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Lodo Meneghetti
Storia vissuta e resa dei conti, agosto 2019
10 Settembre 2019
Milano
I contrafforti dell’urbanistica hanno ceduto, sembianti dell’architettura si sono sfigurati, spazi umanizzati si sono imbestiati, ragione e sentimento del bello si sono anestetizzati, corpo-anima del brutto si è impinguato. (segue)

I contrafforti dell’urbanistica hanno ceduto, sembianti dell’architettura si sono sfigurati, spazi umanizzati si sono imbestiati, ragione e sentimento del bello si sono anestetizzati, corpo-anima del brutto si è impinguato. (segue)

Introduco con una parafrasi dai testi di James Hillman, psicologo biologo filosofo, in Politica della bellezza, a cura di F. Donfrancesco, Moretti & Vitali, Bergamo 1999:
I contrafforti dell’urbanistica hanno ceduto, sembianti dell’architettura si sono sfigurati, spazi umanizzati si sono imbestiati, ragione e sentimento del bello si sono anestetizzati, corpo-anima del brutto si è impinguato.

È successo con la fase di media durata del whirl-capitalism che ha man mano intensificato la lotta contro la classe operaia e, più estesamente, i lavoratori subalterni schiavizzati; ma anche verso i senza lavoro poveri o miseri destinati a servire i ricchi e i riccastri (non sempre e propriamente capitalisti ma, in ogni modo, esperti nella sottrazione di beni altrui o di risorse comuni). Sicché la massa di popolazione ha raggiunto, magari negandolo, un grado d’infelicità più alto di quello immaginato dal giovane Marx se costretta a vivere nella necessità. L’alienazione e lo sfruttamento generano sofferenza; alleviarla divenne, come la libertà, un imperativo dei comunisti. Le società precapitalistiche conoscevano le norme di un mondo etico delle istituzioni (Sittlichkeit); il capitalismo ha oltrepassato ogni limitazione e ha distrutto tutte le autorità morali. All’interno della lotta di classe il capitale ha travolto come Moloch tutti i sistemi culturali benemeriti già sottostanti all’assetto «immorale» della società: compreso i sistemi dell’architettura e dell’urbanistica. Se oggi qualcuno nell’azione politica e in qualsiasi branca sociale o culturale desse forte rilievo alla dimensione morale, non potrebbe resistere alle ondate d’odio e disprezzo che lo colpirebbero.

Non siamo riusciti (architetti, urbanisti e protagonisti di culture socialiste) a dotarci di un armamento adatto e sufficiente, in definitiva, per vincere la guerra dei settant’anni, seppur abbiamo vinto qualche battaglia. La cinquina di cui sopra è la risultante delle vicende provocate e sovrintese dai direttori capitalistici per raggiungere la più alta e mai vista accumulazione di profitti e di rendite; che, infatti, richiede distruzione del buono-felice di massa e costruzione del tempio dei chierici fedeli. Dappertutto nel mondo le disuguaglianze fra le popolazioni ed entro le popolazioni aumentano, con punte dove la miseria più nera si accompagna alle insegne del potere architettonico e urbanistico del capitalismo mondializzato, sempre come grattacieli deformati ad arte, pure immagini sacre (icone) del Moloch invincibile. La reductio ad unum delle cinque parti della realtà di cui (noi che pensiamo di non appartenere alla chiesa) siamo costretti a riconoscere la durezza e l’impossibilità o l’enorme difficoltà di modificarla, promuove il conto d’oggi e lo confronta con altri conti di altri tempi non ancora contraffatti totalmente dall’immoralità del capitalismo.

Nelle prime prove di libera progettazione e nell’insegnamento ai politecnici di Milano e di Torino (per qualche iniziativa anche all’Istituto universitario di architettura di Venezia), un gruppo di giovani architetti si muoveva lungo le seguenti direttrici: applicare la convinzione, già maturata in ambito filosofico, che le discipline fondamentali potevano rompere i propri recinti e condurre gli studiosi, qualunque fossero le loro basi prioritarie, verso più vasti orizzonti della conoscenza. L’architettura, l’urbanistica, l’arte e la storia sociale avevano bisogno l’una dell’altra. L’urbanistica, poi, doveva acquistare una nuova forza «personale» per oltrepassare la qualifica di tecnica (mediocre) e aprirsi alle scienze umane: non attraverso il contributo di esperti estranei ma per propria capacità di introdurre in se stessa l’essenziale di economia, geografia umana, sociologia … Insomma, doveva costituirsi come sapere integrato per potersi misurare con l’incessante mutamento della realtà. Tuttavia il modello non resistette a lungo se non in ridotte troppo esposte ai nemici, simili a quegli stessi che il fisico e letterato inglese Charles P. Snow accusava di voler consolidare la separazione fra cultura scientifica e cultura umanistica (C.P. Snow, Le due culture, Feltrinelli 1964, Marsilio 2005 - originale 1959, seguito 1963. Vedi L. Meneghetti, La cultura spezzata, in eddyburg 11 febbraio 2006, poi in L’opinione contraria, Libreria Clup, Milano 2006).

La realtà duratura parve configurarsi così: da una parte le rare mosche bianche di un’architettura di buona qualità, spersa nel mare della raccapricciante «architettura», totalmente bruta edilizia aziendalista; dall’altra un pezzo ristretto di urbanistica, «competente», distaccata dal consueto progetto di sfrenato espansionismo edilizio dei territori comunali («rapallizzazione»), ma propensa a pronosticare il futuro delle città e dei territori senza poterne definire la conformazione fisica. Eppure, se con la memoria retrocedessimo nel secolo breve fino al dopoguerra noteremmo il risveglio della vecchia quartieristica pubblica, ordinario incrocio fra urbanistica e architettura. Lasciando da parte il QT8 milanese con il Monte Stella, testimonianza impareggiabile di simbiosi fra piano urbano, progetto architettonico e paesaggio costruito, e ugualmente La Martella di Matera, caso particolare legato all’unicità della condizione abitativa del capoluogo, rievochiamo due quartieri Ina-Casa: a Roma il Tiburtino, a Cesate (Milano) il borgo nuovo progettato e curato fino al dettaglio costruttivo dal gruppo Albini, Gardella, Albricci e BBPR. Entrambi gli insediamenti, appartenenti al primo settennio dell’istituto, furono avviati nel 1949. Del secondo (Cesate) permane un evidente valore storico giacché il progetto urbanistico e diversi progetti architettonici (serie di case con alloggi duplex) rappresenteranno l’Italia nell’esposizione internazionale allestita al CIAM 1953 di Aix en Provence e la realtà del costruito sarà ancora oggi esempio di un’efficace manutenzione.

Il secolo macinava gli anni. Quando dal 1962 si potette applicare la legge 167 per i Piani di edilizia economica e popolare, in alcuni Comuni i progettisti sfruttarono intelligentemente le norme previste e le procedure per ottenere l’approvazione dei piani per quartieri residenziali non limitati a schemi planimetrici atti soltanto a impegnare i terreni, bensì definiti da una specifica organizzazione dello spazio e dai volumi delle case trattati secondo differenti tipologie (come dall’esperienza Ina-Casa e Gescal), prossime alle risoluzioni architettoniche. Intanto i piani di zona potevano diventare il quadro reale dell’attuazione del piano regolatore, quasi un ricupero dei principi della legge del 1942 che legavano la realizzazione del piano generale ai piani particolareggiati esecutivi. Insomma, anche in questi casi l’intervento pubblico poteva favorire l’unità fra conoscenze diverse e completezza della progettazione. La stessa maniera di interpretare la legislazione spremendone il massimo di possibilità attuative ben oltre lo zoning del piano regolatore generale riguardò in qualche comune la rappresentazione avulsa del centro storico in scala a denominatore di cinque volte inferiore, atta a presentare i provvedimenti di tutela o modifica o restauro degli spazi pubblici e dei singoli edifici.

Il Piano di edilizia economica e popolare per il centro storico di Bologna, 1973, raggiunse il punto più alto di unificazione fra le discipline necessarie per la costruzione della parte di città. Si doveva lavorare su aree un tempo edificate ma svuotate dai bombardamenti (di terra e di cielo) o da abbattimenti successivi. La ricostruzione avvenne non secondo la concezione del dov’era com’era ma attraverso un metodo definito «ripristino tipologico»: che rispettava essenziali indicazioni provenienti dalle preesistenze e proponeva soluzioni non estranee alle tipologie storiche insieme a una modernizzazione dell’abitabilità interna e alle forme architettoniche come restauro riconoscibile. L’inserimento dei nuovi manufatti dovuti al ripristino accanto alle case salve fu un successo, irrilevanti le critiche verso certi aspetti «mimetici» nei confronti degli edifici esistenti contigui. Nei comparti urbani bolognesi di San Leonardo, Solferino e San Carlo l’urbanistica, il restauro, l’architettura, la storia, l’habitat cantarono insieme come un coro a cappella l’inno della vittoria sul pensiero negativo riguardo all’unità delle arti e della scienza. Peraltro si era vinta una battaglia, non la guerra delle forze pro unione contro altre viventi e crescenti sulla divisione.

La separatezza fra urbanistica e architettura creava una condizione mai sperimentata nella storia della società e delle opere necessarie alla vita del cittadino e delle comunità. L’isolato urbano proveniva dal disegno dell’organizzazione generale degli spazi, le parti di città o la città intera. La storia mostra che la vita urbana si strutturava secondo un ordine perfetto di strade e piazze bordate da cortine architettoniche di altezza costante e forme quali dettate dalla cultura dell’epoca, differenti e coerenti, oppure simili nell’avvento di una nuova maniera.

In pieno XIX secolo fu il Plan Cerdà per Barcellona, noto da allora anche agli studenti spagnoli delle scuole elementari, a rappresentare la città nuova costituita dalle strade e dagli isolati. Ciò che avrebbe potuto completare il modello reale, i lati (qualcuno lasciato aperto) del quadrilatero saldamente unitari nella costruzione delle case (non uguali) e la corte interna libera, semmai destinata a giardino, non ha retto di fronte all’aggressività della rendita fondiaria. Nondimeno la forza straordinaria dell’insieme urbano ha resistito e funzionò secondo la concezione dell’autore: la vita della città deve riconciliare lo stare (il risiedere) e il muoversi.

Avanzando il secolo verso i due ultimi decenni, si affermerà il primo piano regolatore milanese, dovuto a Cesare Beruto, ingegnere di reparto all’ufficio tecnico del Comune di Milano. Il disegno non nega l’espansione urbana come un gonfiotto uniforme dalla circonvallazione «spagnola» all’esterno, eppure anch’esso costituisce un discreto esempio d’integrazione fra urbanistica e architettura nella parte dove il complesso di isolati e strade, con impianto nettamente ippodamico, sostiene la continuità delle cortine edilizie. Naturalmente, vien da dire, la possibilità di destinare i campi interni a verde invece che lasciarli al mercato edilizio non ebbe l’approvazione del passaggio del tempo (salvo qualche eccezione).

È al principio del XX secolo che il più grande architetto-urbanista della modernità, Hendrich Petrus Berlage raggiunge col progetto per Amsterdam Sud (e la sua realizzazione) il livello più alto di compartecipazione fra urbanistica e architettura. Ho cercato di dimostrarlo nell’articolo, 1917-2017. Centenario del piano di Berlage per Amsterdam Sud… (et al.). I blocchi cooperativi residenziali con le case in cortina unitaria lungo i bordi degli isolati definenti le strade, l’interno a parco frequentato anche dai cittadini residenti altrove, l’architettura della Scuola di Amsterdam incorporata nell’urbanistica secondo il principio basilare del messaggio e dell’attività stessa del maestro: tutto l’insieme organico della parte di città sarà magari, come scriverà Giedion alfiere dei razionalisti, una riforma ancora legata alla tradizione e non una rivoluzione; proprio per questo ci parla oggi della possibilità di ribaltare la sconfitta (ancora in atto) subita dalla cultura dell’unità contro quella della separatezza.

La prima amministrazione di una grande città italiana a ritrarsi dal compito di protagonista (obbligatorio) della pianificazione urbanistica sarà quella di Milano. In eddyburg si è commentato più volte il caso, celebre, dell’espansione gigantesca alla Bicocca sui terreni liberati dagli insediamenti industriali Pirelli, non prevista da un piano generale e senza alcuna motivazione della priorità rispetto alla miriade di domande della società urbana. Un accordo diretto fra sindaco ed ex padrone delle ferriere sancisce il dominio dell’interesse privato sull’utilità pubblica: insieme al paradosso, questa volta, che l’architettura, controllata in approssimativa coerenza al disegno di isolati e strade, riempia l’urbanistica privata, garanzia del miglior modo di produrre rendita.

Esaurite le forze del secolo breve in grado di sostenere il progetto di unità, la divisione divenne il modo normale di condurre le trasformazioni urbane e territoriali. L’architettura era già isolata e in crisi riguardo alla tradizionale o antica capacità di raggiungere in sé il valore di opera d’arte; intanto, l’urbanistica preminente esibiva da una parte il disinteresse per l’architettura, dall’altra i pochi successi (specie in pianificazione strutturale) insieme alla certezza d’essere oltre che indispensabile autosufficiente. Non si accorgeva di aver raggiunto la soglia della controrivoluzione privatistica, d’altronde preparata da due decenni di vergognoso cedimento della pianificazione pubblica alla pratica della negoziazione/contrattazione/accordo di programma…, sempre attenta alle proposte private, anzi nettamente piegata su di esse (l’INU maestro). Questa soglia infine è stata varcata nel secondo decennio del nuovo millennio specialmente per opera di amministratori e urbanisti professionisti proprio nelle regioni e nei comuni in cui, durante il secolo breve, s’era instaurato un modo esemplare di disegnare il piano generale e di progettare-realizzare coerenti insediamenti quantomeno prossimi all’architettura. Ancora una volta Bologna sorprendente, ma al contrario: l’urbanistica d’oggigiorno, con l’amministrazione di fatto neo-liberista, consiste nell’alienare la pianificazione e qualsiasi progetto ai detentori della rendita fondiaria e dell’edificazione senza regole; l’ente pubblico garantisce in anticipo l’approvazione e persino ogni facility per veloci attuazioni.

Milano al principio del XXI secolo apre la porta della città ad architetti vogliosi di intrappolarla in un’espansione, spettacolare per brutalità, costituita da costruzioni in forma di grattacielo. È raggiunto il massimo grado di defezione da qualsiasi presupposto o controllo urbanistici e, come spesso denunciato anche in questo sito, da contesti sociali e urbani riconosciuti nella loro capacità di far confluire diverse materie nel «fare città». La madre di questa nascita è la dubbiosa vicenda del concorso per Ground Zero, dominata da stolti esibizionismi personali, tutti sotto la bandiera del Guinness dei primati e tutti mancanti di moderatezza espressiva. Ce lo aspettavamo, ha vinto il grattacielo più alto, di Daniel Libeskind, che a Milano contribuirà alla costruzione di City Life – cosiddetta – nel luogo dell’ex Fiera Campionaria, dispensando insieme agli altri due progettisti, Arata Isozaki e Zaha Hadid, insensatezza e tristezza urbana.

Ad ogni modo, nei non-luoghi dove edifici di ogni genere non c’entrano con la costituzione di un habitat umano, alla superficiale veste del grattacielo non importa se ci sia o cosa sia l’interiore. Piccoli oggetti, soprammobili posati qui e là sui tavoli o altri arredi casalinghi, per esempio di legno pieno, modellini di 10-20 cm di altezza: potremmo moltiplicarli quante volte ci piaccia, otterremmo «architettura»?

A Milano esiste un centro privato per presentazioni e discussioni pubbliche intorno all’architettura, all’urbanistica, alla politica… et al. È l’atelier dell’architetto Emilio Battisti, già professore ordinario di composizione al Politecnico. Gli incontri sono ben organizzati, la partecipazione è sempre numerosa e comprende personaggi noti della cultura milanese, talvolta un componente dell’amministrazione comunale. Tutto il dibattito è registrato, quindi diffuso con larghezza. In generale il soggetto è un singolo edificio nuovo giudicato «interessante» dall’ospite, mancano soggetti di architettura urbana complessa (pezzi di città) poiché non ne esistono di attuali anch’essi «interessanti». Quasi sempre ci si può rivolgere all’autore presente.

Dall’esame delle Residenze Carlo Erba, prossime alla zona di Città Studi, sostituzione totale dell’onesta edilizia residenziale e di un corpo della Rinascente (con obbligo – stupido – richiesto dalla sovrintendenza di conservarne una facciata), è derivata una discussione (sera del 7 maggio 2019) il cui termine è caduto come il parmigiano grattugiato sul risotto milanese, ossia sulla nostra difesa e riconquista della città fatta di isolati e strade, case in cortina coordinate lungo i lati e spazi interni a giardino (si è visto, soprattutto in Berlage nostra guida). Il progetto è dell’architetto newyorkese Peter Eisenman (assente), collaboratore Lorenzo degli Esposti (presente). Il lotto in causa, privo della chiarezza di figure geometriche elementari, presenta il massimo sfruttamento mediante una forma della pianta come un grasso biscione che s’insinua dappertutto lungo l’irregolarità del terreno.

Riassumiamo dalla registrazione. La Commissione del paesaggio aveva imposto di raccordare il corpo dell’edificio con il filo stradale, invece la costruzione si stacca dai confini del lotto contrassegnati da una massiccia inferriata. Secondo Battisti, gli interventi architettonici che sostituiscono i vecchi isolati con edifici perimetrali non solo nascono arretrati dalla strada ma sono inavvicinabili. Così è compromessa seriamente la tradizionale spazialità urbana di Milano «fatta di strade e piazze delimitate da edifici che si possono materialmente toccare». Dovrebbe competere alla normativa urbanistica e edilizia prescrivere l’allineamento delle facciate degli edifici lungo i limiti dell’isolato. Sorprendente l’intervento di Jacques Herzog: «Milano è una città con un’impronta urbanistica molto specifica: l’isolato che definisce i corsi, le vie , le piazze. Ogni edificio è parte di questo principio urbano e determina il proprio ruolo all’interno di questo schema. È il concetto urbanistico quasi ostinato dell’isolato che fa la bellezza e l’unicità di Milano. Perché dovremmo cambiarlo?». Disgraziatamente il Comune e altri potentati pubblici e privati l’hanno già cambiato in molti casi, o stanno cambiandolo. Difenderlo dove persista e rilanciarlo ovunque altre «Nuove Milano» si apprestino a negare la tradizione è un dovere di architetti, urbanisti, storici, sociologi, artisti: alleati contro il disfacimento liberista.

Il giorno dopo il dibattito, una lettera a Degli Esposti dello studio De Agostini Architetti svela la realtà di una speculazione fondiaria e edilizia enorme, nascosta dietro la presunta eccellenza architettonica e la consuetudine odierna di impiegare il parametro mq/mq per misurare e giudicare la volumetria. 3 mq/mq, difatti, corrispondono, notano i De Agostini, a dieci volte l’indice del piano. Traducendo la verifica, come si faceva in altri tempi, utilizzando la cubatura, risulta una densità di 90-100.000 mc/ha, un’entità incredibile mai richiesta nemmeno dai peggiori liberi speculatori degli anni Sessanta, fermi alla pretesa massima di 60.000 mc/ha.

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