che hanno dato luogo a nuove “cartelle”. Da un po’ di tempo mi domando se non si debba ragionare su qualche cambiamento più profondo, legato ai nuovi contesti. Ma è opportuno enunciare prima di accennare al possibile domani- quali mi sembrino le costanti de eddyburg nell’esperienza del decennio della sua vita, e quindi anche i punti fermi cui non vorrei rinunciare nel futuro.
Gli obiettivi che eddyburg si è posto nell’ambito dei suoi dichiarati principi (vedi “che cosa è eddyburg” cliccando ai piedi della Homepage), e che hanno assunto un ruolo crescente sono stati, dopo e a partire dalla volontà di condividere ciò che sembrava giusto, bello, utile e interessante:
- in primo luogo quello di contribuire formazione di giovani, in primo luogo urbanisti, o comunque interessati alla città, ma più in generale a tutti in quanto cittadini, o semplici abitanti della città( nei limiti della possibilità di rendere comunicativi i nostri linguaggi);
assolvere questo compito iniziando dal fornire informazioni depurate, per quanto possibile, da quel tanto di pressapochismo, di superficialità, di unilateralità o di oscurità che prevalgono spesso nelle notizie e nelle tesi propalate dai mass media o dalla letteratura togata; un’informazione, quindi, orientata sia nella scelta dei testi che nella loro presentazione o commento.
- la volontà di fornire informazioni su ciò che avveniva nella città e nel territorio (la connessione tra l’una e l’altro sembrava sempre più stretta) era resa più necessaria per il fatto che l’informazione corrente era sempre più avara di attenzione sulla realtà profonda degli eventi, più interessata a dare spazio all’eccezione, all’emergenza, all’epifenomeno; più impegnata alla costruzione dello scoop che all’indagine.
- l’attenzione al quotidiano (ricordo che gran parte del lavoro per eddyburg è costituito dalla cattura, lettura scelta, riedizione, presentazione e inserimento di testi tratti dai media) non forniva però materia sufficiente per raggiungere quello che sempre di più mi sembrava dover essere l’obiettivo centrale e riassuntivo del lavoro; contribuire a far nascere e crescere nei nostri lettori un attrezzato spirito critico. Perciò non abbiamo mai perso di vista l’obiettivo di fornire testi, anche complessi, che aiutassero a comprendere ciò che c’è dietro i fatti e ciò che può aiutare a modificare un mondo che ci piace sempre meno.
Il domani di eddyburg
Nell’attesa, e la speranza, che da eddyburg scaturiscano altre vitali esperienze provo a indicare quali temi mi sembra necessario approfondire il lavoro di riflessione, documentazione.
Le condizioni sono radicalmente mutate dal tempo nel quale eddyburg affondò le sue radici. Sono mutate città e territorio, è mutata la società di cui la città è”la casa” e il territorio è l’habitat”, per richiamare due definizioni che mi stanno a cuore. E, cambiato, con la crisi della politica dei partiti, il rapporto tra cittadino e potere “Urbs, polis e civitas” per riferirmi a una triade i cui elementi sono per me indissociabili, sono cambiate nelle loro parti e nel loro insieme.
Abbiamo piena consapevolezza della situazione attuale e del degrado che essa rivela. Cogliamo tutti i disagi che essa provoca e le proteste che suscita. Concorriamo nello sforzo di denunciare tutto ciò che è strto e di cogliere tutti germi del nuovo. Ma mi rendo conto che la denuncia rischia di essere ripetitiva, e alla lunga sterili se non danno indicazioni capaci di incanalare l’indignazione nelle direzioni capaci di condurre al nuovo. Per conto mio sento il bisogno di riprendere la riflessione riassunta nel mio antico lavoro, Urbanistica e società opulenta affrontando in particolare alcuni temi.
Un primo tema ha a che fare con un termine per noi centrale: città. Guardando un poco al di là dei confini della nostra civiltà (quella che è nata nel Medio oriente, si è affermata in Europa si è consolidata sulle due sponde del nordatlantico, per poi dilagare ovunque con la globalizzazione capitalista), mi domando se non si debba guardare più a fondo in ciò che intendiamo per città, molto al di là della loro forma, funzione, formazione e ri-formazione, cercando il carattere di questa straordinaria invenzione della nostra civiltà non in queste sue connotazioni, non nel “modello” formale-funzionale che essa evoca, ma nei suoi contenuti essenziali ai fini della migliore e più piena esplicazione delle potenzialità dell’umanità. Se, insomma, non si debba riflettere più che alla città, alla condizione urbana e al miglioramento che la nostra storia della città ha provocato alla vita degli abitanti del pianeta.
Un terzo tema è quello del lavoro in una società (e un’economia) più equi, durevoli, umani. In una delle sessioni della Scuola ho accennato a questo tema in riferimento e ad apertura della lezione sulla rendita: ma è un tema che occorre riprendere più ampiamente anche a proposito dei molti conflitti nei quali si pongono in contraddizione le due esigenze e dei diritti dell’uomo: il lavoro e quella l’ambiente, esigenze e diritti tra i quali occorre trovare una sintesi che serva a risolvere i problemi che nascono nell’immediato (e che siano risolvibili con gli strumenti della tattica) ma che siano illuminati da una visione strategica radicale, cioè capace di affrontarne le cause alla radice.
Si tratta di temi che mi interessano personalmente. Non è detto che debbano necessariamente occupare la maggior parte dello spazio del sito e degli interessi che vi convergono, anche perché i saperi necessari per affrontarli in modo adeguato costituiscono un’area più vasta di quella delle competenze di cui eddyburg dispone.
LE URGENZE
Che discutere e decidere oggi
Sui temi che ho affrontato finora la discussione si può aprire oggi, in occasione dell’incontro del secondo seminario Se/ed. Ma non si conclude certamente oggi. Vorrei invece verificare se siamo in grado di fare qualche passo per migliorare la situazione e le prospettive del sito. Vorrei cogliere l’occasione di questo incontro per discutere con voi su tre ordini di problemi: (1) come completare il passaggio dalla vecchia alla nuova edizione del sito, informandovi sulle ragioni del passaggio e su alcuni problemi che dobbiamo risolvere; (2) in quale direzione (in quali direzioni) si può lavorare per rendere eddyburg più efficace e, per cominciare, per realizzare una migliore sinergia tra il sito e la scuola;(3) come si può lavorare per migliorare la piccola base finanziaria di eddyburg e della scuola.
Una premessa: Eddyburg è monocratico
Dal punto di vista del potere di decidere eddyburg è oggi, come era fin dall’inizio, l’espressione di una sola persona: lo dice, del resto, il suo stesso logo. Non è che io sia entusiasta di questo, ma lo accetto per due ragioni: perché, come diceva lo scorpione alla rana, “è nella mia natura”; perché, nonostante i miei tentativi, non siamo riusciti a costituire un gruppo che si assumesse tutte le responsabilità atte a gestire compiutamente quel sito. Poiché sono anche vecchio e stanco sarei anche disposto a contraddire la mia natura di scorpione se un’alternativa ci fosse ma mi sembra che, almeno per oggi non ci sia. Quindi, allo stato degli atti, le mie speranze sono nelle due uniche strade che sono state fruttuosamente percorse: la gemmas+zione di siti autonomi (vedi Mall) e il consolidamento della Scuola o di altre analoghe iniziative, analogamente autonome. Almeno nell’immediato edduburg.it rimarrà quindi un sito monocratico. Il cui direttore, essendo convinto con Zagrebelsky che «la verità esiste, nessuno la può afferrare completamente e però esistendo, non è insensato cercarla», pensa che essa va ricercata attraversi il dialogo, che sia però sempre fondato sugli argomenti e non sui pregiudizi e sulla consapevolezza della incompletezza della parte di verità che ciascuno di noi vede o privilegia.
Dalla piattaforma eZ alla piattaforma Blogger
Il passaggio dalla piattaforma eZ (che abbiamo adoperato dal 2003 al 2013) alla piattaforma Blogger è avvenuta per le ragioni che vi ho esposto poco fa. Forse in modo un po’ frettoloso e continuando ad aggiornare eddyburg giorno per giorno anche “a cantiere aperto”. Abbiamo potuto verificare che il sito funziona bene, l’inserimento è facile con qualunque provider, la grafica è gradevole. Ma abbiamo anche potuto verificare l’esistenza di alcuni problemi. Si pone perciò oggi la necessità di rivedere e aggiornare il programma iniziale e di concluderne l’attuazione.
Il problema più complesso è quello di sanare una frattura che è avvenuta nel passaggio dal vecchio al nuovo. Eddyburg, come sa chi lo conosce, è (per adoperare una metafora) come una pianta appariscente innestata su un complesso gigantesco di radici. La pianta è la Homepage (e la successione delle homepage utilizzabile dal lettore andando sul bottone sensibile a pie’ di pagina.
Ora il problema è che, nel passaggio, la parte recente dell’apparato radicale si è separato da quello antico. Oggi il nuovo archivio, raggiungibile dai menu (ancora incompleti) che si aprono sulla colonna a sinistra del sito dopo aver cliccato sulle “sezioni” (collocate sotto la testata) contiene solo l’elenco dei pezzi nuovi, cioè nati ed editati con Blogger. Nel breve periodo è possibile risolvere parzialmente il problema inserendo in ciascuna cartella, un file che rinvia sulle omologhe cartelle del vecchio sito. Ma è un lavoro lungo e noioso. C’è qualcuno che è disposto ad aiutarmi a farlo. Dopo che avrò completato il programma del nuovo archivio e costruito le corrispondenze?
Nel quadro del completamento del programma vorrei richiamare il problema della temporanea scomparsa di Mall, che ha, giustamente, angosciato Fabrizio e che è peraltro è in via di soluzione: Ivan ha recuerato il vecchio archivio di Mall, che sembrava scomparso, e Fabrizio ha deciso di ricostruire il nuovo Mall sulla piattaforma Blogger.
Un problema ulteriore legato al passaggio è la scomparsa dell’archivio delle immagini che c’erano sul vecchio sito. E’ possibile recuperarle?
Su questa e altre questioni continua a essere indispensabile l’apporto, ormai ultradecennale, di Ivan. Ma Ivan non è più in giovanottone molto acuto e un po’ spensierato, è un docente, ricercatore e organizzatore universitario molto impegnato, e con famiglia. Occorre assolutamente trovare qualcuno che lo aiuti e - se e quando è necessario - lo sostituisca soprattutto per le questioni che sono, o diventano, urgenti.
Vi domando di aiutarmi a trovare qualcun che possa aiutare in questa direzione. Non sarà difficile individuare i requisiti che una simile persona dovrebbe avere. Essi comprendono certamente la capacità tecnica di programmare e gestire informaticamente il sito su Blogger (Ivan potrà darci indicazioni più precise), ma dovrà anche impadronirsi della sedimentazione storica del sito e dei suoi archivi.
Come rendere eddyburg più efficace
Su questo punto mi augura che questa prima discussione sia ampia, ambiziosa ma al tempo stesso realistica: tenga cioè conto delle risorse disponibili tra di noi. Forse, tenendo conto della storia di eddyburg, la prima strada da percorrere è quella di utilizzare meglio le sinergie tra le diverse realtà che si manifestano nella parte del mondo che gravita su eddyburg: il sito eddyburg.it e la Scuola. Si tratta indubbiamente di un’opportunità da cogliere, ma anche altre strade possono essere proposte, discusse e magari anche praticate, se si troveranno le forze non solo per proporre ma, appunto, anche per praticare.
Del resto nel passato è proprio l’attivazione di risorse culturali e organizzative che siamo riusciti a suscitare attorno ad alcuni temi (penso ad esempio al consumo di suolo, alla “città pubblica”, agli “spazi pubblici”, alla pianificazione paesaggistica, ai rapporti tra urbanistica ed economia che ci ha permesso di presentarci come un interlocutore essenziale di chiunque voglia occuparsi di città e territorio. Non solo, ma che ha aperto dei capitoli che poi, nella quotidianità del sito, abbiamo seguito costantemente.
Come allargare la base finanziaria di eddyburg (e della sua scuola)
Qualunque direzione si voglia imprimere al futuro di eddyburg, e quale che sia il livello di volontariato che si voglia impiegare per gestire il sito e la scuola, sia pure nel modo spartano che abbiamo adottato, un minimo di risorse finanziarie è indispensabile.
Pagare gli abbonamenti alla stampa online e le altre modeste spese per la sua gestione nella rete, quelle sia pure modestissime per la gestione della scuola, quelle per le pubblicazioni cartacea tutto ciò è stato coperto con i contributi del 5 per mille, con i contributi volontari e, fino al 2010 con il residuo attivo della Scuola.
Dall’anno scorso per la frequenza della scuola non è più richiesta la quota d’iscrizione. Il contributo del 5 per mille, che otteniamo grazie a “Zone onlus” e i cui proventi dividiamo con questa associazione sono incerti nell’ammontare e arrivano con qualche anno di ritardo. Ilaria vi darà qualche informazione in proposito.
Sul tema del finanziamento occorre insomma lavorare. Nel passato, ai tempi delle edizioni in Val di Cornia abbiamo tentato la strada selle sponsorizzazioni, ma le offerte venivano da soggetti la cui attività contrastava con i nostri principi.
Se volessimo (altra ipotesi) ripristinare le quote per la scuola bisognerebbe domandarsi se ciò che offriamo può essere pagato dai nostri “studenti” con i loro attuali bilanci, e se il prezzo, per loro, vale la candela. Bisognerebbe forse esplorare ipotesi di collaborazione con strutture universitarie, che consentano ai nostri studenti di ottenere crediti universitari, o altri “ bonus”.
Insomma, c’è un lavoro di ricerca e di fantasia applicata” da fare. Ma, come sugli altri temi, da soli Mauro, Ilaria ed io non ce la facciamo a lavorare anche su questo fronte. E a chi chiedere aiuto in primo luogo se non ai frequentatori della nostra scuola e del nostro sito?
Fabrizio Bottini
Micro-manuale per un sito gemmato di eddyburg.it
Ci si può aprire un sito da soli, costruendosi da zero una struttura di impaginazione e relativi intrecci tematici, sulla base dei propri interessi e orientamenti. Oppure collaborare a un sito accettandone l'impostazione, l'articolazione, e caratterizzando specificamente solo i propri contributi: il tipo di testi, i riferimenti, gli allegati, le immagini, i links. Un sito gemmato unisce molti aspetti sia dell'una che dell'altra opzione, e (opinione personale, ma non campata per aria) ad esempio consente di costruire una forte caratterizzazione personale, a partire da una struttura consolidata che funge più da cornice che da gabbia. Come funziona in pratica?
I siti sono fatti di forme e contenuti, aspetti indipendenti ma che al lettore arrivano inestricabilmente intrecciati. La cosa vale anche per chi li alimenta e arricchisce. Chi volesse sperimentarsi in un sito personale gemmato da eddyburg.it ha a disposizione una struttura base: il sistema a colonne, la composizione di massima di titoli, rinvii, sfondi e caratteri. Entrano già qui le varianti personali di alcuni colori base, il titolo della testata, il numero e titolazione dei temi. Ma si tratta già di scelte successive al primo approccio. Il primo passo infatti è del tutto diverso, è una specie di dichiarazione di intenti, che risponde alle domande: Chi sono io? Come e perché vorrei fare un sito tematico? Cosa mi va benissimo così com'è di eddyburg.it e cosa invece vorrei proporre di specifico e diverso nel mio sito gemmato?
Le risposte potrebbero essere tantissime, ad esempio da parte di una o più donne che già collaborano con articoli e altri contributi, che considerano soddisfacente solo in parte, non esaustivo l'approccio del sito alla città e alla politica, volendo esprimere una prospettiva diversa di genere per cui non trovano spazio sufficiente in interventi sporadici. La stessa cosa potrebbe valere per (cito un po' a caso) tagli disciplinari particolari, come le scienze dell'ambiente e della salute, o per una figura dalla personalità sfaccettata che mescola generi e approcci in modo ricco e tale da caratterizzare ben più di un articolo o una intera serie. Tutti questi soggetti, possono proporre, essenzialmente sé stessi, come base su cui costruire un sito gemmato, approfittando della cornice di massima. La proposta iniziale altro non è che una struttura a temi/archivi dove, nel modo già familiare ai frequentatori di eddyburg.it, si presenta un'articolazione simile e diversa.
Probabile che col tempo questa struttura e articolazione iniziale si modifichino, ma è importante concordarne una e seguirla iniziando a riempire le varie caselle di materiali. Ci penseranno poi il tempo ed eventualmente i riscontri di autore/autori e lettori (con le rilevazioni statistiche e con i Commenti) a suggerire aggiustamenti e correzioni. I vantaggi sono tantissimi, rispetto a partire da zero con la costruzione del tutto autonoma dalla piattaforma tecnica, e non solo perché si saltano i passaggi dell'impaginazione, dei caratteri, delle colonne, potendo contare su una grafica consolidata e familiare anche ai lettori. Ma perché si ha costantemente il confronto virtuale col sito mainstream, da cui eventualmente staccarsi, o a cui fare da complemento critico, a piacere. Il termine “complemento” non tragga in inganno: l'autonomia è totale, una volta accettato il patto iniziale di massima su struttura e temi di massima. Il resto è interesse e un po' di lavoro materiale per riempire e arricchire via via questa struttura, renderla particolare e riconoscibile, farla coincidere con un progetto esplicito e chiaro.
Stefano Fatarella
un contributo da manovale e consigli per i soldi
Caro Edoardo ho appena letto il tuo scritto. Anche se non potrò venire a Verona - per me è un troppo faticoso un impegno di poche ore e non me la sento di venire in treno - penso che potrei dare/proporre il mio piccolo contributo concreto come "manovale", ovviamente dopo un corso di aggiornamento adeguato da parte tua o altri. Si tratta del lavoro di collegamento tra il nuovo sito e il vecchio con l'inserimento nelle cartelle del rinvio alle omologhe cartelle del vecchio sito. Devi pensare al mio stato però. L'aiuto me la sento di darlo con passione ma devi considerare che non sono nelle condizioni di garantire una continuità quotidiana, serale per lo più. Parafrasando: slow job.
Per quanto riguarda il sostentamento finanziario pensavo che forse si potrebbe o battere cassa, o creare un rapporto aperto ma libero con alcune amministrazioni pubbliche disposte solamente a sostenere eddyburg in una visione liberale e di sostegno culturale-politico nel senso più sereno. Mi venivano in mente la Marson e la Puglia. Ma penso anche a fondazioni come la Olivetti. Capisco però che pecco di ingenuità o di visioni da boy-scout.
Paola Bonora
purtroppo sarò assente
ciao Eddy, non riuscirò a essere all’incontro del 19,[…]. Mi spiace perché continuo a ritenere eddyburg uno strumento formidabile di informazione, confronto e critica; i giovani ne sono i fruitori più entusiasti. Non so cosa tu abbia in mente, ma non cambiatelo troppo, le modalità comunicative e la sua stessa grafica sono consolidati e orami amichevoli, cambiamenti troppo importanti rischiano di alterare la positiva liaison con i lettori. Seguirò in remoto dai resoconti che pubblicherete.
Antonello Sotgia
Consigli e desideri, di sostanza
Ciao Eddy,
nel ricevere il tuo “ragionamento” su eddyburg penso che il mio contributo non possa che essere pensato all’interno del mio ruolo di lettore. Il tuo sito è, infatti, una delle pagine che seguo quotidianamente. Quei fogli che mi servono, oltre che a darmi notizie ed informazioni, ad interloquire, seppure in forma indiretta, con chi li propone ad iniziare, nel caso di Fb, dalla “selezione” degli articoli postati. A volte, così, mi domando perché non compaia un pezzo che magari ho letto pochi attimi prima sul “manifesto” o perché tu abbia trovato significativo riportare quell’articolo che io avevo deliberatamente “saltato” da La Repubblica. Insomma sono un lettore che, ponendosi questo tipo di domande, ricostruendo la tua quotidiana “cartografia” della notizia, riconosce innanzitutto il tuo ruolo di proponitore “monocratico”. Non essere altrimenti avendo scelto le voci, i “tags con cui intervenire nel grande mondo della comunicazione sociale. Il ragionamento di oggi tra l’altro costruisce il percorso di ricostruzione e animazione del sito. Grazie. Ora indichi tre punti di interesse (l’antinomia lavoro/ambiente, la città,il lavoro in una società più, perché più? e non tout-court equa, durevole e umana?) e al tempo stesso ci fornisci una chiave capace di tenerli tutti insieme parlando di “condizione urbana”. Da lettore - lo so è molto, ma ci hai abituato ad essere esigenti - ti chiederei di aiutarci a riflettere su questo tema che reputo essenziale per capire il nostro abitare nella crisi e, aggiungo, nella fase critica dell’egemonia neo-liberale.
Un tentativo potrebbe forse essere rappresentato dal trasformare, almeno per una serie di articoli e/o opinioni, scritti specifici) le tue “postille” in una sorta di un lungo titolo (mini-mini editoriale massimo dieci righe) in cui il “monocratico redattore” presenta la scelta del pezzo all’interno di un ragionamento continuo sulla condizione urbana. Questo potrebbe portare a raccogliere altri contributi dando vita ad una sorta di “talk” di discussione che magari oggi avviene, facendo rimbalzare opinioni espresse anche su eddyburg, in altri siti perdendo così inevitabilmente quel carattere continuativo di ragionamento proprio ad una comunità allargata come quella che sei riuscito a creare.
Nel ringraziarti per avermi mandato l tuoi ragionamenti e rendendomi conto della limitatezza delle mie osservazioni al lavoro tuo e dei tuoi collaboratori ed opinionisti, ti faccio i migliori auguri per la tre giorni della scuola che purtroppo per me coincidono con un paio di giornate “ romane” che anche con i temi da voi discussi interloquiscono. Un abbraccio e grazie
Dusana Valecic
più attenzione all’Europa
Caro Eddy, grazie per il documento. Esauriente sul passato, con proposte per il futuro, chiaro, "umano" e stimolante.
A Sezano non potrò esserci. E mi dispiace, perché affrontare il tema previsto è oggi più che mai necessario. Sovracomunità, aree metropolitane, una visione e una pianificazione di area vasta sono esigenze concrete, ormai ineludibili. L'Italia è in straritardo rispetto al dibattito internazionale e allo specifico contesto europeo. La percezione del problema si sta diffondendo, le istituzioni cominciano a porvi attenzione, ma spesso in modo distorto, limitato e comunque tra le tante confusioni e i vuoti del sistema legislativo e delle ipotesi per il futuro. Ottima quindi l'iniziativa, tanto più perchè portata avanti da chi, come te con Vezio, è da anni che segue la questione e ne conosce bene la storia.
Da parte mia, come sai, sono concentrata su quell'aspetto particolare dell'area vasta che riguarda i territori transfrontalieri, a partire ovviamente da Trieste con le aree contermini della Slovenia e della Croazia. E' qui che registro l'arretratezza culturale, la pigrizia e e l'incapacità politica a programmare e a fare, bene e sul serio. Qualcosa si muove, ma piano piano, con eccessiva timidezza, e spesso resta alle troppo facili enunciazioni di principio. Il prossimo Piano regolatore comunale ne sarà il banco di prova.
Per quanto riguarda Eddyburg, non sto facendo niente da un sacco di tempo. Perciò, esprimermi a proposito, imbarazza. Sulle tecniche informatiche, sono incapace di dire alcunché; sui contenuti, vedo il notevole impegno tuo, di Fabrizio, Maria Pia, Ilaria, Mauro; e, in considerazione di questo, criticare o aggiungere qualcosa (senza poter garantire di lavorarci personalmente) mi sembra fuori luogo e se non altro fastidioso.
Tuttavia - cogliendo il tuo accenno all'esigenza di un maggiore sguardo internazionale da parte di Eddyburg (oltre al già molto fatto da Fabrizio); considerata, tra le altre, la finalità formativa che si propone; dato il tanto parlare di Europa e spesso a sproposito; in vista altresì delle ormai vicine elezioni per il parlamento europeo (in una situazione di disinformazione diffusa nonché di crescente antieuropeismo) - ritengo che una voce del sito dovrebbe essere dedicata per l'appunto all'Europa, all'Unione europea, ai suoi compiti, a quanto si sta discutendo in quella sede con riguardo specifico al territorio, alla pianificazione (e alle decisioni comunitarie che, settoriali e non direttamente pertinenti, comunque vi incidono), ai sistemi di governance, a quanto infine viene fatto negli altri Paesi (esempi positivi, ma anche - ovviamente - con una valutazione critica sui risultati conseguiti).
Maria Cristina Gibelli e Camagni sanno molto; io, qualcosa (per il mio ambito di vita, la curiosità e simpatia per i luoghi di confine, per la connaturata avversione per le frontiere, anche quelle mentali, che la frequentazione con il Baden-Württemberg non fa che alimentare). Su questo mi posso impegnare (non in modo continuativo, ma tuttavia sulla base di un programma che possiamo definire).
Ti abbraccio e buon lavoro a tutti
Si tratterebbe a prima vista di un evento solo mondano, tecnologico, l'ennesimo primato nazionale destinato a far al solito brillare per un istante la classica creatività italiana, ma c'è molto di più di quanto non salti all'occhio. Lo sa cogliere benissimo un attento osservatore dei problemi della casa e del territorio come Alessandro Schiavi, da tempo attivo nel movimento per l'abitazione popolare e i quartieri giardino: con l'autostrada si rendono i borghi dell'ex contado raggiungibili non solo ai pochi signori dotati di automobile privata, ma anche agli interessi di cui sono rappresentanti. Se alla ferrovia ci sono volute generazioni per indurre un certo decentramento insediativo, con l'accoppiata automobile-arteria di scorrimento veloce territoriale nel giro di pochi anni potrà ripetersi, su scala e ritmi inauditi, la medesima proliferazione di case, impianti industriali, servizi, stavolta liberati anche dalla necessità di restare prossimi allo scalo, perché alla mobilità locale basta far conto sulle antiche strade campagnole, magari risistemate dai comuni (Cfr. “Autostrade e Urbanesimo”, La Casa, febbraio 1925). La parola sprawl non è stata ancora coniata, ma i presupposti ci sono tutti.
Schiavi è anche certo di aver abbastanza chiaro l'antidoto tecnico e istituzionale al problema della dispersione: un piano territoriale grande quanto l'estensione dei fenomeni, redatto e gestito da un ente di governo (presumibilmente di tipo provinciale) commisurato; oppure, in un percorso ascendente, una associazione di governi locali redige un piano regolatore intercomunale per il medesimo bacino, o per altri individuati, dal problema o dalla sola disponibilità di cooperazione. Si ispira ai comitati congiunti del primo Town and Country Planning Act 1922 britannico, ma anche in Italia la sovracomunalità inizia a muovere i primi passi anche nelle istituzioni. Ad esempio nel bando per il concorso del piano regolatore di Milano, redatto quando ancora assessore all'edilizia è Cesare Chiodi, nel 1925, si prescrive ai partecipanti di includere nell'elaborato anche uno schema regionale, redatto a partire da dati statistici e osservazioni su infrastrutture e insediamenti. Ancora, la legge sul turismo istitutiva delle Agenzie Locali di Soggiorno, accogliendo alcune istanze di conservazionisti e operatori economici, spesso animati dal Touring Club, introduce la possibilità veri e propri piani regolatori urbanistici sovracomunali, estesi su un bacino corrispondente a quello di fruizione turistica da tutelare in quanto tale, a regolamentarne le trasformazioni. Su questa base ad esempio verrà approvato quello per il Terminillo, località sciistica dei romani. Con criteri tecnici molto più evoluti, ma con obiettivi tutto sommato identici, a metà anni '30 un gruppo di razionalisti milanesi coordinati dal giovane Adriano Olivetti proporrà il cosiddetto Piano Regionale della Valle d'Aosta.
In assenza sia di una riforma degli enti locali (fa eccezione la breve parentesi del distretto speciale del Governatorato di Roma), sia di una legge generale urbanistica, le sperimentazioni devono restare nell'ambito dei convegni, dei concorsi, delle estemporanee proposte. Gli obiettivi parrebbero abbastanza chiari ad esempio a Gustavo Giovannoni, che in un breve saggio dall'asciutto titolo “Questioni Urbanistiche” (l'Ingegnere, gennaio 1928) ritiene assolutamente irrinunciabile la scala sovracomunale del piano, a cui devono informarsi poi tutte le scelte a scala cittadina e di quartiere. Quell'articolo di fatto costituirà poi la traccia su cui si costruiranno prima i bandi di concorso tipo del neonato INU per le città italiane almeno fino a fine anni '30, sia le linee di lavoro delle commissioni di forma della legge urbanistica.
Virgilio Testa è l'estensore materiale del primo progetto di legge generale urbanistica italiano, presentato e poi ritirato nel 1933 per motivi di equilibrio politico. L'esperienza di Testa come giurista, tecnico e amministratore, è già passata attraverso il citato Governatorato di Roma, e quindi gli risulta ben chiaro il rapporto fra ente di governo del territorio e pianificazione coordinata. Una rapida rassegna internazionale delle esperienze in corso in questo difficile campo gli consente in un lungo contributo di delineare la “Necessità dei piani regionali e loro disciplina giuridica” (Urbanistica marzo 1933), nonché di sottolineare quanto questa disciplina dipenda moltissimo dal contesto socioeconomico-politico in cui si collocano. Ovvero dal volontarismo a propulsione pubblico-privata del Regional Plan di New York, che aveva pubblicato la prima rassegna di studi da pochi anni, ai citati comitati congiunti della legge britannica, in corso di perfezionamento negli studi di Raymond Unwyn applicati alla Greater London, in via di definizione, al modello piramidale dello schema direttore per la regione parigina, e via dicendo.
Nè va dimenticato che in questi stessi anni la scuola sociologia di Chicago elabora le prime teorie identitarie di area vasta, che aprono a sviluppi straordinari per il futuro, come la Metropolitan Community (Roderick McKenzie, 1933) anticipatrice del futuro forse più noto agli urbanisti technoburb di Robert Fishman. Il dibattito urbanistico italiano però prosegue con le proprie idee del tutto autonome di bacino territoriale ideale. Chiarissima testimonianza di questo mancato incrocio fra gli aspetti gestionali e tecnico-scientifici, il caso della bonifica integrale pontina, riconosciuta anche a livello internazionale come caso emblematico di regional planning, che però non trova riscontro in quanto tale nella nostra pubblicistica di settore, forse perché gli incarichi professionali degli architetti-urbanisti INU riguardano i progetti delle città di fondazione, dalla Littoria di Oriolo Frezzotti alla elegante Sabaudia dei giovani razionalisti guidati da Luigi Piccinato. Per tutti gli anni '30, e oltre fino all'approvazione della legge del 1942 che introduce sia il piano territoriale che quello intercomunale, riflessioni e sperimentazioni disciplinari sembrano prescindere dal problema del bacino e dell'ente. Caso unico, quello del piano intercomunale elaborato da Luigi Dodi nello stesso 1942 per un bacino omogeneo nell'area delle Groane, a nord di Milano lungo il fiume Seveso: la definizione del gruppo di comuni è resa quasi automatica dalla loro appartenenza al medesimo organismo locale del Partito Fascista, che risolve così a monte eventuali conflitti fra le amministrazioni.
La vera novità arriva però da una proposta più organica e comprensiva, per quanto ancora solo teorica, nel momento di passaggio fra il decaduto stato autoritario e la futura repubblica democratica delle autonomie. Tutto inizia con alcuni studi dei giovani urbanisti piemontesi Giovanni Astengo e Mario Bianco, dedicati all'individuazione dei cosiddetti bacini alimentari locali, in fondo qualcosa di piuttosto simile a quanto oggi superficialmente definiremmo chilometro zero, anche se con un approccio assai più serio e sistematico. Il lavoro che pubblicano col significativo titolo Agricoltura e Urbanistica (Vigliongo editore, 1946) si inserisce in un progetto organico di redazione del cosiddetto Piano Regionale Piemontese, che vedrà la luce pubblicamente per la prima volta sulle pagine della rivista di Bruno Zevi, Metron (n. 14, 1947). Questo piano regionale, si badi bene elaborato per una regione che esiste solo com entità geografica e storica, affronta proprio prima di tutto la sua articolazione in bacini unitari dal punto di vista delle risorse, della società, dell'economia, dell'identità e rappresentanza. Bacini che, a partire dalla totale o parziale o potenziale autosufficienza alimentare, sappiano poi aggregare appunto aspetti di sviluppo industriale, di integrazione infrastrutturale, di partecipazione democratica alle nuove istituzioni che si vanno formando nell'Italia del dopoguerra. Si chiamano comprensori, queste unità territoriali, e il Piano Regionale Piemontese verrà proposto ai lavori della Assemblea Costituente, in corso. Con l'attenzione scarsa o nulla che il senno di poi ci suggerisce.
La stagione di dibattito successiva da un certo punto di vista ricalca la separatezza già notata negli anni '30, fra una certa vivacità nell'elaborazione teorica degli urbanisti, nel periodo dei grandi convegni INU, o dell'elaborazione ancora coordinata da Astengo, dei Criteri per la Redazione dei Piani Territoriali, promossa dal Ministero dei Lavori Pubblici (1952). Ma dal punto di vista delle riforme istituzionali a questa vivacità non pare corrispondere la dovuta attenzione, se in uno dei convegni ideologici che il partito di maggioranza relativa, la Democrazia Cristiana, tiene periodicamente al Passo della Mendola, alcuni prestigiosi amministrativisti bollano la legge urbanistica del 1942 come “idea di alcuni architetti”. A rimarcare una sorta di vera e propria schizofrenia, quanto in buona fede non è dato di sapere.
Qualche spunto di sintesi in più sembra offrirlo l'antico “percorso complementare ascendente” già delineato da Alessandro Schiavi nel 1925, ovvero l'associazione delle amministrazioni locali per un piano intercomunale. Al convegno tematico INU convocato nel 1956, l'anziano Virgilio Testa proverà ad avvisare i partecipanti: attenzione, signori, che l'istituto previsto dalla legge nazionale altro non è che un modo per aggirare la complessa procedura di aggregazione dei comuni contermini. Ovvero, Testa non può che provare simpatia per i tentativi di volare alto della disciplina del piano, di stiracchiare di qua e di là l'articolo 12 della legge per supplire ad altre carenze, ma avverte del rischio di finire con un buco nell'acqua. Cosa che da molti punti di vista si verificherà puntualmente: la pur lunga stagione della cosiddetta pianificazione intercomunale produrrà una grossa mole di studi teorici, parecchi convegni, qualche gesto di buona volontà istituzionale. Ma nulla di più, se si esclude l'avvio di alcuni processi di monitoraggio sistematico delle dinamiche di certi territori metropolitani.
Si attraversa così tutta la fase della programmazione economico-territoriale conclusa con il varo delle Regioni a statuto ordinario, con incredibile ritardo rispetto alle decisioni della Costituente, e con esiti, almeno rispetto alle enormi aspettative, del tutto deludenti. Di lì a poco torneranno, stavolta istituzionalizzati, i comprensori, bacini territoriali omogenei o potenzialmente tali, che dovrebbero essere anche la traduzione delle antiche aspirazioni del dopoguerra, ma basta a stigmatizzare la realtà il breve commento di Giovanni Astengo nell'editoriale di Urbanistica 57 (1971): davanti alla indeterminatezza e disinvoltura di approccio “si è colti da capogiro”. Malessere destinato a prolungarsi negli anni successivi, come scopriremo.
Alcuni dei testi citati in queste note sono liberamente disponibili online nella sezione Glossario/Urbanisti Urbanistica Città di Eddyburg Archivio; altri ancora in Mall/Antologia
1. Le regioni non risolvono tutto il problema dell’area vasta
Fabrizio ci ha condotto fino alle soglie dell’entrata in vigore dell’ordinamento regionale, avvenuto all’inizio degli anni 70 del secolo scorso. Previste dalla Costituzione del 1947 quali istituzioni della Repubblica, elettive di primo grado (cioè con organi eletti direttamente dai cittadini), sottordinate allo Stato e sovraordinate alle province e ai comuni, le regioni a statuto ordinario[1] furono concretamente elette solo nel 1970. Il trasferimento dei poteri e delle strutture pubbliche dallo Stato alle regioni avvenne negli anni successivi, e coincise con la fase statutaria delle singole regioni e con la successiva fase di lavoro delle neocostituite regioni, per concludersi – dopo un periodo di conflitto giurisdizionale tra Stato e regioni – con l’ultimo dei decreti delegati: il Dpr 616 del 1977.
Come sapete l’urbanistica è “materia” che la Costituzione affidava la competenza alla Regione (articolo 117). Cultura e politica erano concordi nell’attribuire alle regioni due responsabilità molto vicine tra loro: la pianificazione territoriale e la programmazione economica. L’una e l’altra in connessione molto stretta con la responsabilità e la competenza statale. Più precisamente, la programmazione economica regionale era sottordinata rispetto a quella nazionale, per la pianificazione territoriale era generalmente considerata una competenza regionale. Solo l‘articolo 81 del Dpr 616/1977 introdusse il criterio di un livello di pianificazione nazionale, affidato allo Stato, il quale avrebbe dovuto definire, anche prescrittivamente, “i lineamenti generali dell’assetto del territorio nazionale” [2]
Molte erano le speranze che cultura e politica attribuivano alla possibilità e capacità delle regioni di correggere le distorsioni che si erano prodotte nell’uso del territorio, e nell’impiego degli strumenti coordinati della programmazione economica e della pianificazione del territorio. Ma nella catena di comando che governa il processi di trasformazione del territorio i ruoli essenziali - sul versante del potere pubblico – spettano allo Stato, che decide sui grandi interventi infrastrutturali e sulla tutela del paesaggio e dei bani culturali, e al Comune, che regola le specifiche trasformazioni urbanistiche ed edilizie dei territori. Competenze solo residuali spettavano alla Provincia, quarta istituzione territoriale elettiva di primo grado prevista dalla Costituzione.
Già nella prima fase dell’attività delle regioni si comprese che molte ragioni (le drastiche trasformazioni dell’habitat dell’uomo in seguito ai grandi processi di trasformazione operato dalla distruttiva spontaneità del “mercato” negli anni Cinquanta e Sessanta, l’emergere di nuove esigenze e necessità nell’uso del suolo e nell’impiego del tempo dei cittadini, rendevano necessario) rendevano indispensabile individuare un livello di pianificazione intermedio tra la Regione e il Comune.
2. Il tentativo del Comprensorio
Vari tentativi furono compiuti, legati tra loro da un nome comune: il “comprensorio”. Con questo termine si intendeva un ambito territoriale nel quale era necessaria una pianificazione unitaria per raggiungere un adeguato livello di funzionalità nel soddisfacimento delle esigenze della popolazione (in quegli anni l’immaginario urbano egemonico era quello che oggi definiamo “la città dei cittadini”, e non quello della “città della rendita”: quest’ultima era denominata “speculazione”, senza riferirsi a quella dei filosofi). Ma la pianificazione come la si intendeva in quegli anni doveva essere non solo “pubblica”, ma anche “democratica”.
Quindi, dato che la democrazia, nonostante le ventate dei primi anni Venti e degli anni ’68-69, era considerata unanimemente quella delle istituzioni elettive, l’autorità cui doveva essere attribuita la responsabilità della pianificazione doveva fa riferimento al Comune o alla Regione. Furono tentate diverse strade. alcune esperienze (come ad esempio quella piemontese, gestita da Giovanni Astengo) vedevano il piano comprensoriale come emanazione delle regione, in altre regioni si tentò invece la strada del comprensorio come ente elettivo di secondo grado: cioè come istituzione eletta a sua volta dai singole istituzioni che erano comprese nel relativo ambito territoriale. Nel primo caso, i comuni non accettavano l’intromissione della regione in una loro storica competenza, nell’altro caso l’organo comprensoriale non si trovava mai un accordo, poiché ogni rappresentante si sentiva rappresentante degli elettori del “suo” comune, e non dell’intera cittadinanza dell’ambito territoriale comprensoriale.
Purtroppo non mi risulta che il dibattito di quegli anni sia stato analizzato e raccontato come Bottini ha fatto per il periodo da lui studiato. Occorre dire che è un compito reso particolarmente difficile per il problema delle fonti, che sono la base di ogni ricerca. La discussione, anche specialistica e di merito, nella quale maturavano le decisioni in quegli anni non riguardava solo in quegli anni, il livello accademico: la cultura delle università e degli istituti culturali dell’urbanistica o delle scienze politiche o giuridiche, a esso partecipava anche il mondo della politica vera e propria: delle amministrazioni pubbliche e dei partiti politici. Quindi è a un insieme più vasto di archivi quello cui bisognerebbe ricorrere – oltre che allo strumento delle testimonianze durette. Un lavoro che, se ne avessimo i mezzi, sarebbe bello intraprendere nell’ambito di eddyburg.
Per risolvere il problema della pianificazione d'area vasta, dato l'inscindibile nesso tra pianificazione e democrazia, la soluzione logicamente più ragionevole sarebbe stata la modifica della Costituzione e l’introduzione in essa, accanto al Regione, alla Provincia e al Comune di una quarta istituzione: il comprensorio. Questo termine, e i suoi contenuti tecnici, erano già presenti nel dibattito culturale, come del resto la possibilità di utilizzare la Provincia. Ma la strada della modifica costituzionale sarebbe stata lunghissima: allora, a differenza di oggi, tutti erano convinti, giustamente, che la modifica della Carta su cui si regge la nostra democrazia richiede molto tempo, molta ricerca, molto consenso.
Nel ragionare sull’argomento nell’ambito di Urbanistica informazioni (la rivista che avevo fondato e allora dirigevo) ci venne un’idea. Eravamo nella fase in cui il recupero edilizio e urbanistico era di moda. Ed era maturata, quasi contemporaneamente, una fioritura di suddivisioni del territorio in una serie di recinti amministrativi ciascuno dedicato a un determinato settore, o problema, o esigenza: dalla scuola alla salute, dalle bonifiche ai trasporri, dalla casa alle decisioni. comunali Era nata una grande confusione nel vasto campo delle decisioni nell’area tra la Regione e il Comune. Giulio Carlo Argan, sindaco di Roma, quando gli spiegarono la situazione esclamò: «Ho capito, l’Italia è diventata un gigantesco campo di decentramento. Era maturata d’altra parte la convinzione del fallimento dell’esperienza dei comprensori, in ciascuna delle formule tentate nella prima fase di lavoro delle regfioni. Perché non proponiamo – ci dicemmo nella redazione di Urbanistica informazioni - di tentare la strada del “recupero delle istituzioni esistenti? Demmo questo titolo a un articolo che scrisse Vezio De Lucia come editoriale del n. 39 della rivista. [inserire brani ]
3. Il recupero della provincia
Si aprì una discussione ampia, che condusse all’idea, entrata poi nella legge 142/1990, di recuperare la Provincia, istituzione, elettiva di primo grado, già prevista nella Costituzione, rivedendone con legge ordinaria le funzioni, le responsabilità e iconfini.
Anche ragioni spiccatamente territoriali spinsero allora in questa direzione. Ricordo che Gigi Scano insisteva spesso sui criterio in base al quale le province italiane erano nate e si erano conformate.
Negli ordinamenti di radice napoleonica, dai quali le province italiane sono nate, si era proceduto in questo modo. Tenendo conto delle tradizioni locali e dei variegati legami tra città e contado, si erano tracciati i confini delle province sulla base di ragionamenti che, letti con gli occhi del nostro tempo, appaiono squisitamente territoriali: la distanza che può percorrere in un giorno un signore che deve recarsi in carrozza al capoluogo per pagare le tasse, o uno squadrone di gendarmi a cavallo per ripristinare l’ordine turbato: Aveva contato anche il senso di identità che derivava dall’appartenenza della popolazioni abitante a un determinato “contado” o dal legame funzionale a un medesimo capoluogo.
Con la Costituzione repubblicana le province – fino ad allora emanazioni periferiche del governo centrale, erano diventate istituzioni rappresentative elettive di primo grado, e le loro funzioni si erano già arricchite in vari settori, dall’agricoltura alla gestione del selvatico, dalla salute alla scuola.
4. L’invenzione della Città metropolitana
Il lungo dibattito, aperto all’indomani dell’entrata in attività delle regioni, ebbe la sua conclusione nella legge 142 del 1990. I problemi di fondo che si affrontavano erano riducibili a due: (1) come dotare il livello intermedio della pianificazione (chiamamolo, se volete, pianificazione di area vasta) di un assetto democratico e di una reale capacità di “governo”; (2) come tener conto delle differenti situazioni territoriali nell’organizzazione territoriale dell’habitat dell’uomo. Ai due estremi: gli aggregati continui di aree urbanizzate ed edificate, unificati sia dalla continuità fisica e morfologica sia dalla ricchezza e complessità delle relazioni interne
I due problemi vennero risolti attribuendo nuovi poteri alle province a individuando alcuni ambiti territoriali nelle quali era necessario che alle province fossero assegnate anche alcune competenze fino ad allora appannaggio dei comuni: le Città metropolitane
Queste furono “inventate” appunto per tener conto delle differenti connotazioni territoriali delle aree più dense nei confronti di quelle quelle meno dense. Di assicurare insomma il governo in quelle che le scienze sociali e quelle territoriali hanno denominato “aree metropolitane” e nelle altre. Il problema appariva ed era complesso per più d’un motivo.
I poteri propri del governo d’area vasta in quelle parti più dense e attive del territorio non potevano consistere solo in una pianificazione “a maglie larghe”, né solo in una serie di decisioni prese in riferimento ad archi temporali ampi, dovevano estendersi al campo delle decisioni operative e di breve periodo: nella gestione. Occorreva quindi che l’istituzione d’area vasta avesse competenze e poteri più incisivi e diretti di quelli che si potevano attribuire a una provincia: dovevano assorbire anche una parte delle competenze fino ad allora attribuite al Comune.
Il legislatore decise allora di individuare alcune aree del paese nelle quali le condizioni di fatto, o il progetto di territorio che si voleva realizzare, rendevano necessaria un’azione più penetrante di decisione e di gestione di determinate politiche: un’azione fino ad allora affidata alla competenza della pianificazione urbanistica comunale. Nei comuni che ricadevano in questi ambiti territoriali si decise quindi di attribuire alle ex province la denominazione di “città metropolitane” attribuendo a esse, oltre ai poteri attribuiti alle province, anche una partire dei poterei dei comuni.
Vorrei sottolineare che nella stessa nomenclatura la legge distingueva due realtà diverse, una distinzione che invece fin da allora nelle discussioni dell’accademia non si riuscì a cogliere: le “aree metropolitane” (articolo 17), come ambiti geografici entro i quali era necessario applicare un particolare tipo di governo territoriale, e “città metropolitana” (articoli 18 e segg), come istituzione, come strumento cui affidare il governo[3].
5. Un’altra invenzione: le municipalità
La costituzione della CM come una nuova unità politico amministrativa sovraordinata ai comuni, che originariamente erano protagonisti del governo locale poneva però, o accentuava, un altro problema.
Nel caso della Provincia il rapporto tra l’ente sovraordinato e i comuni non era sostanzialmente modificato rispetto al passato, la pianificazione “a maglie larghe“ era sentita più come un ragionevole coordinamento che come un’ingerenza nell’autonomia comunale, e per di più c’era una storia che era servita spesso a definire una “identità” di quella parte di territorio.
Nel caso della città metropolitana invece una parte delle competenze comunali venivano spostate da comune alla C M. Una creazione artificiale, recente, priva di collegamento con le storie locali e quindi ancora priva di identità. Per di più si sarebbe pesantemente rafforzato lo squilibrio tra il comune capoluogo e gli altri comuni: i numeri, che in un regime democratico pesano molto, avrebbe reso dominante il peso del capoluogo nelle sedi decisionali.
La scelta che venne compiuta fu allora di partire dall’esperienza delle “circoscrizioni”[4]; quella cioèdi suddividere i comuni capoluoghi in più unità amministrative, i “municipi”, di denominare “municipi” gli altri comuni compresi nella CM. Di fatto, quindi, l’articolazione subregionale delle istituzioni territoriali sarebbe stata Provincia e Comune in alcune parti del paese, CM e Municipalità in altre parti.
6. Perché l’attuazione della riforma del 1990 si insabbiò?
Perché la riforma del 1990 è stata attuata solo per una parte, e per di più solo nella fase iniziale?
In effetti, le municipalità sono state costituite, credo in tutte le grandi città, e sarebbe interessante analizzarne il funzionamento. Molti piani provinciali sono stati redatti, adottati e approvati, e sarebbe utile farne un elenco e una schedatura critica, così come sarebbe utile approfondire le ragioni della mancata valorizzazione dei risultati raggiunti. Credo comunque che la causa principale sia individuabile nel generale processo di delegittimazione sia della pianificazione come metodo e strumento dell’azione pubblica sul territorio sia, più in generale, del ruolo dei poteri pubblici, un processo avvenuto in Italia a partire dagli anni Ottanta nel quadro del trionfo planetario del neoliberismo. .
La parte della riforma che non ha visto neppure l’inizio della sua attuazione è stata quella della città metropolitana: proprio quella delle aree dove un forte governo pubblico delle trasformazioni sarebbe stato più necessario. La mia opinione – certamente parziale - è che la politica, se aveva affrontato il problema nel verso giusto, nel suo versante legislativo, una volta definita la norma non era stata capace di attuarla. Di fatto istituire le città metropolitane avrebbe comportato una redistribuzione dei poteri locali nei partiti e tra i partiti, avrebbe turbato l’equilibrio collusivo tra gli interessi (di gruppo, di clan, di clientela, di corrente) raggiunto e consolidato. Il degrado della politica spiega forse anche il fatto che alcune parti della riforma (le municipalità e le province) nella prima fase sono state utilizzate: entrambe offrivano occasioni d’impegno (e d’impiego) per il personale politico-amministrativo che doveva essere rimosso dal suo precedente ruolo. La rottamazione dei membri dell’apparato che danno fastidio non è un’invenzione del giovane Renzi.
Così, mentre – non cogliendo le potenzialità del nuovo ruolo della provincia la politica ha visto questa istituzione come il luogo dove collocare gli amministratori e i legislatori di livello B, si è del tutto rinunciato ad affrontare il problema nelle aree più calde del paese: appunto, le aree metropolitane. La “stabilità” degli equilibri raggiunti era già divenuto un mantra, e non bastò l’inclusione della Città metropolitana nella Costituzione novellata del 2002 a svegliare la politica dal suo letargo.
Ma le esigenze che la realtà pone non sono eludibili. La necessità di un governo di area vasta non è cancellabile. Essa imporrebbe di rivedere l’intero assetto degli equilibri amministrativi. Ma è probabilmente divenuto pensiero corrente che le aree “deboli” possono essere abbandonate al loro degrado, le aree “forti” no. Si possono cancellare le province (non senza ragioni, visto l’uso che la classe politica ha saputo farne), ma le parti del territorio dove si addensano le ricchezze attuali e potenziali e più forti insorgono le tensioni sociali, lì no. Là si deve intervenire, subito. Come? Lo capiremo meglio quando Barbara avrà svolto il suo intervento. E meglio ancora domani, quando nella mattinata gli interventi di Chiara Sebastiani, Maria Cristina Gibelli e Roberto Camagni ci avranno chiarito gli altri aspetti del contesto, e quando nel pomeriggio saremo stati informati dei i temi emergenti a livello locale nelle “città metropolitane” obbligate dalla legge a partire.
7. conclusioni inconcludenti
Vorrei concludere enunciando qualche punto fermo che propongo di dare per acquisito e qualche tema su cui discutere oggi e nei prossimi giorni.
Punti fermi:
necessità della pianificazione d’area vasta
necessità di praticare la pianificazione come metodo di governo democratico, quindi in stretta connessione con gli istituti della democrazia, a tutti i livelli
necessità di affrontare il tema in una visione: a) interscalare; b) interdisciplinare
necessità di utilizzare sia la dimensione verticale che quella orizzontale della democrazia (cfr David Harvey)
necessità di non disgiungere il ragionamento e la proposta sul tema di fondo (il governo d’area vasta in una visione interscalare e interdisciplinare) e l’emergenza (l’agenda delle città metropolitane)
Alcuni punti da discutere:
è giusto mantenere la distinzione tra dimensione geografica (area metropolitana) e dimensione di governo (provincia, città metropolitana)? Secondo me si.
è meglio affrontare la questione privilegiando la strada normativa oppure quella sperimentale? Oppure (come mi sembrerebbe più utile) percorrendole entrambecontemporaneamente?
Come sviluppare il ragionamento /il lavoro di eddyburg sul tema complessivo (in questi giorni e prima dell’iniziativa del 23 novembre, in preparazione di altre iniziative di eddyburg)?
Come sviluppare il ragionamento /il lavoro di eddyburg sul tema d’emergenza (in questi giorni, prima dell’iniziativa del 23 novembre, in preparazione di altre iniziative di eddyburg)?
Soprattutto a quest’ultimo proposito, ricordo le tre aree tematiche in relazione alle quali costituiremo i gruppi di lavoro del workshop finale:
1. Il governo della città metropolitana [come assicurare rappresentatività e partecipazione in una dimensione territoriale alla quale non corrisponde alcuna tradizionale identità/patria]
2. L’agenda: dal consumo di suolo al riuso del già urbanizzato [come evitare il saccheggio dei beni comuni, garantendone usi sociali, e restituire dignità all’iniziativa pubblica]
3. Come attivare le risorse necessarie [rigorosa finalizzazione bilanci pubblici, prelievo del plusvalore delle trasformazioni, riattivazione di economie virtuose: come assicurare il funzionamento della città metropolitana]
ES 15 ottobre 2013
[3] Fu per la confusione alle due differenti realtà significate dai due diversi termini che c’erano autorevoli studiosi che proponevano di istituire una città metropolitana comprendente tutto il territorio veneto che va da Venezia a Padova e Treviso)
Con il decreto legislativo DL 95/2012, convertito con legge 135/2012 le province dovrebbero essere “riordinate” dal governo secondo una complessa procedura nella quale dovrebbero concorrere stato e regioni. Nel frattempo, il 1° gennaio 2014, 10 province (Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria) saranno abolite e sostituite da altrettante città metropolitane. Precisamente, le città metropolitane sostituiranno le corrispondenti provincie e assumeranno le funzioni fondamentali in materia di pianificazione territoriale, mobilità e servizi pubblici, oggi ripartite tra province e comuni.
Nell’eddytoriale 159 abbiamo ricordato le ragioni che hanno condotto ad affrontare, fin dai primi anni della formazione delle regioni (1971) il problema del governo d’area vasta e, in questo quadro, all’attribuzione di nuovi compiti alle province e all’invenzione delle “città metropolitane”. In tal modo si era riformato il sistema delle istituzioni democratiche e delle loro responsabilità nel governo delle trasformazioni urbane e territoriali approvando la legge 142/1990, poi largamente disapplicata. Quel disegno fondava il governo del territorio su due principi, fortemente condivisi: l’adozione del metodo della pianificazione urbanistica e territoriale (come nel resto dell’Europa e, dal 1942, anche in Italia) e la democraticità del processo di pianificazione, cioè che questo fosse affidato alla responsabilità e all’iniziativa pubblica e perciò attuato da istituzioni elette dai cittadini. Vogliamo aggiungere che nello stesso periodo si erano precisate le responsabilità delle regioni, quale cerniera tra la dimensione economica e quella territoriale dell’intervento pubblico e ci si era proposti di superare la settorialità nello stesso intervento dello Stato introducendo l’obbligo di definire le “linee fondamentali dell’assetto territoriale nazionale” (DPR 616/1977).
E’ passato un quarto di secolo dalla riforma di quegli anni. Un lungo periodo, durante il quale tutto è cambiato in Italia. Abbiamo attraversato, e definitivamente superato, un ciclo immobiliare di straordinaria lunghezza e intensità, sprofondando in una crisi strutturale che investe tutti i settori produttivi. La geografia delle aree urbane si è ulteriormente modificata, con la formazione di vaste conurbazioni – prive di confini e identità – in molte aree del paese. Il governo delle trasformazioni territoriali è stato travolto, innanzitutto dal velleitarismo federalista (inteso – con un’inversione semantica – come spinta alla separazione anziché all’associazione). Sono stati negati gli stessi presupposti sui quali si basava la riforma del 1990: gli slogan vincenti sono stati “meno Stato e più mercato”, “via i lacci e lacciuoli della pianificazione”, “ciascuno è padrone a casa sua”. Le stesse istituzioni della democrazia rappresentativa sono state deformate spostando il potere dalle sedi collegiali e pluraliste (i consigli e il Parlamento) a quelle di vertice, privilegiando la “governabilità” alla democrazia. Nel tempo stesso la trasformazione del sistema economico (l’affermazione del “finanzcapitalismo”) e la crisi della politica hanno devastato l’idea stessa del governo pubblico. In assenza di una regia pubblica autorevole e lungimirante, si sono sclerotizzati i problemi pregressi e sono rimasti senza risposta i nuovi bisogni sociali, lasciando che i cambiamenti nella struttura economica producessero i loro effetti senza che fossero comprese e valutate le ricadute di lungo periodo. È stato modificato il rapporto tra i diversi livelli istituzionali sostituendo il rapporto diretto Stato-comuni a quello filtrato e mediato dalle istituzioni intermedie, trasformando le regioni in mere agenzie di distribuzione delle sempre più scarse finanze pubbliche.
In vista delle iniziative istituzionali, è quindi necessario riaprire un dibattito ampio, profondo, documentato sulle finalità, le regole, i modi, gli strumenti e gli istituti per un governo democratico del territorio, che parta da una rigorosa analisi delle radici della questione, con particolare riferimento alla dimensione di “area vasta”.
È con questo tema che inauguriamo un nuovo ciclo della Scuola di eddyburg. Il primo passo in questa direzione è un seminario sul tema delle città metropolitane, quasi obbligato dalle scadenze istituzionali. Le città metropolitane sono oggi a un bivio della loro storia. Esse coincidono con le aree più ricche, più dense, più forti del paese e quindi potrebbero essere la prossima terra di conquista per i percettori delle rendite immobiliari e finanziarie. Oppure, potrebbero costituire un laboratorio nel quale muovere i primi passi in direzione opposta, restituendo vivibilità alla «casa della società», recuperando la sintonia perduta con il territorio e la propria storia e rispondendo più efficacemente ed equamente ai bisogni di tutti i cittadini.
DUE INIZIATIVE
Come nella precedente edizione, l’attività della scuola di eddyburg si articolerà in due iniziative. La prima, avente forma seminariale, della durata di tre giorni, avrà luogo a Sezano (VR), al Monastero del Bene Comune, dal 17 al 19 Ottobre.
A seguire, in data da confermarsi, le riflessioni scaturire dal seminario saranno presentate pubblicamente in una tavola rotonda organizzata in collaborazione con la rivista Meridiana, che all’argomento dedica il primo numero del 2014. Un gruppo di esperti e legislatori, saranno invitati a confrontarsi sul tema.
La partecipazione al seminario è gratuita e riservata a chi si iscrive entro il 30 settembre 2013 (o sino a esaurimento posti), secondo le modalità descritte nel modulo predisposto scaricabile da eddyburg.it. Le quote per il vitto e l’alloggio saranno regolate direttamente dai partecipanti con la struttura ospitante.
PROGRAMMA
Giovedì 17 Ottobre
13.30 / Pranzo
14.30 - 15.00 / Registrazione dei partecipanti
15.00 - 15.15 / Introduzione
Mauro Baioni, Ilaria Boniburini, Eddy Salzano
15.30 - 19.00 / Sessione I: Pianificare l’area vasta: il contesto // Interventi e dibattito -Coordina Ilaria Boniburini
La prima sessione ha l’obiettivo di inquadrare la questione delle città metropolitane nel contesto del governo di area vasta, delle modifiche legislative in corso e dei più ampi cambiamenti socio-politici ed economici che hanno trasformato l’Italia per comprendere la complessità e le sfide, anche sul versante della democrazia, del governo delle aree metropolitane. Agli interventi programmati seguirà un ampio dibattito. Intervengono:
Fabrizio Bottini: Sovracomunalità 1925-1970
Eddy Salzano: L’Italia a pezzi: quale pianificazione per ricomporla?
Barbara Nerozzi: L’approdo alla legge 135/2012.
19.30 / Cena
Venerdì 18 Ottobre
8.00 / Colazione
9.00 - 12.30 / Sessione II: Prospettive per pianificare l’area vasta // Interventi e dibattito - Coordina Edoardo Salzano
La seconda sessione ha l’obiettivo di esplorare alcuni concetti, approcci e strumenti per stimolare e orientare la pianificazione di aria vasta e il governo delle aree metropolitane. Agli interventi programmati seguirà un ampio dibattito. Intervengono:
Chiara Sebastiani: Le politiche urbane nel governo d’area vasta.
Maria Cristina Gibelli: Intercomunalità: contaminazione tra coordinamento istituzionale e cooperazione volontaria.
Roberto Camagni: Quali risorse per la città pubblica in una dimensione di aria vasta. Punti fermi, ipotesi, alternative.
La terza sessione è rivolta a riflettere sullo stato dell’arte nell’area metropolitana milanese, presa come caso studio al fine di evidenziare come le specificità locali - in termini di problemi reali ed esperienze di pianificazione di area vasta - possono declinare concretamente concetti, approcci e strumenti. L’articolazione del caso milanese seguirà tre assi tematici principali, individuati dalla scuola di eddyburg, come critici per affrontare la questione della pianificazione della città metropolitana: il governo, gli obiettivi e le priorità individuate, e le risorse messe in campo. A partire dalle criticità emerse dal caso milanese si chiederà ai partecipanti di contribuire al dibattito portando a confronto esperienze, problemi e opportunità specifici di altri territori. L’obiettivo è di individuare per ciascuno dei tre assi tematici una serie di questioni chiave sulle quali approfondire la discussione durante il workshop della quarta sessione. - Intervengono:
Mauro Baioni: Storie e geografie: un’Italia, molti territori
Fabrizio Bottini, Serena Righini, Donato Belloni: Il caso studio dell’area metropolitana milanese
18.00 – 19.00 Aperitivo con Nairobi. Un’altra città metropolitana al bivio: un bivio Africano - di Ilaria Boniburini e Edoardo Salzano
19.30 / Cena
Sabato 19 Ottobre
8.00 / Colazione
8.45 - 13.00 / Sessione IV: Workshop - Le poste in gioco per la «città metropolitana dei cittadini»
L’istituzione delle città metropolitane potrebbe costituire un efficace strumento per restituire vivibilità alle principali aree urbane del paese, recuperando la sintonia perduta con il territorio e la propria storia e fornendo risposte adeguate ai bisogni sociali. Nella quarta sessione, attraverso il lavoro in gruppi, i partecipanti alla scuola metteranno a fuoco le questioni da porre all’attenzione del legislatore e degli amministratori locali, discutendo su tre aree tematiche:
1. Il governo della città metropolitana [come assicurare rappresentatività e partecipazione in una dimensione territoriale alla quale non corrisponde alcuna tradizionale identità/patria]
2. L’agenda: dal consumo di suolo al riuso del già urbanizzato [come evitare il saccheggio dei beni comuni, garantendone usi sociali, e restituire dignità all’iniziativa pubblica]3. Le risorse da attivare [rigorosa finalizzazione dei finanziamenti pubblico, prelievo del plusvalore delle trasformazioni, riattivazione di economie virtuose: come assicurare il funzionamento della città metropolitana]
Questa sessione del seminario è organizzata in sessioni parallele con un massimo di 10 partecipanti ciascuna. Ognuna sarà guidata da un documento di base sul tema preparato dai docenti e coordinatori che individua una serie di elementi da approfondire. L’obiettivo è di aprire una discussione e raccoglierne i risultati e le proposte in un breve documento di sintesi che verrà poi elaborato in funzione della tavola rotonda.
13.30 / Pranzo
15.00 -17.30 / Il futuro di eddyburg – riunione
Nel pomeriggio i collaboratori di eddyburg.it presenti, e chiunque altro intende partecipare, ragioneranno su eddyburg, per individuare i modi e gli strumenti capaci di garantirne il futuro migliorandone l’efficacia.
La crisi abitativa. Una riforma delle politiche dal basso
Vienna rossa, 1918-1933
L'edilizia sociale dopo il 1945
Le politiche della casa a Vienna, oggi.
Vienna e il futuro delle politiche abitative
Housing policies in Vienna: continuity in innovation and perspectives di Wolfgang Foerster
These are based on free competition of developers for social housing subsidies. The procedure differs from architecture competitions, as the project applicants are the housing developers themselves and, in addition to the architectural quality, economic and ecological qualities of the projects are judged equally within a complex score system.
Competitions aim at the reduction of construction costs in multi-storey housing as well as a simultaneous improvement of planning and environmental and technical qualities. The jury consists of architects, representatives of the construction sector and of the city of Vienna, and of specialists in the fields of ecology, economy and housing law. Experimental building, often in form of 'theme-oriented' estates with topics predetermined by the city, has a major share in the qualitative development of Vienna public housing. These projects are to be understood as experiments, which can help to introduce now contents and standards into social housing over a longer period.
Vienna social housing thus represents a manifold system, which for decades has continuously developed and adapted to meet new challenges. In spite of its complexity, however, its primary aim should be kept in mind: to offer comfortable contemporary housing in an attractive urban environment to all residents at affordable prices.
Testo in italiano e sintesi in inglese sono tratti da Urbanistica, 140/2009, p. 7-10.
L’articolo di Foerster è compreso all’interno di un ampio resoconto sulle politiche abitative di Vienna curato da Massimo Bricocoli e Lina Scavuzzo. Lina Scavuzzo è autrice di Social housing a Vienna, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna, 2011.
Come si costruisce una città accogliente, attenta alle differenze sociali, e pronta a contrastare emarginazione e conflitti? Attraverso la forma e l’organizzazione degli edifici e degli spazi aperti? Attraverso la dotazione di servizi? Assicurando ai cittadini la possibilità di incidere effettivamente nelle decisioni sull’uso e sulla trasformazione dei luoghi? Come si promuovono iniziative inclusive? Chi sono i soggetti beneficiari? Chi sono i soggetti che decidono? Chi interviene, come e con quali risorse?
Giovedì 6 giugno: ore 15.00-18.00 – incontro con le associazioni di Cohousing (da confermare)
Venerdì 7 giugno: ore 9.30-12.30 – visita al 10mo distretto, con Daniela Patti (urbanista)
Venerdì 7 giugno: ore 15.00-18.00 – visita guidata in bicicletta nei nuovi quartieri, con Gabriele Brugner
Percorso attrezzato :
1 . Principi: Henry Lefebvre, David Harvey, Edoardo Salzano
2 . Eventi: conferenze, leggi e documenti
3 . La Scuola di Eddyburg
4. Sezioni dalla mappa di Eddyburg ériediting in corso]
1. Principi
Tra i principi che eddyburg.it assume a cardine della propria azione c’è “la consapevolezza del carattere eminentemente comune, collettivo, pubblico della città (e dell’intero territorio urbanizzato) nel suo insieme e nelle sue componenti più significative, riassumibile nell’espressione “città come bene comune”, e del diritto di tutti gli abitanti presenti e futuri di goderne l’uso e di condividerne la responsabilità, riassumibile nell’espressione “diritto alla città”.Eddyburg al Forum sociale urbano 2012.
Dopo una lunga eclissi lo slogan diritto alla città di Henri Lefebvre è stato reinterpretato anche dal del geografo marxista David Harvey Diritto alla città, secondo Harvey :“Il diritto alla città non è soltanto un diritto all’accesso di quanto già esiste, ma il diritto di cambiarlo. Noi dobbiamo essere certi di poter vivere con le nostre creazioni. Ma il diritto di ri - fare sé stessi attraverso la creazione di tipi qualitativamente differenti di socialità urbana è uno dei più preziosi diritti umani” .
2. Eventi
Il tema della “città come bene comune” è infatti al centro di una concezione di una nuova urbanistica e di una nuova coesione sociale, e come obiettivo dei conflitti urbani. “La “città come bene comune” è una città che si fa carico delle esigenze e dei bisogni di tutti i cittadini, a partire dai più deboli. È una città che assicura a tutti i cittadini un alloggio a un prezzo commisurato alla capacità di spesa di ciascuno. È una città che garantisce a tutti l’accessibilità facile e piacevole ai luoghi di lavoro e ai servizi collettivi.” La città come bene comune Relazione di Edoardo Salzano al seminario internazionale “Quale futuro scegliamo: la metropoli neoliberista o una città comune e solidale?”, European Social Forum, Malmö, 19 settembre 2008.L’iniziativa sulla città al Forum sociale europeo, promossa da Eddyburg.it, Zone Onlus e da alcune strutture della Cgil, ha avuto l’obiettivo di promuovere una collaborazione internazionale tra movimenti, organizzazioni, gruppi e associazioni per comprendere gli effetti delle politiche neoliberiste, le ripercussioni del modello di sviluppo della città ultra-liberale , e le tendenze per costruire delle azioni capaci di contrastare le problematiche emergenti individuate. Di seguito trovate gli interventi e la relazione finale Urbanistica e pianificazione > Eventi > European Social Forum 2008 La città come bene comune. gruppi etnici e sociali insieme per costruire una città vivibile;
Già nel 2007 l'associazione Zone onlus ha organizzato, nell'ambito del World Social Forum; un convegno dal titolo: “La città come bene comune. Quale futuro per i quartieri informali?”.
Nella relazione introduttiva al convegno “Case senza gente gente senza case, Roma, 10 novembre 2008 Paolo Berdini, focalizza i problemi della capitale sottolineando come in Italia “ si è ancora in pochi parlare di beni e interessi comuni. Ma il cambiamento è nelle cose.” Urbanistica pubblica e futuro delle città Urbanistica e pianificazione > Eventi > Case senza gente, gente senza casa;
La nuova idea di città che sta emergendo è un’espressione semplice e comprensibile, un concetto al quale implicitamente rinviano tutte le vertenze urbane : occorre che la città, e anzi l’intero habitat dell’uomo, sia considerato un bene comune. Nel convegno, Città bene comune, vertenza europea organizzato dalla Rete Camere del lavoro-CGIL, Eddyburg.it, Zone onlus, e dalla facoltà di Pianificazione del Territorio dell’Iuav, a Venezia, il 24 novembre 2008, il diritto della città emerge attraverso l'esame delle molteplici connessioni.
Il modello neoliberista si manifesta, nella città e nel territorio, in gravi forme di esclusione fisica, economica e sociale che provocano disagio generalizzato e frammentazione del tessuto urbano e sociale, minando il significato stesso di città. Il convegno affronta alcuni temi, oggi centrali, per provare a dipanare questa complessità e dai quali possiamo partire per ricominciare a riflettere e far convergere saperi ed esperienze provenienti dai diversi campi. Qui i testi > Urbanistica e pianificazione > Eventi > Città bene comune, vertenza europea si segnalano:Città e lavoro, le due vittime del neoliberismo di Oscar Mancini;Seconda sessione:L'Italia nella morsa del neoliberalismo straccione Ilaria Boniburini; La città, luogo delle espulsioni e delle segregazioni Paola Somma; Realtà e prospettive per il problema della casa Mauro Baioni.
Nella proposta di legge di Eddyburg, presentata al Senato e alla Camera, ”Principi fondamentali in materia di pianificazione del territorio” nel 2006, all'articolo 4 si parla, appunto, di diritto alla città e all'abitare, quale nuova espressione dell'allargamento della sfera della dignità umana: diritto universale..”
La pianificazione assicura che l’impiego delle risorse territoriali non ne comprometta la consistenza. La loro utilizzazione è garantita in condizioni equivalenti a tutti i cittadini, in riferimento ai diritti fondamentali all’abitazione, ai servizi, alla mobilità, al godimento sociale delle risorse territoriali ed ambientali e del patrimonio culturale, alla dignità umana nonché al diritto di proprietà” La legge di Eddyburg in Parlamento Nomos Basileus – La legge sovrana Maria Pia Guermandi.
Dal Consiglio d’Europa (maggio 2008) un nuovo Manifesto europeo sulle questioni della città Carta urbana europea II - Manifesto per una nuova urbanità qui il testo.
ll finanziamento della città pubblica di Roberto Camagni,
Scuola estiva 2008 > Le lezioni
“Ma dove viviamo? Che fare per rendere le città più vivibili"
1.Richard Sennett, La fine della cultura . Elisabetta Forni, La crisi dello spazio pubblico urban.o Antonietta Mazzette, Trasformazioni urbane e vissuti delle donne . Henri Lefebvre, Livelli di realtà e analisi . Antonietta Mazzette. Quali politiche urbane per quali effetti sociali.
Si segnalano alcuni interventi che apportano al tema del diritto della città decodificazioni di concetti e analisi urbane:
Parole della città Ilaria Boniburini, Urbs, civitas, polis Edoardo Salzano, Il disagio di “vivere insieme” nella città contemporanea Giovanni Caudo, Vivibilità, ghetti, recinzioni Paola Somma:
Scuola estiva 2009 "Gli spazi pubblici: declino, difesa, riconquista". L’attenzione allo spazio pubblico della città travalica gli aspetti tecnici e progettuali per acquistare un significato più ampio. Il progressivo declino dell’uomo pubblico ha fatto smarrire la consapevolezza del diritto alla città e della necessità e possibilità di concepire e realizzare la città come un bene comune.
Intendere la “città come bene comune” significa pensare la città come il luogo dove le esigenze e i bisogni dei suoi abitanti sono garantiti, dove è possibile accedere senza difficoltà ai servizi essenziali, dove è piacevole incontrarsi, dove le iniziative culturali consentono di emanciparsi dal pensiero unico ed elaborare un pensiero critico. Significa riconoscere l’esistenza di un “diritto alla città”, oggi non garantito. Richiede uno sforzo di pianificazione affinché le attrezzature di interesse collettivo siano previste in quantità adeguate e localizzate in modo opportuno. Comporta un investimento collettivo, affinché siano gestite con cura e continuità nel tempo, senza che ciò significhi piegare a logiche finanziarie ciò che deve misurarsi in termini di equità, benessere e felicità. La città, la società, gli spazi pubblici Edoardo Salzano;
La lotta per una quantità e qualità adeguata degli spazi pubblici ha avuto un suo momento significativo, in Italia, nella faticosa conquista degli “standard urbanistici”, ma vuole allargarsi oggi ad altri elementi e altre esigenze; del resto, fin dagli anni sessanta la vertenza per i servizi e gli spazi pubblici si è saldata, diventando tutt’uno, con quella per “la casa come servizio sociale” e quella per il “diritto alla città”.
Le parole. Città e potere. Spazio/Sfera pubblico/a e privato/a. Diritto alla città Ilaria Boniburini;Lezione di Paola Somma;L'esperienza quotidiana della vita in città Elisabetta Forni; Un mondo di cose in comune Giovanni Caudo;Rimettere lo spazio pubblico al centro dell'attenzione Mauro Baioni;Perché rinunciamo alla città pubblica? Le ragioni di un alibi operativo Giorgia Boca; Lo spazio pubblico in alcune recenti trasformazioni urban eLa città, la società, gli spazi pubblici Il convegno conclusivo.
Scuola estiva 2010 “Urbanistica ed economia . La rendita urbana sui suoi meccanismi così determinanti per la città e la sua appropriazione privata “ Parole per ragionare sulla rendita Edoardo Salzano, La rendita urbana. Le nozioni fondamentali Roberto Camagni, Sono gli uomini a fare le città, poi sono le città a fare gli uomini Fabrizio Bottini:
Scuola estiva 2011«Oltre la crescita. Dopo lo "sviluppo"»
Alcuni capisaldi: economia, città, territorio, rendita e sviluppo.
L’equità e la questione distributiva in una prospettiva di giustizia sociale sono alla base di un altro concetto importante, il “bene comune”, che in questi ultimi anni ha visto una crescente elaborazione concettuale e un ampio consenso tra moltissimi movimenti che si battono per una società più giusta e un ambiente più sano,. Molti sono i libri usciti in questi ultimi due anni sul tema. Letture introduttive
Per una definizione chiara e l’analisi del problema che si pone alla cultura e alla società di oggi si legga Ugo Mattei, Beni comuni. Un diritto alla libertà oltre lo stato e il mercato. Per una genealogia del termine invitiamo anche a leggere i due articoli di Piero Bevilacqua, Il racconto dei beni comuni e di Ugo Mattei Forme del diritto. Breve genealogia dei beni comuni .
Per un approfondimento segnaliamo La società dei beni comuni, un utilissimo libro curato da Paolo Acciari (di cui potete leggere in eddyburg la recensione di Carla Ravaioli) ; I beni comuni ripensano la democrazia in cui Cacciari spiega come alcuni gruppi hanno cominciato a rivendicarne l'uso; infine segnaliamo gli articoli di Ugo Mattei Beni Comuni, e Beni Comuni. Il sipario aperto dal potere del noi. Last but not least, il libro di Giovanna Ricoveri Beni comuni vs merci; un assaggio di quest’ultimo lo trovate in un’intervista all’autrice.
Lungo la linea rossa: contraddizioni e conflitti Mauro Baioni, Beni comuni vs capitalismo; paradigmi a confronto Giovanna Ricoveri, Parole e concetti. “Sviluppo”: origine, egemonia e decadenza di una credenza Ilaria Boniburini.
4. Sezioni della mappa :
Eddyburg ha una visione molto ampia dello spazio pubblico nella città, e una percezione molto viva dei rischi che esso corre. lo spazio pubblico ha il suo punto di partenza nell’archetipo della piazza, si estende all’insieme dei luoghi finalizzati alle necessità comuni, e permea l’intera concezione della “città come bene comune” Nella sezione Città e territorio > Temi e problemi > Spazio pubblico si trovano articoli che forniscono ulteriori aspetti inerenti i beni comuni e sul diritto alla città :
Le idee del Nobel per l'economia. Elinor Ostrom e la rivincita delle proprietà comuni;Un contributo al libro La società dei beni comuni. Una rassegna , a cura di Paolo Cacciari, edito da Ediesse e Carta, Roma 2010. Habitat bene comune .
Il nuovo ruolo dei conflitti di strada e di piazza nel processo di trasferimento della ricchezza dai poveri ai ricchi, peculiare della fase attuale del capitalismo. Saskia Sassen: Con i riots la storia volta pagina Spazio pubblico, beni comuni, diritto alla città, nuove forme di partecipazione e organizzazione politica. Si riallacciano fili interrotti almeno dagli anni ’70 Ascoltando Macao Guido Viale, Ancora una recensione all'ultimo libro di David Harvey, nell’ottica di uno dei punti di vista della sinistra italiana. Ma cosa sono i beni comuni? E.Grazzini .
Città e territorio > La città: quale futuro?
La storia ci insegna che spesso gli esclusi e i deboli sono un importante fattore nello sviluppo di nuove fasi storiche A mano disarmata nelle metropoliSassen, Saskia 2005. Una mappa delle politiche e delle pratiche «del cambiamento», alternative possibili al modello liberista.
Sul libro di Agostino Petrillo, Villaggi, città, megalopoli, Carocci. “Nelle metropoli del nord e del sud del mondo vengono cancellati gli spazi pubblici e tracciati i nuovi confini che le sezionano secondo criteri razziali, di classe”Occhi puntati sugli slums del pianeta (2006)
Una approfondita – e partecipata – recensione all’ultimo libro di Paolo Perulli: “La città: la società europea nello spazio globale”.Appunti per la città del prossimo futuro Gregotti Vittorio, 2007
«La città (certamente in nuove forme) resta, magari nella forma della città delle reti o forse anche delle reti di città dell'arcipelago, il luogo dell'incontro, nell'epoca attuale della solitudine e della paura» ma anche il luogo dell'utopia. Ma che forma di governo (o di "governance"), e quale forma di società è possibile, si domanda Perulli, in questi insieme di reti? Sono le "città mondiali" di Saskia Sassen, con i loro centri finanziari molto più simili a centri di produzione che a shopping mall o sono le "città regioni" o gli arcipelaghi urbani? La scomparsa della città fisica, la libertà dallo spazio in quanto "città dei bits", città virtuale, sostenuta da W. J. Mitchell (la città dei non luoghi in cui sono parcheggiati i rifugiati del pianeta), l´abitare i flussi che fa dell'esule una figura esemplare, esclude il cittadino in quanto titolare non solo dei doveri civili e diritti politici, ma anche come "homo faber".
Prosegue il dibattito sul “che fare” per invertire la devastante tendenza in atto, nel mondo e in Italia. Tre cose da fare per partire dalle città. Ambiente e poteri forti nella città Paolo Berdini, 2010
Il decalogo di Italia Nostra per una buona urbanistica, nel segno di Antonio Cederna. Dieci regole per salvare la città Vittorio Emiliani.2011
In realtà, la frammentazione dello spazio urbano e la delimitazione di zone destinate all’insediamento esclusivo di ben precisi gruppi di popolazione sembrano essere diventate, in ogni parte del mondo e ad ogni scala dimensionale, le modalità principali del disegno e del governo del territorio alla cui realizzazione attivamente contribuiscono accademici e amministratori, architetti e investitori. La città dell’ingiustizia. Politiche urbanistiche e segregazione Paola Somma 2011
È indispensabile invece che la città sia, o torni a essere, “inclusiva”. “La ‘città inclusiva’ è il luogo dove a chiunque, indipendentemente dalla condizione economica, dal genere, dall’età, dalla razza o dalla religione, è per- messo partecipare produttivamente e positivamente alle opportunità che la città ha da offrire.” (Unchs, 2000).La città inclusiva
La lotta all’esclusione e il rafforzamento dell’inclusione richiedono politiche urbane, economiche e sociali all’interno delle quali sia chiaramente posta la questione del diritto alla città: politiche integrate in cui i temi della povertà, delle condizioni insediative, delle opportunità di reddito siano affrontati congiuntamente, come si usa dire, in maniera integrata.
Una buona sintesi della magistrale lezione di David Harvey sulle radici economico-sociali dell’attuale condizione urbana. I predatori metropolitani
Sandro Mezzadra 2012;
Rivendicazione del «diritto alla città», che come afferma Harvey è un «significante vuoto»: «rivendicare il diritto alla città è, in realtà, rivendicare il diritto a qualcosa che non esiste più (ammesso che sia mai esistito)». È rivendicare un «diritto mirato», che non può esistere cioè all'infuori dell'individuazione dei suoi soggetti e dalla materiale produzione di una nuova «città», di un nuovo luogo comune di cooperazione, uguaglianza e libertà: «il diritto alla città contro il capitalismo», si potrebbe allora dire rovesciando il titolo di questo libro.
Un complesso studio a molte voci proposto dalla prestigiosa Lancet, giugno 2012, sottolinea se necessario l’indispensabile interdisciplinarità dell’approccio ai sistemi urbani La città fa bene a tutti, se ci badano Fabrizio Bottini.2012
Edoardo Salzano
Pubblico e privato nella pianificazione del territorio
Relazione svolta al seminario “Pubblico e privato nel governo del territorio”, Dipartimento di urbanistica e pianificazione territoriale dell’Università di Firenze, 31 maggio 2007; La città, l’urbanistica e il lavoro.2007 ; Lezione sulla pianificazione Il testo dell'intervento al Città Territorio Festival, Ferrara 19 aprile 2008;Continua il grande furto Prosegue senza sosta la privatizzazione di tutto ciò che è pubblico. Continuano a smantellare senza pietà il patrimonio comune degli italiani. Nel silenzio di tutti. Dl 25/6/2008, n. 112; La qualità della città pubblica Relazione al seminario "Standard di qualità e perequazione. La qualità della città pubblica", Università degli studi Mediterranea di Reggio Calabria, 9 dicembre 2008 ; La città, la comunità, gli spazi pubblici lectio magistralis con cui si è inaugurata, il 16 aprile 2009, la seconda edizione del Città Territorio Festival di Ferrara ; Crisi dello spazio urbano o fine (morte) delle città?; Relazione di apertura della IV sessione (24 febbraio 2010) del convegno “Ma cos’è questa crisi”, Le Settimane della Politica, II edizione; Città pubblica e città privata: equilibrio o sopraffazione? Intervento al convegno “Paesaggio bene comune” organizzato dal movimento “Stop al consumo di territorio” e dal comitato “Non grattiamo il cielo di Torino”, 17 aprile 2010 ; Dualismo urbano. Città dei cittadini o città della rendita 2011; I diritti e la città testo rivisto della conferenza nel ciclo “Le città in evoluzione”, Palazzo Ducale, Genova 25 novembre 2011; Diritto alla città, ieri e oggi Testo della relazione di apertura di un seminario del dottorato in Pianificazione territoriale e urbana, Università di Roma, La Sapienza (8 marzo 2012); Personaggi. Edoardo Salzano Intervista rilasciata a Guido Ferrara su urbanistica e paesaggio. Paysage - Architettura del paesaggio , n. 26, maggio-settembre 2012.
Nel segno del diritto alla città : due esperienze
Ricerca di applicazione al caso concreto di Firenze di alcuni principi dell’urbanistica, a partire da Henry Lefebvre. Nella trasformazione urbana uno dei conflitti più importanti e decisivi è quello tra i valori d’uso del suolo ed i valori di scambio, in altre parole fra chi considera la città un luogo della vita quotidiana, all’interno del quale rispondere ai propri bisogni e desideri, e chi invece la interpreta come una proprietà privata da cui trarre una rendita e un settore di investimento di capitali da cui trarre profitto. I processi di urbanizzazione guidati dalle logiche di valorizzazione immobiliare, sono responsabili della produzione di gran parte dei problemi urbani che ci troviamo ad affrontare: la segregazione funzionale, la perenne questione abitativa, la progressiva scomparsa dello spazio pubblico, la mancanza di luoghi non mercificati per la socializzazione, l’elaborazione culturale e l’espressione artistica
Urbanistica e pianificazione > Tesi, ricerche, dissertazionil diritto alla città e la pianificazione urbanistica. Proposte per Firenze, e non solo. Maggio, Marvi (26.07.2009)
Dall'Argentina: un’esperienza di partecipazione per l’abolizione delle barriere all’accesso al bene comune urbano. Rosario, vince il movimento per il diritto alla città Adriana Goni Mazzitelli.
I percorsi avviati dai movimenti di Rosario sono piuttosto chiari: dalla terra come merce alla terra come bene comune inalienabile, dal mercato dei monopoli al diritto all’abitare, dai latifondi speculativi alla democratizzazione della terra con finalità produttive, dai centralismi tecnocratici alla pianificazione partecipativa.
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PERCHÉ EDDYBURG AL Forum Sociale Urbano 2012
Eddyburg.it
Eddyburg.it, attivo dal 2003, è un sito web non legato ad alcuna struttura o gruppo o istituzione o fedeltà. Si occupa di urbanistica, società, politica (urbs, civitas, polis) e di argomenti che rendono bella, interessante e piacevole la vita.
Tra i principi che eddyburg.it assume a cardine della propria azione c’è “la consapevolezza del carattere eminentemente comune, collettivo, pubblico della città (e dell’intero territorio urbanizzato) nel suo insieme e nelle sue componenti più significative, riassumibile nell’espressione “città come bene comune”, e del diritto di tutti gli abitanti presenti e futuri di goderne l’uso e di condividerne la responsabilità, riassumibile nell’espressione “diritto alla città”.
E per questa ragione che eddyburg.it e Zone onlus, l’associazione che da supporto alle attività del sito e della scuola di eddyburg, sostengono il Forum Social Urbano 2012 - che si svolge quest’anno a Napoli, in concomitanza con il 6° Word Urban Forum indetto indetto da NU-Habitat - e si impegnano a contribuire al suo svolgimento, proseguendo un’attività già svolta nel passato. Abbiamo infatti già partecipato al Word social forum di Nairobi (2007) e all’European Social Forum di Malmö (2008) e a successive iniziative di diffusione e discussine dei suoi risultati.
Particolarmente interessante ci sembra quest’anno il tema scelto dai promotori del forum: “Il diritto alla città per la difesa dei beni comuni”. Si tratta di due temi, strettamente connessi, cui eddyburg ha dedicato costante attenzione (vedi qui sotto i link)
Segnaleremo le iniziative di eddyburg appena ne avremo concordato le modalità.
Link utili
L’Appello: L’appello al Forum Sociale Urbano 2012, leggete e, se volete, sottoscrivete
I siti ufficiali: quello del Forum Sociale Urbano 2012 e quello del del 6°World Urban Forum.
In eddyburg vedi anche i documenti relativi al Word social forum di Nairobi e all’ European Social Forum di Malmö, nonchè gli scritti di Edoardo Salzano La città come bene comune. Costruire il futuro partendo dalla storia (2009), The City as a Common Good( 2007),
In Eddyburg e Mall
I. De Pommereau, Un nuovo quartiere in Germania per un per una vita senza automobile
Articolo da The Christian Science Monitor, 20 dicembre 2006, scelto e tradotto da Fabrizio Bottini;
A. Purvis, É questa la città più verde del mondo?
Ampio articolo da The Observer, 23 marzo 2008, scelto e tradotto da Fabrizio Bottini;
M. Baioni, Friburgo, Vauban. Quartiere speciale in una città speciale
Presentazione alla Scuola di eddyburg, edizione 2010
A. Mazzette, La città del futuro
Commento su La nuova Sardegna ad una lezione di Wulf Daseking al Centro studi urbani di Sassari.
Nei siti locali
Pagine dedicate a Vauban nel sito istituzionale di Friburgo
Contiene numerose informazioni, foto aeree, i pannelli realizzati per una mostra, il piano attuativo (B-plan).
Sito del Forum-Vauban
Informazioni e storia del forum, in lingua inglese e tedesca. Contiene riferimenti ad altri articoli e siti che parlano di Vauban.
Andreas Delleske
Quartierssozialarbeit im stadtteil vauban
Erich Lutz, Naturconcept
Tre gemmazioni del sito del Forum. Il sito di Naturconcept contiene una sterminata serie di foto e una sezione sui "fallimenti" (conflitti, problemi irrisolti).
Il fenomeno periurbano si caratterizza oggi per essere una forma territoriale assai diffusa nelle nostre periferie europee, risultato confuso dello sprawl urbano dominante. Non ha più senso parlare di limite città-campagna, ma allo stesso tempo ci si chiede se il periurbano possa essere considerato come una destrutturazione degli assetti insediativi originari, oppure se possegga delle caratteristiche fisiche e morfologiche indipendenti.
E’ importante domandarsi quale sia una possibile definizione di periurbano, ma soprattutto che ruolo abbiano svolto gli strumenti di pianificazione del territorio nel determinare questa forma di organizzazione spaziale. Se il concetto di limite, inteso come linea divisoria, perde importanza, ha senso interrogarsi su come integrare queste aree di transizione, in cui avvengono importanti trasformazioni e si generano forti impatti ambientali sul territorio.
L’esperienza catalana in materia di pianificazione e gestione del territorio ci può servire per analizzare alcuni casi interessanti di trattamento del fenomeno periurbano. Dopo una breve rassegna sugli strumenti previsti dalla legislazione catalana in materia di pianificazione territoriale e urbanistica, analizzeremo gli spazi agricoli periurbani dell’ACTUR di Santa Maria de Gallecs e il Parc Agrari del Baix Llobregat, entrambi ubicati nell’Area Metropolitana di Barcellona. Abbiamo scelto queste due esperienze perché, nonostante facciano parte di una territorio particolarmente soggetto all’espansione urbana, sono sinonimo della volontà politica di controllare le dinamiche territoriali di area vasta e di stabilire un sistema di gestione degli spazi agricoli periurbani.
Pianificazione e governo del territorio
La Catalogna presenta un’interessante traiettoria nella ricerca e produzione di documenti di pianificazione territoriale che risale agli anni Trenta del Novecento. Nel periodo della cosiddetta Generalitat Republicana (1931-1939), si assiste ad una fase di intensa sperimentazione e dibattito sul modello territoriale e sulla relazione tra spazi agricoli e zone urbane. E’ in questi anni che vengono formulate le prime proposte di ordinamento degli spazi agricoli metropolitani: si pensi al Pla de distribució en zones del territori català del 1931 (cosiddetto Regional Planning) che, benché non sia mai stato approvato, aveva tra i propri obiettivi quello di evitare l’industrializzazione integrale secondo il modello inglese e proponeva di mantenere gli spazi agricoli metropolitani. Purtroppo però, dopo il colpo di stato del 1936, le iniziative repubblicane di pianificazione territoriale non hanno séguito e, durante la dittatura franchista, anche la produzione di documenti di pianificazione urbanistica è scarsa, nonostante la crescita urbana sia pronunciata: nel 1981, il 55% dei Comuni catalani non disponeva di quello che per noi è oggi il Piano di Governo del Territorio.
Il Pla General Metropolità (PGM) del 1976 è l’unico strumento di pianificazione territoriale dell’Area Metropolitana di Barcellona (AMB) che viene approvato in quegli anni e che è tutt’ora vigente, benché le sue prescrizioni riguardino solamente ventisette Comuni dell’area.
Nel 1979, con l’Estatut d’Autonomia della Catalogna, le competenze in materia di ordinamento del territorio passano alla Generalitat de Catalunya che, nel 1983, promulga la prima Llei de Política Territorial.
La struttura normativa della legge prevede la formulazione di un Pla Territorial General de Catalunya (PTGC), che si articola attraverso una serie di piani, i cosiddetti Plans Territorials Parcials (PTP) e i Plans Territorials Sectorials (PTS). Il PTGC viene approvato definitivamente soltanto nel 1995 e, nel 2001, a quasi vent’anni dall’entrata in vigore della Llei de Política Territorial, esiste solo un PTP approvato, quello delle Terres de l’Ebre. Per tutto questo tempo, quindi, lo strumento base dell’ordinamento territoriale in Catalogna è risultato essere il Pla d’Ordenació Urbanística Municipal (POUM), che corrisponde al nostro Piano di Governo del Territorio. Il prevalere di una pianificazione a scala comunale conduce necessariamente ad un forte divario tra le dinamiche sovralocali - di crescita e di trasformazione del territorio - e le scelte delle singole amministrazioni. L’incapacità dei Comuni di recepire nelle scelte di piano le trasformazioni che avvengono a livello sovralocale e nazionale genera un’incongruenza di fondo che può soltanto essere superata con una coordinazione a scala maggiore.
E’ solo dalla fine del 2003, con il cambio di governo della Generalitat, che viene dato reale impulso alla politica territoriale e si approva il Programa de Planejament Territorial. L’obiettivo è coordinare le scelte di pianificazione urbanistica dei singoli Comuni e correggere la tendenza alla dispersione urbana e alla segregazione prodotta dall’urbanizzazione, promovendo un modello di territorio policentrico, coerente nelle sue diverse parti. E’ per questo che vengono redatti i Plans Territorials Parcials mancanti, strumenti di governo del territorio a livello di comarca, secondo quanto previsto dalla Legge di politica territoriale del 1983.
Plans Territorials Parcials e Plans Director Urbanístics
I PTP sono strumenti di pianificazione fisica del territorio e non piani strategici, sono vincolanti per la pianificazione urbanistica comunale e di orientamento per la quella settoriale, soprattutto se legata alle infrastrutture di mobilità. Sono in scala 1:50.000 e strutturano il territorio di loro competenza in tre sub-sistemi: espais oberts, assentaments e infraestructures de mobilitat.
Il sistema degli spazi aperti comprende tutto il suolo non edificabile (SNU) classificato dalla pianificazione urbanistica e definisce il territorio che dev’essere preservato dall’urbanizzazione. Per il sistema dell’edificato vengono stabilite delle strategie, ossia delle direttrici per l’ordinamento comunale che devono essere obbligatoriamente recepite nella revisione dei POUM, mentre il sistema delle infrastrutture di mobilità è in diretta relazione con la pianificazione settoriale corrispondente.
Tra il 2006 e il 2010 sono sette i Plans Territorials Parcials approvati in Catalogna: Alt Pirineu i Aran, Ponent, Comarques Centrals, Camp de Tarragona, Metropolitano de Barcelona, Terres de l’Ebre (revisione) e Comarques Gironines.
Parallelamente all’elaborazione dei PTP, viene redatta una serie di Plans Directors Urbanístics (PDU), strumenti di grande importanza per garantire l’applicazione delle linee di pianificazione territoriale, che hanno la funzione di coordinare la pianificazione urbanistica comunale. In totale, tra il 2003 e il 2010, sono trentasette i PDU approvati o in fase di redazione, e si dividono in sei grandi gruppi: protezione del litorale, zone di montagna, tutela e ordinamento del patrimonio e del paesaggio, aree urbane, infrastrutture, aree residenziali strategiche (ARES).
Esempio particolarmente interessante di PDU è il Pla Director Urbanístic del Sistema Costaner (PDUSC) approvato nel 2005, che esclude definitivamente dall’urbanizzazione i suoli siti in prima linea della costa catalana, classificati come SNU dai diversi POUM, e buona parte dei terreni classificati come edificabili ma ancora senza previsione di attuazione urbanistica. Le decisioni del PDUSC devono necessariamente essere recepite nelle scelte di piano di tutti Comuni della costa, cosa che li obbliga a declassare moltissimi terreni ancora considerati edificabili, frenando la pressione urbanistica generata dalle dinamiche metropolitane e legate al turismo. Dal 2003 in poi, sono molteplici le iniziative adottate dal governo catalano al fine di guidare e razionalizzare la crescita urbana e lo sviluppo territoriale: come abbiamo visto, si tratta di una serie di strumenti che si influenzano reciprocamente e che rispondono ad una precisa volontà politica di controllare le dinamiche urbane a livello sovralocale. Secondo Oriol Nel.lo, con l’impulso della pianificazione territoriale dal 2006, anno in cui è entrato in vigore il primo piano territoriale, fino al 2010, è stato possibile orientare la pianificazione urbanistica locale di più di un terzo dei Comuni catalani.
Pla Territorial Metropolità de Barcelona
Il Pla Territorial Metropolità de Barcelona approvato ad aprile del 2010 (PTMB) è uno dei sette PTP previsti dalla legislazione catalana in materia di politica territoriale e si riferisce ad una superficie di 3.236 km2, pari al 10% della Catalogna, dove vive il 70% della popolazione catalana. A differenza del PGM del 1976, che includeva soltanto 27 Comuni dell’AMB, il PTMB è lo strumento di governo del territorio metropolitano per 164 Comuni, distribuiti in 7 comarques. Della sua redazione è stata incaricata la Comisió d’Ordenació Territorial Metropolità (COTMB), formata dai rappresentanti dei diversi dipartimenti della Generalitat de Catalunya, dagli enti locali e da una rappresentanza statale. La COTMB ha sottoposto il Piano ad un doppio procedimento di consultazione pubblica, in modo da generare un più ampio dibattito in merito ai contenuti del Piano e per raggiungere un consenso più vasto da parte di tutti i soggetti coinvolti.
Il PTMB ha come obiettivo l’ordinamento del territorio dell’AMB e si caratterizza per la sua volontà di limitare la dispersione dei centri abitati, potenziare la complessità funzionale e favorire la coesione sociale. L’orizzonte temporale fissato dal Piano è il 2026. A differenza della pianificazione tradizionale, il Piano non intende raggiungere un’immagine-obiettivo finale, bensì intende stabilire il contesto normativo al quale dovranno attenersi gli attori pubblici e privati che partecipano alla costruzione del modello territoriale previsto. Come per i restanti PTP, i tre grandi sub-sistemi territoriali sono: espais oberts, assentaments e infraestructures de mobilitat. Per quanto riguarda i suoli esclusi dall’urbanizzazione, il merito del PTMB è quello di aver incluso nella stessa categoria di SNU tutte le tipologie di Sòl No Urbanitzable, e non soltanto quello di speciale protezione ambientale. Gli spazi aperti vengono divisi in espais de protecció especial, espais de protecció de la vinya e espais de protecció preventiva. I primi due godono di un regime di protezione particolare, mentre gli ultimi rappresentano il SNU ordinario, ma sono comunque terreni che non potranno assolutamente essere trasformati in edificabili dai singoli POUM municipali, senza che lo preveda la strategia territoriale del Piano a scala metropolitana. Pertanto, con l’approvazione del PTMB il 74,8% del territorio dell’AMB risulta essere incluso nella categoria di spazi aperti ed un 70,4% di questo appartiene alle categorie di maggior tutela del SNU.
Regime urbanistico dei suoli. Il Suelo No Urbanizable (SNU) periurbano.
Per entrare nel dettaglio di ciò che viene definito periurbano, è necessario fare riferimento al regime urbanistico dei suoli esistente in Catalogna e, in particolare, ai suoli non edificabili (SNU).
La Legge urbanistica catalana (LU) nel suo art. 24 definisce il regime urbanistico dei suoli come quello determinato dalla classificazione, qualificazione in zone o sistemi, e l’inclusione in settori di pianificazione urbanistica derivata o in poligoni di attuazione urbanistica. Lo strumento designato dalla LU per determinare la classificació, qualificació e ús di un terreno è il POUM, e le possibili classi risultano essere: Sòl Urbà, Sòl Urbanitzable e Sòl No Urbanitzable (SNU). Per poter classificare un terreno come SNU - non edificabile - esistono tre modalità differenti, stabilite nell’art. 32 della LU:
- la prima in base alla normativa di settore, oppure sulla base di strumenti di ordine superiore, quali i Plans Territorials o i Plans Directors. Bisogna ricordare che la normativa catalana sulla protezione degli spazi naturali ha spesso proposto un sistema di protezione per zone isolate (illes), pertanto con scarsa inclusione delle zone periurbane.
- la seconda è una modalità di tipo discrezionale, ossia in base alla volontà del POUM di classificare o meno un terreno come SNU: ciò avviene in base a ragioni di congruenza con la Ley de Suelo statale (LS), oppure per garantire i principi di sviluppo urbanistico sostenibile riassunti all’art. 3 della LU.
- la terza ed ultima modalità per classificare un terreno come SNU include i cosiddetti sistemi urbanistici generali non inclusi nelle categorie di Sòl Urbà né Sòl Urbanitzable, ossia le vie di comunicazione, i servizi comunitari e gli spazi aperti.
Da ciò deriva la difficoltà di considerare i suoli periurbani come non edificabili e, molto frequentemente, sono le prime aree ad essere considerate di espansione, vista la loro prossimità alla città consolidata. Per far sì che un suolo periurbano sia considerato non edificabile (SNU), bisogna quindi attenersi alla discrezionalità del POUM, oppure disporre di un Pla Director Urbanístic.
E’ qui importante, però, fare un inciso e distinguere tra strumenti di pianificazione e di gestione: i primi sono necessari per determinare il modello territoriale, il regime dei suoli e le linee di intervento, ma sono i secondi quelli che permettono di giungere ad un controllo specifico degli usi e delle attività, e rendono attuative le scelte di piano. Il capitolo 1° del Titolo III della LU stabilisce quali sono gli strumenti di pianificazione urbanistica, da quelli generali (PDU, POUM, Normes de planejament) a quelli di attuazione (PE, PMU, PP). Entrambi i livelli di pianificazione influiscono sulla gestione del SNU: i PDU possono stabilire le direttrici per coordinare l’ordinamento di un territorio di ambito supermunicipale e le misure di protezione del SNU, ma sono i PE gli strumenti necessari per una sua gestione specifica.
Il fenomeno periurbano, come l’hanno definito Javier Abadia e Francesc Magrinyà, è costituito da tutte quelle attività, né propriamente urbane né propriamente rurali, che occupano gli spazi liberi e, con particolare intensità, i dintorni delle grandi città. Una localizzazione di tipo isolato rispetto alla città compatta costituisce la sua identità locale e la dispersione urbana dell’insieme ne rappresenta l’identità territoriale. Progressivamente, siamo passati da una centralità dei valori intrinseci del territorio (geomorfologia) a valori estrinseci generati dalle infrastrutture che lo attraversano (localizzazione, accessibilità, prezzo). Spesso mancano veri e propri criteri di localizzazione e, nei processi espropriatori, prevalgono valutazioni esclusivamente legate al prezzo del suolo. Nel giustificare le espropriazioni, infatti, si riscontra un abuso del termine “interesse collettivo”, quando dovrebbe prevalere ben altro interesse collettivo, cioè l’uso razionale del suolo.
Nell’AMB, ed in particolare nell’area costiera del Maresme, quando il suolo periurbano viene classificato come SNU, cioè non edificabile, ci troviamo spesso di fronte ad aree considerate agricole periurbane in cui però le serre ed i capannoni rendono il paesaggio molto più simile ad una zona industriale che non ad un campo coltivato. E’ per questo che Abadia e Megrinyà sostengono che non sia possibile definire il fenomeno periurbano soltanto in base ai parametri tradizionali di ambito geografico, classe di suolo e tipo di attività. E’ necessario considerare i fattori estrinseci, che sono quelli che generano dispersione e determinano una maggiore complessità territoriale. Spesso, inoltre, la maggior parte delle attività periurbane risponde ad un’ottica puramente municipale e sfugge ad una visione di ordinamento territoriale d’insieme.
I due esempi che seguono, legati a due aree agricole periurbane dell’Area Metropolitana di Barcellona, servono per illustrare le differenti scelte urbanistiche adottate, i piani redatti e gli strumenti di gestione utilizzati, sulla base di due modelli territoriali differenti.
ACTUR Santa Maria de Gallecs: la soluzione urbanistica ad un conflitto territoriale durato 35 anni
Lo spazio agricolo di Gallecs si trova nell’area metropolitana di Barcellona, nel cosiddetto Vallès Oriental, ad una ventina di chilometri dal centro di Barcellona. Si tratta di un’area fortemente urbanizzata, con un’elevata concentrazione di attività industriali, dove gli spazi agrari residuali vengono destinati all’agricoltura non irrigata, prevalentemente cerealicola.
Gallecs occupa una superficie di 733 ettari e attualmente la principale attività che si svolge (e che corrisponde al 75% dell’area) è quella agricola, con una progressiva sostituzione delle colture tradizionali con coltivazioni di tipo biologico. Dal punto di vista amministrativo, Gallecs appartiene a differenti Comuni del Vallès Oriental e la sua definizione di spazio agricolo è il risultato di un conflitto territoriale durato 35 anni.
L’instabilità urbanistica di Gallecs inizia negli anni ’70 quando - il 27 giugno del 1970 - Franco firma il Decreto Ley 7/1970, sobre Actuaciones Urbanísticas Urgentes en Madrid y Barcelona (ACTUR) e con il successivo Decreto 3543/1970 si delimita l’ACTUR di Santa Maria de Gallecs: un’area di 1.471 ettari sulla quale è prevista la realizzazione di una nuova città per 132.000 abitanti. L’area comprende sette comuni, tra i quali Mollet del Vallès, dove si trova più del 40% dei terreni interessati dagli espropri. Nel 1973, per ragioni politiche e in seguito alla crisi petrolifera, il Ministerio de la Vivienda blocca il progetto di espropriazione dei terreni dell’ACTUR e, nel 1980, la proprietà dell’area passa alla Generalitat de Catalunya, che li assegna all’INCASSO.
Quest’ultimo, nel 1982, rinuncia definitivamente all’idea di macro-città ed inizia una fase di accordi bilaterali con i Comuni interessati.
Il primo passo verso la tutela dello spazio agricolo periurbano di Gallecs avviene proprio nel 1982, quando si approva il POUM di Mollet del Vallès, giungendo ad un accordo con l’INCASOL per potervi includere i terreni siti a sud dell’autostrada AP-7. Per la zona a nord, invece, permane la classificazione di suolo urbanizzabile, secondo le prescrizioni dell’ACTUR del 1970.
Nel 1998 il Comune di Mollet del Vallès inizia una fase di revisione del POUM e decide di declassare i terreni di Gallecs da suoli edificabili a non edificabili di speciale protezione. Il DPTOP non autorizza la modifica e il Comune di Mollet del Vallès inizia un ricorso amministrativo, che si concluderà solamente il 20 ottobre del 2004, con un accordo tra la Generalitat de Catalunya e i Comuni interessati alla tutela definitiva dello spazio agricolo periurbano di Gallecs.
La soluzione urbanistica adottata consiste nella sovrapposizione di tre strumenti di pianificazione, il Pla Director Urbanístic (PDU), il Pla d’Ordenació Urbanística Municipal (POUM) e il Pla d’Espais d’Interes Natural (PEIN):
- al PDU spetta il compito di coordinare la pianificazione urbanistica dei sette comuni inclusi nell’ACTUR e il suo compito principale è quello di garantire la tutela dello spazio agricolo centrale di Gallecs (753 ettari, pari al 51% dell’ACTUR). Il PDU stabilisce che lo spazio centrale di Gallecs deve essere qualificato come Sistema d’espais lliures públic e prevede la formazione di un Consorzio, nuovo proprietario dei terreni ed ente responsabile della gestione.
- contemporaneamente, lo spazio agricolo di Gallecs viene inserito nel Pla d’Espais Naturals (PEIN): si tratta di uno strumento di pianificazione territoriale, incluso nella categoria dei Plas Territorials Sectorials che, in quanto tale, ha come ambito d’azione l’intero territorio della Catalogna e regola un solo settore di pianificazione (in questo caso gli spazi naturali).
- il POUM di Mollet del Vallès è il terzo strumento che conferma la classificazione di SNU di Gallecs. Nel rispetto dell’allora vigente Legge Urbanistica, deve indicare le misure necessarie per la tutela “del medi ambient, conservació de la natura i defensa del paisatge i dels elements naturals” e, pertanto, viene dimostrata la legalità del cambio di classificazione del suolo per poter adeguare la normativa urbanistica comunale di Mollet con la condizione fisica di Gallecs. Inoltre, l’allora in vigore Legge del Suolo stabilisce “la necessitat de classificar com a sòl no urbanitzable tots aquells terrenys que el planejament general consideri necessari protegir pel seus valors agrícoles, forestals, ramaders o per les seves riqueses naturals”.
Con l’approvazione definitiva del POUM di Mollet del Vallès (sulla base dei vincoli stabiliti dal PDU e in rispetto del PEIN), viene sancita la volontà politica di investire su un modello di città compatta, metà urbana e metà rurale, dove lo spazio agricolo di Gallecs rappresenta il grande “sistema di spazi liberi pubblici”, con valenza di spazio agricolo di speciale protezione.
E’ importante sottolineare come la conservazione degli spazi naturali sia l’elemento rettore di Gallecs in tutti e tre gli strumenti di pianificazione. Lo spazio agricolo periurbano si trasforma, dunque, in un’area protetta, destinata all’agricoltura biologica di prossimità, importante polmone verde per tutta l’Area Metropolitana di Barcellona. Diventa un punto di riferimento per tutte quelle attività legate all’educazione ambientale e centro sperimentale di formazione, ma dove la produttività agricola passa in secondo piano e diventa un fattore complementare. La scelta di proteggerlo come spazio di protezione ambientale implica notevoli difficoltà per gli agricoltori, perché le condizioni di tutela imposte dal PEIN sono particolarmente restrittive e condizionano l’attività agricola.
Parc Agrari del Baix Llobregat: produzione agricola di prossimità nell’AMB
A differenza di Gallecs, il Parc Agrari del Baix Llobregat costituisce un modello di gestione del periurbano basato sulla produzione agricola e la competitività di un settore che spesso e volentieri viene espulso dalle grandi aree metropolitane. Basti pensare che tra il 1955 e il 2004, la superficie agricola dell’AMB si è ridotta del 61% e, prima del 2000, il Baix Llobregat aveva già perso il 60% delle sue terre coltivabili e la comarca del Barcelonès il 90%.
Il Parc Agrari del Baix Llobregat corrisponde ad una zona orticola pianeggiante, fatta di ritagli e di frammenti agricoli siti in prossimità dell’aeroporto de El Prat. Si tratta di un’area soggetta da sempre ad una fortissima pressione urbana e zona di riserva per le infrastrutture metropolitane, dove, malgrado ciò, la produttività agricola è alta e corrisponde addirittura al 3% del PIL della Catalogna.
Fin dagli anni ’70, con l’approvazione del Pla General Metropolità di Barcellona nel 1976, l’organizzazione dei contadini inizia una forte campagna di sensibilizzazione per proteggere le aree agricole della piana del Baix Llobregat dall’espansione urbana, terre considerate tra le più fertili e produttive della Catalogna. E’ però negli anni ’90 che viene sancita la tutela dell’area che oggi corrisponde al parco agrario, con il progetto Anella Verda della Diputació de Barcelona. Il progetto intende creare una corona di spazi di speciale protezione ambientale nell’AMB e costituisce la Xarxa de Parcs Naturals. Nel 1996 il progetto Life dell’Unione Europea finanzia una ricerca sugli spazi agricoli periurbani nell’AMB e la presentazione al concorso è funzionale alla creazione del Consorci del Parc Agrari del Baix Llobregat, che si costituisce formalmente nel 1998. Fanno parte del Consorzio la Diputació de Barcelona, il Consell Comarcal, i quattordici Comuni coinvolti e la Unió de Pagessos, cioè i rappresentanti del settore agrario locale.
Nel 2002 viene redatto il Pla de Gestió i Desenvolupament del Parc (PGD) e, nel 2004, si approva il Pla Especial de protecció i millora del Parc Agrari del Baix Llobregat (PE). Il Consorci è l’ente gestore del Parco che, dotato di iniziativa, di risorse - umane ed economiche - e di competenze, promuove lo sviluppo economico delle aziende agrarie e il mantenimento e il miglioramento della qualità ambientale del Parco, partendo da una gestione integrale dello spazio agrario, divisa in quattro ambiti: produzione, commercializzazione, risorse e ambiente. Il Pla Especial, come figura urbanistica, delimita l’ambito territoriale del Parco Agrario, ne regola l’utilizzo e ne definisce le infrastrutture generali, mentre il Pla de Gestió i Desenvolupament stabilisce le linee strategiche, gli obiettivi specifici e le misure di intervento per i diversi ambiti di gestione dell’ente, basandosi sull’obiettivo generale del parco e sull’accordo tra i membri dell’ente. Il PE e il PGD hanno lo stesso scenario – il Parco Agrario – nonostante presentino alcune caratteristiche diverse in base alle loro finalità e al loro ambito di competenza. Il primo ha finalità urbanistiche e territoriali e le sue proposte sono “normative” per legge, mentre il secondo ha finalità di gestione, le sue proposte sono “indicative” e diventano “normative” esclusivamente entro i limiti stabiliti dalla volontà dei membri.
L’obiettivo generale del Pla Especial è il mantenimento dello spazio agricolo della bassa valle e del delta del Llobregat come elemento di equilibrio del territorio metropolitano. Alla base del PE vi è il mantenimento della maggior estensione possibile di suolo agricolo, attribuendogli un proprio modello strutturale. Tra gli obiettivi specifici, troviamo il raggiungimento di una produzione agraria competitiva e di qualità, la tutela degli spazi naturali e del patrimonio culturale e paesaggistico. Il PE introduce i cosiddetti Plans Rectors de Desenvolupament (PRD) che costituiscono i progetti tematici di ordinamento e determinano le misure di tipo urbanistico, produttivo, ambientale e paesaggistico. I PRD vengono redatti ed approvati dal Consorci.
La figura del Parc Agrari e gli strumenti di gestione ad esso collegati (Pla de Gestió e Pla Especial de Protecció) sono stati fondamentali per poter tutelare i suoli agricoli del Parco contenendo l’espansione urbana e per far sì che l’agricoltura sia la protagonista indiscussa della zona. E’ importante ricordare che, a differenza della soluzione adottata per lo spazio agricolo di Gallecs (in cui l’obiettivo chiave è la tutela ambientale), nel caso del Parc Agrari del Baix Llobregat l’adozione del PE è funzionale ad una logica prevalentemente produttiva, orientata al mantenimento e miglioramento della produzione agricola locale.
In definitiva, lo scopo del Parco Agrario del Baix Llobregat è consolidare la presenza degli agricoltori sul territorio e rendere possibile il mantenimento di spazi agrari periurbani attivi. E’ necessario inoltre conoscere, condividere le esperienze e partecipare a tutte quelle azioni a livello europeo il cui obiettivo comune sia la difesa, regolamentazione, gestione e sviluppo degli spazi agrari periurbani. Il futuro del Parco Agrario, situato in un territorio soggetto ad una costante pressione urbanistica, dipende dalle azioni volte alla sua preservazione che si sviluppano al suo interno; ma anche dalla loro diffusione esterna, perché possa formar parte di un movimento europeo dell’agricoltura periurbana, senza rimanere un semplice caso isolato.
Conclusioni
La gestione del fenomeno periurbano è un tema appassionante ed estremamente attuale. Le aree periurbane, prive di caratteristiche fisiche specifiche, si definiscono a partire da una serie di fattori condizionanti (accessibilità, prezzo del suolo, etc.) che le espongono costantemente alla pressione urbanistica e le rendono appetibili per l’instaurarsi di tutte quelle attività che la città consolidata rifiuta. Il mancato coordinamento tra pianificazione urbanistica e territoriale ha determinato una nuova forma di organizzazione spaziale, estremamente vulnerabile e precaria. La sovrapposizione degli interessi territoriali dei singoli comuni, senza uno schema direttivo di ambito superiore, si materializza in un’innumerevole quantità di aree, favorendo lo sprawl urbano.
La “linea rossa” che separa città e campagna non è più assimilabile ad un limite definito, bensì ad una frangia di contatto tra due ecosistemi differenti, un’area con caratteristiche ibride che funziona da elemento regolatore. Si tratta di spazi di mediazione e di transizione, sui quali si genera un forte impatto ambientale e che accolgono funzioni strategiche per la città (approvvigionamento idrico, alimentare, trattamento dei rifiuti, etc.). E’ importante essere consapevoli di questo nel momento in cui si realizzano le scelte di piano. Come dimostra l'esempio di Gallecs, per sottrarre queste aree alla progressiva espansione della città e all'espulsione di funzioni urbane, non è sufficiente considerarle come zone di protezione ambientale, bensì è vitale dar loro una funzione produttiva, in questo caso agricola.
Gli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica devono essere accompagnati da un’attenta fase di gestione, che includa progetti, attività e finanziamenti, soprattutto nelle aree ad economia più debole (come nel caso dell’agricoltura biologica). La storia de Baix di Llobregat indica una possibile strada da percorrere: smetterla di pensare al concetto di gestione associandolo necessariamente a quello di gestione urbanistica e provare a coordinare le politiche agrarie con la pianificazione urbanistica, pensando all’interesse collettivo dominante, cioè l’uso razionale del suolo.
Qui di seguito è scaricabile il testo impaginato con le note bibliografiche
Il modello di crescita milanese sta progressivamente scardinando il sistema verde di corona che verrà sostituito da un anello stradale, più funzionale al rilancio della “grande economia lombarda”
Le politiche infrastrutturali in atto nella regione urbana milanese stanno progressivamente portando il limite della città dall’anello verde, la greenbelt metropolitana istituita a questo scopo negli anni ’70 e ’80, verso un nuovo confine, che sarà rappresentato dal nuovo sistema di tangenziali, una nuova cintura nera appunto. Nelle sedi decisionali lombarde i temi infrastrutturali prevalgono così su una più complessiva gestione del territorio ed emerge una drammatica assenza dell’urbanistica nei dibattiti che hanno affrontato questi temi. Le scelte infrastrutturali sembrano essere le uniche in grado di rilanciare lo sviluppo e l’economia nascondendo però, come effetto tutt’altro che secondario, anzi forse cercato, quello di favorire interessi privatistici e spinte speculative. Attualmente la regione urbana milanese conta circa 3.500.000 abitanti, per un’estensione territoriale di circa 1.800 kmq che ospita, giornalmente, un transito di oltre 900.000 veicoli.
Milano ha un assetto urbano radiocentrico, con tre anelli di circonvallazioni e una serie di assi radiali sui quali vengono convogliati i flussi di traffico in entrata e in uscita dalla città. Questa struttura, nel corso del tempo, ha contribuito al radicarsi di alcune criticità quali l’accentramento di funzioni di qualità all’interno dei confini municipali e il traffico crescente dato dagli spostamenti periferia-centro che, oltre a creare congestione, hanno pesanti ripercussioni in termini di inquinamento atmosferico ed acustico. Alcune di queste questioni erano già state affrontate durante la prima esperienza di pianificazione intercomunale del milanese, che risale alla fine degli anni ’60. Gli studi elaborati in merito dal PIM prevedevano la formazione di una corona di verde metropolitano, una greenbelt, che aveva lo scopo di aumentare la dotazione ambientale della regione e di limitare la dispersione insediativa, fenomeno iniziato nell’hinterland con il processo di industrializzazione e le conseguenti migrazioni del Dopoguerra, che avevano fatto crescere le periferie. La cintura verde di scala metropolitana ha preso progressivamente forma nei successivi piani territoriali comprensoriali degli anni ’80 e nelle due leggi regionali con le quali sono stati istituiti i parchi regionali e di cintura, che sono soggetti a una disciplina improntata alla tutela e alla valorizzazione.
A distanza di qualche decennio però le politiche territoriali e amministrative perseguite non hanno saputo rispondere in modo adeguato alle nuove questioni emerse in campo economico e sociale, contribuendo a generare nuove criticità:
- Degrado del sistema ambientale. Ampie aree non edificate, in ambito urbano e periurbano, sono abbandonate e trascurate, hanno una scarsa qualità ambientale e appaiono come delle “no-man’s land”, delle terre di nessuno che, senza previsione di valorizzazione e/o riutilizzo, sembrano solo attendere l’ennesima operazione immobiliare;
- Sfaldamento del tessuto produttivo. I processi di dismissione e delocalizzazione industriale, che hanno interessato Milano e il suo hinterland a partire dagli anni ’70, hanno lasciato in eredità ampi recinti industriali che, in assenza di politiche di recupero e riqualificazione, appaiono in stato di degrado e abbandono;
- I diversi livelli di governance locale hanno molte difficoltà a elaborare piani coerenti e politiche unitarie, rivelando una difficoltà di comunicazione che si tramuta in un continuo tentativo di scaricare ad altri competenze e responsabilità;
- Il modello insediativo per isole monofunzionali è diventato l’elemento base del processo di dispersione e crescita suburbana dell’hinterland,con quanto ne consegue in termini di segregazione spaziale e sociale, ma anche di sperpero di risorse quali il territorio;
- Assenza di una visione strategica capace di guidare un processo con un obiettivo di sviluppo e non unicamente di crescita. Percorso non certamente favorito dall’impianto normativo vigente in Lombardia, sempre più imperniato sull’urbanistica contrattata e negoziata;
- Dipendenza dall’automobile. Il sistema attuale dei trasporti pubblici milanese appare all’incirca lo stesso di quello degli anni ’70, non sono stati realizzati nuovi progetti per aumentare le linee delle metropolitane o i tram, solo il progetto Passante, a oltre 40 anni dalla sua elaborazione, è stato attivato lo scorso anno, peraltro con molte contraddizioni. Questo spinge molti pendolari a ricorrere all’auto privata per accedere e per spostarsi in città.
L’attuale assetto stradale risente ancora oggi dell’impianto urbano radiocentrico, orientato verso il centro, che penalizza le potenziali connessioni trasversali tra i poli di maggiore importanza. Questo anello di tangenziali (Est, Ovest e Nord) delimita, sempre più a stento, il sistema insediativo dell’area milanese che appare sempre più congestionata ed ingolfata dal transito dei 900.000 veicoli giornalieri.Mettendo in relazione l’attuale assetto infrastrutturale con i dati sulla densità insediativa si può rilevare come l’espansione dell’area metropolitana abbia raggiunto l’anello delle tangenziali grazie a un processo espansivo della metropoli che ha generato una “crescita senza qualità”, la cui forma fisica forse più rappresentativa è la successione interminabile di capannoni sull’autostrada A4, Milano-Bergamo. Di fronte a questi processi incontrollati di espansione urbana, che hanno progressivamente aumentato la congestione della regione metropolitana, non sono stati elaborati modelli di sviluppo territoriale; piuttosto si è optato per delle scelte infrastrutturali che, seppure compaiono unitariamente in qualche studio commissionato dalla Regione Lombardia più di 20 anni fa, sono oggetto di annunci frammentati, nei quali si cerca di persuadere l’opinione pubblica che la realizzazione di una tangenziale esterna risolverà il problema del traffico e rilancerà la “grande economia lombarda”.
Il primo progetto, in ordine cronologico, è quello per la realizzazione della Pedemontana, seguita dall’autostrada Bre.Be.Mi., dalla nuova tangenziale Est Esterna e infine dalla nuova Tangenziale Ovest Esterna. Questa che abbiamo chiamato la “cintura nera” di Milano si chiude sulla Statale 336, già realizzata e in uso da qualche anno quale opera di collegamento all’aeroporto di Malpensa.
Il progetto della Pedemontana prende forma, dopo discussioni durate 50 anni, all’inizio degli anni 2000. Per la sua realizzazione la Regione Lombardia ha dovuto richiedere una deroga al blocco statale per l’apertura di nuove autostrade, ottenuta a metà degli anni ’80. Da qui prende forma la nuova società Autostrada Pedemontana Lombarda S.p.A. con il compito di gestire l’opera che, nel 2003, viene inserita nelle procedure della Legge Obiettivo. Il lavoro di progettazione si conclude nel 2009 con l’approvazione del CIPE e all’inizio del 2010 aprono i primi cantieri in provincia di Varese.L’obiettivo della Pedemontana è quello di decongestionare il traffico stradale a nord di Milano tramite la realizzazione di 90 Km di autostrada e 70 Km di nuova viabilità provinciale e comunale connessa: oltre 160 km di strade che collegheranno Bergamo, Monza e Brianza, Milano, Como e Varese entro il 2015.
Il Progetto Brebemi alla fine degli anni '90 per collegare in modo più efficiente e veloce (tanto che è chiamata la Direttissima) le città di Milano, Bergamo e Brescia, in quanto si ritiene l’esistente autostrada A4 non più sufficiente. Nella fase di progettazione vengono coinvolti diversi attori: le Camere di Commercio, le Province e le Associazioni Industriali di Brescia, Bergamo, Cremona e Milano, insieme a Banca Intesa, che costituiscono la società Brebemi S.p.A., a cui hanno poi aderito i maggiori concessionari lombardi ed enti locali interessati. La nuova Società ha promosso l'attuazione dell'opera redigendo e presentando all'ANAS il progetto dell'autostrada in totale autofinanziamento, secondo la formula del project financing. In un annuncio per la stampa si legge che: “La realizzazione della Brebemi è innovativa anche sotto il profilo finanziario. Si tratta della prima infrastruttura stradale ed autostradale italiana realizzata in completo autofinanziamento senza oneri per i contribuenti e lo Stato. Tutte le risorse necessarie per la realizzazione del progetto saranno ottenute attraverso il ricorso al finanziamento bancario ed ai mezzi finanziari messi a disposizione dai Soci. L'investimento pertanto verrà ripagato esclusivamente attraverso i ricavi dei pedaggi.” (operazioni finanziarie successive evidenziano una diversa realtà, come il coinvolgimento della Cassa Depositi e Prestiti). Il progetto definitivo, approvato dal CIPE nel giugno 2009, consente di avviare i lavori nei mesi successivi in quanto la sua entrata in esercizio è prevista per il 2013.
Il progetto per una nuova arteria autostradale che raccordi i flussi veicolari provenienti dall’autostrada A4 (Milano-Venezia) e dalla nuova Direttissima Bre.Be.Mi. con l’autostrada A1 (Milano-Bologna) risale all’anno 2003 e fu presentato dalla giunta provinciale presieduta da Ombretta Colli, che già aveva fortissimamente voluto Bre.Be.Mi. In questo caso però, a partire dal processo di progettazione, c’è da rilevare un’importante variante: la nascita dell’Associazione dei Comuni per la mobilità, composta dai Sindaci di quei comuni interessati dal tracciato, che ha obbligato la nuova Giunta Provinciale di Penati, appena insediata, a ragionare insieme sulle sorti della nuova infrastruttura. Incontri e mediazioni che hanno consentito di raggiungere un’intesa, apportando alcune integrazioni al progetto presentato. Le richieste dei Comuni avevano l’obiettivo di promuovere un modello di sviluppo territoriale condiviso, basato su un sistema di mobilità pubblico/privata integrato e sostenibile e sulla gestione di un modello insediativo non più esclusivamente legato alla crescita e alla diffusione urbana. Il lavoro delle amministrazioni del territorio ha portato alla sottoscrizione dell’Accordo di programma (2007), dal titolo: “la realizzazione della tangenziale est esterna e il potenziamento del sistema di mobilità dell’est milanese e del nord lodigiano” che comprende, (o meglio, comprendeva), oltre al progetto della nuova tangenziale, importanti opere di riqualificazione e di integrazione delle strade esistenti oltre al potenziamento delle reti di trasporto pubblico su gomma e su ferro.
Nel frattempo è stata fondata la società Tangenziale Esterna spa, creata ad hoc per questa infrastruttura, che ricorrerà allo strumento del project financing per l’esecuzione del progetto, cioè si accollerà il costo della tangenziale e delle opere di riqualificazione sulle strade esistenti a fronte della concessione autostradale per i prossimi 50 anni, mentre i costi per il trasporto pubblico sono in capo alle amministrazioni pubbliche. La sgradita sorpresa è giunta con la presentazione del progetto definitivo, nello scorso mese di febbraio, che abbandona molte delle condizioni presenti nell’Accordo di Programma sottoscritto nel 2007. Nell’evoluzione del progetto, infatti, i costi dell’opera sono aumentati di circa 300 milioni di euro, cifra che impone alla società di effettuare dei tagli per rientrare nel proprio piano finanziario e, ovviamente, le opere a rischio sono proprio quelle per l’integrazione del sistema di mobilità, senza le quali un nuovo ramo di tangenziale genererà la saturazione delle strade esistenti. Ad aggravare questo scenario si aggiungono i tagli di quei fondi statali che avrebbero dovuto finanziare i prolungamenti di alcune linee della metropolitana.
Le principali criticità del mancato rispetto dell’Accordo di Programma della TEEM servono per comprendere alcune ricadute negative indotte da tutte le precedenti scelte infrastrutturali, che si possono sintetizzare in:
- mancata elaborazione di un sistema di mobilità coerente ed integrato, di primaria importanza per rispondere alle differenti e rilevanti esigenze infrastrutturali dell’intero comparto territoriale;
- le scelte localizzative de tracciati sono in forte contrasto con la vocazione agricola dei territori attraversati, che verrà fortemente compromessa. In un territorio dotato di un tessuto agricolo ancora attivo, l’inserimento del tracciato della nuova autostrada determinerà una forte frammentazione dei fondi coltivati, con conseguenti problemi di discontinuità delle aziende agricole, che quindi subiranno ingenti danni. E ancora, la localizzazione di molte delle cave estrattive, che saranno al servizio dei nuovi cantieri, sembra non considerare adeguatamente il precario e delicato equilibrio di questo territorio, nel quale la presenza di numerosi fontanili e di un livello di falda piuttosto superficiale possono causare seri problemi al suo assetto idrogeologico;
- in assenza di strumenti e di organi sovra locali con specifiche competenze di pianificazione sarà impossibile prevedere uno sviluppo territoriale complessivo da attuare attraverso il coordinamento e la programmazione delle scelte urbanistiche dei singoli enti locali. Strumenti di concertazione e negoziazione sperimentale, come ad esempio i sistemi di compensazione e perequazione territoriale, che potrebbero promuovere un modello di sviluppo sostenibile ispirato ad un sistema insediativo capace di andare oltre la logica della crescita, non possono essere demandati esclusivamente al livello di governo locale. Nuove politiche localizzative dettate da maggiori livelli di accessibilità, garantiti dal nuovo assetto infrastrutturale, dovrebbero essere compensate con altrettante azioni di salvaguardia ambientale e di tutela del territorio, al fine di minimizzare il consumo di suolo diffuso e generalizzato, dettato da interessi esclusivamente finanziari, che non trovano giustificazione nelle valutazioni relative ai fabbisogni abitativi.
L’Associazione dei Comuni nata con il progetto TEEM è nel frattempo naufragata, a causa dei numerosi cambi di Amministrazioni in molti dei Comuni coinvolti, che hanno agevolato la scelta della società concessionaria di trattare con le singole Amministrazioni Comunali anziché interfacciarsi con l’Associazione firmataria dell’Accordo di Programma. Molte Amministrazioni Locali, seppur per motivazioni diverse, chi per ragioni di appartenenza politica e chi per dare un po’ di sollievo ai propri bilanci comunali, hanno accettato le offerte economiche proposte dalla società a titolo di risarcimento per la mancata realizzazione delle opere di compensazione in precedenza concordate. In questo modo gli interessi di una classe di amministratori miopi e orientati a politiche fortemente localistiche stanno soffocando quella che si era dimostrata una valida e propositiva iniziativa di coordinamento istituzionale volontario.
Ed infine, per completare la cintura metropolitana, nella proposta di adeguamento del PTCP della Provincia di Milano, presentata nei primi mesi del 2011, mentre ancora si discuteva dei tagli per la realizzazione della TEEM, ecco l’annuncio per la nuova Tangenziale Ovest Esterna: l’ennesimo progetto stradale calato dall’alto, realizzato senza il coinvolgimento delle comunità locali né dei suoi rappresentanti, che attraverserà un territorio pregiato di forte valenza agricola. La nuova infrastruttura stradale attraverserà il Parco Agricolo Sud Milano e collegherà Melegnano a Magenta, completando così la “cintura nera” metropolitana. Qui, ancora di più che negli altri ambiti della regione, è evidente il forte impatto che la nuova tangenziale avrà sul sistema ambientale e paesaggistico esistente.
Pedemontana + Bre.Be.Mi e Tangenziale Est esterna + Tangenziale Ovest Esterna + l’esistente SS 336 tracciano il nuovo "anello" esterno di tangenziali, con un diametro medio di 45/50 chilometri circa (una cosa tipo l'anello autostradale che circonda Londra).
Questo nuovo anello stradale, che abbiamo chiamato “cintura nera”, sconfigge nettamente l’dea di greenbelt metropolitana elaborata negli anni e delimiterà i nuovi confini metropolitani di Milano. E’ facile prevedere, in assenza di politiche territoriali di scala vasta, uno “scenario tendenziale” per questo territorio composto da due differenti fenomeni: un processo di densificazione privo però di indirizzi e di funzioni qualificanti per il margine interno della cintura stradale e un processo di sprawl diffuso e massacrante (peraltro già in atto) nel margine esterno, che vede una diffusione soprattutto di capannoni e strutture per la logistica.
Sono molte le esperienze nazionali e internazionali che testimoniano come l’anello stradale sia un presupposto, quasi una pre-condizione, del processo di crescita e dispersione urbana difficilmente governabile e controllabile. Questo appare ancora più evidente per un territorio, come quello dell’hinterland milanese, dove il governo del territorio si traduce quasi unicamente in valorizzazione fondiaria del suolo, dimenticando che la pianificazione urbanistica non è data dalla somma algebrica di operazioni immobiliari e i problemi della città non si risolvono aumentando le capacità edificatorie dei piani e neppure realizzando nuove superstrade che innescano perversi meccanismi speculativi dettati da un aumento della rendita di terreni a vocazione agricola che progressivamente vengono resi edificabili. Se esistesse un livello di governance sovra-locale si potrebbe pensare a un’accorta strategia di “perequazione territoriale” che guiderebbe un processo di densificazione supportato però da logiche localizzative per alcune funzioni di qualità da “strappare” a Milano città e dalla valorizzazione delle funzioni agricole e delle risorse ambientali che si stanno perdendo.
L’unico livello istituzionale esistente in grado di poter affrontare e supportare un tale indirizzo strategico è quello provinciale ma, nel caso di Milano, la Provincia, guidata da Podestà, non sembra per nulla interessata ad assumersi tale ruolo. Anzi, nei documenti elaborati in preparazione dell’adeguamento del PTCP vigente, viene rimarcata la necessità di potenziare il sistema infrastrutturale che, così com’è, è un limite allo sviluppo dell’economia milanese, per il rilancio della quale si propone il tracciato TOEM, l’ultimo arco che mancava per chiudere il cerchio. Nonostante, sempre nei documenti si legga: “Il PTCP non esprime una propria visione infrastrutturale ma si limita ad un ruolo di registrazione delle previsioni.” Nel PTCP, a fronte del nuovo assetto infrastrutturale, non viene citata alcuna strategia volta a decongestionare l’area urbana di Milano e indirizzare uno sviluppo qualificante dell’hinterland.
Ed ecco che la gestione del territorio rimane in capo alle Amministrazioni Comunali e ai loro Piani di Governo del Territorio che, per quanto virtuosi, sono inadeguati per affrontare processi sovralocali di ordine economico oltre che sociale, che travalicano i tradizionali confini amministrativi. Questo approccio, strettamente localistico e miope, non solo porta alla frammentarietà territoriale ma risulta anche non idoneo per formulare una visione del futuro all’altezza delle sfide a cui questa città è chiamata a rispondere.Del resto non si può che prendere atto dei forti limiti che hanno condizionato negativamente l’esito delle esperienze di pianificazione intercomunale avvenute nella regione milanese, che, seppure per motivi diversi, sono fallite. È sempre più urgente ragionare in termini di “territori”, (ad es. le Unioni dei Comuni) a cui corrispondano dei livelli di governo istituzionale riconosciuti, con compiti di governo del territorio che vadano dalla pianificazione territoriale alla gestione dei servizi pubblici.
Solo in questo modo si può istaurare un dialogo potenzialmente virtuoso tra politiche territoriali e scelte infrastrutturali che, insieme, possono portare all’elaborazione di scenari di sviluppo per il futuro.
Un esperienza che presenta un maggiore livello di conoscenza e approfondimento proprio sul tema del limite dell’area urbana, che per noi può essere considerata una good practice, è quelladella regione di Portland, in Oregon, dove lo spostamento del margine dell’urbanizzato è un’occasione per attivare un processo di partecipazione e di discussione sul futuro della regione metropolitana. In Oregon la normativa vigente prevede che il Consiglio metropolitano verifichi, ogni 5 anni, l’espansione della regione urbanizzata, in relazione alle previsioni di popolazione e attività produttive previste nell’arco temporale dei 20 anni. L’ultimo report, che risale al dicembre 2009, evidenzia come gli attuali confini siano sufficienti per contenere le previsioni fino al 2011, dopodiché occorrerà ampliarsi, urbanizzando le “aree di riserva urbana”.Da qui ha inizio un dibattito, che coinvolge istituzioni e cittadini, nel quale il “dove e come” spostare la linea di confine si tramuta in una riflessione sullo sviluppo territoriale e sociale dell’intera regione.
Nel 2010 l’ente che rappresenta l’area metropolitana di Portland elabora un rapporto, che, già dal titolo, “costruire una sostenibile, prospera ed equa regione”, propone un innovativo approccio integrato alle questioni di governo del territorio: investimento di risorse pubbliche, politiche per il lavoro e per l’accesso alla casa, indirizzi di tutela per le risorse agricole e valorizzazioni di quelle forestali sono solo alcuni dei temi affrontati. Il rapporto contiene, inoltre, differenti proposte su quali aree di riserva urbanizzare analizzando, per ogni alternativa, le relative conseguenze e ricadute. Anche le diverse amministrazioni hanno elaborato osservazioni e proposte al riguardo, che contribuiscono a definire i contenuti dei provvedimenti conclusivi. Tra il 2010 e il 2011 il Consiglio metropolitano approva due provvedimenti che si orientano verso politiche di riuso dell’esistente e verso potenziamento dei poli già consolidati, all’interno quindi del limite urbano esistente,almeno per quanto possibile.
Nell’agosto del 2011 è infine approvato dall’Agenzia per lo sviluppo e la tutela del territorio dell’Oregon il provvedimento con il quale il Consiglio Metropolitano aumenta la dotazione di aree di riserva urbana e rurali: sono previsti 13.500 acri per le future espansioni urbane in prossimità al tessuto esistente e oltre 151.000 acri di riserva rurale attorno a tutta la regione. Come è possibile vedere dalla mappa, le aree per i nuovi insediamenti non snaturano la forma compatta dell’urbanizzato, incentivando così politiche di riqualificazione e investimento per aumentare la qualità degli ambiti urbani esistenti.
Appare evidente che le differenze tra i contesti di Portland e di Milano sono molto forti, ma altrettanto evidente appare il diverso approccio ai temi della pianificazione, e in particolare alla capacità di saper progettare il proprio futuro.Nell’area milanese l’esistente cintura verde è interpretata come un “terreno di conquista” da sacrificare per accontentare qualche interesse forte, di tipo strettamente speculativo. Il nuovo anello di autostrade non solo comprometterà la dotazione ambientale esistente ma innescherà processi di crescita immobiliare slegati dai reali fabbisogni abitativi e produttivi, che saranno difficilmente governabili ma che contribuiranno a consolidare pratiche di sfruttamento e sperpero delle risorse territoriale ed ambientali, che genereranno degrado nel contesto milanese. A Portland invece si riconosce il ruolo fondamentale della corona verde metropolitana per migliorare la qualità della vita dell’intera comunità insediata. Il tema dell’ampliamento della città è un’occasione di partecipazione e di collaborazione interistituzionale, un esercizio di progettazione per la “città del futuro” che coinvolge differenti settori e smuove risorse plurali. In Italia, e a Milano in particolare, dove le questioni territoriali sono affrontate in modo settario e frammentato e dove molto spesso l’urbanistica è utilizzata solo in chiave infrastrutturale ed ambientale, è quanto mai urgente ricomporre un fronte istituzionale in grado di elaborare uno scenario di sviluppo di scala metropolitana, all’interno del quale selezionare i necessari supporti infrastrutturali e le idonee compensazioni ambientali per la sua attuazione.
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1. Premessa. Il potere delle parole
Come nelle precedenti edizioni, apriamo i lavori della scuola con una riflessione su parole che toccano da vicino la città nel tentativo di comprendere la loro ambiguità e il loro uso da parte dell’ideologia dominante, ma anche la loro potenzialità ai fini della rinascita di un pensiero critico e della loro utilizzazione come strumento di resistenza e di costruzione di pratiche contro-egemoniche.
L’interesse per le parole, la necessità di chiarirne significati, interpretazioni, slittamenti e la strumentalità che spesso ne caratterizza l’impiego, hanno caratterizzato la scuola di eddyburg fin dal suo inizio. La convinzione della centralità del loro ruolo e della necessità di rivelarne i significati e svelarne le ambiguità si è consolidata nel tempo. Man mano, ci siamo accorti come gran parte delle malefatte che avvenivano nel territorio e nella società derivavano da un pensiero comune finalizzato alla diffusione di un’ideologia perversa che orientava gli avvenimenti e foggiava gli strumenti necessari per la trasformazione della realtà.
Questa prima giornata ha un duplice obiettivo.
Primo. A partire dall’analisi delle parole e dei discorsi, vogliamo fornire alcuni strumenti critici per comprendere meglio gli avvenimenti e i fenomeni urbani e territoriali di questi ultimi decenni che saranno illustrati nella II e III giornata della scuola. Dopo parole come benessere, vivibilità, povertà, competizione , spazio pubblico , potere , che abbiamo affrontato nelle passate edizioni della scuola, eccoci ad affrontare la parola che forse più di ogni altra è stata capace di plasmare un’epoca. Per oltre sessant’anni il concetto di “sviluppo” come sinonimo di progresso, civilizzazione, e positività a priori (senza il bisogno di qualificare lo sviluppo con un attributo) non solo ha orientato le politiche di tutti i paesi del mondo, ma ha colonizzato le menti, impedendo ad altre concezioni di crescere, di essere approfondite e discusse. Attraverso l’analisi critica alla parola “sviluppo” sosterremo la tesi che questo concetto è inadeguato sia a comprendere i fenomeni che a dare risposta ai bisogni e alle questioni che il genere umano esprime in questa fase della sua storia.
Secondo obiettivo. Vogliamo alimentare la discussione intorno a paradigmi alternativi che esprimono un’idea di società diverso e profondamente in antitesi a quella implicita nell’ideologia dello ”sviluppo”. Proponiamo il concetto di “beni comuni” come alternativa, concettuale e politica, per trasformare la società e l’habitat dell’uomo in funzione del benessere degli abitanti di oggi e di quelli che devono venire, tendendo conto della limitatezza delle risorse naturali e della conoscenza umana, della diversità delle culture e della dignità che ognuna di queste possiede e della prevalenza dei valori di rispetto, uguaglianza e pace.
In entrambi i casi il fulcro di questa giornata è sulle parole, sui concetti e i discorsi ad esse legate, spiegati nel contesto socio-economico, politico e culturale in cui essi si formano. Perché, è importante sottolineare che il linguaggio è una pratica sociale. Ciò significa che esiste una relazione dialettica, reciproca, tra linguaggio e società. Quando parliamo, scriviamo, ascoltiamo, leggiamo lo facciamo in un modo che dipende dalla società, dall’insieme delle relazioni e delle contingenze socio-economiche, politiche e culturali in cui la nostra società si trova.
Nello stesso tempo le parole hanno degli effetti, delle ricadute sulla società, non ultimo il potere di modificare la realtà materiale. Con le parole produciamo concetti, categorie, teorie attraverso cui rappresentiamo, comprendiamo e progettiamo il mondo, diamo un significato al mondo che ci circonda e con il quale ci rapportiamo, dalle relazioni sociali agli oggetti fisici.
Il discorso comprende il testo (scritto, parlato, visivo) e tutti i processi che consentono di interpretarlo, produrlo e riprodurlo. Nell’affrontare questi processi noi attingiamo ad una serie di risorse nella nostra mente: quelle linguistiche, la grammatica, la sintassi ma anche quelle legate ai valori, alle credenze che si formano via via nel corso della vita, attraverso le relazioni con le altre persone, il lavoro, la scuola ecc. e dipendono da una serie di convenzioni che la società impianta attraverso le istituzioni, i comportamenti, le pratiche.
Questo insieme di convenzioni è determinato dalle relazioni di potere. I discorsi, scritti e parlati, sono un ottimo veicolo per il potere perché attraverso essi si può affermare una certa idea del mondo, e attraverso questa idea si possono quindi affermare certe pratiche, certi modi di fare piuttosto che altri. Il potere che si esercita attraverso il discorso, attraverso la parola non è un potere coercitivo, ma un potere che si acquisisce attraverso il consenso, sia attraverso la comunicazione con la quale si convince, sia attraverso l’inculcazione, cioè una sorta di persuasione che avviene in maniera recondita, non consapevole. Parliamo quindi del potere in termini di egemonia.
Due sono i concetti principali che analizzeremo oggi. Da una parte il concetto di “sviluppo” una parola che ha conquistato un potere immenso, è diventata egemonica; lo dimostra il fatto che essa ha acquisito uno stato di “senso comune”, ovvero di verità indiscussa. Come sosterrò più avanti, riprendendo la metafora di Gilbert Rist, lo sviluppo è una vera e propria credenza egemonica. Dall’altra parte abbiamo il concetto di “beni comuni” che si pone come paradigma alternativo e profondamente in contestazione a quello esistente e presuppone un cambiamento radicale del sistema socio-economico esistente; siamo quindi in presenza di un concetto contro-egemonico.
Il rapporto tra queste due parole e i diversi mondi che esse prefigurano è quello che Gramsci chiama “lotta per l’egemonia”, poichè essa è combattuta innanzitutto a livello dei discorsi e delle idee. E’ una lotta per ottenere il consenso, in cui le parole diventano armi potenti per affermare un’ideologia e un progetto di società in contrapposizione.
L’egemonia è appunto il potere essenzialmente (ma non esclusivamente) esercitato attraverso il discorso e basato sul consenso anziché per via coercitiva (in maniera esplicitamente violenta, o anche più subdola), cioè attraverso l’acquisizione di un’acquiescenza più o meno generalizzata. Analizzare criticamente le parole significa individuare le relazioni di potere nella loro connessione ai processi di formazione del sapere e di formulazione delle politiche, significa comprendere chi ha conferito autorità ed efficacia performativa alle parole, e quindi comprendere chi tira i fili e quali interessi vengono difesi e quali no.
Il potere del linguaggio può esercitarsi attraverso tre principali pratiche :
• l’adozione di pratiche e discorsi universalmente accettati e seguiti perché nessuna alternativa possibile sembra concepibile, immaginabile;
• l’imposizione di pratiche attraverso un esercizio del potere ‘nascosto’, non esplicito ( l’inculcare);
• l’adozione di pratiche che vengono adottate attraverso un processo di comunicazione razionale e di dibattito (il comunicare).
Questi tre meccanismi sono tutti presenti nella società contemporanea, ma l’inculcare e il comunicare sono i più diffusi.
Generalmente l’inculcare viene adottato per ricreare, artificiosamente, l’universalità del primo meccanismo, ed è usato da chi detiene il potere (e vuole mantenerlo) poiché dipende strettamente dall’autorità. Questo è il modo in cui l’ideologia dello “sviluppo” si è affermata ed è diventata egemonica. Nel caso dello “sviluppo”, come vedremo più avanti, il linguaggio è diventato strumento di potere e di legittimazione di politiche, decisioni, provvedimenti, leggi, decreti, conquiste e guerre per affermare, diffondere, rafforzare e difendere lo status quo, il sistema capitalistico.
La comunicazione razionale e il dibattito costituiscono invece soprattutto meccanismi di emancipazione, generalmente usati nella lotta contro il potere dominante. É insomma quello che faremo questa settimana qui alla scuola di eddyburg. Infatti il linguaggio può essere anche uno strumento di potere a favore del cambiamento, per trasformare la società verso un percorso diverso, che esca dal progetto di sviluppo e crescita illimitata. Per fare ciò occorre innanzitutto superare l’acquisizione acritica di supposizioni, “credenze”, che altri elaborano e inculcano come verità assolute (“senso comune”, secondo Gramsci) e connettere la vita concreta ad una profonda e critica comprensione di ciò che avviene intorno a noi, vicino e lontano, attivando invece il “buon senso”. Il buon senso non è altro che una consapevolezza critica, che ci consente di reagire ai discorsi attivamente e non passivamente, crearndo un legame con la vita reale e le difficoltà che viviamo ogni giorno. Senza questa consapevolezza non può esserci un’effettiva cittadinanza democratica, ed non è possibile promuovere un qualsiasi progetto di cambiamento sociale alternativo.
2. Le origini: il sermone di Truman (1949). Dallo sviluppo come concezione, all’affermarsi dello sviluppo come credenza
Il progresso è un ideologia, il divenire è una concezione filosofica. Il “progresso” dipende da una determinata mentalità, a costruire la quale entrano certi elementi culturali storicamente determinati; il “divenire” è un concetto filosofico, da cui può essere assente il “progresso”. Nell’idea di progresso è sottintesa la possibilità di una misurazione quantitativa e qualitativa: più è meglio. Si suppone quindi una misura fissa o fissabile, ma questa misura è data dal passato, da una certa fase del passato, o da certi aspetti misurabili…” [Antonio Gramsci, Quaderni del carcere]
Il termine sviluppare deriva da “viluppare” “togliere dal viluppo” o “sciogliere un viluppo” ovvero sciogliere un groviglio, dipanare una matassa, liberare da qualcosa che avvolge. Per analogia svolgere, distendere del tutto. In quest’ultima accezione è già presente l’altro significato essenziale del verbo, che diverrà predominate: svolgere nelle varie parti, rilasciare quelle potenzialità dell’oggetto o organismo in questione sino a che questo raggiunge la sua naturale forma finale.
Etimologicamente è importante fare riferimento al significato inglese della parola, perché è proprio in ambito anglosassone che avverrà il più importante slittamento del termine. Nel primo inglese moderno, la parola sviluppo, nell’accezione di svolgimento, derivava dal développer francese. Nel periodo delle rivoluzioni francese e inglese, la parola sviluppo entrò nella sfera dell'economia per indicare i cambiamenti economici e l'idea di progresso. Nel XVIII secolo è stato esteso metaforicamente alla facoltà della mente umana. La connotazione di evoluzione, che ha permesso l'uso metaforico del termine per spiegare il processo attraverso il quale l'organismo raggiunge la sua forma più appropriata e completa, si è compiuta alla metà del XVIII secolo con Darwin.
Il cambiamento più significativo è venuto dopo il 1945, quando è entrato in uso il concetto sottosviluppo, e lo sviluppo è stato associato all'idea che le economie e le società avrebbero dovuto passare attraverso prevedibili “fasi di sviluppo”. Espressioni come “retrogradi”, o “sottosviluppati”, divenne il modo per definire in modo permanente i paesi dell'Africa, dell'America Latina e Asia. Di conseguenza, lo sviluppo è diventato un progetto di dominazione in quanto mina la fiducia delle altre culture in esprimersi e portare avanti altri modi di pensare, di scegliere altri percorsi e progetti, riducendo i loro destini ad un modo essenzialmente occidentale di concepire, percepire e plasmare il mondo. Il discorso sullo sviluppo, che descrive lo sviluppo come un necessario, desiderabile, auspicabile, diventa quindi un potente strumento di potere dell'Occidente per plasmare l'immaginazione della gente, le loro speranze e progetti, nonché di gestire, controllare e persino inventare economicamente, politicamente, sociologicamente e culturalmente il “Terzo Mondo” .
Nel tempo vi è stata una riduzione del termine di sviluppo allo “sviluppo economico” compiendo una forte riduzione dei significati complessi e variegati che il termine sviluppo può esprimere. Sviluppo in se è un termine neutrale. Esso assume un significato compiuto se è qualificato, riferito ad un’altra parola, ed è a seconda della qualificazione che può avere un senso positivo o negativo. Così lo sviluppo di una malattia è certamente negativo; lo sviluppo della capacità di comprender o lo sviluppo di un’idea ha un significato positivo. La riduzione del termine di sviluppo al solo sviluppo economico è una prima mistificazione che è stata compiuta.
Ritorniamo alla storia. Vorrei soffermarmi su questo passaggio perché ci permette di comprendere l’arbitrario operato nell’assumere quella parola come sinonimo di progresso e di attribuirle così positività a priori, e vorrei mettere in evidenza come lo sviluppo sia stato un abile strumento di potere per orientare e plasmare la società in una determinata direzione. Il discorso di Truman del 1949 è un evento fondamentale che ha segnato la storia di questo concetto e ha dato inizio all’era dello sviluppo.
Vediamo di sintetizzare il contesto storico. Dalla fine della seconda guerra mondiale grandi eventi avevano cambiato la scena politica globale e trasformato profondamente i rapporti tra paesi ricchi e quelli poveri. I paesi asiatici e africani avevano contestato il sistema di sfruttamento e controllo del colonialismo mentre un forte nazionalismo stava crescendo nei paesi dell'America Latina. Gli Stati Uniti emersero come la prima potenza economica e militare nel sistema capitalistico mondiale, anche se la loro posizione era contestata dai regimi socialisti.
La guerra fredda veniva a modellare le relazioni internazionali e il “Terzo Mondo” diventava uno dei più importanti nuovi teatri di battaglia. La comunità internazionale guidata dagli Stati Uniti volgeva crescente attenzione ai paesi del “Terzo Mondo”. Demograficamente rappresentavano la più grande maggioranza del genere umano ed erano in crescita. Economicamente contenevano la maggior parte della crescente forza lavoro, erano fonti di grande quantità e varietà di materie prime e rappresentavano il più grande mercato del futuro per i prodotti industriali. Politicamente, con l’indipendenza stavano programmando il loro destino e quindi potevano diventare o nemici o alleati di sostegno nella lotta contro il comunismo.
In questo scenario di opportunità e minacce, con la dottrina Truman - introdotta nel 1949 dall'allora presidente degli Stati Uniti Harry Truman - si afferma il progetto di sviluppo e un efficace apparato, ha iniziato a prendere forma. Questo progetto di sviluppo era (ed è tuttora) destinato a replicare nel “Terzo Mondo” le caratteristiche della società occidentali capitalistiche avanzate: la democrazia, un alto livello di industrializzazione e urbanizzazione, la meccanizzazione dell'agricoltura, la rapida crescita della produzione materiale e dello standard di vita, così come l'adozione diffusa di valori tipici della cultura americana e anti-comunista.
Prima di tutto Truman ha inventato nel suo discorso un’identità nuova: i “sottosviluppati”, raggruppando in una sola categoria tutta la diversità inestimabile delle persone che vivono in Africa, Asia e l'America Latina. Quella stessa parola ha anche indicato la posizione dello “sviluppato” a cui tutte le persone e paesi del mondo dovevano aspirare. Una nuova era nella rappresentazione e controllo del “Terzo Mondo” cominciò e avrà conseguenze importanti anche sull’Occidente. Si afferma e diventa egemonico quello che Boaventura de Sousa Santos definisce come il pensiero abissale:
«una disposizione intellettuale, filosofica e politica, che si traduce nella capacità di tracciare linee attraverso le quali istituire divisioni radicali all'interno della realtà, rendendone una parte «riconoscibile», rispettata, rilevante, e condannando tutto il resto all'irrilevanza e all'inesistenza.» [B. de Sousa Santos, Beyond abyssal thinking. From global lines to ecologies of knowledges]
Prosperità e pace sono state le due giustificazioni principali addotte da Truman per diffondere lo sviluppo, e intraprendere crociate, mentre il cambiamento necessario doveva essere indotto dalla combinazione appropriata di tre ingredienti fondamentali: la produzione capitalistica - più cibo, più vestiti, più materiali per l'edilizia etc. - la scienza e la tecnologia. Tutto ciò che di importante nella vita sociale ed economica dei paesi poveri (la loro popolazione, le loro economie, risorse naturali, agricoltura e commercio, amministrazione, valori culturali, ecc) divenne così l'oggetto di calcolo da parte di esperti formati nella nuova scienza dello sviluppato.
Un altro elemento fondamentale di questa crociata è “l’aiuto allo sviluppo” o quello che oggi chiamiamo “cooperazione allo sviluppo” o “cooperazione internazionale”. In forma di assistenza scientifica e tecnica, conferiti per alleggerire il fardello dei poveri, l’aiuto è diventato la maschera dell'interesse e tornaconto degli Stati Uniti e dei paesi occidentali in generale .
Due procedure sono stati fondamentali per l’affermarsi di questo credenza e di tutte le pratiche necessaria alla sua implementazione: la professionalizzazione e l’ istituzionalizzazione dello sviluppo .
La “professionalizzazione” dello sviluppo consente ad alcune forme di conoscenza - generati e convalidati da un insieme di tecniche, strategie e pratiche disciplinari - e non altre di raggiungere e mantenere lo status di verità. Nel caso dello sviluppo questo è stato ottenuto con l'applicazione di discipline già esistenti, dalla demografia alla pianificazione, ai problemi di “Terzo Mondo” e con la creazione dell’economia dello sviluppo, che ha permesso l'inserimento progressivo di problemi, dalla povertà alla urbanizzazione, nel discorso dello sviluppo in modo congruente con il sistema eurocentrico e nord centrico di conoscenza e potere. L'intero processo di rappresentazione dei problemi e di costruzione delle sue soluzioni passa attraverso un sistema di misurazione, teorizzazione e normalizzazione basato e funzionale al progetto di sviluppo. In questo processo l’economista e il tecnico pianificatore/progettista svolgono un ruolo particolare nella nuova era dello sviluppo. L'economista è diventato l’esperto per eccellenza chiamato a decretare le verità più elementari. Il tecnico pianificatore/progettista è stato quello che ha applicato le conoscenze teoriche attraverso la pianificazione, lo strumento attraverso il quale l'economia è diventata utile ed è stata legata alla politica e allo Stato.
L’ istituzionalizzazione dello sviluppo si riferisce a quel complesso sistema di rapporti, programmi, conferenze, pratiche locali e così via attraverso le quale vengono prodotti e diffusi i discorsi, le tecniche e le procedure.
Il discorso dello sviluppo è cambiato molto nel corso dei decenni. L’evoluzione delle teorie sul capitale (umano, sociale, istituzionale, conoscitivo, ambientale) hanno arricchito di nuove dimensioni l’interpretazione dei processi di crescita e fornito nuove indicazioni strategiche. Queste si sono tradotte da una parte in nuove pratiche dall’altra in nuovi discorsi, che hanno visto emergere nuove parole, o vecchie parole con nuovi significati: come empowerment, capacity building e istitution building (cioè le competenze, i saperi e le capacità progettuali), accountability (capacità manageriale e l’efficienza) sustainability, governance e tutte le sue declinazioni, urban, local good, etc., che acquisiscono una notevole rilevanza anche nei confronti delle politiche urbane. Di conseguenza, nuove strategie, in nome dello sviluppo sono state invocate e nuove pratiche hanno avuto luogo.
Tuttavia, si è continuato a produrre lo stesso tipo di relazioni tra i donatori (l’occidente) e i beneficiari (“Terzo Mondo”), confermando lo stesso meccanismo di produzione di conoscenza e di esercizio del potere.
“… una linea abissale divide i «selvaggi», gli indigeni dal resto. Nelle colonie dunque non è mai valsa la tensione tra regolamentazione ed emancipazione sociale, che caratterizza invece il nord globale, ma soltanto quella tra appropriazione e violenza. E questa divisione continua ad operare ancora oggi: il colonialismo infatti non è cessato con la fine del colonialismo politico, ma prosegue, insieme al razzismo, che si definisce proprio per la capacità di disegnare linee abissali dichiarando irrilevante chi si trova «al di là» della linea. D'altra parte, la dicotomia appropriazione-violenza sta contaminando anche l'altro paradigma socio-politico. Negli ultimi anni l'emancipazione, che ha sempre rappresentato il polo opposto della regolamentazione, è diventata l'«altro» della regolamentazione, il suo doppio. La «democrazia sociale», come la intendiamo in Europa, lo testimonia: originariamente intesa come orizzonte di emancipazione, è divenuta una forma di regolamentazione sociale per il capitalismo, e dopo il 1989 ha perso anche il suo volto umanitario, dimenticando le politiche sociali.”
3. I pilastri della credenza
Nel dibattito sullo sviluppo la scienza e la tecnologia hanno avuto un ruolo fondamentale nei valori impliciti nello sviluppo di progresso e modernizzazione. Il riconoscere l'importanza del “Terzo Mondo” per l'economia e la politica internazionale ha incoraggiato la raccolta di sempre più accurate conoscenze scientifiche sui paesi in via di sviluppo, mentre la crescita economica - elemento chiave per il passaggio da una fase di sottosviluppo a uno di sviluppo - richiedeva capacità tecnologica per assicurare il progresso. Le idee degli scienziati divennero poi operative attraverso la ricerca applicata. Un rapporto dal titolo "La scienza, la frontiera senza fine" aveva affermato che le conoscenze essenziali non potevano essere ottenute se non attraverso la ricerca scientifica di base, assumendo questo come metodo infallibile di raccolta delle informazioni. L'apparente neutralità di queste informazioni sembrava una caratteristica positiva per quasi tutti gli studiosi di diverse religioni, cultura e nazionalità. Da qui proviene la potente influenza della scienza nella fantasia e il pensiero degli esseri umani nei secoli. Solo le opere di sociologia della conoscenza e della storia e filosofia della scienza hanno esposto il pregiudizio ideologico e culturale della scienza. Santos (2007) ci ricorda che l'epistemologia è essa stessa contestuale, legata alle condizioni storiche in cui prende corpo e a particolari agenti, e dietro una certa concezione epistemologica molto spesso ci sono idee promosse con la forza. Questa sovrastruttura è stata ereditata dallo sviluppo e, al tempo stesso lo sviluppo è diventato l'ultimo alleato delle scienze moderne nell'esercizio della sua egemonia politica.
Con lo sviluppo una nuova disciplina è entra nel regno della scienza. L’economia dello sviluppo è diventata lo strumento per analizzare lo sviluppo economico e sociale e studiare l’arretratezza' dei paesi del “Terzo Mondo”, e dei percorsi che questi paesi avrebbero dovuto prendere per raggiungere la crescita economica. Il progresso diventa un valore imprescindibil e la modernizzazione il nuovo paradigma, profondamente radicato nella concreta esperienza della storia economica occidentale, endogeno nel suo modo di concepire e caratterizzato da evoluzionismo. La teoria tradizionale della crescita economica in voga in quei primi anni dell’era sviluppista invocava: intensità di capitale e cambiamento tecnologico. W.A. Lewis scrisse nel 1946 che era "chiaro come il sole" che l'industrializzazione era stata la chiave dello sviluppo.
Per Escobar il discorso economico ha ricevuto grande attenzione ed è stato altamente performativo, a confronto con altre forme di conoscenza, perché oltre a fare affidamento su un corpus teorico (sviluppo economico) è stato sostenuto da una serie di pratiche e da organizzazioni internazionali e nazionali che hanno conferito autorità alla scienza economica e gli scienziati. A loro volta queste organizzazioni – siccome erano esse stesse parte dei cambiamenti economici, politici e istituzionali - formavano le coscienze e le percezione degli economisti. Per Milberg il potere persuasivo della metafora dello sviluppo poggia su tre aspetti: metodologico, ideologico e sociologico.
ll punto di forza da un punto di vista metodologico è l’individualismo dell’economia, la precisione assiomatica, il rigore deduttivo, e un approccio che si approssima ai metodi della fisica. La seconda fonte di energia è ideologica, in quanto fornisce il supporto scientifico al capitalismo del libero mercato nella sua forma più pura. La spiegazione sociologica è che gli economisti sono in posizioni di potere, con un ruolo consultivo presso l'ufficio esecutivo della maggior parte dei paesi e un ruolo dominante nella politica di sviluppo economico attraverso il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.
Inoltre il pensiero economico dell'immediato periodo secondo dopoguerra ha funzionato a livello psicologico, fornendo un senso di ordine sistemico e benevolenza in un mondo che appare spesso casuale, volatili e ingiusto. Il fatto che una certa visione e la pratica dell'economia è divenuta dominante nella storia europea è un passo fondamentale nella storia della modernità, in quanto è il fatto che gli ingredienti principali di questa economia - mercato, produzione, lavoro - sono stati raramente in discussione.
L'industrializzazione non solo poteva aprire la strada per la crescita e la modernizzazione delle economie arretrate, ma serviva anche per diffondere fra le popolazioni locali la razionalità appropriata, colmare la mancanza dei risparmi e portare le tecnologie necessarie. Alcuni economisti ritenevano che un grande sforzo iniziale era necessario per spezzare il circolo vizioso della povertà, bassa produttività, mancanza di capitale. Tuttavia, tutti erano d'accordo che il compito era gestibile. La maggior parte degli studiosi degli anni ‘50 e ‘60 credevano fermamente in uno scenario di sviluppo del “Terzo Mondo” paragonabile a quello del ‘Primo Mondo’ a patto di trasferire soluzioni ed esperienze dal mondo occidentale ai paesi arretrati. Le industrie erano associate con le città, quindi era prevista una redistribuzione fisica della popolazione dalle campagne ai centri urbani che ha legato indissolubilmente insieme urbanizzazione, l'industrializzazione e sviluppo. In questo modello, la città ha assunto un ruolo importante per l'integrazione e stimolo socio-economico delle trasformazioni necessarie per lo sviluppo.
La pianificazione, intesa come la formulazione di un piano o programma, specialmente di carattere economico, è stata fondamentale per lo sviluppo fin dalla sua nascita, perché era l'applicazione di conoscenze scientifiche e tecniche al pubblico dominio. Il concetto di pianificazione incarna la convinzione che il cambiamento sociale può essere progettato, prodotto e diretto secondo volontà. Tra il 1800 e il 1950, ci fu una regolazione progressiva della società, dello spazio urbano e dell'economia, che ha portato alla creazione dello stato sociale, la professionalizzazione delle opere sociali e della pianificazione. La pianificazione “scientifica” era iniziata in relazione con la prima guerra mondiale e divenne molto popolare in anni 1920 e 1930 in diversi contesti: dalla pianificazione economica nel sistema sovietico, alla pianificazione urbanistica comunale degli Stati Uniti. Il percorso di questa idea non è rettilineo. Ci sono diversi significati del termine che vanno da concezioni radicali a quelle conservatrici. Come verrà spiegato nell’ultima giornata, dedicata alla pianificazione urbanistica, è fondamentale qualificare la pianificazione. Perché la pianificazione può essere progressista così come conservatrice e reazionaria.
La rete delle organizzazioni per lo sviluppo responsabili della produzione e la circolazione dei discorsi dello sviluppo si estende dalle organizzazioni internazionali, bilaterali a quelle non governative, e ai diversi livelli nazionale, regionale ed enti locali. Il discorso circola attraverso programmi, progetti, conferenze, riunioni di esperti, consulenze, pubblicazioni, think tanks, e così via. Istituzioni internazionali come le Nazioni Unite sono riconosciute avere l'autorità di produrre politiche e strategie; agenzie di prestito, come la Banca Mondiale, portato il simbolo del capitale e del potere, gli esperti hanno conoscenza e competenze, mentre i governi hanno l'autorità legale di intervenire sul popolo delle loro nazioni. La creazione della Nazioni Unite Per il Soccorso e l'Amministrazione della Riabilitazione (che ha preceduto la costituzione delle Nazioni Unite) operante tra il 1943 e il 1946, ha segnato un passaggio chiave dalla vecchia concezione degli aiuti, intesa come occasionale all’aiuto come strumento dello sviluppo. Il Piano Marshall è il diretto precedente della cooperazione allo sviluppo in termini moderni, in quanto ha soddisfatto sia l'obiettivo di promuovere la ricostruzione economica che l'obiettivo politico di prevenire la diffusione del sistema comunista in Europa. Tuttavia, è stato Truman che ha completato il processo di ri-concettualizzazione dell’aiuto e dello sviluppo.
4. Le metamorfosi del concetto:
alla ricerca della sostenibilità delle credenza
Il discorso dello sviluppo è cambiato molto nei decenni. L’evoluzione delle teorie sul capitale (umano, sociale, istituzionale, conoscitivo, ambientale) ha arricchito di nuove dimensioni l’interpretazione dei processi di crescita e fornito nuove indicazioni strategiche. Queste si sono tradotte da una parte in nuovi discorsi e dall’altra in nuove pratiche che hanno visto emergere nuove parole, o vecchie parole con nuovi significati per legittimare il vecchio paradigma dello sviluppo, di decennio in decennio sempre più contestato, e per difendere lo status quo.
Parole come empowerment, capacity building e istitution building (cioè le competenze, i saperi e le capacità progettuali), accountability (capacità manageriale e l’efficienza) sustainability, governance in tutte le sue declinazioni, urban, local good, etc. Vediamo di ripercorrere brevemente alcuni passaggi che segnano l’emergere di questi nuovi alleati discorsivi. Una caratteristica comune è che ciascun concetto viene depoliticizzato e interpretato in maniera tale da eludere la sua valenza politica e le implicazioni riguardanti il dominio e il potere. Essi vengono invocati come elementi tecnici miranti per lo più a aumentare il senso di auto-stima, sfruttare le reti di solidarietà ed auto-aiuto al fine di aumentare il capitale sociale oppure come soluzioni tecniche e/o scientifiche.
All’indomani del discorso di Truman era convinzione condivisa che in un ragionevole lasso di tempo la crescita economica avrebbe sensibilmente migliorato le condizioni di vita delle popolazioni in generale. Come le goccioline d’acqua che zampillano dalla fontana, il benessere avrebbe bagnato un po´ tutti, dominati e dominatori. La formula “trickle-down”, che descrive le politiche economiche che vanno a beneficio dei ricchi, con l'obiettivo di incoraggiare gli individui più ricchi a investire nell'economia, fornendo in tal modo i vantaggi per le classi inferiori, era la teoria in cui si poggiava lo sviluppo come credenza nel primo decennio della sua storia. La crescita era considerata un mandatario affidabile per lo sviluppo.
Tuttavia, questo scenario non si è verificato nei fatti. Nei paesi del Sud del mondo l’industrializzazione non ha accompagnato l’urbanizzazione. Il previsto passaggio dall'agricoltura all'industria non sembra più fattibile, mentre la crescita della popolazione e la subordinazione dell'agricoltura alla monocultura per esigenze del mercato mondiale ha portato ad una massiccia migrazione dalle aree rurali, senza un’ adeguata espansione delle opportunità di lavoro nelle città. Il ruolo della città come un generatore di cambiamento e come fonte feconda di idee e di innovazione non si è concretizzato. Infatti, essi tendevano a un ruolo opposto: le principali città servite principalmente per drenare le risorse della campagna.
«Poco più di cinquant’anni fa, per i nuovi «dannati della terra», i popoli del Terzo mondo, è nata un’altra speranza paragonabile a ciò che era stato il socialismo per il proletariato dei paesi occidentali. Una speranza forse più sospetta nelle sue origini e nei suoi fondamenti, in quanto erano stati i bianchi a portarne i semi, che avevano piantato prima di lasciare i paesi che avevano duramente colonizzato. Questa speranza era lo sviluppo. Comunque sia, i responsabili, i dirigenti e le élite dei paesi di nuova indipendenza presentavano ai loro popoli lo sviluppo come la soluzione di tutti i problemi. I nuovi Stati indipendenti hanno tentato l’avventura dello sviluppo. Forse l’hanno fatto in modo maldestro, e spesso con una violenza e un’energia disperate, ma non si può dire che non l’abbiano tentata. Il progetto sviluppista costituiva anzi la sola legittimità delle élite al potere. Sicuramente si potrebbe discettare all’infinito per stabilire se esistevano o meno le condizioni oggettive per il successo dell’avventura modernista. […] I responsabili dei giovani Stati si trovavano di fronte a contraddizioni insolubili. Non potevano né rifiutare di introdurre né riuscire a radicare nelle loro realtà i diversi elementi che costituiscono la modernizzazione: l’educazione, la medicina, la giustizia, l’amministrazione, la tecnica occidentali. […] Lo sviluppo, per quanto teoricamente riproducibile, non è universalizzabile»
Di fronte al “mancato sviluppo” negli anni ’60 nuove definizioni emersero. Hans Singer nel 1965 dichiarò che “lo sviluppo è la crescita più cambiamento” e il cambiamento non è solo economico ma anche sociale e culturale. Il punto principale era che la crescita non aveva risolto il problema della povertà dei paesi in “via di sviluppo”. Ma ciò che veniva messo in dubbio non era la validità dello sviluppo in sé come paradigma, ma piuttosto le teorie che ne predicevano l’affermarsi e le ricette che stabilivano gli ingredienti per il suo raggiungimento. La fede nello sviluppo era ancora molto forte.
La politica degli aiuti allo sviluppo degli anni sessanta era influenzata sia dalla contrapposizione dei due blocchi Est-Ovest nella guerra fredda, che rendevano i paesi in via di sviluppo pedine strategiche nella scacchiera internazionale, sia da forti interessi commerciali dei paesi donatori, che spingevano verso i cosiddetti “aiuti legati”.
Voci fuori dal coro cominciarono a emergere e un importante cambiamento intellettuale ebbe luogo. La visione eurocentrica sullo sviluppo e il paradigma della modernizzazione venivano fortemente contestati da un gruppo di studiosi di scienze sociali dell'America Latina e la teoria della dipendenza si affermava in contrapposizione all'idea convenzionale che lo sviluppo è una mera ripetizione della storia economica dei paesi industrializzati.
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1970, che apriva il decennio, auspicava un approccio che integrasse le componenti economiche e quelle sociali. Il paradigma neoclassico dello sviluppo veniva messo in discussione dalle ricerche sulla popolazione, l’occupazione, la distribuzione dei redditi, il settore informale e le migrazioni dalla campagna alla città della Banca Mondiale e dell’ILO (International Labour Organization), che mostrarono come ad una crescita economica dei PVS, che pure c’era stata non era corrisposta un effettiva diminuzione della povertà. L’anticipato “trickle down effect” non si era materializzato e il divario tra Nord e Sud stava crescendo ancora.. Nuove teorie hanno assunto rilievo.
Il dibattito sullo sviluppo a fine anni ’60 e inizi anni ‘70 è stato caratterizzato nei paesi occidentali da una forte enfasi sull’equità e la giustizia sociale. Sono gli anni delle prime lotte urbane in atto in quasi tutti i paesi europei e animate da movimenti sociali, sindacati, studenti, volte alla conquista del diritto alla casa (accesso ad un’abitazione dignitosa ad un prezzo commisurato alla capacità di spesa) e ad una serie di servizi pubblici indispensabili per la vita sia individuale che collettiva. In quegli anni i discorsi attorno a questi temi erano centrali sia nell’opinione pubblica che nel dibattito politico e scientifico, ed erano accompagnati dagli scioperi contro gli affitti troppo alti, le campagne per l’ottenimento di trasporti pubblici accessibili a tutti, marce per il riscatto di aree e strade delle città e occupazioni. Anche in Italia alla fine degli anni Sessanta espressioni come “diritto alla città” (Convegno PCI 1969), “casa come servizio sociale” (Ceccarelli 1972), “consumi collettivi” (Salzano, 1969), animavano il dibattito e hanno costitutio la base di tante rivendicazioni popolari, contrattazioni sindacali.
Queste lotte si sono tradotte negli anni successivi nell’affermarsi del welfare state (un importante compromesso tra capitale e lavoro) e nel raggiungimento di una serie di conquiste fondamentali da parte dei cittadini. Si assiste in quegli anni alla creazione di strutture fisiche e sociali in grado di sostenere la riproduzione sia del capitale che della forza lavoro, e di servire come contesti efficienti in cui organizzare la produzione, il consumo e lo scambio. L’antagonismo di classe si accentua, ma in qualche modo è gestito e assorbito nel governo delle città, attraverso l’assunzione di responsabilità sotto vari aspetti della riproduzione della forza lavoro (sanità, educazione…), nonché attraverso controlli sociali di vario genere: polizia, controllo ideologico tramite le chiese e gli organi di comunicazione di massa, manipolazione dello spazio come forma di potere sociale. Occorre qui ricordare che la città industriale è un’unità instabile: da una parte è un ordinamento razionale capace di coordinare la produzione del capitale e di costituire gli spazi sociali adatti alla riproduzione dei lavoratori, dall’altra è assillata dalla crisi dell’accumulazione, dal cambiamento tecnologico, dalla disoccupazione, dalla dequalificazione del lavoro, dall’immigrazione, dagli antagonismi tra classi.
Nei paesi in via di sviluppo l’influenza progressista si è meramente tradotta nella formulazione di strategie incentrate sull'occupazione, sull’approccio dei bisogni fondamentali - basato sul raggiungimento di un livello minimo di vita per gli strati più poveri della popolazione, che si ponevano come ‘stampelle’ al paradigma dello sviluppo. Negli anni Settanta l’obiettivo della lotta alla povertà divenne il nuovo discorso egemonico legittimante gli interventi di “aiuto allo sviluppo”. Sembrava, sotto l’influenza delle riforme progressiste e discorsi sulla giustizia sociale che avvenivano nel Primo mondo, che ci fosse un’inversione delle priorità: dalla formula “sviluppo e ridistribuzione” a “ridistribuzione con sviluppo”. Tuttavia, l'obiettivo principale rimaneva lo sviluppo e l’allargamento del sistema capitalistico ai paesi del Sud del mondo, con il miglioramento del reddito assoluto di questi paesi, piuttosto che ridurre le disuguaglianze nella distribuzione del benessere.
Negli anni Settanta si avvertono però già i germi del cambiamento del sistema socio-economico. Nei paesi occidentali l'età di prosperità stava per finire, l'industrializzazione si spostava verso nuove regioni, e il welfare keynesiano nazionale cominciava sul finire del decennio a dover affrontare problemi consistenti per il suo mantenimento.
Nei paesi in via di sviluppo al contrario, la crescita e l'industrializzazione hanno continuato a procedere, e il reddito ha continuato ad aumentare in termini assoluti, anche se il benessere della popolazione migliorava assai lentamente, quando migliorava. La guerra fredda continuava a influenzare le sfide poste dal processo di decolonizzazione e lo sviluppo economico dei paesi emergenti. Negli anni ’60 questi paesi erano riusciti ad ottenere un certo controllo sugli affari internazionali attraverso per esempio l'adozione del Nuovo Ordine Economico Internazionale (NIEO) dalla Sessione speciale dell'Assemblea delle Nazioni Unite. Ma le tensioni tra i paesi del Nord e del Sud si erano di conseguenza aggravate nel decennio successivo perché i paesi del Nord temevano che i paesi esportatori di materie prime avrebbero replicato l’embargo petrologico del 1973 e che si affermasse un cartello petrolifero attorno a un blocco unitario del Sud.
Negli anni Ottanta, furono la crisi economica dei paesi ad alto reddito, la crescita vertiginosa del petrolio e l’emergere della prassi neoliberista che influirono maggiormente sulle politiche di aiuto allo sviluppo. E la crisi del debito dei paesi del Sud del mondo si tramutò da possibile crisi finanziaria internazionale nell’occasione di imporre un’unica politica economica favorevole al Primo mondo e agli USA in particolare alla grande maggioranza dei paesi attraverso i programmi di aggiustamento strutturale. Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale erano i maggiori sostenitori e artefici. Avviarono programmi di aggiustamento, che si traducevano nell’attuazione di riforme istituzionali quali: tagli alle spese pubbliche, privatizzazioni, flessibilità del lavoro, in cambio di una re-negoziazione del debito . Questo finì con lo schiacciare la forza politica di visioni antagoniste e alternative dello sviluppo economico e delle politiche per promuoverlo.
In quegli anni l’evoluzione della teoria sul capitale umano, che considerava l’investimento nella qualità delle risorse umane una fonte importante per accelerare il cambiamento tecnologico, essenziale per accrescere la produttività totale dei fattori, aveva ripercussioni importanti nelle politiche di aiuto allo sviluppo. Nel 1987 il Comitato per la pianificazione dello sviluppo delle Nazioni Unite ha ritenuto che le risorse umane erano state trascurate in molti paesi ed era il momento di indagare sulla situazione. Amartya Sen (1990) ha fornito il quadro teorico per la nozione di 'capacità umane', che divenne il riferimento concettuale per l'approccio dello sviluppo umano.
Certo, l'approccio dello sviluppo umano avuto alcuni meriti e ha introdotto alcuni cambiamenti importanti. In generale, ha contribuito a riguadagnare l'attenzione sulle idee associate ai bisogni fondamentale e scappare dalla tirannia del PIL per costruire un indice del benessere molto più complesso che comprende non solo indicatori economici, ma anche sociali. Inoltre ha permesso di valutare l'allocazione delle risorse disponibili e verificare se queste hanno contribuito al raggiungimento degli obiettivi prioritari. Invece di definire i "bisogni" e quindi tentare di quantificare i mezzi per soddisfarli il nuovo approccio definiva alcune priorità sociali (come l'istruzione primaria, assistenza sanitaria di base, ecc) e il loro peso nella spesa nazionale. È stato fissato che il totale del "costo per lo sviluppo umano" dovrebbe essere tra il 5 e il 10% della spesa totale, nel caso in cui la cifra è inferiore una revisione della spesa totale è necessaria e tagli alle spese applicata ad esempio per spese militari, infrastrutture o di ordine pubblico.
Vorrei sottolineare che il paradigma comparve nel dibattito pubblico e nei rapporti delle agenzie internazioni in un momento di crisi dello sviluppo così come era stato definito nei decenni precedenti e in momento di crisi della crociata dello sviluppo. Ma lo sviluppo umano non è in contrapposizione al paradigma dello sviluppo o al progetto egemonico di sviluppo, ma introduce elementi di innovazione per attutire le ricadute negative dello sviluppo sulle popolazioni povere indotte soprattutto dai programmi di aggiustamento strutturale. E’ un termine assai accattivante e dà l'impressione che è un nuovo tipo di sviluppo, conferendo un aspetto ‘umano’ all'approccio neoliberale.
Alla fine degli anni Ottanta si andava affermando una nuova dottrina, con l’obiettivo di promuovere un modello di governo dello sviluppo, che legasse assieme la lotta alla povertà e l’efficacia della gestione urbana; ciò perché la riflessione sugli effetti sociali dei programmi di aggiustamento aveva messo in luce che era necessario includere alcune misure compensative per aiutare i poveri nell’attesa che questi raggiungessero lo sviluppo previsto. Veniva così inserita la gestione sociale urbana nei programmi di aggiustamento, sollevando gli Stati dall’ affrontare politiche di lotta alla povertà originali e adatte alle singole specificità .
La promozione dello sviluppo municipale e delle riforme istituzionali nella gestione urbana costituivano un’ingerenza nella sfera politica degli stati ma ciò non era ammissibile dagli statuti internazionali. Gli organismi internazionali come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario, e le stesse agenzie di sviluppo dei singoli stati del Primo mondo avevano bisogno di escogitare uno stratagemma per aggirare evitare l’accusa di ingerenza negli affari dei paesi beneficiari. Occorreva perciò un discorso strategico capace di de-politicizzare il campo “politicamente” sensibile della gestione urbana e di trasferire le questioni sociali e politiche verso il solo campo della tecnica, cioè trasformare quelle che erano scelte meramente politiche in scelte apparentemente tecniche da affidare agli esperti e specialisti.
L’introduzione della “governance” nel discorso sullo sviluppo serviva proprio a sbarazzarsi del rischio di venir accusati di ingerenza; dovevano influenzare gli assetti istituzionali dei paesi poveri e indirizzarli verso programmi di aggiustamento strutturale che implicavano riforme neoliberiste, ma senza nominare esplicitamente le riforme.
Le implicazione della “good governance” nel discorso per la costruzione, giustificazione e diffusione del concetto di sviluppo sono importantissime, perché è l’espressione usata per fare riferimento al funzionamento delle istituzioni. Ad essa corrisponde: la capacità ed efficienza della gestione pubblica; la responsabilità d’azione di chi opera nel settore pubblico; un quadro normativo chiaro e stabile; l’accesso alle informazioni. Nel lavoro di disseminazione che ha seguito il momento fondativo del lancio del “concetto”, ci sono due importanti passaggi: entrare innanzitutto nel campo della politica, e quindi del potere, utilizzando una parola come governance; e poi definendola good governance, associando a questa i requisiti diremmo ‘oggettivi’, articolati con il linguaggio della teoria economica, quindi legittimati dalla razionalità scientifica Il tutto avente come obiettivo la lotta alla povertà.
Negli anni Novanta lo sviluppo è teso a rafforzare le economie di mercato in tutti i paesi del mondo, promovendo l’espansione delle imprese private e la privatizzare delle imprese pubbliche. Nei paesi del Sud del mondo queste divennero un importante mezzo attraverso il quale i paesi poveri acquisivano capitale straniero attraverso la vendita diretta, fusioni e acquisizioni con aziende multinazionali straniere. Tant’è che agli inizi del decennio gli investimenti privati di capitali divennero la primaria fonte di trasferimento finanziario dai paesi ricchi a più poveri, superando quelli dell’assistenza ufficiale. Le politiche urbane erano tese a migliorare, ancor prima delle capacità produttive della città (infrastrutture, edilizia, servizi) le capacità gestionali delle autorità locali per una migliore mobilitazione delle risorse e controllo dei meccanismi che presiedevano alle complesse dinamiche economiche, come la fiscalità, la regolamentazione del lavoro, delle finanze e degli scambi commerciali.
Sul finire degli anni Novanta si sviluppa anche il tema relativo alla creazione di una piattaforma di politiche globali, che riflette l’interesse per le interconnessioni a livello mondiale, soprattutto in termini economici. I piani d’azione che ne escono da una parte allargano lo scopo dell’aiuto per comprendere settori come l’assistenza per lo sviluppo democratico, la partecipazione nelle operazioni di peace-keeping, e sempre più ampi aiuti umanitari; e dall’altra miravano a raggiungere un consenso globale sulle priorità da affrontare. Con i Millenium Development Goals sembra infatti emergere una convergenza delle varie agenzie sui “valori fondamentali” da perseguire definendo un quadro di riferimento condiviso sulle priorità da adottare. I Goals, ambiziosi da una parte, e riduttivi dall’altra, riflettono una tendenza alla semplificazione della complessità delle problematiche coinvolte e una preoccupazione eccessiva al raggiungimento di risultati misurabili quantitativamente.
L’introduzione del concetto di sviluppo sostenibile, utilizzato per ridare forza e credibilità a una fede che stava scemando, rappresenta una delle metamorfosi più emblematiche del concetto sviluppo e meno compresa.
5. Sviluppo sostenibile:
una parola d’ordine per aprire molte porte
'Sviluppo sostenibile' è l'espressione che forse più di ogni altra ha ri-conferito allo sviluppo un prestigio mondiale, e lo ha fatto dandogli una ‘tonalità ambientalista’. Il termine è stato portato all’attenzione mondiale con la relazione della commissione per l'ambiente e lo sviluppo del 1987(Commissione Bruntland) e reso popolare con la Conferenza di Rio delle Nazioni Unite sull'ambiente e lo sviluppo nel 1992.
Il Rapporto Brundtland affermava che lo sviluppo sostenibile è quello che "soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri". Questa espressione che ha acquistato un larghissimo consenso è in realtà uno strumento discorsivo efficace per affrontare, almeno retoricamente, i problemi ambientali, ma senza minacciare lo sviluppo economico e la crescita illimitata. Secondo W.M. Adams la concezione di sostenibile ha ereditato le tensioni tra tecnocentrismo ed ecocentrismo, e tra riformismo e radicalismo, contenute nel ambientalismo, proponendo un espressione che si pone come compromesso politico tra la lobby della non-crescita, che sosteneva che il pianeta era a corto di risorse e minacciato dal crescente inquinamento, e la lobby pro-crescita degli economisti.
Quando la parola si è affermata essa è stata più uno slogan che una nuova teoria dello sviluppo. La letteratura in merito non aveva compiuto grandi sforzi per analizzare criticamente i significati impliciti e confrontare il termine “sostenibile” con altre espressioni che richiamavano ad una coscienza ambientale, come “ecodevelopment” , o per esplorare le diverse tradizioni di pensiero che si erano già affermate da qualche anno. Infatti, una coscienza ambientale era già emersa negli anni 1970 insieme a una preoccupazione per la scarsità di risorse e lo sfruttamento sfrenato della natura. Questa preoccupazione ha introdotto l’importante concetto di “limite alla crescita” nel dibattito sullo sviluppo. Al contrario il discorso ambientalista associato alla nozione di sostenibilità ha matrici diverse; è avvolto da una “modernizzazione ecologica”, cioè l'innovazione tecnologica riveste un ruolo centrale. Si riconosce una crisi ecologica, ma a differenza del movimento radicale degli anni 1970, si crede fermamente che l'attuale politica, sociale e le istituzioni economiche possano interiorizzare la cura per l'ambiente.
Bisogna riconoscere che il termine è emerso al momento giusto, per dare allo sviluppo, che conosceva in quegli anni un calo di fiducia, uno scopo relativamente nuovo e soprattutto una rinnovata legittimazione.
Con i preparativi per il Vertice della Terra di Rio de Janeiro (UNCED)nel 1992, il concetto si è evoluto. La Conferenza di Rio, che forniva i principi fondamentali per il raggiungimento dello sviluppo sostenibile, ha promosso l'integrazione di altre questioni interdipendenti nel concetto di sostenibilità. Lo sradicamento della povertà, il cambiamento dei modelli insostenibili di produzione e consumo e protezione e gestione delle risorse naturali alla base dello sviluppo economico e sociale sono diventati gli obiettivi di portata globale e i requisiti essenziali per lo sviluppo sostenibile. L’ Agenda 21 dichiarava che la povertà dei paesi in via di sviluppo può essere ridotta dando alle persone l'accesso alle risorse di cui hanno bisogno per sostenersi, mentre i paesi sviluppati avrebbero dovuto ridurre l'inquinamento, le emissioni, l'uso di preziose risorse naturali e aiutare gli altri paesi a svilupparsi in modo tale da minimizzare l'impatto ambientale. L'agenda UNCED aveva sottolineato le questioni relative alle risorse naturali e l'ambiente naturale ponendo particolare attenzione alla cosiddetta seconda generazione di problemi ambientali, quali le piogge acide, i cambiamenti climatici, la deforestazione, la desertificazione e la distruzione della biodiversità.
Negli anni successivi i governi hanno iniziato a compiere sforzi per integrare gli obiettivi ambientali, economici e sociali, sia elaborando nuove politiche e strategie dirette allo sviluppo sostenibile, che adattando politiche esistenti. Tuttavia, l'approccio integrato auspicato dal vertice di Rio non ha trovato un grande riscontro nella realtà. Il conflitto tra la salvaguardia degli ecosistemi ai cambiamenti rapidi da una parte e la soddisfazione dei bisogni fondamentali e la lotta alla povertà dall’altra sono stati rafforzati con la diffusa tendenza ad affrontare queste due questioni in modo indipendente utilizzando gli strumenti della politica settoriale.
Il successo, in termine di consenso sullo sviluppo sostenibile è dovuto al fatto che è compatibile con il capitalismo tecnocratico manageriale e l'ideologia modernista. Dall'inizio degli anni 1990 sono state avanzate numerose interpretazioni dello sviluppo sostenibile - sono state identificate oltre 200 definizioni - ma la maggior parte di esse si basano su considerazioni del Rapporto Brundtland e di Agenda 21, che hanno in comune la preoccupazione per la qualità dei l'ambiente, il miglioramento delle condizioni di vita all'interno della 'capacità di carico' degli ecosistemi, e la necessità di ridurre l'impatto dei problemi ambientali, sia delle generazioni presenti che di quelle future. Un altro motivo del successo è che la parola sostenibile si presta a tante interpretazioni e questa duttilità è una caratteristica piuttosto conveniente perché permette ad ogni attore, agenzia, governo o gruppo di interessi di selezionare la propria, ma nello stesso tempo di lasciarla implicita e accodarsi alla grande massa dei sostenitori dello sviluppo sostenibile - la prima coalizione globale nella politica ambientale.
l rapporto Bruntland raggiunse un ampio consenso e riuscì a portare a bordo istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Tutti questi attori possono interpretare diversamente il senso dello sviluppo sostenibile dando priorità ai loro interessi specifici ed elaborando narrazioni tra loro anche contraddittore, una serie di questioni rimangono irrisolte o emarginate, mentre altre acquisiscono posizioni di privilegio. E’ per questa ragione che autori come Wolfgang Sachs e Serge Latouche hanno definito l’invenzione della sostenibilità un 'escamotage retorico', che nasconde una strategia per sostenere e rafforzare il discorso e le pratiche di sviluppo piuttosto che affrontare le cause della crisi ecologica .
L’ipotesi principale dello sviluppo sostenibile è che crescita economica e soluzione del problema ecologico possono, in linea di principio, essere conciliati, mentre il principale ostacolo è visto nella azione, incapace di metter in atto tutte le misure necessarie. Infatti, le Nazioni Unite esortano a riconoscere, valorizzare e sfruttare le conoscenze e le competenze e sostengono che occorrono azioni di cooperazione e complementarità tra le parti interessate. Ma il concetto stesso di sviluppo, sostenibile o no, non è minimamente messo in discussione. Lo sviluppo sostenibile incorpora il credere che il cambiamento sociale può essere progettato e diretto a volontà per "esorcizzare magicamente gli effetti negativi dello sviluppismo" . La narrazione della pianificazione e gestione insita nei discorsi sullo sviluppo sostenibile ha lo scopo di presentare come "razionale" e "oggettivi" l’introduzione di progetti ambientalisti, regolare i processi decisionali, introdurre nuove pratiche e, soprattutto, fornire un senso di sforzo collettivo e di partecipazione verso obiettivi comuni, al fine di acquisire la collaborazione di tutti.
L’adozione del concetto di sostenibilità nell’ambito delle politiche che ha portato ad una maggiore consapevolezza circa i limiti delle risorse e degli ecosistemi che li riproducono al riconoscimento, a riconoscere che i costi ambientali dell’ urbanizzazione non possono essere trasferiti alle generazioni future, e che esiste una limitata capacità di smaltire i rifiuti prodotti, vede la città come un “metabolismo urbano”, un ecosistema fatto di movimenti interattive di circolazione, scambio e trasformazione delle risorse in transito. In questo contesto sono stati definiti una serie di principi e strumenti che comprendono l'uso efficiente delle risorse, il supporto a progetti, tecnologie, materiali e mezzi che permettono il risparmio energetico, riduzione dei rifiuti e l'eliminazione delle uscite pericolosi, il riciclaggio dei rifiuti e così via. Da qui nasce la preoccupazione per l’eco-efficienza energetica e l’equilibrio metabolico della struttura materiale della città - che pone l'accento sulla gestione dei flussi di energia e materie connesse con la crescita urbana.
Ma la negazione di qualsiasi conflitto tra obiettivi economici, lo sviluppo e l'obiettivo di una migliore qualità ambientale e il riconoscimento dei limiti di risorse riduce la ricerca della sostenibilità urbana alla ricerca di innovazioni di matrice tecnica, all'introduzione di tecnologie per il risparmio delle risorse urbane, e alla redistribuzione spaziale della popolazione e delle attività.
L'articolazione del discorso sullo sviluppo sostenibile ha influenzato anche il dibattito sulla vivibilità e la qualità urbana, dove queste sono motivate anche da ragioni specificamente economiche. La qualità urbana viene definita come “una precondizione per lo sviluppo economico”, e una necessità. Di conseguenza emergono sistemi di valutazione della qualità urbana finalizzati a misurare e monitorare non solo la vivibilità in relazione al benessere del cittadino, ma soprattutto la capacità di una città a sostenere i processi di sviluppo, consentire l’inserimento nella rete mondiale degli interessi economici, salire nella graduatoria della rilevanza economica.
Una caratteristica sorprendente del discorso sullo sviluppo urbano sostenibile è l'assenza di un serio impegno con la problematica ambientale, che porta ad affrontare la questione ambientale come un problema tecnico-manageriale, che lo riduce a un elenco di qualità fisiche. Tra l'ambiente e l'urbanizzazione vi è un rapporto dialettico e le trasformazioni ecologiche sono prodotti di relazioni di potere. La città (nella sua dimensione sociale, fisica e politica) è il risultato di un processo storico-geografico di urbanizzazione della natura e delle relazioni sociali inscritte in queste trasformazioni; perciò città, cultura e natura sono indissolubilmente legati tra loro. Ma questa dialettica nei discorsi dello sviluppo urbano sostenibile è ignorata, innanzitutto per non mettere in discussione né lo sviluppo né l’urbanizzazione visti dal pensiero dominante come in dissolutamente uniti.
6. Concludendo
La problematica dello sviluppo è parte dell’immaginario occidentale. La caratteristica peculiare di questo immaginario è che la crescita e il progresso possano svilupparsi all’infinito. Questa anticipazione di un futuro migliore grazie all’aumento costante dei beni prodotti è diffusa ovunque. Ma come dice Rist l’egemonia dello sviluppo si è potuta affermare solo grazie ad un illusione semantica, attraverso la creazione del sottosviluppo, cioè creando uno “pseudo contrario” che ha trasformato una credenza in senso comune e verità assoluta facendo credere nella possibilità di trasformare l’intero mondo ad immagine e somiglianza dell’occidente. Questa illusione di prosperità materiale infinita si è rafforzata ulteriormente quando i paesi sottosviluppati sono diventati “in via di sviluppo” così che una anticipazione si è trasformata in promessa!
Ho parlato di credenza, seguendo il ragionamento e spiegazione di Rist proprio perché ci comportiamo nei confronti dello sviluppo come nei confronti di una qualsiasi altra credenza. Magari nel privato qualcuno di noi ha avuto qualche dubbio su questo mito, ma questo “non impedisce di pregare all’unisono” – dai capi di stato, ai tecnocrati dell’economia, ai cittadini, alle organizzazioni internazionali, e persino gli intellettuali, di destra e di sinistra, atei e religiosi, bianchi e neri. “da questa credenza condivisa nasce il vincolo sociale, che si esprime sotto forma di pratiche obbligatorie che rafforzano le adesioni”. Come tutte le credenze è il presupposto che fonda il credo iniziale e plasma la risposta al problema posto. E’ un circolo chiuso che non prevede una verifica esterna, o una prova della sua veridicità. Le credenze sono tali – proprio perché è sulla fede, sulla fede sola – sulla quale si basa l’adesione, condivisione di questa.
Non si spiegherebbe altrimenti quello che è accaduto e accade. I libri sono pieni di racconti, testimonianze, statistiche analisi qualitative e quantitative della sovrabbondanza di merci da una parte e della povertà, diseguaglianza, esclusione dall’altra. Il divario tra nord e sud, così come tra classi sociali, aumenta. Per una civiltà che si proclama avanzata, accettare che ancora ogni anno muoiano di fame almeno 26,000 mila bambini e continuare a perseguire lo sviluppo , non può che essere la conseguenza di una credenza almeno pari a quella delle grandi religioni del mondo.
Eppure, i teorici, gli studiosi, i pensatori, gli esperti non ammetterebbero che lo sviluppo è una credenza, anzi parte della grande credibilità di questo mito è proprio averlo spacciato per sapere scientifico, oggettivo.
Inseriremo i testi di Ricoveri, Bevilacqua, Dall'Olio, Mattei appena disponibili. Salzano, che è intervenuto al posto di Loris Campetti, ha esposto i contenuti dell'Eddytoriale n. 144, cui si rinvia.
Per i riferimenti bibliografici si rinvia al documento Letture introduttive.
Nel 1993, nella città di Freiburg nasce il progetto del quartiere Vauban. Lo spunto che da inizio a tutto è la dismissione di di una caserma francese usata dall’esercito fino al 1992. Quando i francesi lasciarono la caserma, i pianificatori della città e molti cittadini videro in questa un’occasione unica e un luogo ideale per creare un nuovo quartiere residenziale. In effetti con i suoi 380.000 mq di estensione, la vicinanza al centro storico (solo 2 Km) e il confine con una zona verde destinata allo sport e allo svago, Vauban risulta essere un luogo strategico e appetibile per essere trasformato in un quartiere ad alta densità, per differenti gruppi sociali, con un insediamento di 5000 abitanti e la creazione di 600 posti di lavoro. Quello che prende forma è un progetto ambizioso che consiste nella creazione di un villaggio ecosostenibile, con edifici a basso consumo e l’uso di risorse rinnovabili; frutto di una progettazione partecipata, in cui non sono solo i pianificatori a progettare, ma gli stessi cittadini entrano in gioco, e proprio per questo, forse, sfocia in un ben riuscito mix sia funzionale che sociale.
Vauban presenta delle caratteristiche rilevanti sia nel campo dell’urban design, sia in quello della progettazione edilizia. I nuovi concetti che rendono questo intervento "ecologico" hanno interessato contemporaneamente diversi aspetti come la coesistenza tra luoghi di lavoro e residenze, la creazione di alloggi per diverse utenze sociali, l'ideazione di un sistema di mobilità car-free che valorizza i trasporti pedonali, ciclabili e pubblici a scapito dell'uso delle auto private, la realizzazione di piazze e spazi pubblici e di un centro del quartiere con negozi per gli acquisti quotidiani, un asilo e una scuola elementare per limitare gli spostamenti verso il centro città, la tutela delle aree verdi preesistenti, il massimo sfruttamento dell'energia solare, lo sviluppo di un impianto di riscaldamento centralizzato e di un sistema di recupero e trattamento delle acque piovane a scala urbana.
Gli edifici sono costituiti da case a schiera da 2 a 4 piani fuori terra. All’interno di questi prendono posto, oltre alle residenze, anche uffici e negozi, con la strategia di coniugare lavoro e luogo di abitazione. Sono per la maggior parte parallelepipedi diversi l’uno dall’altro, ma accomunati da caratteristiche tecnologiche finalizzate al risparmio energetico: l’orientamento che permette di sfruttare al massimo le condizioni atmosferiche delle diverse stagioni, l’uso di materiali naturali, l’impiego di pannelli fotovoltaici. Alcuni di questi edifici vengono definiti “Plusenergiehauser” perché sono in grado mediante questi sistemi di fornire più energia di quella che necessita per i residenti Inoltre le costruzioni sono totalmente in legno, dalla struttura intelaiata portante ai tamponamenti e al rivestimento esterno a doghe, tinteggiate con colori vivaci che contribuiscono a rendere estremamente vivibile e gradevole l’isolato.
Nel nuovo quartiere sono state attuate alcune strategie per disincentivare l’uso dei mezzi privati a motore e incentivare l’uso dei mezzi a locomozione non inquinanti: la strada centrale non è destinata al traffico, fisicamente impedito, ma alla linea del tram che, in 15 minuti, consente di raggiungere il centro e la stazione ferroviaria; non sono presenti parcheggi, né lungo le strade né in prossimità delle abitazioni. Chi vive a Vauban o rinuncia all’automobile, o la tiene in sosta in uno dei parcheggi collettivi (Solar-garage), posti al limitare del quartiere. Poche auto sono parcheggiate lungo la Vauban-allée, e sono quelle destinate al car-sharing. Percorsi pedonali e ciclabili consentono di spostarsi all’interno di Vauban in tutta sicurezza ed si connettono ad una rete ciclabile estesa per oltre 500 km, che innerva tutta la città.
Il mix funzionale è stato raggiunto sia attraverso la presenza di esercizi commerciali all’interno del distretto, sia perseguendo il progetto Whonen und arbeiten che prevede l’inserimento di spazi lavorativi all’interno delle abitazioni, diminuendo le esigenze di spostamento. Tutto questo è ancora più accentuato nell’isolato di Schlierberg, dove i parcheggi si concentrano al limite esterno e gli edifici residenziali non sono dotati di garage o posti macchina, ma in compenso le unità immobiliari sono provviste di un capanno in cui riporre le biciclette da utilizzare per gli spostamenti di breve medio raggio.
Il verde permea l’intero tessuto del quartiere, ed è disegnato in modo da ricreare il biotipo locale, come nel caso di un ruscello, che in precedenza era stato canalizzato, è stato rinaturalizzato. Attraverso il verde, l’intera rete delle acque piovane scorre a cielo aperto e contribuisce al disegno degli spazi esterni.
Nelle schede scaricabili qui di seguito, preparate da Serena Righini, Federica Manenti e Bianca Maria Caravati, sono descritti in dettaglio gli aspetti relativi all’impianto urbanistico, alle soluzioni tecnologiche, al disegno degli spazi pubblici e all’impostazione car-free del sistema della mobilità.
In Europa. A partire dagli anni novanta, molte città europee hanno promosso la realizzazione di quartieri definiti “ecologici” e “sostenibili”. Si tratta di una semplice operazione di marketing per promuovere iniziative tradizionali di espansione e rinnovo urbano, oppure siamo di fronte a un effettivo passo in avanti?
Nella rete internet abbondano descrizioni e comparazioni di casi studio che consentono di tracciare un primo quadro di insieme. Con l’eccezione delle controverse Eco-towns inglesi e dei nuovi quartieri satellite di Linz (Solar city) e di Helsinki (Vikki), gli interventi più citati in rete riguardano aree libere, all’interno o in stretta continuità con le città esistenti, oppure la trasformazione di aree dismesse o sottoutilizzate (i cosiddetti brownfields). I nuovi quartieri sono localizzati in aree periferiche, ben collegate e infrastrutturate, poiché il contrasto allo sprawl (e al cosiddetto leap frog) è considerato ormai un elemento imprescindibile.
I nuovi quartieri si caratterizzano, innanzitutto, per l’adozione di soluzioni costruttive finalizzate alla riduzione dell’impatto sull’ambiente: risparmio energetico, contenimento dell’impermeabilizzazione, recupero dell’acqua piovana, riciclo dei rifiuti. Uguale importanza, in chiave ambientale, viene attribuita alla progettazione della rete dei trasporti, cercando di eliminare o quanto meno ridurre fortemente il trasporto automobilistico privato.
Nelle intenzioni - la connotazione ecologica e sostenibile è intesa in un’accezione più ampia, ponendo attenzione anche agli aspetti economico-sociali. La monofunzionalità residenziale e la netta separazione delle attività sono bandite: residenza, attrezzature di interesse collettivo, servizi di vicinato, sono compresenti e integrati tra loro, in modo da coniugare – per quanto possibile – vitalità e vivibilità. Piazze e luoghi di incontro sono considerati essenziali, così come la presenza di una quota di abitazioni riservate alle persone con minori disponibilità di reddito.
Gli spazi pubblici sono trattati con grande attenzione e spesso costituiscono i capisaldi sui quali viene impostato l’impianto urbanistico del quartiere, riprendendo alcuni caratteri della città storica e otto-novecentesca, che meglio si addicono al raggiungimento degli obiettivi sopra ricordati. Che si tratti di un atteggiamento pragmatico, o di una meditata scelta di campo, appare evidente il tentativo di sfuggire tanto agli errori compiuti nella costruzione dei quartieri popolari del secondo dopoguerra, quanto all’omologazione imperante. Con rare eccezioni, sono banditi grattacieli, centri commerciali e grandi strutture del loisir e del business affidate alle archi-star e starlette, così come le distese di villette e palazzine.
Infine, cosa tutt’affatto secondaria, le amministrazioni locali dirigono le iniziative assumendo le decisioni più rilevanti su dove, quanto e che cosa, costruire. In nessun caso ai developers privati è lasciata mano libera, sebbene si ricerchino forme virtuose di collaborazione pubblico-privato, sia nell’ideazione, sia – soprattutto – nell’attuazione degli interventi. Anche a questo scopo, il processo di costruzione delle decisioni è generalmente aperto, e in alcuni casi – come a Vauban – molto inclusivo.
Friburgo. Possiamo annoverare il quartiere Vauban all’interno della casistica sopra descritta, ma commetteremmo un errore se non ci rendessimo conto che si tratta di un quartiere speciale in una città altrettanto speciale.
Da molti anni, l’amministrazione di Friburgo ha fatto della pianificazione ambientalmente orientata un vero e proprio tratto distintivo. Negli anni ’70 l’opposizione alla costruzione di una centrale nucleare ha alimentato un movimento di cittadini che si è tradotto in una consuetudine alla partecipazione alla vita pubblica e in una spiccata sensibilità ambientalista, creando un contesto favorevole per l’adozione di politiche urbane attente all’ambiente e alla vivibilità.
Lo testimoniano meglio di ogni altra cosa le scelte nel settore dei trasporti. Le prime decisioni in favore della mobilità dolce e del trasporto pubblico maturano all’inizio degli anni ’70. Più esattamente, nel 1969 viene approvato il primo piano del traffico e delle piste ciclabili (che oggi si sviluppano per oltre 500 km), nel 1972 si avvia l’estensione della rete tranviaria (oggi composta da 4 linee, per oltre 30 km), nel 1973 viene pedonalizzato il centro, nel 1984 si istituisce il trasporto regionale (oggi l’integrazione tariffaria riguarda 90 linee per oltre 2800 km). I risultati ottenuti, ai nostri occhi sorprendenti, sono la logica conseguenza di questo impegno quarantennale: spostamenti in auto decrescenti, incremento dell’uso del trasporto pubblico e della bici, minori sussidi al trasporto pubblico, incidentalità molto bassa.
La coerenza complessiva delle scelte di governo del territorio non sembra legata alla forte personalità di un politico, o ad un particolare momento storico, bensì è frutto del consolidamento di una tradizione di governo della cosa pubblica, lungo un arco di tempo ormai quarantennale.
I due principali quartieri di espansione della città sono concepiti e localizzati in modo tale da poter essere serviti egregiamente con le linee tranviarie. La città ha vietato, almeno finora, l’apertura di nuovi grandi centri commerciali e ricreativi, perché incoerenti con le politiche di trasporto. È stata assicurata l’inedificabilità di spazi naturali molto estesi, pari al 50% del territorio (oltre 6.000 ha di foresta comunale, pari a 300 mq/ab). Con il piano urbanistico del 1999, si è deciso di privilegiare lo sviluppo entro i limiti della città rispetto all’espansione, senza peraltro rinunciare alla dotazione di spazi verdi urbani (30 mq/abitante). Solo metà delle previsioni inattuate (80 ha) è stata confermata: il territorio urbanizzabile è oggi meno esteso di quello previsto dal precedente piano. Contestualmente, sono stati promossi due programmi intercomunali (Komreg e Pfif). Il primo è finalizzato a favorire il coordinamento dello sviluppo urbano, affrontando il nodo del sovradimensionamento complessivo delle previsioni dei piani comunali; il secondo istituisce un registro delle aree disponibili e prefigura la costituzione di un consorzio, al quale sono affidati il marketing e la gestione pro-quota dei ricavi.
Infine, l’economia. Il partito dei Verdi ha da tempo un consenso molto largo e, nel 2002, Friburgo è stata la prima grande città tedesca ad avere un sindaco di questo partito, Dieter Salomon. Già in precedenza l’amministrazione cittadina aveva puntato sull’economia ambientale, finanziando le prime realizzazioni sperimentali nel campo dell’energia solare. Oggi la città ospita università e centri di ricerca specializzati (Oko-institut) che hanno contribuito a consolidare un vero e proprio “milieu” innovativo, creando 12.000 posti di lavoro in circa 2.000 imprese.
Per non fare di questo breve ritratto un’agiografia, è bene concludere ricordando che non è tutto oro (verde) quello che luccica. Un sito di un movimento ambientalista (BUND ) riporta alcune criticità: la crescita urbana è stata molto sostenuta, con conseguente alterazione del paesaggio nella valle del Reno; l’eccessiva influenza delle aziende di gestione ambientale, ha sospinto la costruzione di un inceneritore; la realizzazione di una superstrada urbana, molto contestata, ha dato vita a proteste, anche con l’intervento della polizia. Infine, nonostante gli sforzi compiuti, l’impronta ecologica e la produzione di CO2 di Friburgo, continuano a crescere, testimoniando l’insostenibilità complessiva del modello di sviluppo attuale. Lo slogan “la green economy è una truffa” ha campeggiato proprio all’ingresso di Vauban, il quartiere ecosostenibile per eccellenza, quasi a testimonianza di questa contraddizione di fondo.
Vauban. I caratteri del quartiere Vauban, la sua concezione “car-free”, l’adozione di soluzioni tecnologicamente avanzate per il contenimento dell’impatto sull’ambiente, sono ampiamente illustrati nel web. Qui di seguito, ricordiamo alcuni passi salienti della genesi e dell’attuazione del quartiere.
Volendo rispondere ad una forte domanda di abitazioni senza alimentare una crescita incontrollata delle dimensioni della città, l’amministrazione comunale decide – all’inizio degli anni novanta – di concentrare l’offerta di alloggi all’interno di due nuovi insediamenti, Riesefeld e Vauban, rispettivamente destinati ad accogliere 10.000 e 5.000 abitanti.
Scartata a priori l’idea di affidare la progettazione e attuazione alle imprese locali di costruzione, si decide di procedere in prima persona, ricorrendo ad un finanziamento specifico e seguendo una strada non lontana da quella dei nostri piani per l’edilizia economica e popolare: acquisizione a basso costo, bonifica e urbanizzazione, vendita dei terreni urbanizzati ad un prezzo tale da ripagare l’investimento iniziale.
Una delle due aree prescelte è l’ex caserma intitolata al Marchese di Vauban, ideatore delle fortificazioni settecentesche di Friburgo, quando la città era sotto il dominio francese.
Il piano urbanistico è definito a partire da un concorso di idee. Il progetto vincitore (studio Kohlhoff & Kohlhoff, Stoccarda) prevede la realizzazione di un quartiere senz’auto e ad elevata efficienza energetica. Non si tratta di una scommessa facile, dato che anche a Friburgo si è affermato il modello della casa unifamiliare, con giardino per il barbecue e spazio sufficiente per parcheggiare la propria auto.
Anche per superare le iniziali diffidenze e incoraggiare i giovani friburghesi ad acquistare casa in un quartiere anomalo, rispetto agli standard correnti, l’ideazione è accompagnata da iniziative di coinvolgimento dei cittadini. A dire il vero, una forma particolare di partecipazione aveva preceduto e, in un certo senso, sollecitato la ristrutturazione urbanistica delle caserme. Annunciata la dismissione, un gruppo di giovani aveva occupato gli stabili lasciati liberi dai militari, rivendicando il diritto di passare “dalle caserme alle abitazioni”. Studenti, genitori single e persone senza lavoro avevano dato vita a SUSI, un’iniziativa auto organizzata di recupero no-profit, ricavando nei vecchi stabili rimessi a nuovo alcune decine di alloggi ecologici, economici e con ampi spazi per la socializzazione.
L’iniziativa SUSI riguarda una porzione limitata dell’area. Nella parte rimanente si procede all’implementazione del piano attuativo, sulla base del progetto vincitore, istituendo un ufficio di piano con 5 persone dedicate, con l’assistenza dell’Azienda per l’edilizia di Stoccarda. Per gestire il processo di partecipazione, il comune si fa affiancare da un Forum di cittadini , la cui attività è sovvenzionata sia con specifici fondi europei (attinti dal progetto EU-LIFE), sia con un finanziamento comunale, pari a circa 20.000 €/anno per tutta la durata del progetto. Gli investimenti sono consistenti, ma altrettanto rilevante è l’impegno gestionale: il sistema di attori coinvolti è molto complesso e la gestione dei conflitti non è facile.
La costituzione del Forum Vauban contribuisce in modo decisivo a orientare la concezione del quartiere. I lotti di terreno sono venduti a piccole cooperative di abitanti (fra 3 e 21 famiglie) che, autonomamente, scelgono il proprio architetto e realizzano le abitazioni nel rispetto del piano generale, abbattendo per quanto possibile le spese. Il Forum svolge, a questo scopo, una funzione di intermediazione: le famiglie interessate ad abitare nel quartiere sono invitate a partecipare ad una serie di incontri, durante i quali viene illustrato e dettagliato il programma di attuazione degli interventi. Quando un gruppetto di persone (bau-gruppe) trova un accordo complessivo, presenta domanda ufficiale per ottenere un lotto e ricerca un architetto. Se il comune accetta la prenotazione, nei successivi dodici mesi si deve formalizzare l’associazione, presentare il permesso a costruire e dare avvio ai lavori.
Grazie a questa originale organizzazione, i futuri abitanti hanno la possibilità di discutere sulle caratteristiche del proprio stabile (le case a schiera di Vauban riflettono le diverse propensioni) e degli spazi comuni. Ciascuna delle aree pubbliche per il gioco dei bambini è caratterizzata da un tema e da arredi specifici: in una troviamo un forno del pane, nella successiva vasche di sabbia, in un’altra un percorso avventura, e così via. Il risultato è sorprendente in positivo, tanto sotto il profilo fisico e funzionale, quanto sotto l’aspetto sociale. L’interazione tra le persone prosegue tuttora, attraverso associazioni di abitanti che si occupano della cura dei luoghi e dell’organizzazione delle attività di quartiere.
Sotto questo aspetto, Vauban può essere considerato un esperimento di costruzione di una comunità coesa, sebbene gli esiti si prestino ad una lettura in chiaro-scuro, come sottolineato da molti dei visitatori che hanno lasciato un commento in rete: la composizione sociale appare – al momento – sbilanciata al confronto del resto della città. Sono presenti molti giovani, ma sono assenti (o confinati all’interno di SUSI) i poveri e gli immigrati; l’impressione di un quartiere per classe media “left/green oriented” è molto forte, con tutti i rischi che ne conseguono in termini di chiusure ed esclusioni. Questo squilibrio deriva anche dalla riduzione delle sovvenzioni pubbliche. Inizialmente era stata fissata una quota minima del 25%, ma a seguito del taglio dei finanziamenti regionali, il numero è stato ridotto. Di conseguenza, non soltanto l’esperimento di co-housing SUSI è rimasto un’eccezione, ma anche la costruzione di alloggi destinati a vendita e affitto a prezzi calmierati è limitata ad un solo isolato (cooperativa GENOVA).
Il lungo e complesso percorso di attuazione, porta a modificare quattro volte in 10 anni il piano attuativo (B-plan): gli adattamenti successivi vengono giustificati dal comune attraverso lo slogan “planning by learning” ossia dal confronto continuo fra i diversi attori coinvolti (forum del quartiere, commissione comunale, soggetti attuatori pubblico/privati) e dalla composizione, non sempre facile, dei relativi punti di vista e interessi.
In particolare, il pareggio operativo è ottenuto con fatica: nel 2003-4, ad attuazione molto avanzata, si comprende che il deficit non può essere ripianato se non con alcune correzioni al ribasso. Il prolungamento della linea del tram – cardine dell’intero progetto – si blocca per una discussione relativa al tracciato e ai costi. Il bypass del centro storico richiede un investimento di 30 milioni (1/3 del costo complessivo di urbanizzazione) e solamente la rinuncia a questa opzione e l’ottenimento di un finanziamento regionale e statale consentono il completamento della linea, nel 2006. Non meno significativa è la rinuncia ad assegnare la concessione per il recupero degli ultimi tre stabili della caserma ad una cooperativa che vuole ricavare alloggi popolari. La decisione di procedere con una vendita libera, genera non poche tensioni con la comunità locale.
Anche gli investitori privati devono superare alcuni ostacoli. Il caso più interessante riguarda il distretto di Schilierberg, dove si concentrano le abitazioni ad alta efficienza energetica, in grado di produrre e immettere energia nella rete. Il promotore immobiliare, Instag AG, piuttosto famoso in Germania, entra in difficoltà finanziarie. Il progettista, Rolf Disch, si impegna in prima persona a ricercare nuovi investitori e rileva la convenzione. Il comune non è d’accordo e indice una nuova gara per l’assegnazione delle aree. Il consorzio Solarsiedlung Gmbh, guidato da Rolf Disch, ottiene comunque l’assegnazione, ma il progetto iniziale viene ridotto sul 40% dell’area. La vendita si rivela inizialmente difficoltosa: si sparge voce che le case rimarranno invendute per il prezzo eccessivo e, di conseguenza, le banche sono riluttanti a concedere il finanziamento iniziale. Grazie ad un marketing mirato, si riesce a costituire un fondo a partecipazione collettiva (300 quote di 5000 €, per 1,5 Mln) che acquista un numero sufficiente di alloggi per far decollare l’iniziativa .
Perché non qui? Oggi l’attuazione è completa e chiunque percorra le strade del quartiere è in grado di giudicare l’esito complessivo. La fama di Vauban, vera e propria meta di pellegrinaggio per chi si occupa di città e di ambiente, testimonia il successo dell’iniziativa. Diventa perciò inevitabile domandarsi se questo tipo di esperienza sia in qualche misura trasferibile altrove e quali insegnamenti si possano trarre dalle complesse vicende che abbiamo provato a sintetizzare.
Tra i molti spunti di riflessione, scelgo di soffermarmi su tre questioni a mio avviso cruciali:
- la proprietà dei suoli;
- le modalità di socializzazione della rendita;
- l’inquadramento all’interno delle politiche urbane.
A Friburgo, come in molte altre città, i nuovi insediamenti “sostenibili” derivano da piani di iniziativa pubblica su terreni di proprietà pubblica. La proprietà pubblica del suolo consente grande libertà nel promuovere sperimentazioni nel campo dei trasporti, dell’energia, della vivibilità, della coesione sociale – variamente combinati tra loro. Ciò non significa affatto escludere l’iniziativa privata. Come abbiamo ricordato, lo spazio per una collaborazione virtuosa è molto ampio e i privati possono intervenire con profitto in qualità di attuatori, siano essi organizzazioni no-profit, piccoli gruppi di investitori o imprese di costruzione. A Friburgo, così come in molte delle città europee elencate in precedenza, per ottenere la disponibilità delle aree non si è ricorso ad espropri: il riutilizzo di aree pubbliche dismesse e forme di consorzio pubblico-privato hanno garantito alle amministrazioni locali una disponibilità sufficiente di aree a basso costo. Al contrario, in Italia, la dismissione del patrimonio pubblico e l’affidamento ai promotori immobiliari dell’ideazione e realizzazione delle iniziative in campo abitativo costituisce da molto tempo un imperativo categorico. Qualche dubbio in proposito è lecito.
A Vauban, come in altre iniziative nord-europee, si è seguito un modello non dissimile da quello dei nostri piani per l’edilizia economica e popolare: acquisto preventivo del suolo e rivendita dell’area urbanizzata alle imprese di costruzione. A Friburgo (e a Linz, in Austria), si è optato per piccoli lotti assegnati a cooperative di abitanti, ricercando un compromesso tra esigenze di bilancio, qualità degli interventi e sostegno al diritto all’abitazione. Una discussione pubblica ha preceduto le decisioni cruciali sui modi in cui “socializzare” la differenza di valore tra il prezzo di acquisto dei terreni e quello di vendita degli alloggi, traducendola in servizi di elevata qualità (dai trasporti, al verde e alle scuole), o in un’offerta di alloggi accessibili anche per persone disagiate. Sembra sussistere qualche ragione per riproporre, ovviamente in modo aggiornato rispetto agli anni sessanta e settanta, una nuova stagione di piani e politiche per la casa. In questa fase di crisi, il sostegno pubblico e le maggiori garanzie per gli investimenti che ne derivano, potrebbero rivelarsi fattori decisivi in positivo.
Infine, come abbiamo sottolineato all’inizio e come risulta evidente dall’intervista a Wulf Daseking (direttore dell’ufficio di piano), le vicende di Vauban sono strettamente legate all’impostazione complessiva delle politiche urbane e ad un impegno costante, più che decennale. Come hanno saggiamente osservato gli osservatori ministeriali del governo inglese, la realizzazione di progetti e politiche urbane che non si limitino a ricalcare pedissequamente le scelte e i comportamenti passati, non è immediata, né facile, né a buon mercato. Più probabilmente, è vero l’opposto (DETR, 1999), ma non è una buona ragione per rinunciare a priori.
Nella cartella della scuola di eddyburg, edizione 2010, è scaricabile una presentazione con alcune immagini del quartiere.
Le ragioni della visita
Come sarà la città del prossimo futuro? Peter Newman la descrive così: piste ciclabili e strade libere dalle auto collegano le case-solari ai negozi, alle aree verdi e ai servizi, oppure a una fermata del tram per raggiungere un posto più lontano in città. Davanti alla scuola i genitori aspettano in bici o a piedi i loro figli, e non rinchiusi nelle loro auto. È presente un negozio, dove gli agricoltori del posto vendono prodotti biologici… Uno stereotipo? Un’utopia? Non esattamente, dato che coincide con la descrizione del quartiere Vauban a Friburgo.
Vauban è un quartiere speciale in una città altrettanto speciale. Da molti anni l’amministrazione di Friburgo ha fatto della pianificazione ambientalmente orientata un vero e proprio tratto distintivo. Friburgo “green city” e “solar city” non sono slogan inappropriati: dagli anni settanta, in modo continuativo, la città investe risorse e impegno amministrativo nel settore della mobilità, dell’energia, del verde, dell’urbanistica.
La visita ha un duplice scopo: percorrere la città per verificare sul campo le effettive realizzazioni, e incontrare alcuni interlocutori-chiave per approfondire quei temi che alla scuola di eddyburg del 2009 sono stati affrontati in modo necessariamente speditivo, come la vivibilità e gli spazi pubblici, le relazioni tra i luoghi e le attività che in esse si svolgono, i modi di coinvolgimento delle persone nella costruzione degli spazi e nella loro successiva gestione.
Agli amministratori locali chiediamo di aiutarci a capire i seguenti aspetti:
- come hanno fatto “i conti in tasca” al recupero urbano (quali costi pubblici, quali benefici privati, quali forme di finanziamento, quali spese ripagate da vendite/affitti, ecc)?
- come costruire un'autorevole partnership pubblico-privato (quante persone sono state coinvolte, quali ruoli sono stati mantenuti al pubblico, chi e come ha sorvegliato/valutato, quali “accordi” sono stati necessari, ecc)?
- come gestire una politica urbana pluriennale, complessa, integrata (come si sono sviluppate e aggiornate le politiche urbane negli ultimi 20 anni? Quanti e quali strumenti? ecc.)
Programma
La trasferta a Friburgo si svolge il 3-4-5 novembre 2011.
Prevede:
- partenza da Bologna, la mattina di giovedì 3 novembre.
- viaggio in pullman da 30/40 posti (ditta Ricci Bus).
- visita giudata della città di Friburgo con il tram (Vauban, Rieselfeld)
- incontro con il direttore dell’ufficio di piano Wulf Daseking, per illustrare la genesi di Vauban nel contesto di Friburgo Green city
- durante il ritorno, una sosta a Lucerna, per visitare il centro storico, il centro congressi (Nouvel) la nuova stazione ferroviaria (Calatrava);
- rientro a Bologna, nella serata di sabato 5 novembre.
Incontri e interviste sono in lingua inglese e in tedesco, con nostro aiuto per la traduzione.
Lungo la “linea rossa”. L'attenzione delle due giornate centrali si rivolge all’ideale “linea rossa” che segna il margine urbano, il luogo dove si manifestano in modo più evidente le contraddizioni e i conflitti sui diversi modi di uso del territorio. Abbiamo selezionato due casi italiani - Milano e Firenze – perché li riteniamo rappresentativi dei problemi da affrontare, del grado di autorevolezza dei poteri pubblici, del ventaglio di politiche territoriali messe in campo, del contenuto e dell’efficacia di piani urbanistici e territoriali, del ruolo svolto da abitanti, terzo settore, soggetti economici. Due città governate in modo continuativo per oltre vent’anni ciascuna dalla stessa maggioranza politica, tra loro antitetiche. Possiamo, oggi, leggere criticamente quanto è successo non solo e non tanto a partire da astratti modelli di piano e di urbanistica contrapposti tra loro, quanto piuttosto dai caratteri - fisici, funzionali, sociali - delle parti di città investite dalle trasformazioni e dalle diverse opzioni, economiche e sociali, sottese alle decisioni.
Attorno a Milano. Milano è un esempio paradigmatico di "cattura del regolatore" da parte dei percettori di rendite e del "nuovo parastato". I primi, come noto, costituiscono il blocco dominante, in grado di condizionare le decisioni pubbliche sull'uso del territorio, piegandole alle proprie convenienze. Ma non va sottovalutato il peso dell'universo di società che si muove a cavallo tra il mondo pubblico e quello privato (concessionari e gestori delle reti, agenzie di servizi, ecc.), prendendo - ci si perdoni la semplificazione - il peggio di entrambi. Le distorsioni sull'uso e sull'assetto del territorio determinate da questo secondo blocco di soggetti sono altrettanto rilevanti, con l’ulteriore complicazione dovuta al fatto che - formalmente - essi agiscono in nome e per conto delle amministrazioni pubbliche.
Entrambe queste categorie hanno dato impulso ad una congerie di progetti, promossi da attori singoli secondo logiche parziali e difficilmente riconducibili a una qualsivoglia strategia territoriale complessiva (se non nelle vuote retoriche dello sviluppo), pesantemente condizionati da aspettative di valorizzazione immobiliare e da una ragnatela di interessi consociativi, non di rado illeciti. Un grumo di interessi che ha trovato la sua legittimazione formale tanto nei piani urbanistici, quanto nelle cosiddette opere infrastrutturali strategiche.
Affidiamo a Giuseppe Boatti il compito di spiegare perché il PGT di Milano, adottato dalla giunta Moratti, è un micidale strumento per la moltiplicazione parossistica delle possibilità di valorizzazione immobiliare, e a Serena Righini il compito di descrivere perché anche la bulimia infrastrutturale milanese è funzionale allo stesso scopo.
Attorno a Firenze. La Toscana è una regione opulenta, socialmente pacificata, soddisfatta di sé, stretta ai propri miti e di consolidata tradizione politica. Ed è, soprattutto, una regione nella quale si è sperimentata con successo la possibile convivenza tra economia di mercato e protezioni dello stato sociale . Rappresenta quindi un luogo ideale per ragionare attorno all’efficacia e ai limiti delle politiche pubbliche e, in particolare, per riflettere sull’eredità delle scelte compiute nel passato (relative all’industria, alla residenza e alle infrastrutture) e per comprendere ragioni e conseguenze delle scelte promosse dagli amministratori attuali, soggetti protagonisti sulla scena regionale.
Dalla Toscana provengono anche alcuni contributi significativi per la costruzione di un immaginario alternativo, riguardante il modello di insediamento, il contenuto dei piani, i comportamenti delle amministrazioni locali, le forme di coinvolgimento della cittadinanza attiva.
In questa differente prospettiva, i caratteri del territorio e le relazioni fra quest’ultimo e i suoi abitanti rivestono un ruolo cruciale. Al contrario, nell’idea di sviluppo economico che ancora domina le politiche pubbliche regionali e locali, questo aspetto non è compreso o è giudicato secondario. Il terreno dove si confrontano e si scontrano con maggior forza le visioni alternative è la piana fiorentina, un’area investita da una trasformazione tanto intensa quanto problematica. Che si tratti delle decisioni riguardanti il destino delle aree urbane (come ci spiegherà Roberto Vezzosi) o quello dei brandelli di territorio rurale scampati, per ora, all’urbanizzazione (come ci spiegherà Lorenzo Venturini), le prospettive complessivamente delineate dai piani e dalle politiche pubbliche appaiono oggi ricche di contrasti. Conviene dunque esaminarle per capire compiere una salutare verifica dei limiti e delle contraddizioni possibili in seno all’azione pubblica.
Lontano dall’Italia. L'illustrazione dei casi italiani è affiancata da due comunicazioni rigurdanti alcune esperienze europee, potenzialmente virtuose. Vogliamo proseguire e idealmente concludere la trattazione di casi europei che negli anni passati ha riguardato il contenimento dello sprawl, la promozione dell’intercomunalità, la riqualificazione urbana e gli spazi pubblici, la realizzazione di insediamenti ad elevata vivibilità. Vogliamo sottolineare una volta di più l’importanza che rivestono oltre confine le politiche pubbliche per le città, non solo nel caso di governi particolarmente attenti alle questioni ambientali e sociali, ma persino nel caso di governi più sensibili alle sirene liberiste (seppure con una connotazione market-oriented). I casi illustrati dimostrano la possibilità di concepire strategie di lungo respiro, non ripiegate sulla composizione di interessi contingenti, di formalizzarle attraverso strumenti di piano prescrittivi, di indirizzo e di valutazione, e di promuoverne l’attuazione attraverso iniziative mirate, sui luoghi e con le persone.
Maria Cristina GIbelli partirà dal caso milanese (riprendendo le considerazioni sviluppate da Giuseppe Boatti, in particolare sull'utilizzo della perequazione urbanistica) per poi approfondire modelli di pianificazione all'opera (sia prescrittivi, sia condizionali) alternativi a quello lombardo, facendo cenno ad alcune esperienze significative: il programma VINEX, in Olanda, e lo SDAU della regione Ile de France. Francesca Blanc, dopo un inquadramento relativo alle leggi catalane e ai piani vigenti nell’area metropolitana di Barcellona, illustrerà nel dettaglio due esempi di gestione dello spazio periurbano: i parchi agrari del Baix Llobregat e de Gallecs, Mollet del Vallès.
Per chi volesse documentarsi, su eddyburg sono raccolti numerosi articoli sulle vicende milanesi e toscane. Qui di seguito una selezione di quelli più recenti.
Sul dibattito che ha preceduto l’elezione del sindaco Pisapia
- Maria Cristina Gibelli, Fabrizio Bottini, Milano: rilanciare la metropoli è possibile
- Sergio Brenna, Ciò per cui vorremmo che Pisapia lottasse
Sul PGT
- Giuseppe Boatti, Milano PGT: I privati gestiscono tutto
Sull’Expo
- Gallione e altri, Expo 2015: innovazione o solo trasformazioni urbane?
Sui programmi integrati di intervento
- Bottini, Gibelli, Programmi di Dequalificazione Urbana
Sulle critiche alle politiche urbanistiche toscane
- Paolo Baldeschi, L’itinerario regressivo dell’urbanistica fiorentina.
- Paolo Baldeschi, Fiato corto della politica in Toscana
- Paolo Baldeschi, Analisi critica del PIT
- Marco Massa, Progetto di città e analisi critica della legge urbanistica
Sulle riflessioni nell’ambito della “scuola territorialista”
- Alberto Magnaghi, Una ricerca sul processo storico di formazione del territorio della piana di Firenze
- Alberto Magnaghi, L’arte degli scenari nella costruzione del progetto locale
Beni comuni e bene comune
Beni comuni è una espressione inflazionata, riemersa dalla notte dei tempi agli inizi del Terzo Millennio nella crisi del neoliberismo, come uno strumento utile a contrastare la privatizzazione e l’appropriazione del mondo da parte del capitale nelle sue due espressioni storiche – Stato e Mercato: come uno strumento capace di evitare che beni, servizi e rapporti sociali cessino di essere valori d’uso e siano mercificati, e cioè trasformati in valori di scambio per il profitto da realizzare sul mercato capitalistico degli equivalenti. Ovviamente i beni comuni esistevano anche quando non se ne parlava, nei due-tre secoli dopo la loro cancellazione con la Rivoluzione industriale che li ha considerati come un ostacolo al progresso e allo sviluppo, un lascito indesiderato del passato da superare più in fretta possibile – come è accaduto all’agricoltura contadina nel secolo scorso. La loro riemersione è segno di una vitalità nuova di opposizione diffusa alla distruttività del capitalismo, ma soffre di un vuoto di conoscenza e di memoria storica, e questo favorisce il fiorire di interpretazioni diverse e talvolta opposte, che possono creare confusione e ritardare l’affermarsi dell’alternativa. Una di queste confusioni è quella tra “il bene comune”, che non è il singolare di beni comuni ed esprime invece l’interesse generale o il benessere; ma non una struttura materiale, come una risorsa naturale o uno spazio fisico, come sono i beni comuni.
Il neoliberismo e la privatizzazione dei beni comuni
Storicamente, la ripresa di interesse per i beni comuni risale alla crisi del neoliberismo, che ha fatto fare un ulteriore e significativo salto di scala alla distruttività del sistema capitalistico, dopo i precedenti salti di scala come quello del consumismo o consumo di massa del secondo dopoguerra che ha promesso la società dell’abbondanza nascondendone il lato oscuro – dall’aumento incontrollato dei rifiuti o scarti, al depauperamento delle risorse naturali usate oltre la loro “capacità di carico”, alla separazione sempre più marcata tra produzione per il soddisfacimento dei bisogni e produzione per l’aumento del profitto, allo spreco di risorse incluso quelle essenziali alla vita sul pianeta, alla rottura dei rapporti sociali, alla de-responsabilizzazione sociale dell’impresa (che ha delocalizzato nel mondo il ciclo di produzione di merci e servizi, rendendo possibile licenziare per email i lavoratori delle aziende del ciclo catena quando il loro profitto scende al di sotto del target prefissato dall’azienda madre).
Il capitalismo finanziario
Nella fase di attuale crisi del capitalismo finanziario, la proposta dei beni comuni come ordine sociale e istituzionale alternativo a quello del capitalismo non è più solo l’auspicio di studiosi e attivisti ma una necessità storica per arginare il saccheggio della natura e l’imbarbarimento sociale: il cambiamento climatico, la fame e la morte per fame di oltre un miliardo di persone, l’insicurezza alimentare, le malattie causate dall’uso di sostanze nocive in agricoltura e nell’industria, le leucemie e malformazioni causate dall’energia nucleare civile e militare, l’inquinamento dell’acqua, dell’aria e delle catene trofiche, le nuove povertà, la disoccupazione specie dei giovani, l’esclusione e la marginalità sociale. Il finanzcapitalismo, come il sociologo Luciano Gallino ha definito questa fase della crisi, è una megamacchina (nel senso definito a suo tempo da Lewis Munford) sviluppata per “massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e di potere, il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani sia dagli ecosistemi”. In questo, essa supera tutte le precedenti megamacchine perché “si estende sull’intero pianeta e penetra in modo capillare in tutti gli strati della società, della natura e della persona”. La deriva finanziaria del capitalismo appare ancora più gravida di conseguenze negative quando si osserva che i paesi emergenti del Sud del mondo – India, Cina, Brasile e Sudafrica – seguono lo stesso percorso di sviluppo del Nord, incuranti sia del suo fallimento sia del prezzo che così addossano sulle popolazioni locali, in lotta contro la loro spoliazione.
Cause e soluzioni della crisi finanziaria globale
Nella discussione pubblica, le cause della crisi finanziaria sono attribuite all’eccesso di spesa pubblica, alla scarsa produttività del lavoro, e soprattutto alla “mancata crescita” capitalistica, così come le soluzioni proposte vanno dalla privatizzazione delle utilities e dei servizi locali, alle grandi infrastrutture, alla svendita del patrimonio culturale, agli eurobonds – tutto a sostegno della crescita senza precisare di che cosa: la crescita è infatti l’imperativo degli economisti keynesiani e liberisti, così come dei politici, anche (soi disant) di opposizione. Tutti sappiamo che la verità è un’altra: in Occidente gli Stati non riescono più a pagare gli interessi sui debiti contratti per la loro politica di potenza (le guerre, l’esportazione del modello occidentale di sviluppo, le politiche razziste e xenofobe di immigrazione dal Sud), per la rete di corruzione sempre più estesa del settore pubblico oltre che di quello privato, per le scelte sbagliate e per le mancate scelte di politica economica e di politica ambientale, che provocano entrambe disastri naturali, sociali ed economici, indennizzati a posteriori senza mai affrontarne le cause di fondo. I governi dell’Occidente hanno consegnato l’economia prima alle multinazionali prima e dopo alla finanza e ai mercati: grandi patrimoni, grandi banche, fondi di investimento, fondi pensione, assicurazioni – speculatori di professione, come li chiamava Keynes - 10 milioni di persone, secondo stime recenti delle Nazioni unite, che decidono le sorti di 7 miliardi di persone. Gli Stati di tutti i paesi occidentali, e soprattutto europei, tentano ora di scaricare il prezzo dei loro errori sui pensionati e sui lavoratori a reddito fisso, sugli studenti, sui malati e sui Comuni, che dovrebbero essere il presidio della democrazia: ma la democrazia è da tempo incompatibile con le richieste dei mercati e con il capitalismo.
Di che parliamo quando parliamo di beni comuni
I beni comuni sono innanzitutto quelli legati alle risorse naturali necessarie alla sopravvivenza di tutti gli esseri viventi sulla terra, umani e non, e cioè all’acqua, all’aria, alla terra e al fuoco-energia, i quattro elementi vitali di Empedocle, il filosofo vissuto nel quarto secolo a.C. Ciascuno di questi elementi è molte cose insieme, in particolare la terra è terra fertile da coltivare, biodiversità, pascoli e foreste, ma anche suolo su cui costruire, risorse del sottosuolo, etc.; l’acqua è indispensabile alla vita e in quanto tale è un diritto umano ma è anche necessaria a tutte le produzioni agricole e industriali, oltre ad essere la linfa vitale della terra. Vi sono poi anche altri beni comuni come quelli culturali che non sono legati direttamente alle risorse naturali e sono invece il frutto della interazione tra l’uomo e la natura come il paesaggio, i beni artistici e il patrimonio culturale. Altri beni comuni sono i servizi pubblici e quelli di welfare – l’acqua potabile e i servizi igienici nelle abitazioni, i trasporti collettivi, la scuola e gli ospedali, costruiti nel corso del tempo con il risparmio e il lavoro dei cittadini. Esistono infine altri beni comuni detti della conoscenza, che includono i saperi, internet, i creative commons e wikipedia, il variegato mondo digitale e non della comunicazione.
La sussistenza
Nel mio libro recente, Beni vs Merci, che è alla base della mia riflessione anche in questa sede, mi occupo soprattutto dei beni comuni di sussistenza, quelli legati alla natura non perché penso che gli altri beni comuni sono meno importanti ma perché sono convinta che ogni categoria di beni comuni ha una sua specificità e deve essere analizzata a partire dal suo statuto, evitando semplificazioni che non aiutano né a capire né a favorire il cambiamento di paradigma da tutti auspicato a fronte della distruttività del capitalismo nella sua fase di sistema finanziario, che produce ricchezza di carta. Una seconda ragione di questa scelta sta nel fatto che i beni comuni naturali o di sussistenza riguardano tutti – ricchi e poveri, nei paesi del Nord e in quelli del Sud. Per vivere (e stare in buona salute) tutti abbiamo o avremmo bisogno di aria pura e di acqua non inquinata, di una porzione anche se piccola di terra su cui vivere e costruirsi una casa, di energia e di fuoco per cucinare e accedere agli altri beni comuni come i trasporti o internet. Ma acqua, aria, terra e fuoco non si producono in laboratorio perché sono la vita stessa, un dono gratuito della natura a tutti noi. Se l’attività degli uomini distrugge questo dono, cessa la vita sulla Terra come è già successo a molte comunità e civiltà in passato. La sussistenza cambia nel tempo e nello spazio perché è storicamente determinata: ma la base cu cui si fonda non è opera dell’uomo bensì della natura. Si può dunque affermare che “Nessuno può fare a meno della natura”.
Un po’ di storia
In passato in Europa, e ancora oggi in molte parti del Sud del mondo e in alcune parti dell’Europa - come racconta Elinor Ostrom, la studiosa americana premio Nobel per l’economia nel 2009 - i beni comuni di sussistenza sono risorse naturali come ad esempio un campo che una comunità coltiva in regime di autogestione senza averne la proprietà; la comunità ne è solo usufruttuaria, e proprio per questo usa il bene in modo sostenibile senza esaurirlo, contrariamente a quel che accade nel regno delle merci; i beni comuni di sussistenza possono essere anche diritti d’uso collettivi sui frutti derivanti da un bene naturale come gli usi civici in Italia. In entrambi i casi, i beni comuni di sussistenza esprimono una forma di organizzazione sociale e produttiva basata sulla comunità, diversa e alternativa a quella del mercato capitalistico perché nell’ambito della comunità le persone tendono a prendere decisioni che non mirano solo al profitto, come dimostrano gli studi di caso condotti dalla Ostrom. Questa forma di organizzazione sociale e produttiva si fonda sulla partecipazione dal basso alla cosa pubblica mette in discussione la democrazia di mandato la dicotomia Stato-Mercato e il potere burocratico e parassitario di questi due soggetti. Questa forma di organizzazione è stata la norma in Europa per diversi secoli ed è ancora una realtà importante nei paesi in ritardo di sviluppo del Sud, dove 1/3 circa della popolazione mondiale vive e sopravvive grazie ad essa, secondo stime delle Nazioni Unite.
I beni comuni oggi: una proposta
Noi cittadini del Nord non ne siamo consapevoli, ma i beni comuni e le comunità esistono anche nelle città e nelle metropoli del Nord, non certo nella forma delle comunità di villaggio medievali ma come movimenti/comitati che si organizzano e lottano per la difesa del territorio e della salute, per la scuola pubblica e per una corretta gestione dei rifiuti, per l’acqua pubblica e per i servizi pubblici locali come si è visto nei recenti referendum su acqua, servizi pubblici locali, energia nucleare, che hanno mobilitato il paese per mesi, e hanno conquistato il consenso di quasi 28 milioni di elettori. La battaglia non è certo vinta una volta per tutte, e del resto nessuno si illude che la gestione “pubblica” dell’acqua trasformi l’acqua in bene comune, autogestito dagli utilizzatori. E’ una vittoria che rischia di essere svuotata di significato già il giorno dopo le votazioni, perché i cittadini non hanno più potere dopo il voto, quando la realizzazione dei risultati del voto passa nelle mani delle burocrazie di partito. Per evitare che ciò accada, occorre riconoscere ai cittadini, organizzati in comitati e movimenti, la sovranità di co-decidere – insieme alle altre istanze come i governi locali – sulla destinazione della risorsa in tutto il suo ciclo di vita, a monte e a valle. L’esempio del comitato della Val di Susa, che da vent’anni lotta contro la costruzione di una linea ferroviaria ad altra velocità, è un caso emblematico di questo problema: occorre cambiare le leggi in modo che i comitati come quello della Val di Susao possano sedersi al tavolo della trattativa avendo lo stesso potere delle autorità locali, nazionali ed europee. E’ questa la proposta che nel mio libro ho definito “il ritorno dei beni comuni”, che va ben oltre la loro riappropriazione, rivendicata in tutte le parti del Sud del mondo dalle popolazioni locali. Come dice Boaventura de Sousa Santos al punto quattro della “Lettera alle sinistre” allegata alla presente, “L’esperienza dimostra che nel mondo esistono numerosissime realtà non capitalistiche, che chiedono di essere riconosciute come il futuro dentro il presente”.
Lo “sviluppo” locale
Un aspetto particolarmente importante a favore del paradigma dei beni comuni riguarda la valorizzazione del locale, che il capitalismo svilisce e distrugge. Il relatore speciale per il diritto al cibo delle Nazioni Unite, Oliver De Schutter, ha sostenuto nel suo rapporto all’Assemblea generale del dicembre 2010 che l’agricoltura organica locale permetterebbe di raddoppiare la produzione agroalimentare dell’Africa in un periodo compreso tre 3 e 10 anni. L’agricoltura è un esempio emblematico di questa questione: rispetto all’agricoltura monoculturale delle multinazionali, l’agricoltura locale riduce la distanza tra produzione e consumo facendo, riduce sensibilmente la produzione di CO2, garantisce il valore nutritivo dei cibi, contribuisce alla difesa idrogeologica del territorio e al mantenimento della fertilità dei suoli, alla sicurezza e alla sovranità alimentare e alla conservazione della biodiversità, che è alla base della vita sul pianeta. La produzione locale valorizza inoltre l’intelligenza, l’energia e i saperi delle popolazioni locali che conoscono meglio di qualsiasi tecnico della Banca mondiale le potenzialità produttive del loro territorio e le attitudini delle comunità locali. La maggior parte dei fallimenti dei programmi di sviluppo e cooperazione verso i paesi del Sud dipende proprio dal dirigismo astratto e predatorio con cui i tecnici si rapportano alla popolazioni locali, come se esse fossero “ignoranti” e inferiori. Quei programmi esprimono solo gli interessi delle multinazionali e dei governi del Nord, non quello delle popolazioni locali: dicono di valorizzare i beni comuni locali, e invece li distruggono.
Paradigmi a confronto
Il primo paradigma – quello dei beni comuni - permette di riunificare produzione e consumo, che il mercato capitalistico ha drammaticamente separato;
- permette di produrre beni e servizi che non sono merci;
- non distrugge le risorse naturali ma le usa in modo sostenibile;
- è basato sulla cooperazione e non sulla competitività
- misura la produttività in base al soddisfacimento dei bisogni e non alla max del profitto;
- non produce scarsità, neanche quando le risorse sono finite e non riproducibili;
- nella comunità, le persone tendono a prendere decisioni che non mirano solo al profitto
- opera in regime di autogoverno, e permette quindi la partecipazione dei cittadini alla formazione delle scelte politiche che li riguardano;
- rompe pertanto la dicotomia soffocante Stato-Mercato.
Nessuno è tuttavia tanto ingenuo da pensare che la gestione delle risorse naturali da parte delle popolazioni locali sia di per sé sufficiente a far funzionare un società complessa come quella oggi prevalente, rendendolo il paradigma dei beni comuni totalmente alternativo al paradigma del capitalismo: vi sono scelte politiche che richiedono un livello decisionale superiore a quello locale, e al momento non è chiaro come sarà risolto questo problema. Oggi non lo sappiamo. Quel che sappiamo è che la forze, le idee e la determinazione per avviare la transizione non possono venire che dal movimento carsico che in tutto il mondo impegna milioni di persone alla ricerca di un mondo diverso. Se il processo avrà un seguito, è possibile che spezzoni delle attuali classi dirigenti siano disponibili a sostenerlo – ma non saranno loro ad innescare il processo (Guido Viale su il manifesto, 17 agosto 2011)
La riconversione ecologica della società e la riterritorializzazione dei mercati
Il cambiamento di paradigma si realizzerà in molti modi, primo tra tutti – specie nei paesi industrializzati dell’Occidente – attraverso la riconversione ecologica dei settori più sensibili come quelli in crisi perché producono beni obsoleti com’è l’automobile nel quadro attuale della mobilità; le energie rinnovabili non inquinanti e decentrate sul territorio; l’agricoltura organica e contadina; la cura e la manutenzione del territorio, oggi ridotto a merce edificatoria. Ma la riconversione non va intesa come un progetto deciso a monte dallo Stato (la pianificazione), ma come un processo dal basso, avviato fabbrica per fabbrica, territorio per territorio, campo per campo. La riterritorializzazionde dei mercati non è un obiettivo deciso da qualche autorità centrale o locale, ma una scelta consapevole dei cittadini che si difendono dalla distruttività del capitale e dei mercati. I beni comuni di sussistenza sono locali per definizione; la loro forza e capacità di resistere nel tempo, nonostante tutti i tentativi di eliminarli, sta proprio nella loro diversità e nella flessibilità con cui le comunità sono capaci di adattarsi al contesto in cui operano. I soggetti del cambiamento, da cui trarre le idee e la forza per innescare il cambiamento, vanno identificati paese per paese, vista la diversità esistente tra di essi. Nel caso dell’Italia, i soggetti che animano i movimenti sono gli operai delle fabbriche in crisi, gli studenti, i giovani disoccupati, le donne, i cittadini in lotta contro i rifiuti e l’alta velocità ferroviaria, quelli colpiti oggi dalla manovra economica decisa dal governo per “salvare” il paese.
Bibliografia minima
Zygmunt Barman, Voglia di comunità, Roma-Bari, Laterza 2001
Piero Bevilacqua, Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, Roma-Bari, Laterza 2011
Boaventura de Souza Santos, Lettera alle Sinistre, Carta Maior, 29 agosto 2011
Luciano Gallino, Finazcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Torino, Einaudi 2011
Elinor Ostrom, Governare I beni collettivi, Venezia, Marsilio 1990 e 2006
- Cooperating for the Public Good: Self-Governance, Polyentricity and the Commons, ciclostilato
Giovanna Ricoveri, Beni comuni vs Merci, Milano, Jaca Book 2010
- a cura di, Beni comuni tra tradizione e futuro, Bologna, Emi 2005
Guido Viale, Vari saggi sul suo blog (guidoviale.blogspot.com) e sul quotidiano il manifesto
PROGRAMMA DI MASSIMA
Premessa
Dopo aver ragionato, nell'edizione 2010 della scuola, sui problemi connessi alla rendita ci vogliamo occupare dei modi per rimediare alla "malattia della crescita".
Per un crescente numero di studiosi di tutto il mondo, esperti delle discipline umanistiche e scientifiche, non è sufficiente cercare meccanismi correttivi del modello economico-sociale dominante, bensì occorre ipotizzare un modello alternativo, in sostituzione dell’attuale fondato su un’illimitata crescita della produzione di merci. Che implicazioni comporta, per la pianificazione territoriale e urbanistica, abbandonare uno scenario di crescita/sviluppo per assumerne uno che sia basato sul limite, sulla conservazione o sulla decrescita? Come possiamo immaginare città e territori del dopo-“sviluppo”?
Prima giornata (mercoledì 14 settembre).
Dopo l’introduzione alla scuola (Mauro Baioni), nella quale ripercorreremo il percorso seguito nelle sette precedenti edizioni, partiamo, come di consueto, dalle parole. Quest’anno, della parola “sviluppo”.
L’intervento introduttivo (Ilaria Boniburini) esplorerà il concetto di sviluppo nelle sue varie interpretazioni e accezioni, attraverso un percorso critico che metterà in evidenza sia i limiti e le inadeguatezze del paradigma dello “sviluppo” nell’ analizzare, interpretare e guidare l’evoluzione delle società, sia gli effetti talora devastanti che esso ha provocato nel mondo. Si sosterrà la necessità di individuare (per leggere, interpretare la realtà e guidare i processi futuri delle nostre società) il “bene comune” come concetto di riferimento e fondamento delle proposte riguardanti i diversi aspetti della società di cui deve tener conto una pianificazione della città e del territorio adeguata ai bisogni dell’uomo, alle reali condizioni del nostro pianeta e al patrimonio conoscitivo finora acquisito.
I successivi interventi forniranno elementi di conoscenza e di riflessione su alcuni temi di fondo. L’economista Giovanna Ricoveri illustrerà in concetto di “bene comune” nella sua evoluzione e nelle sue diverse componenti e articolazioni, argomentando la tesi che la difesa e riconquista dei beni comuni è la risposta necessaria per neutralizzare la capacità distruttiva del sistema economico-sociale esistente e avviare la costruzione di un sistema nuovo. L’agronomo Nicola Dall’Olio illustrerà, in relazione ad alcune situazioni specifiche, le drammatiche conseguenze della mercificazione di un rilevante bene comune (il territorio agricolo) sulle condizioni di vita e sulle stesse risorse essenziali per la specie umana. Il giurista Ugo Mattei ragionerà sulle implicazioni del nuovo paradigma, fondato sul concetto di bene comune nel campo del diritto e dell’assetto proprietario, e sulla necessità di arricchire la gamma delle forme della proprietà reintroducendo (accanto alla privata e alla pubblica) quella delle proprietà comune. Il giornalista Loris Campetti introdurrà il tema, oggi centrale, del lavoro. La riduzione del lavoro, da strumento essenziale della società per la comprensione e il governo del mondo materiale e immateriale, dopo la sua riduzione a merce, è sottoposto oggi a un ulteriore processo di impoverimento ed emarginazione. Il passaggio dal paradigma dello “sviluppo” a quello del bene comune può essere l’occasione per restituirgli dignità e valore pienamente umano facendone lo strumento per affruntare alcune grandi esigenze sociali e territoriali. Infine lo storico Piero Bevilacqua fornirà elementi di discussione e riflessione sul ruolo della formazione, della conoscenza e dei saperi nella costruzione di un nuovo paradigma, sulle condizioni che l’applicazione che esso pone al sistema dei saperi, oggi caratterizzato dalla frammentazione e dalla subordinazione all’economia data.
Seconda e terza giornata (giovedì e venerdì, 15-16 settembre)
Nelle giornate centrali, coordinate da Mauro Baioni e Maria Cristina Gibelli con l’apporto di esperti dei casi trattati (Giuseppe Boatti, Roberto Vezzosi, Lorenzo Venturini, Serena Righini, Francesca Blanc), la nostra attenzione sarà concentrata “attorno alla linea rossa”, il limite tra città e campagna. Lungo questo limite le contraddizioni dello sviluppo si mostrano con particolare evidenza e i tentativi di coniugare l’arresto del consumo di territorio con la promozione di un nuovo modello di insediamento si scontrano con l’apparente ineluttabilità dell’espansione urbana. Ci proponiamo di esaminare i conflitti d’uso del territorio in corso, i soggetti e gli strumenti adoperati, le poste in gioco e le sfide per il futuro.
L’attenzione sarà mirata su due casi italiani - Milano e Firenze - selezionati perché rappresentativi dei problemi da affrontare, del grado di autorevolezza dei poteri pubblici, del ventaglio di politiche territoriali messe in campo, del contenuto e dell’efficacia di piani urbanistici e territoriali, del ruolo svolto da abitanti, terzo settore, soggetti economici. Per ciascun caso cercheremo di individuare quali sono le trasformazioni in atto e le strategie che le ispirano, quali le resistenze opposte dalla pianificazione e dalle tensioni antagoniste, quali gli insegnamenti che se ne possono trarre per delineare i nuovi obiettivi e gli strumenti adeguati a raggiungerli. La lettura critica delle vicende milanesi e toscane prenderà spunto non tanto da una comparazione tra concezioni alternative della pianificazione e dei suoi strumenti, quanto piuttosto dalla lettura critica dei caratteri - fisici, funzionali, sociali - delle parti di territorio investite dalle trasformazioni.
Ad un viaggio attorno alle città seguirà la descrizione dei principali piani e progetti (l'Expo e il piano di governo del territorio di Milano, il piano di indirizzo territoriale e i piani strutturali di Firenze e delle città limitrofe), per concludersi con una riflessione sui progetti riguardanti il parco Sud e il parco della Piana Fiorentina. Rifuggendo da ogni contrapposizione caricaturale (campagna vs città, piccolo vs grande, locale vs globale), crediamo sia possibile trovare in queste ultime esperienze (e in altre simili, relative al contesto internazionale, tra le quali Barcellona) indicazioni utili per tratteggiare alternative possibili ai modelli dominanti di uso del territorio permeati dalle ideologie di crescita e sviluppo.
Quarta giornata (sabato 17 settembre)
Infine, nella giornata conclusiva (introdotta da Edoardo Salzano), vogliamo tirare le fila delle riflessioni compiute nelle due edizioni della scuola dedicate al tema “urbanistica ed economia”, soffermandoci sulla nuova domanda di pianificazione che emerge dalle tensioni della società civile riguardanti l’ambiente e la salute, l’equità e la possibilità di accesso ai beni comuni, il riconoscimento del paesaggio come “eredità da preservare” e come “componente essenziale del contesto di vita”, la ricerca di nuovi stili di vita.
Proporremo innanzitutto una formulazione di “economia” e di “lavoro” riferite alla persona umana e non all’economia data. Torneremo sulla questione della rendita urbana, trattata nella sessione 2010 della scuola: non si può eliminarla, ma ci si può adoperare per ridurne la lievitazione e per trasferirla al suo produttore, la collettività. E soprattutto (è il mestiere degli urbanisti) si può combattere la “città della rendita” per costruire la “città dei cittadini”. Il trionfo della prima ha sconfitto la pianificazione urbanistica quale è stata costruita nel XIX e XX secolo, e ha segnato il prevalere di una razionalità (quindi di una pianificazione) finalizzata a obiettivi che si sono rivelati devastanti.
Ci proponiamo di concludere questo ciclo della scuola enunciando i principi che devono essere alla base della “città dei cittadini” e, a partire da questi, lavorare per ri-costruire una pianificazione coerente con il paradigma della città come bene comune, individuando i nuovi strumenti necessari per dare risposte adeguate alla nuova domanda, innanzitutto recuperando e rinnovando obiettivi, concetti e strumenti troppo frettolosamente abbandonati.
Al termine dell’intervento si aprirà la discussione con un gruppo di amici e collaboratori di eddyburg (tra i quali Vezio De Lucia, Walter Tocci, Giovanni Caudo, Chiara Sebastiani) e con i docenti e studenti della scuola.
Preambolo
«Oltre la crescita, dopo lo “sviluppo”». Davvero impegnativo il tema della VII scuola di eddyburg, ma necessario. La sua necessità non era così evidente quando abbiamo programmato le due edizioni della scuola dedicate ai rapporti tra urbanistica ed economia, lo è diventato via via che si sono manifestati i reali connotati della crisi. Una crisi che non è solo congiunturale, “nel” sistema, ma - come la definiscono quelli di cui condividiamo le idee - “del” sistema. Inevitabile cominciare a ragionare su ciò che potrà essere oltre la crescita, dopo lo “sviluppo”, se vogliamo continuare a occuparci del territorio, dell’habitat dell’uomo, e della sua migliore utilizzazione: se vogliamo continuare a occuparci anche di pianificazione.
In questi anni eddyburg e la scuola si sono impegnati a dare conto delle caratteristiche del neoliberismo e a spiegare la formazione, lo sviluppo, la retorica, le strategie e gli effetti della città neoliberista. Di questo percorso critico danno testimonianza anche i libri scaturiti dalle diverse edizioni della scuola, ognuno dei quali ha contribuito a svelare un pezzo dell’immaginario urbano neoliberista oggi dominante.
Nelle letture che suggeriamo oggi (alcune sono stampate in forma cartacea e saranno distribuite alla scuola, la maggioranza sono scaricabili da eddyburg o da altri siti) indichiamo alcuni sentieri di ricerca e di riflessione che ci sembrano utili ad introdurre il percorso dei quattro giorni della scuola.
Nel primo gruppo degli scritti di cui suggeriamo la lettura proponiamo alcuni testi, per così dire, di fondamento rispetto ai temi affrontati nei gruppi successivi, per ribadire concetti importanti come quelli di economia e territorio, per introdurre la critica al concetto odierno di sviluppo e ricordarci cos’è la rendita e i danni che essa comporta quando diventa dominante su altri obiettivi.
Nel secondo gruppo abbiamo inserito testi che aiutano a ragionare sulle caratteristiche della crisi del modello dominante e sulla costruzione di immaginari potenzialmente alternativi: germi di una possibile contro-egemonia, per riferirci alla definizione gramsciana. Sono testi che non riguardano l’urbanistica né solo la città in senso “tecnico”. Eddyburg assume per la città una definizione ampia, e ricorda sempre i tre aspetti, le tre facce della città presenti nelle tre parole che la definiscono: urbs, civitas, polis, la città nella sua materialità, nella società che la vive, nel governo che la organizza. In questa fase, poi, siamo convinti che non può esservi riforma della città (un nuovo “progetto” di città), senza, e forse prima, un nuovo progetto di società e di politica. Quindi anche di economia, di filosofia, di etica…
Nel terzo gruppo abbiamo inserito alcuni testi che possono aiutare a comprendere come lavorare per tradurre gli immaginari alternativi in trasformazioni dell’assetto della città: più precisamente, dell’habitat dell’uomo, che è divenuto l’insieme del territorio. Abbiamo scelto le linee di ricerca e di sperimentazione nelle quali è più chiaro ed esplicito il nesso tra progetto di città e progetto di società e di governo, poiché questo ci sembra sia l’approccio più interessante e utile in un momento di riflessione comune che aiuti a fondare un uovo paradigma, realmente alternativo e potenzialmente egemonico.
Alcuni capisaldi:
economia, città, territorio, rendita e sviluppo
Nelle due edizioni VI e VII (2010 e 2011) ci siamo occupati di economia. Ci siamo riferiti all’economia data: quella, in particolare, della fase attuale dell’economia capitalistica. Ma se si vuole guardare un po’ di là dall’oggi (e la crisi che travaglia il mondo ci sollecita a farlo) dobbiamo pensare all’economia in senso più ampio: come dimensione necessaria della vita dell’uomo e della società. Lo scritto di Claudio Napoleoni ci aiuta a farlo, al di là della congiuntura e con un forte senso di innovazione delle categorie date: Economia, secondo Napoleoni
Il nostro interesse specifico è alla dimensione territoriale dei fenomeni. Ma la parola territorio è impiegata oggi con significati molto diversi. Rinviamo a tre scritti che ci sembrano particolarmente significativi: Salzano, Habitat bene comune esprime una visione di tradizione urbanistica, e quindi considera il territorio come il prodotto di un’estensione della città; Bevilacqua, Che cos’è il territorio, con fortissime analogia al precedente, esprime l’approccio di uno storico dell’ambiente e considera il territorio come habitat dell’uomo. Infine per precisare che cosa intendiamo per città rinviamo a Salzano, Crisi dello spazio urbano o fine (morte) delle città?
Nell’edizione 2010 della scuola abbiamo trattato la questione della rendita immobiliare, che è uno degli snodi più significativi del rapporto tra economia e territorio. Sull’argomento rinviamo a due scritti diversamente utili. Il primo Salzano, Parole per ragionare sulla rendita, cerca di spiegare che cos’è la rendita, e in particolare quella immobilare, partendo dalla sua definizione economica e in senso generale; il secondo. Walter Tocci, L’insostenibile ascesa della rendita urbana . illustra magistralmente il modo in cui la rendita immobiliare ha assunto un ruolo assolutamente ed egemone nell’economia (e quindi nel progetto urbanistico) del neoliberismo.
Per una critica al concetto di sviluppo consigliamo alcuni libri, quasi passaggi obbligati per ripercorrere l’evoluzione del concetto e comprendere l’arbitrarietà operata nell’assumere quella parola come sinonimo di progresso e di attribuirle così positività a priori, e per mettere in evidenza come lo sviluppo sia stato un abile strumento di potere per orientare e plasmare la società in una determinata direzione. Un testo breve e conciso è la voce “sviluppo” nel Dizionario dello sviluppo a cura di Wolfgang Sachs, in cui vengono passati in rassegna i concetti chiave che ruotano intorno alla ‘macchina dello sviluppo’ esaminandoli criticamente e mettendone in luce le contraddizioni. Per approfondimenti si può partire da Ivan Illich, che per primo ha messo in discussione il benessere derivato dallo sviluppo, leggendo Per una storia del bisogni. Altre due opere pioneristiche e ancora attualissime sono: Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale di Gilbert Rist e L’occidentalizzazione del mondo di Serge Latouche, entrambi per approfondire il concetto di sviluppo inteso come ‘dispositivo’ di potere per dominare il Terzo Mondo.
Dalla crisi del modello dominante
alla costruzione di immaginari contro-egemonici
I limiti sociali ed ecologici dello sviluppo, il degrado indotto dalla mercificazione dei beni primari, la crescente conflittualità internazionale attorno alle risorse naturali, l’aumento delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito, delle risorse, dei poteri decisionali e di rappresentazione (che rafforzano gli esistenti spazi di esclusione e ne creano di nuovi, sia a livello globale che locale), le mutate drammatiche condizioni del mondo del lavoro, la riduzione delle garanzie sociali sono il risultato delle trasformazioni strutturali del sistema socio-economico, svelato dalla crisi in atto. Al neoliberalismo è dedicata una cartella su eddyburg: Capitalismo oggi. Molti sono su eddyburg gli articoli che descrivono e criticano la città neoliberista. Segnaliamo due lavori di Salzano: la parte II del testo La città come bene comune. Costruire il futuro partendo dalla storia e La città dei proprietari. Sui temi dell’esclusione e segregazione suggeriamo Paola Somma La città dell’ingiustizia. Politiche urbanistiche e segregazione.
Sui temi della disuguaglianza, povertà, desocializzazione del lavoro, dalla Disoccupazione al supersfruttamento ed esclusione sociale in relazione dell’era dell’informazione si legga, in Lettera internazionale n 70, Manuel Castell,I due volti della globalizzazione dei mercati .
Se la sopravvivenza del neoliberalismo ha bisogno di ri-organizzazione e cambiamenti continui, allo stesso tempo i conflitti e le contraddizioni generano, inevitabilmente, una resistenza. Negli ultimi anni si sono moltiplicate le contestazioni agli effetti nefasti delle politiche neoliberiste, ma anche al progetto neoliberista preso nella suo complesso (e quindi alle istituzioni, all’ideologia e alle pratiche ad esso riferite). Si manifestano proteste di massa, dalla scala locale a quella nazionale, che sfidano spesso le pratiche e le politiche dello stato, mentre alla scala transnazionale di solito contestano l’operato e le visioni di organizzazioni e coalizioni internazionali come la Banca Mondiale o il G8. Oppure si esprimono come azioni di lobby relative ai salari, al lavoro, al problema della casa, a determinati servizi pubblici, alla salute ambientale e altro ancora. O ancora si manifestano in pratiche che generalmente ri-organizzano le esistenti relazioni enfatizzando una migliore interazione tra esseri umani e natura, tra ambiente naturale e ambiente antropico. E infine si traducono anche in proposte alternative complesse che includono diversi modi di vedere e comprendere il mondo, di sentire, nominare, agire, e potrebbero portare alla costruzione di una società completamente diversa.
Le migliaia d’iniziative di contrasto al saccheggio dei beni comuni, frammentate e disperse sul territorio, hanno trovato in questi ultimi anni più occasioni d’incontro. Il grande successo della raccolta di firme e la vittoria del referendum sull’acqua pubblica e quella per le energie alternative, il riemergere dell’Onda per la difesa della scuola pubblica, il movimento Stop al consumo di territorio e altri eventi come l’incontro di Teano “per un nuovo patto tra gli italiani” testimoniano che trent’anni di “finanzacapitalismo” sfrenato e consumismo diffuso non hanno, di fatto, innalzato il benessere generale della popolazione, e che il sistema dato non è in grado di soddisfare i bisogni e di dare risposta ai problemi della società.
In questo quadro, riacquistano forza alcuni vecchi concetti, come quello di giustizia sociale e diritto alla città e ne emergono di nuovi, come la decrescita, che si pongono decisamente controcorrente rispetto al modello di vita consolidatosi in questa fase del capitalismo. Questi concetti non sono una mera resistenza al neoliberalismo. Sono una vera e propria contro-egemonia e rimandono a pratiche e immaginari capaci di affermare visioni, ideali, norme, organizzazioni socio-economiche e politiche profondamente alternativi al sistema capitalistico.
Per gli studiosi questi concetti rappresentano un terreno di indagine sia per analizzare da punti di vista differenti i fenomeni correnti che per esplorare nuovi orizzonti, teorizzando nuove forme di organizzazione socio-spaziale. Per i movimenti che aspirano al un cambiamento sostanziale dell’ambiente in cui viviamo e della società che siamo, sono uno slogan, una bandiera, una parola d’ordine che rimandano ai valori di equità, democrazia, ecologismo. Due sono i grandi temi che accomunano questi progetti alternativi: il tema della giustizia sociale e quello dell’ambiente.
Wolfgang Sachs in “Ambiente e giustizia sociale” torna a parlare di giustizia sociale in connessione sia con la questione ecologica che quella intergenerazionale; egli si riferisce ad un concetto di giustizia che coniughi giustizia sociale ed ecologia proiettando sull’asse temporale il principio dell’equità nel rapporto tra le generazioni presenti e quelle future; vedi l’intervista di Giuliano Battiston I limiti della natura allo sviluppo dei desideri http://eddyburg.it/article/view/11389/.
I temi dell’ equità ed dell' ecologia si ritrovano in quello che oggi è probabilmente l’immaginario contro-egemonico più avanzato in termini di elaborazione concettuale: il movimento per la decrescita, verso una società equa, sostenibile, partecipata (www.decrescita.it) che rimette in discussione il mito dello sviluppo e della crescita come fondativo della nostra società. Serge Latouche, uno dei padri del movimento, dice che parlare di decrescita è come lanciare una sfida, è “un atto iconoclasta, per un altro di un nuovo modo di raccontare il nostro essere qui, ora, nel mondo”, come argomenta il Manifesto della Rete italiana per la Decrescita. La società della decrescita auspica l’uscita dall’economia (“rimettere in discussione il dominio dell'economia su tutti gli altri ambiti della vita, nella teoria come nella pratica, ma soprattutto nelle nostre menti”), la drastica riduzione dell'orario di lavoro imposto (per assicurare a tutti un impiego soddisfacente), un drastico ridimensionamento dei processi che comportano danni ambientali.
L’impegno per una sostenibilità e una giustizia ecologica spinge a rivedere tutte le forme di opposizione tra esseri umani e gli altri organismi viventi o tra gli esseri umani e la natura e alla consapevolezza di un cambiamento reso necessario dal riconoscimento della crisi e dall’accettazione di una responsabilità personale e politica, come spiega il testo Politica capace di fare futuro.
Di seguito i link ad alcuni articoli sul recente dibattito su crescita e decrescita innestato dall’articolo di Guido Viale L'economia del mondo verso il default; Valentino Parlato, Risposta a Viale. Qualcosa deve pure crescere e Paolo Cacciari, Caro Viale, la decrescita è necessaria .
L’elemento ddel cibo e dell’ agricoltura, e quindi della sovranità alimentare, acquistano un ruolo importante in queste elaborazioni, perchè come dice Latouche questo è la colonna portante di tutto il discorso, non fosse altro che perché noi tutti siamo viventi perché mangiamo. Per un argomentazione sulla sovranità alimentare si legga l’interessante dibattito tra Latouche e Petrini e l’articolo di Guido Viale Perché il mondo si sente così male.
L’equità e la questione distributiva in una prospettiva di giustizia sociale sono alla base di un altro concetto importante, il “bene comune”, che in questi ultimi anni ha visto una crescente elaborazione concettuale e un ampio consenso tra moltissimi movimenti che si battono per una società più giusta e un ambiente più sano,. Molti sono i libri usciti in questi ultimi due anni sul tema. Per una definizione chiara e l’analisi del problema che si pone alla cultura e alla società di oggi si legga Ugo Mattei, Beni comuni. Un diritto alla libertà oltre lo stato e il mercato. Per una genealogia del termine inviatiamo anche a leggere i due articoli di Piero Bevilacqua, Il racconto dei beni comuni e di Ugo Mattei Forme del diritto. Breve genealogia dei beni comuni . Per un approfondimento segnaliamo La società dei beni comuni, un utilissimo libro curato da Paolo Cacciari (di cui potete leggere in eddyburg la recensione di Carla Ravaioli) ; Ibeni comuni ripensano la democrazia in cui Cacciari spiega come alcuni gruppi hanno cominciato a rivendicarne l'uso; infine segnaliamo gli articoli di Ugo Mattei Beni Comuni, e Beni Comuni. Il sipario aperto dal potere del noi. Last but not least, il libro di Giovanna Ricoveri Beni comuni vs merci; un assaggio di quest’ultimo lo trovate in un’intervista all’autrice.
Nelle riflessioni e nelle pratiche controegemoniche assume un peso crescente il legame tra la difesa del territorio e degli altri beni comuni e la difesa del lavoro. Ma può la difesa del lavoro ridursi alla difesa dell’occupazione così come oggi il sistema vigente la determina? Alcuni scritti invitano a guardare al di là della contingenza e a rifondare la stessa concezione del lavoro come attività primaria dell’uomo utile sl progresso dell’umanità. Oltre allo scritto di Napoleoni citato suggeriamo la lettura dei seguenti testi. Salzano, Eddytoriale 144 ; Viale, L'economia del mondo verso il default ; Bevilacqua, Lavoro d'autunno,
Gli immaginari alternativi che emergono non riguardano solo l’organizzazione materiale della nostra esistenza, ma anche lo stesso modo di pensare. Secondo Boaventura de Sousa Santos, infatti, solo andando oltre il modo di pensare ‘eurocentrico’ e ‘nord-centrico’ da lui definito “abissale” possiamo elaborare un idea di scienza come “esercizio di cittadinanza e di solidarietà, la cui qualità si misura in ultima istanza attraverso la qualità della cittadinanza e della solidarietà che promuove o rende possibile”. Il pensiero abissale “è una disposizione intellettuale, filosofica e politica, che si traduce nella capacità di tracciare linee attraverso le quali istituire divisioni radicali all'interno della realtà, rendendone una parte «riconoscibile», rispettata, rilevante, e condannando tutto il resto all'irrilevanza e all'inesistenza”. Occorre invece una versione ampia di realismo, che, contrariamente all'interpretazione positivistica non riduce la realtà a ciò che esiste, ma include anche «le realtà rese assenti dal silenzio, dalla repressione e dalla emarginazione», le realtà «attivamente prodotte come non esistenti», e insieme le potenzialità, le latenze, le tendenze e le «emergenze» presenti in ogni frammento di realtà. Si legga l’intervista di Giuliano Battiston Passaggio epistemologico al sud globale.
Testi attorno alla traduzione
degli immaginari contro-egemonici
nel campo dell'urbanistica
I temi dell’equità e della giustizia sociale riemergono anche nell’ambito dell’urbanistica, per ridare valore a obiettivi sociali, enfatizzarne il ruolo politico, prima ancora di quello tecnico dell’urbanistica e per controbilanciare l’enfasi dell’efficacia sulla scia di una politica che ha cercato di raggiungere la “governabilità” riducendo lo spazio della democrazia. Una Voglia di equità (raccontata da Boniburini e Durante: da non confondere con la perequazione, come risulta chiaro dall’eddytoriale 119.
Una lezione magistrale sulla qualità sociale della pianificazione (e sulla crisi della politica e le sue ricadute sulla vivibilità e il territorio) è il testo di Luigi Scano, Il governo pubblico del territorio e la qualità sociale. In effetti non tutte le pratiche di pianificazione possono essere considerate adeguate. Anzi, il modo di governare il territorio (e i conseguenti strumenti) praticate negli ultimi decenni si sono rilevate del tutto inadeguate a risolverne i problemi: anzi, hanno sempre più accetuato i febonei di disagio, disfunzione, distruzione delle qualità, iniquità. Il fatto è che la pianificazione non è un valore in sé: lo diventa a seconda della sua qualità sociale, degli obiettivi che essa si pone e al cui raggiungimento è adeguata. Riflessioni utili per comprenderlo si trovano anche in alcuni scritti di Salzano, quali: Lezione sulla pianificazione, L'urbanistica per la formazione del cittadino , Vent’anni e più di urbanistica contrattata .
Che fare allora,oggi? Quali sono le domande che si deve porre l’urbanistica? Da dove partire per comprendere qual è l’habitat capace di assicurare benessere alle generazioni attuali e a quelle future (che non è quello economico ed esprimibile dal PIL o dal reddito), vivibilità alle nostre città, pace, salute, democrazia? Come può l’urbanistica contribuire, orientando la salvaguardia, manutenzione, costruzione e cambiamento dei nostri territori, a costruire una società diversa, più bella perché più equa? Guardando alla società possiamo dire che uno dei punti di partenza può essere costituito dalla miriade di episodi che nascono spontaneamente, ma che esprimono sofferenze individuali appartenenti a moltissime persone, che si traducono spesso in tentativi di aggregazione, associazione, iniziativa comune di protesta e talvolta anche di proposta.
In queste azioni collettive il territorio è spesso protagonista perché si denunciano le condizioni dell’ambiente fisico e del paesaggio, sempre più inquinati e sgradevoli, ricchi di pericoli e privi di qualità, si denuncia la condizione della salute dell’uomo, esposto a malattie e a rischi di degradazioni biologiche, si addita alla condizioni della vita urbana, sempre più caratterizzata dalla carenza di servizi per tutti, di spazi condivisibili da tutti, di luoghi collettivi accessibili da parte di tutti; si attacca le difficoltà gravi per accedere ad alloggi a prezzi ragionevoli in luoghi dai quali sia facile e comodo accedere ai servizi e al lavoro.
Un movimento molto vasto, che costituisce il tessuto connettivo tra moltissimi comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva, è quello che tenta di contrastare il consumo di suolo: la trasformazione sempre più estesa di terreni naturali, spesso caratterizzati da una buona agricoltura o da piacevoli paesaggi rurali, in aree urbanizzate dalla speculazione immobiliare o dall’abusivismo. Si veda il manifesto nazionale del movimento.
Il concetto di diritto alla città è diventato un riferimento ideologico per molti dei quali si sono e continuano a porsi questa domanda. Esso trova la sua base teorica negli assunti di Henri Lefebvre e nei successivi approfondimenti di altri studiosi che in questi ultimi anni hanno contribuito a spiegare, specificare, e allargare il concetto. La sua base materiale può essere individuata nei conflitti sociali e territoriali in atto in ogni parte del mondo, che danno luogo a contestazioni sia nei confronti del progetto neoliberista che a opporre resistenza alle ingiustizie, all’esclusione sociale, e all’oppressione nel suo significato di sfruttamento, emarginazione, mancanza di potere, imperialismo culturale e violenza. Anche se il concetto non trova ancora un’articolata ed esaustiva spiegazione e non da luogo a veri e propri progetti contro-egemonici, rimane una guida per coloro in cerca di visioni, principi, criteri e modi per trasformare l’utopia in un immaginario dal potere trasformativo.
Sul tema si vedano gli articoli Marvi Maggio Il diritto alla città e la pianificazione urbanistica. Proposte per Firenze, e non solo; e Salzano, La qualità della città pubblica. Di diritto alla città e città come bene comune si è discusso anche al Forum sociale europeo del 2008, dove in seguito all’iniziativa sulla città promossa da eddyburg.it, Zone e da alcune strutture della Cgil si è elaborato un interessante documento , di cui si da conto anche nell’ eddytoriale 118. Urbs, civitas, polis: questi i tre termini che riassumono il nocciolo della questione. “Zero sfratti” degli abitanti dalle case, dagli spazi pubblici, dai quartieri e dalla città, difesa del ruolo del lavoro e dei suoi diritti, contrasto alle iniziative di privatizzazione degli spazi e dei beni pubblici sono gi impegni di lotta più immediati. Ma è stato considerato altrettanto indispensabile aiutare i movimenti a dirigere la loro attenzione dal locale al nazionale e al globale, dal settoriale al generale.
Al concetto di diritto alla città è associato l’immaginario di città come bene comune sviluppato da Edoardo Salzano in suoi diversi scritti. Vi segnaliamo in proposito Dualismo urbano. Città dei cittadini o città della rendita e La città come bene comune. Costruire il futuro partendo dalla storia.
Per concludere questa introduzione alla costruzioni di immaginari-controegemonici vorremmo dare conto di due scuole di pensiero che per molti versi si sovrappongono e che condividono molti dei temi sopracitati. La “società dei territorialisti/e” è una associazione in corso di formazione, caratterizzata dal concorso di studiosi di molte discipline intenzionati a sviluppare un sistema complesso e integrato di scienze del territorio. Nasce dal lavoro interdisciplinare di urbanisti, architetti, designers, ecologi, geografi, antropologi, sociologi, storici, economisti, scienziati della terra, geofilosofi, agronomi, archeologi che, a partire dalla metà degli anni '80, hanno sviluppato ricerche e progetti facendo ponendo al centro dell’attenzione il territorio come bene comune nella sua identità storica, culturale, sociale, ambientale, produttiva e il paesaggio in quanto sua manifestazione sensibile. In vista del prossimo congresso fondativo della società dei territorialisti/e sono sintetizzati, è stato elaborato un Manifesto, curato da Alberto Magnaghi, nel quale sono enucleati i principi fondanti che caratterizzano l’approccio territorialista. In particolare, l’attenzione ai caratteri specifici dei luoghi viene posta a fondamento di scenari di sviluppo della società locale, alternativi a quelli imposti dalle relazioni economiche globali, che si basano sulla valorizzazione del patrimonio storico, ambientale, culturale e sociale, e sono costruiti e promossi grazie al sapere e all’iniziativa della cittadinanza attiva.
Il “bioregionalismo” nasce dall’incontro di Peter Berg, esponente delle avanguardie culturali con l’ecologista Raymond Dasmann, è sostanzialmente una pratica di vita, alla base della quale sta la consapevolezza di essere e agire come parte della più ampia comunità che vive in un determinato territorio, inteso come una bio-regione. La bio-regione, secondo l’accezione più radicale è sia uno spazio geografico, sia un “terreno della coscienza”, poiché prevede un sistema sociale strettamente integrato con l’ecosistema ed i ritmi naturali. Per saperne di più rimandiamo ad uno scritto di Silvio Franco: . Al concetto di bio-regione fa riferimento lo stesso Latouche nella tesi per la città decrescente, che dovrebbe essere una città con una impronta ecologica ridotta, capace di trattenere un rapporto forte con l’ecosistema. L’autore, esaminando la crisi della città, sostiene che piuttosto di sognare la costruzione di città nuove, bisogna imparare ad abitare le città in modo diverso. «La città consuma bassa entropia [energia, risorse, cibo, ecc.] e esporta massicciamente alta entropia [rifiuti, inquinamento]. Si tratta di un predatore ecologico che consuma una superficie «fantasma» molto superiore alla sua superficie reale».