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Oscar Mancini
Città e lavoro, le due vittime del neoliberismo
1 Dicembre 2008
2009 Città bene comune, vertenza europea
Il testo della relazione al convegno "Città come bene comune, vertenza euuropea", Venezia, 24 novembre 2008

Dopo Malmö

Un’improvvisa accelerazione di avvenimenti caratterizza il breve periodo di tempo che ci separa da Malmö: l’irrompere di un’inedita crisi finanziaria globale, l’elezione di un afroamericano alla Presidenza degli U.S.A., la ripresa in Italia di un movimento di lotta contro la politica del Governo e della Confindustria.

Con la crisi finanziaria siamo giunti ad un punto di rottura dell’attuale modello di sviluppo: il turbo capitalismo non funziona più. Sta sotto i nostri occhi l’esaurirsi del ciclo neoliberista che ha spremuto il plusvalore del lavoro riducendolo alla merce più vile e concentrando la ricchezza nelle mani di quella che Robert Reich - Ministro di Clinton – chiama la “superclasse”, la infima minoranza che possiede metà della ricchezza globale. Ecco la ragione della crisi. La crisi attuale è figlia del trionfo della globalizzazione dominata dal Washington consensus e del liberismo.

Siamo dunque ad un cambio di fase. La globalizzazione liberista a lungo vista come un fenomeno positivo in quanto avrebbe portato prevalentemente benefici in tutto il mondo ci consegna invece una recessione economica di non breve durata con pesanti conseguenze sui lavoratori di tutto il mondo.

La discontinuità rispetto alla fase precedente è evidente se si considera che la soluzione neoliberista è stata a tal punto assolutizzata come fosse l’approdo definitivo della storia del capitale ovvero la “fine della storia” tout court secondo l’ideologia dominante che si è affermata dopo la sconfitta del Socialismo.(Mario Tronti 2008)

Se è vero che il Capitalismo si giustifica non con le sue premesse ma con i suoi risultati appare evidente che questa crisi di inizio secolo mina la credibilità morale del “turbo capitalismo” (Giorgio Ruffolo 2008).

Ciò che sta succedendo nel mondo ci dice che la promessa di un’estensione universale del benessere è incrinata dall’esperienza di un mondo sempre più instabile e ingiusto. Negli ultimi venti anni è proprio l’allocazione delle risorse dell’economia guidata dai mercati finanziari che si è tradotta in un aumento delle diseguaglianze e in una devastante pressione sulle risorse naturali: in direzione opposta rispetto ai bisogni reali dell’umanità. Infatti, l’indice Gini sulle diseguaglianze relativo alla popolazione mondiale è aumentato negli ultimi 15 anni del 20%.

Se questi sono i risultati del ciclo avviatosi con le politiche thatcheriane e reaganiane si pone il quesito: che fare ? la ricetta liberista avrebbe suggerito: “hanno sbagliato paghino. Lasciamo al mercato di farli fallire”. Però nel momento in cui questi fallimenti sarebbero stati di dimensioni tali da far fallire il sistema è entrato in campo il ruolo degli Stati. Non saremo noi a dolercene. Però vi erano due opzioni: lo Stato poteva intervenire entrando nella proprietà delle banche (in alcuni casi è stato fatto) oppure prestare liquidità alle banche. E’ prevalsa la seconda ipotesi.

A pagare saranno dunque i contribuenti senza alcuna contropartita.(Giorgio Lunghini 2008)

Quale risposta può invece venire da sinistra ? se è difficile negare gli elementi di verità contenuti nel ritratto compiuto da Rossanda di una Sinistra che “di fronte alla più grossa crisi del Capitalismo dal ’29 non sa cosa proporre” non sarò certo io a colmare questa lacuna.

Consentitemi però con Laura Pennacchi di sottolineare che dalla drammatica lezione che la storia ci sta impartendo se da un lato non dobbiamo ricadere nello statalismo deteriore e autoritario, dall’altro non possiamo nemmeno ricavare l’idea che il nuovo intervento pubblico debba limitarsi alle regole, di cui pure c’è bisogno.

La crisi infatti non è solo regolatoria. E’, come abbiamo già detto, crisi di un modello intero di sviluppo che giunge ad esaurimento. Dunque, regole si ma anche politiche e programmi che facciano i conti con le cause: signoraggio del dollaro, sproporzione dell’indebitamento americano rispetto al reddito e della finanza rispetto all’economia reale; bassi salari e poco welfare; spesa militare e devastazione ambientale.

Una questione di enorme portata che implicherebbe un “drastico rovesciamento del complesso degli indirizzi macro e micro economici fin qui seguiti” (Laura Pennacchi, 2008).

Il rovesciamento è necessario per uscire dalla morsa nella quale ci costringe l’attuale modello di sviluppo. Come tra Scilla e Cariddi avvertiamo due pericoli simultanei: “la crisi minaccia la crescita che è considerata, oggi, l’irrinunciabile sostegno dell’economia. Dall’altro la crescita minaccia la sopravvivenza, che si basa sui grandi equilibri ecologici” (Giorgio Ruffolo, 2008).

Qual è il rischio maggiore? Quello della recessione o quello della sopravvivenza? Da questo dilemma è possibile uscire – per dirla ancora con Ruffolo – solo con un “radicale mutamento di paradigma: culturale e morale, prima che economico” ovvero il passaggio da un’economia insensata, senz’altri fini che il profitto, ad un’economia ecologicamente equilibrata, al servizio della società.

Un’altra economia è possibile se al criterio della massimizzazione si sostituisce quello dell’ottimizzazione nell’allocazione delle risorse.

Questo obiettivo non lo si può affidare al mercato. Esso richiede il ritorno della “programmazione” (bestemmia?) ovvero, in altri termini, della Politica.

In attesa di una nuova Bretton Woods che ridefinisca il nuovo ordine economico-finanziario globale ci pare ragionevole proporre tre indirizzi: Lavoro, risorse naturali, conoscenza. In questa triade c’è un’altra idea di società umana. Ne consegue per l’immediato:

  1. la necessità di un intervento a sostegno del reddito dei lavoratori e dei pensionati sulla base della piattaforma che la CGIL ha posto al centro dello sciopero generale del 12 dicembre. Redistribuire il reddito dai ricchi ai poveri ha un duplice effetto: uno sul piano della giustizia sociale, che non è trascurabile. L’altro immediatamente economico: se la domanda cresce questo ha un effetto positivo sull’insieme dell’economia.
  2. la necessità di destinare ingenti risorse a un piano di opere pubbliche capaci di riorientare l’economia verso un modello di sviluppo sostenibile e di qualità al servizio delle persone, della società, dell’ambiente.

Come proposto da “Sbilanciamoci”, l’Unione Europea e l’Italia dovrebbero finanziare, con risorse almeno pari a quelle destinate alla finanza, tre capitoli:

a.opere di tutela del territorio al posto di grandi opere devastanti, miglioramento di scuole e servizi sanitari pubblici, sistemi di trasporto urbano e regionale, miglioramento della qualità della vita;

b.un piano di costruzione e ristrutturazione di abitazioni di proprietà pubblica, che rimangano solidamente in mano pubblica, compreso il suolo su cui sorgono, da assegnare in affitto, con canoni commisurati al reddito, a giovani e famiglie a basso reddito;

c.incentivi pubblici a investimenti privati in energie rinnovabili e attività sostenibili dal punto di vista ambientale.

3. Un piano strategico di sostegno alla Scuola, all’università e alla ricerca che si muova nella direzione indicata dallo straordinario movimento che si è sviluppato negli ultimi mesi.

Come ha scritto Eddy Salzano la scuola è (era ?) ancora quello che resta dello spazio pubblico: un luogo di incontro, non interamente colonizzato dalla logica degli affari, dove diverse culture si possono incontrare. Per noi che ci occupiamo della città come bene comune “è significativo il fatto che il movimento di contestazione per la difesa degli spazi pubblici della formazione e della conoscenza abbia voluto (e dovuto) occupare anche gli spazi pubblici delle città: le piazze e le strade, le scuole e le università. Senza questa feconda occupazione il movimento non avrebbe potuto riconoscersi e quindi esistere, e neppure parlare al resto della società …” (Salzano 2008).

In sostanza si potrebbe dire senza spazi pubblici non c’è democrazia.

A Malmö

La realtà

Divaricazione tra crescita economica e benessere sociale

La società in cui viviamo ha consegnato il proprio futuro a un sistema fondato sull’accumulazione illimitata. Non appena la crescita subisce un rallentamento o si arresta, dilaga il panico. La capacità di sostenere il lavoro e di pagare lo stato sociale presuppone il costante aumento del prodotto interno lordo (PIL). La crescita però porta benefici soprattutto ai ricchi, è insostenibile dal punto di vista ambientale e sociale e si accompagna a una progressiva perdita di relazioni umane.

Esaminiamo sinteticamente i fatti:

1. Le statistiche sulla distribuzione del PIL tra capitale e lavoro ci dicono che negli ultimi dieci anni (in Italia negli ultimi trenta) la quota di reddito nazionale che va al lavoro dipendente è costantemente diminuita in tutti i paesi occidentali ed anche in quelli emergenti (Cina e India) e di converso è aumentata la quota di reddito nazionale che va al capitale.

2. Il “peso” ambientale dei nostri modi di vita e la loro “impronta ecologica” risultano insostenibili sia dal punto di vista dell’equità nei diritti di sfruttamento della natura che della capacità di rigenerazione della biosfera. I processi di trasformazione dell’energia non sono reversibili (seconda legge della termodinamica).

3. Al trionfo dell’economia corrisponde la progressiva scomparsa della dimensione sociale. La crescita della ricchezza si accompagna ad una progressiva perdita di relazioni umane fondamentali: amicizie,affetti, legami disinteressati.

4. I caratteri del neoliberalismo generano instabilità nei rapporti internazionali tuttora dominati dalla spirale guerra/terrorismo e dallo scontro latente tra le diverse “locomotive dello sviluppo”. La moltiplicazione e la diffusione geografica dei conflitti armati negli ultimi venticinque anni costituisce la continuazione della politica neoliberista “con altri mezzi”.

Dunque appare evidente che crescita economica e benessere sociale si stanno divaricando.

Il capitalismo d’oggi

All’origine dei fenomeni succintamente descritti vi è la forma attuale assunta dal capitalismo. Un sistema economico sociale che ha innalzato sull’Olimpo una nuova divinità, sconosciuta sinora a tutte le religioni rivelate: il Dio Mercato che tutto mercifica.

Per una lunga fase in Europa il capitalismo, regolato e temperato dalla forza del movimento operaio e dalle sue espressioni sindacali e politiche, aveva prodotto un sostanziale miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia e dei ceti popolari. Compito del movimento sindacale e dei partiti della sinistra era quello di promuovere lo sviluppo perché solo attraverso una maggiore produzione di ricchezza si creavano le condizioni favorevoli per una migliore ripartizione della crescita.

La caduta del muro di Berlino arrivò come una conferma delle virtù superiori del capitalismo e aprì una nuova fase della sua storia: l’allargamento del mercato mondiale a tutti i paesi, il predominio della dimensione finanziaria su quella concreta, la riduzione del ruolo dello stato nazione e la creazione di un immenso, globalizzato, mercato del lavoro. Mezzo miliardo di lavoratori occidentali sono stati messi in concorrenza con un miliardo e mezzo di lavoratori orientali con la conseguenza che il lavoro si paga a prezzi sempre più bassi mentre le merci si pagano a prezzi dei paesi più “sviluppati”.

E così tutte le conquiste storiche del movimento dei lavoratori sono state velocemente messe in discussione. Esemplare la sconvolgente direttiva europea sull’allungamento degli orari di lavoro. Non solo, le politiche neoliberiste, nelle stesse società ricche, hanno generato nuove forme di povertà, marginalità ed esclusione sociale.

In sostanza, il welfare è stato, anche nell’Europa socialdemocratica, parzialmente smantellato e, soprattutto, è ripresa – dopo quasi mezzo secolo- una divaricazione/polarizzazione crescente tra le fasce di reddito medio alte e la maggioranza della popolazione.

Per dare una risposta al disagio sociale il Washington consensus continua a ripetere: bisogna rilanciare la crescita economica e reggere la competizione asiatica attraverso l’aumento della produttività del lavoro e il taglio della spesa sociale. La risposta dei principali governi europei si esprime attraverso la nota ideologia Sarkoberlusconiana: “se vuoi guadagnare di più devi lavorare di più”.

Entra in crisi il luogo di lavoro come luogo delle relazioni

Storicamente il luogo di lavoro, e la fabbrica in particolare, ha rappresentato il luogo d’incontro, di solidarietà, di rapporti sindacali, d’interessi comuni, di amicizia. Oggi la fabbrica è cambiata.

Tutte le forme di relazioni sociali sono diventate più rade e più fragili. Le attività di gruppo che hanno sempre formato una parte intrinseca della socialità del lavoro risultano difficili. Si stenta persino a mettere insieme una squadra sportiva. La ragione principale non sta nel cambiamento degli stili di vita: la causa principale sta nei contratti di breve durata, nel precariato, nella dispersione del lavoro, nell’affidamento a imprese esterne, diverse dall’impresa che controlla la fabbrica, di segmenti sempre più ampi del processo produttivo interno.

Oggi può accadere che su cento lavoratori in attività entro una fabbrica, ma anche in un cantiere, in un dato giorno, appena un terzo o un quarto siano dipendenti fissi dell’impresa cui la fabbrica stessa fa capo. Gli altri sono lavoratori che oggi ci sono ma domani, o tra una settimana o un mese, non ci saranno più, o verranno sostituiti da qualche faccia nuova. Per alcuni sarà scaduto il contratto, quale che fosse, da interinale, da apprendista, da collaboratore o da contratto a tempo determinato. Ad altri, dipendenti da imprese terze, subentreranno in fabbrica i dipendenti da nuove imprese.

La fabbrica così da luogo canonico di permanenza e stabilità, si trasforma in luogo di frettoloso passaggio. E’ un cambiamento epocale.

Nella vecchia fabbrica fordista tutto si faceva in casa. Tutti dipendenti a tempo indeterminato. Chi entrava in queste fabbriche spesso ci rimaneva una vita ed era dunque interessato a lottare per migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro. Si determinarono così le condizioni per lo sviluppo di una fortissima solidarietà di classe guidata da un’idea di uguaglianza.

Il postfordismo è il rovesciamento di questa impostazione. Conviene esportare fuori dalla fabbrica una serie di funzioni, si risparmia. È una corsa alla riduzione delle dimensioni produttive, la fabbrica snella tende a procurarsi all'esterno ciò che prima produceva all'interno.

La fabbrica si disperde sul territorio

Nasce così l'impresa a rete, il lavoro si disperde nel territorio. Prima le reti erano corte, distrettuali, oggi le reti diventano sempre più lunghe, tendono a stendersi ed articolarsi su scala planetaria, connettendo segmenti di produzione, saperi tecnologici e reti commerciali, dislocate magari in continenti diversi.

Il cambiamento è reso possibile dalla rivoluzione delle nuove tecnologie dell’I.C.T. che velocizzano le comunicazioni e dalla ricerca del capitale di luoghi di produzione a minor costo del lavoro.

Così la fabbrica postfordista esternalizza, il lavoro si disperde nel territorio. In molte regioni, come nel Nord Italia, nascono come i funghi i capannoni in mezzo alla campagna , dove il terreno costa meno.

La fabbrica just in time elimina il magazzino perché esso viaggia sulle nostre strade congestionate che a loro volta attirano attività commerciali, il tutto genera una mobilità multidirezionale delle merci e delle persone, quasi sempre su mezzi privati che congestiona il traffico e soffoca la nostra esistenza.

Una mutazione gigantesca, formata dalla somma di trasformazioni diffuse e capillari, ha investito negli ultimi decenni particolarmente il Nord Est d’Italia. Un diluvio di cemento che ha deturpato uno dei paesaggi più belli d'Europa. Si affermano nuovi modi di costruire. Le strade-mercato, una successione lineare di fabbriche ed edifici mostra che ha invaso ormai l’intera pianura padana. Più in generale, quello che un tempo era campagna è diventato un paesaggio reticolare della piccola impresa disseminato di case laboratorio. Nuovi monumenti suburbani crescono come funghi, sono i centri commerciali che sostituiscono le vecchie piazze cittadine.

Un modello di urbanizzazione costoso in termini di distruzione di suolo agricolo, di aumento di spese di energia e di tempo nonché insostenibile da un punto di vista ambientale e scarsamente competitivo rispetto ad altri modelli territoriali. Una dispersione insediativa per la quale gli americani coniarono il termine “ sprawl town”, letteralmente: città sdraiata sguaiatamente.

L’habitat dell’uomo diventa una marmellata

In sostanza, l’ambiente della vita dell’uomo diventa una marmellata; è sempre più privo di forma e memoria dei luoghi, è vissuto come alienante soprattutto dalle nuove generazioni. Ecco una delle cause della crisi del luogo dell’abitare.

Dalle città stanno scomparendo i luoghi d’incontro, anche per effetto della prepotenza del traffico automobilistico. Le piazze sistematicamente trasformate in parcheggi ne sono una manifestazione esemplare. Sono state il gioiello e il simbolo delle città come bene comune, come “casa della società” secondo la bella definizione di Salzano. “Hanno costituito il luogo nel quale gli abitanti diventavano cittadini, s’incontravano, si scambiavano informazioni, condividevano sentimenti ed emozioni: erano un crogiuolo di diverse esperienze, condizioni, età, mestieri. Oggi sono distrutte dall’invasione delle automobili. Analogo destino hanno avuto le strade. I grandi viali erano caratterizzati da grandi marciapiedi(…)..Le strade strette tra le case a due tre piani, nei paesi e nei centri storici, erano i luoghi dove i vicini si sistemavano a crocchio sulle sedie, fuori dall’uscio di casa per conversare” (Salzano, 2007).

Tutto ciò tende a divenire luogo di parcheggio. Tra i molti primati negativi, l’Italia ha anche la più alta quota di automobili private e la più bassa per traffico assorbito dai mezzi pubblici. Non solo perché non s’investe nel trasporto pubblico ma anche perché continua a mancare una pianificazione urbanistica tesa a contenere la dispersione insediativa e a favorire un’organizzazione del territorio fondata sulla vicinanza delle residenze ai luoghi quotidianamente frequentati (scuole, servizi, luoghi di lavoro), sulla conseguente facilità degli spostamenti pedonali e ciclabili e sulla coincidenza dei nodi del trasporto collettivo.

Le città si allargano, si “sdraiano sguaiatamente sul territorio”, perché tanti cittadini vanno a vivere in luoghi nei quali gli i prezzi delle case siano meno elevati di quelli nella città. Tutto ciò ha effetti pesanti sul sistema territoriale e su quello sociale: una crescita esponenziale della mobilità privata, una spinta vera all’isolamento, una segregazione dei ceti cui gli alti costi impediscono di accedere alla vita in citta.

Come riconquistare i diritti per la città e per il lavoro?

“La città può diventare di nuovo l’ambiente favorevole alla vita dell’uomo se saremo capaci di restituirle la sua natura originaria di casa della società: (…). La città nel suo insieme e le sue parti vitali devono quindi essere viste, sentite e organizzate come beni comuni. Beni quindi, e non merci: prodotti e servizi che valgono di per se, non in quanto possono essere scambiati con altri o con la moneta. Comuni quindi, e non individuali: elementi materiali e immateriali che solo temporaneamente e occasionalmente possono essere goduti o fruiti da uno dei membri della comunità, ma che appartengono alla comunità nel suo insieme.” (Salzano 2007).

Questi principi comportano la necessità di compiere determinate scelte. La principale è che le trasformazioni della città debbono avvenire secondo un piano, un disegno e un programma unitario rispondente agli interessi della collettività e non già - come oggi avviene correntemente in Italia – agli interessi della rendita immobiliare.

L’accesso alla casa per tutti – il diritto alla casa - e il diritto alla città per tutti è un grande tema, particolarmente in Italia: un tema controcorrente. Molte ordinanze dei “sindaci sceriffo” ci dicono invece che questi diritti oggi sono negati a chi per reddito o per etnia o per condizione sociale, per religione o per recente immigrazione è considerato pericoloso semplicemente perché diverso, e quindi emarginato e segregato in parti separate della città, nei nuovi ghetti. A questi corrispondono i “ghetti dei ricchi”: villaggi recitanti e video sorvegliati dove le famiglie benestanti si rinchiudono, segregandosi dalla paura di dover condividere i propri privilegi con gli abitanti delle aree vicine.

I costruttori della “fabbrica della paura” chiedono braccia per accudire i nostri vecchi e per i lavori più dequalificati nelle nostre fabbriche, ma una volta terminato il turno di lavoro si pretenderebbe che scomparissero dalla nostra vista. Essi sono ormai parte essenziale di un lavoro che si disperde in mille rivoli in un territorio sempre più ampio e contemporaneamente assistiamo ad una concentrazione finanziaria e dei centri di comando.

Questo cambiamento rende più ardua la tutela dei lavoratori non solo perché il lavoro è disperso nel territorio, ma anche perché all’interno dello stesso sito convivono lavoratori con contratti diversi. Dentro le mura di una stessa fabbrica lavorano lavoratori stabili con contratti a tempo indeterminato insieme a lavoratori somministrati a pseudo soci di pseudo cooperative super sfruttati, spesso impegnati nella logistica, e ancora tempi determinati e altre numerose forme di precariato. Questo fenomeno non riguarda solo l’industria, è pervasivo di tutti i settori produttivi e dei servizi pubblici e privati.

Le politiche contrattuali per il lavoro

Il lavoro frantumato

In Italia, in questi ultimi anni, al blocco delle assunzioni nel pubblico impiego ha corrisposto l’esternalizzazione di molti servizi a privati e a pseudo cooperative, nei comuni e province, nelle Unità sanitarie locali, nello stato e nel parastato.

Nello stesso luogo di lavoro operano fianco a fianco lavoratori con diverse tipologie contrattuali e magari dipendenti da diverse imprese con la conseguenza che ad essi vengono riconosciuti diritti del tutto diversi sia sul piano salariale che sul piano normativo.

Molto spesso noi siamo in grado di contrattare solo per i lavoratori stabili e a tempo indeterminato. E così veniamo accusati di difendere i presunti privilegi dei lavoratori dotati di diritti a scapito dei giovani e dei precari. Prima frantumano il lavoro, lo deprivano di diritti e poi lo usano per erodere le mura della cittadella dei diritti.

Mentre noi vogliamo estendere i diritti a chi ne è privo, loro tentano di far credere che togliendo i diritti a chi ancora li ha, sia possibile migliorare le condizioni di chi non ne ha, quasi che la cosa funzionasse sulla base del principio dei vasi comunicanti.

Ma non basta la denuncia per difendere le nostre conquiste, occorre riqualificare la nostra contrattazione per riunificare ciò che l’impresa frammenta per indebolirci.

Rilanciare e riqualificare la contrattazione aziendale

In questi anni le condizioni di lavoro sono peggiorate. E’ necessario perciò riqualificare la contrattazione aziendale sull’organizzazione del lavoro, sui carichi, sui ritmi, sugli orari, sulla salute e la sicurezza.

La riconquista di un potere d’intervento delle rappresentanze sindacali unitarie nei luoghi di lavoro (R.S.U.) su questi temi è la condizione per esercitare nei fatti i diritti sanciti dalle leggi e dai contratti, altrimenti destinati a rimanere sulla carta. Così come è essenziale tornare a rivendicare quelle conoscenze ed informazioni che permettano di ricostruire il ciclo produttivo frammentato.

Ma non basta più la contrattazione nel luogo di lavoro, e dentro il luogo di lavoro, solo per il nucleo di lavoratori stabili. È indispensabile ricomporre tutto ciò che è stato decentrato, terziarizzato, esternalizzato attraverso una contrattazione di sito e di filiera, capace di ricomprendere tutto il ciclo del prodotto o del servizio, riunificando la rappresentanza unitaria dei lavoratori che vi sono coinvolti.

Una contrattazione che sappia parlare a tutta quella vasta variegata gamma di lavoratori che operano dentro lo stesso luogo di lavoro indipendentemente dal tipo di contratto o dell’impresa alla quale appartengono. Il tutto nel quadro di un rinnovato ruolo centrale del Contratto collettivo nazionale di lavoro con funzione sovraordinata. Questa è la sfida per il futuro. Alcune esperienze ci dicono che è possibile. E’ questo un segno di speranza per tutti noi.

La contrattazione sociale territoriale

Il secondo terreno d’iniziativa è rappresentato dalla contrattazione sociale territoriale, ovvero la connessione tra la contrattazione aziendale e il territorio, con un duplice obiettivo: riprendere il controllo sull’intero ciclo produttivo - ovvero l’intera filiera di fabbricazione di un prodotto o erogazione di un servizio spesso dispersa nel territorio -e la saldatura tra i diritti del lavoro e i diritti di cittadinanza in materia di salute, di scuola, di servizi sociali e via dicendo. A questo scopo alcune Camere del lavoro (strutture territoriali della CGIL) si sono dotate di Consigli di zona, organismi di partecipazione democratica dei delegati di luogo di lavoro. Altre, da tempo sviluppano una interessante contrattazione territoriale. Il territorio in quanto spazio fisico sempre più strettamente interconnesso con le dinamiche produttive diventa decisivo sia per riprendere il controllo della filiera sia perché la contrattazione di luogo di lavoro possa disporre di una iniziativa esterna in materia di formazione, ricerca, politica industriale. Oppure, per l’importanza di accompagnare la contrattazione del salario con una contrattazione sociale in grado di ottenere risultati su materie come gli asili nido, i servizi di assistenza, la sanità, la casa, i trasporti, i beni comuni prodotti dai servizi pubblici locali (acqua, ambiente, energia), l’integrazione dei migranti, la vivibilità urbana, anche attraverso la richiesta al sistema delle imprese di contribuire al finanziamento del welfare locale.

È un salto culturale, politico e organizzativo quello che noi proponiamo: la saldatura tra la contrattazione di secondo livello e la contrattazione nel territorio. È questa una proposta di allargamento del campo d’azione del nostro lavoro sindacale per tenere insieme il luogo di lavoro e la sua inscindibile relazione con il contesto territoriale, nei suoi diversi aspetti di organizzazione e pianificazione dello spazio urbano, di equilibrio ambientale, di qualità ed efficacia del welfare locale.

Perché nascondono il lavoro dipendente?

Da troppi anni viviamo in una realtà virtuale, quella che ci viene rappresentata dai media. Per anni ci hanno raccontato che gli operai erano una specie in via di estinzione e che più in generale il lavoro dipendente sarebbe stato destinato ad essere sostituito dal lavoro autonomo. Chi non capiva questi processi veniva dipinto come vecchio ed incapace di comprendere la modernità.

È successo esattamente il contrario: tra il 2000 e il 2006 gli operai sono aumentati del 13% raggiungendo quota 8 milioni, il 35% degli occupati. Nello stesso periodo gli imprenditori sono invece diminuiti del 34% passando da 525.000 a 346.000. Vale a dire la supposta centralità dell’impresa corrisponde all’esercizio di un comando di una minoranza che si restringe sulla maggioranza.

L’aumento del lavoro operaio, seppur diversamente distribuito tra agricoltura, industria e servizi si situa all’interno di una più generale tendenza all’espansione del lavoro dipendente in Italia, in Europa e nel mondo. Su un totale di 22 milioni e 900 mila occupati i lavoratori dipendenti in Italia risultano essere 16 milioni 900 mila, il 73, 5 %. Nel Veneto delle partite IVA la percentuale è addirittura superiore.

Dunque il lavoro dipendente non solo non scompare ma al contrario aumenta, si estende e si diversifica mentre come dice Censis, anche quest’anno abbiamo assistito ad una riduzione del lavoro autonomo. Perché allora ci rappresentano quotidianamente un’altra realtà?

La ragione è semplice. Se si riesce a far credere che la tendenza dell’economia è quella all’estinzione del lavoro dipendente, cade la necessità di rappresentarlo. Quindi cade anche la distinzione tra destra e sinistra che nella rappresentanza del lavoro trova la sua ragione costitutiva.

Ne consegue che per la politica diventa centrale la rappresentanza dell’impresa e del lavoro autonomo.

Gli operai non compaiono mai nel mondo delle immagini costruite dai media. Eppure, tutte le cose di cui siamo circondati e che usiamo quotidianamente sono uscite da una fabbrica. Di li vengono l’auto il frigorifero, il telefono e il televisore. Da una fabbrica sono usciti pure la tazzina di caffè che abbiamo sorseggiato e il tavolo su cui l’abbiamo posata, il computer col quale abbiamo scritto questa relazione e la carta su cui l’abbiamo stampata.

Le cose uscite da una fabbrica spesso (non sempre) ci rendono la vita più comoda. Ma quanto più cresce il numero di lavoratori globali e la ricchezza da essi prodotta tanto più il capitale ha bisogno di oscurare, manipolare e infine cancellare la presenza dei produttori di tale ricchezza. Scrive Paolo Ciofi: “La rutilante invasività dell’immane raccolta di merci penetra in tutti i pori della società e tenta di sedurci ogni istante dai teleschermi in ogni angolo del pianeta, ma dei lavoratori – della loro vita, dei loro pensieri, dei loro sentimenti, delle loro azioni – raramente si trova traccia. Non solo sui teleschermi, o nella realtà immaginaria costruita dai media secondo gli stereotipi dell’ideologia dominante. E non solo nel senso comune diffuso dalla cultura di massa, ma anche nell’assetto della società reale, come pure nei sistemi politici emersi dalla transizione del “secolo breve” verso il nuovo secolo. E’ il dominio onnivoro delle merci, cioè delle cose, sugli esseri viventi. Il massimo dell’alienazione” (Ciofi, 2008).

Infatti, anche l’originaria liberazione dai bisogni, conquistata con la crescita del reddito, muta la sua natura se si trasforma in una nuova schiavitù verso necessità crescenti e perennemente insoddisfatte. La creazione di nuovi bisogni a mezzo di bisogni – alimentata dalla nuova religione della crescita – somiglia alla ruota in cui corre inutilmente il criceto, per non generare frustrazione. La stessa rapidità con cui i beni si trasformano in rifiuti mostra come la positività originaria dello sviluppo degrada rovesciandosi nel suo contrario.

Al tempo stesso, la riduzione dei cittadini a puri agenti produttori e consumatori, per tenere insieme la macchina economica, corrode il tessuto connettivo della vita sociale, atomizza gli individui. Per dirla con Piero Bevilacqua, trionfa l’economia e muore la società (Bevilacqua, 2007). Un’inversione dei fini che si consuma sotto i nostri occhi. Con il dissolvimento della società anche i collanti ideali che hanno sinora tenuto insieme i partiti si disfano, lo stesso cemento di partecipazione e controllo, su cui regge la democrazia si sgretola. Ma nella società pulsa anche il cuore della nostra felicità terrena: la fitta rete di rapporti interpersonali, l’amicizia, la solidarietà, l’amore, il senso stesso della vita. La società, dunque è un bene inestimabile, un patrimonio storico che ereditiamo quale risultato di una gigantesca opera collettiva. E’ un bene tecnicamente irriproducibile che non si compra in alcun supermercato.

Un bene che non possiamo sacrificare sull’altare del Dio Mercato. Gli uomini e il loro benessere devono tornare ad essere il fine e non il mezzo, lo strumento di una crescita economica peraltro sempre più insostenibile per il nostro pianeta. Si riaffaccia dunque il tema del come e cosa produrre.

Vi sono segni di speranza?

Sul versante del lavoro

Sul versante del lavoro rimane forte la volontà della CGIL di riaffermare il proprio ruolo di sindacato generale dei diritti e della solidarietà. Per noi rimane centrale il CCNL come strumento fondamentale di solidarietà tra grande e piccola impresa, tra nord e sud del paese.

Non possiamo accettare una deriva verso l’aziendalizzazione della contrattazione - e quindi del sindacato - pena un’ulteriore frammentazione delle tutele tra chi è più forte ed è in grado di difendersi e chi è più debole ed è esposto alla riduzione delle tutele. Lontana è invece, purtroppo, la necessaria prospettiva di una contrattazione su scala europea.

Sul versante del territorio

Sul versante della difesa del territorio, negli ultimi anni sono nati in Italia alcuni movimenti a forte caratterizzazione territoriale. La tendenza in atto è tesa a superare la loro connotazione localistica, individuando categorie interpretative più ampie entro cui collocare le loro rivendicazioni, e costruendo nel contempo una rete di collegamenti e di sinergie tra esperienze simili.

E’ il caso, ad esempio, delle lotte contro le centrali termoelettriche, le discariche e gli inceneritori, le grandi infrastrutture stradali e ferroviarie, la militarizzazione del territorio, la chiusura di presidi sanitari, la privatizzazione dell’acqua e il potenziamento del welfare locale.

Tali movimenti, sempre più diffusi, valorizzano forme di democrazia diretta per contrastare la privatizzazione e il saccheggio del territorio. Operano come insediamenti specifici a forte radicamento territoriale. Sviluppano forti legami sociali, rivendicano trasparenza e diritto all’informazione e si avvalgono di competenze tecnico scientifiche.

A fronte di una capacità dei movimenti di mettersi in rete non corrisponde ancora pienamente una capacità del movimento sindacale territoriale di porsi in una relazione feconda con essi. Il mondo del lavoro, tranne alcune importanti eccezioni, sulle questioni territoriali sembra procedere ancora su binari separati da quelli dei movimenti. Analogamente vi è un distacco da parte dei movimenti rispetto alle rivendicazioni propriamente sindacali.

I due mondi non si fondono appieno nel territorio. Tuttavia, in alcuni casi di maggiore resistenza e capacità creativa, alcune realtà locali acquistano una funzione emblematica, che esce dai confini propri ed entra nell’arcipelago delle lotte che acquistano tanta autonomia e tale continuità da rappresentare i semi riconosciuti di un’alternativa antineoliberista. Quando scatta questo innalzamento di livello, anche la separazione del mondo del lavoro e di altri soggetti si affievolisce e la ricomposizione produce un fatto politico che oltrepassa la vita e l’estensione sociale dei movimenti.(Agostinelli, 2008)

Il caso di Vicenza

Un esempio è rappresentato da quello che è accaduto negli ultimi anni a Vicenza: un movimento sviluppatosi contro la militarizzazione della città. Partendo da un fatto locale (la realizzazione di una nuova base militare USA) il messaggio è diventato globale immediatamente e ovunque riconoscibile

Dopo essere stata palcoscenico della destra di Berlusconi e Bossi, un’altra Vicenza è scesa in campo. La città nella quale ho operato fino a qualche mese fa vive da oltre due anni in un fermento politico e culturale senza precedenti. In brevissimo tempo è diventata un luogo di partecipazione e di azione politica davvero sorprendente. L’incontro tra comitati civici, gruppi pacifisti, associazioni, singoli cittadini e, naturalmente, la Cgil, ha prodotto un movimento che ha riscosso simpatia e solidarietà su scala nazionale e internazionale. Un movimento costituito da una pluralità di soggetti di varia ispirazione politica e culturale, e da cittadini di diversa condizione sociale.

Senza rinunciare alle nostre differenze, abbiamo saputo dialogare e lavorare insieme per ribadire il nostro netto NO alla nuova base militare americana.

Che fare

Tre principi di fondo da cui partire per il domani

Sulla base dell’esperienza che ho vissuto a Vicenza, dove lotte sindacali e lotte cittadine si sono unificate per un obiettivo comune, traggo tre principi di fondo, che possono costituire la base per costruire un domani migliore.

La Terra. Intesa come difesa del nostro spazio sociale e ambientale, ma anche come difesa di un bene comune, della nostra identità collettiva, della nostra qualità della vita. La presenza di tante donne e mamme che portano i loro figli alle manifestazioni testimonia che questa lotta viene condotta anche in nome delle generazioni future.

La Pace. Intesa come ripudio della guerra, secondo il dettato della Costituzione italiana. Intesa anche come volontà dei vicentini di impedire che questa città sia trasformata nella base logistica più importante dell’esercito americano per i teatri di guerra del martoriato Medio Oriente.

La Democrazia. Intesa come volontà dei cittadini di non delegare il proprio destino a istituzioni sempre più autoreferenziali. L’esempio più clamoroso è quello dell’ex sindaco di Vicenza, il quale da un lato riconosce che la stragrande maggioranza dei cittadini è contraria alla base, e nello stesso tempo si fa di questa stessa base convinto assertore.

Unire il “rosso” e il “verde”

Il tema della difesa del territorio come bene comune, nell’accezione patrimonio fisico, sociale e culturale costruito nel lungo periodo, se messo in correlazione con le dinamiche del postfordismo, può essere terreno per costruire una moderna critica all’attuale fase dello sviluppo capitalistico.

Lo sfruttamento dell’uomo sulla natura è un aspetto del più generale sfruttamento dell’uomo sull’uomo e della conseguente ricerca di una diversa ragione dello sviluppo. Un discorso ecologico cioè non può essere disgiunto da un discorso sociale e viceversa.

Quindi se la coscienza di luogo è minacciata dalle devastazioni ambientali prodotte dal capitale, mi chiedo se su questo terreno non sia possibile costruire una nuova coscienza sociale: l’interesse generale contrapposto all’interesse egoistico di pochi.

È necessario un incontro tra il movimento sindacale e i comitati, le associazioni, i gruppi, spesso nati spontaneamente attorno a un evento, una minaccia, un progetto. Una nuova coscienza collettiva che nasca da questo incontro non può che essere fondata sulla consapevolezza dell’impossibilità del mercato di risolvere i problemi derivanti dal carattere intrinsecamente sociale e collettivo della città e del territorio, in contrasto con il carattere individualista proprio dell’ideologia che sta alla base del sistema capitalistico, ovvero dell’attuale sistema economico sociale.

Come ha detto recentemente Alberto Asor Rosa “La cosa, se si entra nel merito, è tutt'altro che semplice: una classe operaia ecologista ancora non s'è vista ma neanche s'è visto un militante ecologista capace di «pensare» la questione sociale contemporanea. E pure sempre più avanza la consapevolezza che il destino umano risulta dalla composizione, meditata e razionale, delle due prospettive e cioè, per parlarne in termini politici, dalla sovrapposizione e dall'intreccio del «rosso» e del «verde»” (Asor Rosa, 2008).

Le contraddizioni su cui far leva

Quali le contraddizioni su cui fare leva? Sul versante dei rapporti di produzione la contraddizione tra capitale e lavoro, seppur nelle nuove condizioni, non ha mai cessato di operare. Sul versante della difesa del territorio come bene comune ancora una volta faccio ricorso alle posizioni espresse da Salzano..

La privatizzazione del suolo urbano è la prima contraddizione tra il sistema economico sociale e la città perché chi governa in nome dell’interesse collettivo non è libero nelle sue operazioni.

La seconda contraddizione tra habitat umano e sistema capitalistico consiste nel fatto che quest’ultimo riconosce quale unico valore socialmente rilevante quello economico, inteso come valore di scambio, dimenticando completamente l’altra componente, ovvero il valore d’uso. In altri termini, le cose hanno valore, e quindi meritano di essere considerate, promosse, tutelate solo se possono essere comprate e vendute: non hanno valore in se. In una parola i beni sono ridotti a merce, il territorio è ridotto a merce.

La terza contraddizione è quella che nasce come questione ambientale. Aver ridotto l’intero ciclo economico alla produzione via via crescente di merci minaccia oggi la sopravvivenza delle stesse basi materiali sulle quali poggia l’esistenza dell’umanità sul pianeta terra.

“Ricostruire una città umana significa eliminare la congestione, restituire alle piazze la loro funzione originaria di luogo d’incontro, di scambio di esperienze, significa rendere accessibile per i deboli, come per i forti, i luoghi della vita collettiva ed i luoghi della vita privata, significa fare della città il luogo nel quale i differenti ceti, i differenti mestieri, funzioni sociali, differenti etnie, abitudini, culture si mescolano e si scambiano reciproci insegnamenti" (Salzano, 2007).

La visione è una linea di valorizzazione del lavoro, investendo nel fattore umano. Essa passa attraverso la riunificazione graduale del sapere e del lavoro, la ricomposizione in termini individuali e collettivi del lavoro parcellizzato e frantumato, la liberazione delle potenzialità creative del lavoro subordinato o eterodiretto. In sostanza una cooperazione conflittuale dei lavoratori al governo dell’impresa, partendo dalla conquista di nuovi spazi di autogoverno del proprio lavoro. La visione è un invito alla socialità, se possibile alla socievolezza, la città come luogo della libertà e della crescita personale. E’ una visione che, tradotta nel nostro linguaggio più consueto, si propone di affermare il diritto all’ambiente, alla mobilità, alla casa e ai servizi, al lavoro, alla salute, all’istruzione e alle opportunità formative e culturali.

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