Expo, il fantasma delle opere
di Carlo Petrini
Di che orto stiamo parlando? È con una certa sorpresa che ho accolto le parole dell’ad dell’Expo 2015 di Milano, Giuseppe Sala, che ha dichiarato non vendibili e con scarso appeal gli orti previsti nel master plan, rinunciando così a metterli in atto.
Gli architetti avevano fatto un buon lavoro. Intanto, ieri, la signora Moratti ha tenuto un discorso al Consiglio Comunale milanese da cui si potrebbe evincere che non è successo niente. Sembrerebbe tutto verde, tutto pulito. Ma non si capisce se ci crede veramente o è stato soltanto uno spot elettorale. Per parlare di queste cose bisogna avere cognizione di causa e le categorie culturali giuste. Come fa la Moratti a dichiarare che l’agricoltura milanese è «moderna, intensiva, diversificata e rispettosa dell’ambiente»? Non si rende conto che sono quattro elementi in contraddizione o come minimo incompatibili tra di loro?
Se ci fossero persone con un minimo d’idea del mondo in cui vivono, saprebbero che l’elemento centrale della nutrizione in questo momento, a livello internazionale, è il ritorno alla terra. Tutti discutono di come realizzare una produzione sufficiente e non deleteria per gli equilibri ambientali, eminenti professori sostengono che la prossima bolla a scoppiare sarà quella agricola, proliferano i farmers’ markets. Gli orti nascono ovunque, nelle scuole, nelle città, in tanti piccoli appezzamenti privati che prima avevano soltanto scopo ornamentale. Sono la vera tecnologia del futuro, nel Nord come nel Sud del mondo. Li hanno fatti alla Casa Bianca, Londra ne vuol realizzare 2012 entro il 2012, l’anno delle Olimpiadi. Li stiamo anche aiutando a costruire in Africa grazie alla ricerca di fondi di Slow Food, e questi cambiano la vita a intere comunità.
Il mondo evoluto tecnologicamente, dagli Stati Uniti in giù, guarda con grande attenzione a questi fenomeni: non ci sono più dubbi che rappresentino ciò con cui avremo a che fare nei prossimi decenni, e invece a Milano ci dicono che all’Expo vogliono fare il supermarket del futuro. Mentre pensano questa cosa pensano una cosa già vecchia. Quando lo realizzeranno tra quattro anni (se lo realizzeranno, visto come stanno andando le cose in materia di Expo) faranno una cosa vecchia. Rischiamo di farci ridere dietro dal mondo intero.
Sono deluso e sono anche un po’ indignato, perché sta passando l’idea che i contadini di oggi siano fermi a secoli fa. Non è vero, nelle campagne del mondo s’inventa, si crea, si fa vera cultura post-moderna. Pensare che l’umanità abbia a cuore soltanto la futura visione del supermercato è offensivo per miliardi di contadini, nonché un errore madornale. Com’è un errore andare a spiegare a queste persone come devono vivere e lavorare grazie ai progetti di cooperazione che cita la Moratti, importando una visione tecnologica occidentale che non ha futuro e può fare danni irreparabili nel Sud del mondo.
Prendo atto che l’Expo sta rinunciando a diventare ciò che dovrebbe essere: un grande momento di cultura mondiale, in cui presentare i problemi e proporre le soluzioni sul tema "Nutrire il Pianeta, energie per la vita". Prendo atto che non rinunciamo ai vecchi paradigmi che ci hanno portato a questa situazione planetaria così critica e non voglio pensare male (e nemmeno citare Andreotti). Tuttavia la questione dei terreni del sito mi pare scottante: non c’è la volontà di salvare un terreno agricolo e restituirlo integro e valorizzato alla città dopo l’evento. Mantenerlo tale, senza cambiare destinazione d’uso sarebbe uno degli atti politici più grandi e lungimiranti che si possano fare per Milano, ma c’è invece la chiara volontà di assecondare l’interesse di pochi, concedendo l’edificabilità dei terreni.
Non sono attrattivi gli orti? Allora forse abbiamo capito bene cos’è attrattivo per chi sta coltivando un orto molto meno verde di quelli previsti dal master plan: un orticello che non ho ancora capito con che coraggio stiamo proponendo al mondo. Il quale, va ricordato, ci sta guardando e ci guarderà sempre più attentamente man mano che ci avviciniamo al 2015.
Tre anni fa Milano si è aggiudicata la Esposizione Universale del 2015. Ma i lavori non sono mai partiti e ora la città rischia un flop mondiale
di Alessia Gallione e Roberto Rho
Tre anni. Millenovantadue giorni. Ventiseimilatrecento ore. Milano vuole organizzare una grande festa internazionale: convoca 130 Paesi, manda 20 milioni di inviti, programma di investire 1.750 milioni (più annessi e connessi). Ma tanto tempo non è bastato neppure per acquisire la disponibilità dei terreni su cui tenere l’evento, ricevere le delegazioni dei Paesi ospiti, accogliere i visitatori. Chiunque abbia organizzato perlomeno una festa di compleanno per i propri figli sa che prima di spedire i cartoncini d’invito dev’essersi assicurata l’agibilità del locale dove piazzare il buffet e far esibire clown e musicanti. Milano no.
Ha messo in piedi il progetto per l’Expo 2015, si è aggiudicata la vittoria - esattamente tre anni orsono, il 31 marzo 2008 a Parigi - nella sfida a due con la turca Smirne, ma ancora oggi non ha alcuna certezza sulle aree - quelle adiacenti la Fiera di Rho-Pero - su cui intende svolgere la manifestazione.
Perché quelle aree, qualcosa più di 1 milione di metri quadrati di terreni incolti, accatastati come agricoli, sono per oltre metà (520mila metri quadrati) di proprietà della Fondazione Fiera di Milano, per un quarto (260mila metri quadrati) del gruppo Cabassi e solo per la parte rimanente di proprietà pubblica: Poste Italiane e i Comuni di Milano e di Rho. E i terreni non sono l’unica cosa che manca. Mancano i soldi, e tanti. Di quei 1.746 milioni necessari per allestire il sito (molte altre centinaia di milioni sono previste per le infrastrutture e altri 1.280 milioni per l’organizzazione dell’evento), quasi metà (833 milioni) toccano al governo. E anche se Giulio Tremonti apre i rubinetti sempre malvolentieri, l’amministratore delegato di Expo, Giuseppe Sala, è sicuro che da quel fronte non arriveranno problemi insormontabili. Ce ne sono e soprattutto ce ne saranno sul fronte degli enti locali: Comune e Regione devono mettere 218 milioni a testa, la Provincia e la Camera di Commercio 109 ciascuna.
Il Comune deve finanziare la società Expo ma anche pagare le opere (due linee di metropolitana e varie altre minori) che ha inserito nel dossier di candidatura. Ben difficilmente - a maggior ragione in un’epoca di vacche magrissime - riuscirà a sostenere tutte le spese previste. Chi certamente non ha i soldi, lo ha già detto e ripetuto, è la Provincia guidata dal berlusconiano Guido Podestà. E neppure la Camera di commercio, che fin qui si è nascosta dietro un cavillo statutario che le impedisce di spendere quattrini per infrastrutture che non siano strettamente legate alle proprie attività, pare disposta a mettere soldi sul piatto. Infine, i privati: 260 milioni sono attesi da pubblicità e sponsorizzazioni. Ma è una stima pre-crisi e nessuno sa se, chi e quanto sarà disposto a spendere.
Dunque, a 1.495 giorni dalla data dell’inaugurazione l’Expo non ha i terreni su cui costruire l’infrastruttura espositiva e non ha i soldi per allestirla. Per Letizia Moratti, artefice della vittoria di Parigi, sindaco di Milano da cinque anni e commissario con poteri straordinari, l’Expo è come la centrale atomica di Fukushima: una bomba nucleare fuori controllo. È in campagna elettorale, ed è costretta a ostentare tranquillità e sicurezza, come ha fatto anche ieri davanti al Consiglio comunale. «Entreremo nella storia», ha detto, ripetendo alla noia che sarà un’Expo ancora più verde del previsto e che non ci sono ritardi né rebus irrisolvibili.
La verità è un’altra: la "Milano del fare", che era cinque anni fa ed è ancora oggi il suo slogan elettorale, rischia una catastrofe internazionale sotto il profilo dell’immagine. In tre anni la Moratti ha messo insieme una sequela di inefficienze, cambi di manager e litigi, tutti in casa centrodestra e quasi tutti con il condomino Formigoni. Ancora oggi sono avvitati in una querelle estenuante su quale sia la formula migliore per acquisire i terreni di Rho-Pero: dopo mille oscillazioni tra il comodato d’uso (i privati "prestano" i terreni, li riavranno nel dopo-Expo con il valore aggiunto del cambio di destinazione d’uso che consente di costruire a piacimento) e la "newco" (società mista pubblico-privata nella quale i soci pubblici mettono i quattrini e i privati i terreni), oggi il barometro si è spostato decisamente sull’ipotesi dell’acquisto tout court.
Regione e Comune girano una cifra compresa tra 100 e 140 milioni a Fondazione Fiera e Cabassi e acquisiscono la proprietà delle aree, le usano per l’Expo e dopo il 2015 raccolgono il plusvalore generato dall’edificabilità di quei terreni, oggi agricoli. Operazione complessa, tutta da costruire, sulla quale la Corte dei Conti e forse anche qualche magistrato potrebbero avere da ridire: è lecito che enti pubblici acquistino terreni agricoli inglobando nel prezzo d’acquisto un cambio di destinazione d’uso futuro (che loro stessi si propongono di fare)? E che quegli stessi terreni vengano poi rivenduti come edificabili o direttamente sfruttati dagli stessi enti pubblici per la prevedibile speculazione edilizia?
Già, perché comunque vadano le cose, che siano i privati a mantenere la titolarità di quei terreni o i soci pubblici ad acquisirla, la speculazione è il perno su cui ruotano l’affare dell’Expo e, di conseguenza, le guerre di potere e le polemiche di questi 1.092 giorni. Al momento è tutto fermo: si attende per il 5 aprile una relazione dell’Agenzia del territorio che dovrà stimare il valore dei terreni e delle infrastrutture che li renderanno fruibili. Ma tutti prevedono che la relazione non scioglierà nessuno dei nodi e allora Moratti e Formigoni riprenderanno a litigare. Una finta soluzione - com’è accaduto nell’autunno scorso - sarà raffazzonata in vista dell’incontro con il Bureau International di Parigi il 19 aprile. Poi si tornerà a litigare.
Intanto il tempo corre: non avendo la proprietà dei terreni, la società Expo 2015 non ha potuto neppure entrarci. Con due conseguenze: il manager Giuseppe Sala, che ad aprile avrebbe dovuto lanciare la prima gara da 90 milioni per la rimozione delle interferenze (la ripulitura dei terreni), l’ha già spostata a giugno. Prima di ottobre non si muoveranno le ruspe. Secondo: il concept dell’Expo è - o forse sarebbe meglio dire "era" - un immenso orto planetario in cui ognuno dei Paesi dovrebbe presentare coltivazioni proprie e idee per l’agroalimentare. Ma senza la disponibilità dei terreni, il lavoro (che richiede anni) non può neppure cominciare.
Il problema potrebbe essere superato dal cambio in corsa della filosofia dell’Expo, annunciato nei giorni scorsi dal management. «Troppo verde non si vende», ha detto in sostanza Sala, prefigurando una sterzata in direzione delle nuove tecnologie che nessuno ha ben compreso e che, secondo Carlo Petrini e Stefano Boeri, gli ideatori dell’orto globale, è un clamoroso errore. Di più: per Boeri «una manovra che occulta la reale intenzione di rimpiazzare i campi coltivati con padiglioni facilmente smontabili e sostituibili con nuove costruzioni. Cemento, cioé valore aggiunto per i proprietari delle aree». E si torna al rischio speculazione, che in tre anni di caos è l’unica vera costante.
Milano, in piena campagna elettorale, assiste attonita a uno spettacolo che sono in molti a considerare indecente. Giuliano Pisapia, candidato del centrosinistra, fatica a far sentire la sua voce nel frastuono della propaganda, che ogni giorno annuncia successi roboanti, come - ultimo ieri - l’adesione della Cambogia all’Expo. Si chiede, Pisapia, se dopo tre anni di scempio il supercommissario Moratti non debba essere, lei sì, commissariata. Il sindaco non fa una piega: «L’Expo ha bisogno di continuità». Cioè di lei stessa. Tutti intorno sorridono. Il suo partito, il Pdl, chiede una relazione sulla vicenda. Formigoni ha l’aria sorniona di chi controlla l’unica cassaforte ancora munita, quella della Regione. Tremonti, vero manovratore dei cordoni della borsa, considera l’Expo una fastidiosa incombenza. E Berlusconi? Raccontano che, ai dirigenti del suo partito che gli chiedevano come affrontare la vicenda, abbia risposto lapidario: «Passiamo ad altro».
Spero di aver già chiarito altrove la mia perplessità, sia quella ovvia sulle scelte di modificare il progetto originario (che considero piuttosto meschine e di basso profilo), sia sulle polemiche, che paiono concentrarsi sul solo aspetto della “cementificazione”, a cui forse andrebbe affiancato un maggiore sostegno alla posizione invece ben espressa e sostenuta da Petrini.
E proprio sull’intervento di quest’ultimo vorrei brevemente intervenire, provando a rispondere alla questione centrale posta, in particolare quando si dice che “sta passando l’idea che i contadini di oggi siano fermi a secoli fa”. È certamente quanto pensano i ragionieri (con tutto il rispetto per i veri professionisti della contabilità) autori della proposta di supermarket e/o stand gastronomici al posto dell’orto e delle serre, che sarebbe più “moderno” e vendibile. Ma non corrisponde naturalmente alla realtà.
Il concetto però andrebbe ribadito anche a chi, in un modo o nell’altro e peraltro con ottime intenzioni, non riesce a schiodarsi esattamente da questa leggenda metropolitana del contadino dalle mani callose e oneste, diciamo pure un po’ pirla, che posa in camicia a scacchi e cappello di paglia davanti a un tramonto agreste. Di un mondo fatto a immagine di cartolina, più simile a certa iconografia piccolo borghese dell’arcadia suburbana che a qualunque realtà. E che sotto sotto comunica (magari anche ai potenziali investitori messi in fuga dall’orto ma affascinati dai carrelli del supermarket) una gran voglia di tornarsene, alla fine del meritato relax campagnolo, nel mondo vero, dove si fanno le cose utili, e si guadagna abbastanza da potersi concedere anche quelle vacanze cartolina.
Città e campagna, invece, sono entrambe cose serie, modernissime, tangibili, degne di rispetto. Da trattare come tali. Sempre (f.b.)