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Fabrizio Bottini
Zappa & Rastrello
28 Marzo 2011
Scritti ricevuti
La cancellazione dell’Orto Botanico Globale di Expo 2015, idea portante degli spazi dedicati all’alimentazione del pianeta, in fondo era già nei fatti concreti

Una volta si diceva di certi incapaci scansafatiche che erano braccia inopinatamente strappate all’agricoltura, dove almeno qualche piccolo contributo alla collettività potevano garantirlo. Da qualche giorno, all’agricoltura è stata anche strappata la grande area triangolare dell’Expo 2015 fra i due tracciati autostradali verso Torino e i Laghi. Niente orto, perché non attira gli investitori, ma un bel supermercato del futuro: grande pensata ragionieresca di un tizio che pare l’interpretazione al ribasso della figura di amministratore di condominio tanto decantata per sé dall’ex sindaco di Milano, oggi nume tutelare dei neo-riformisti.

Reazione istintivamente scandalizzata del progettista Stefano Boeri, che insieme a un qualificato gruppo di architetti e urbanisti aveva ideato un master plan interamente dedicato all’oggetto centrale dell’evento, ovvero ciò che si mangia e come vive. Reazione istintivamente di opposizione dell’opposizione politica, che con lo stesso Boeri – stavolta in veste di candidato – e di altri rappresentanti in consiglio denuncia la svolta cementizia dell’operazione Expo. Macché, ribatte l’ideatore dell’ipotesi supermarket con parcheggio che piace agli investitori, andate e vedere e non c’è un cubetto cementizio in più, magari anche di meno. Perplesso e inorridito Carlo Petrini, fra i principali ispiratori del tipo di evento e dei relativi spazi, dove l’orto sta a significare un rapporto diretto e tangibile fra uomo, territorio, vita, città, campagna, e appunto alimentazione.

Intanto, a molte migliaia di chilometri di distanza ma facilmente scavalcabili col solito web, il McKinsey Global Institute pubblica in questi primi giorni di primavera 2011 un rapporto sulla mutevole Mappa del Potere Economico delle Città, sostenendo varie tesi fra cui quella essenziale suona più o meno così: fra megacities multimilionarie e centri di dimensione intermedia, sono 600 le città che concentrano e concentreranno crescita economica e relativo potere di attrazione per le imprese da qui al 2025. Ma nel 2025 le 600 città NON SARANNO PIÚ LE STESSE, l’asse si sarà spostato sensibilmente dal classico baricentro occidentale verso Asia e Sud America, le cui grandi e medie agglomerazioni urbane presentano caratteristiche di grande interesse. Fra cui brillano popolazione giovane, spinta all’innovazione ed elasticità, crescita appunto (ovvero anche forte incremento dei consumi individuali), spinta verso trasformazioni infrastrutturali di grande respiro anche per realizzare servizi che ora mancano del tutto.

Ora, che ci azzecca un antico avamposto romano nella pianura irrigua, poi centro manifatturiero, oggi sedicente capitale del design e servizi, popolazione anziana e spirito depresso, con l’immagine di McKinsey? Nulla. La mastodontica tragedia umana dell’urbanizzazione asiatica a Milano al massimo si replica in tragicomica farsa quando un assessore (bravissimo a restare serio mentre ne spara di gigantesche) si inventa sulla carta un fulmineo balzo di popolazione del 50% solo per giustificare nuove cubature. A Milano l’idea dell’Expo in qualche modo si era conquistata l’immaginario, locale e mondiale, sia per la straordinaria attualità del nuovo rapporto fra città e campagna nel terzo millennio, sia per le potenzialità (ragionieri e sfigati permettendo of course) culturali offerte da un antichissimo territorio agricolo-industriale di ripensarsi recuperando il meglio della propria storia e proiettandola verso il futuro.

L’Orto Globale, ben oltre la superficie più o meno cementificata del triangolo fra le due autostrade, si proiettava sul mondo a simbolo di tutti gli altri orti, dai lotti industriali abbandonati di Detroit alle strutture verticali autogestite delle donne dello slum di Nairobi. E si proiettava sul territorio locale irraggiandosi idealmente e non verso la greenbelt agricola metropolitana con le sue eccellenze produttive, e anche oltre verso le (ancora troppo rare) sperimentazioni e innovazioni di un nuovo rapporto fra città e campagna, dall’innovazione colturale alle energie da fonte rinnovabile ai piani regolatori che contengono al minimo o riducono a zero il consumo di territorio.

Questo non è coerente con l’idea del mondo che hanno i nostri attuali ragionieri e amministratori di condominio. Il loro modello è un altro, appunto il supermercato con comodo parcheggio, il tre per due, la televendita per gonzi, i cieli azzurri e acque limpide educatamente contenuti nei manifesti e negli spot. Il loro modello urbano in fondo è quello decantato da certi economisti, quelli che leggono anche in un bel morso di pantegana nella culla dello slum globale una spinta al Pil. E se li mandassimo a zappare?

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