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David Harvey
Rivoluzione urbana
15 Luglio 2012
Intervista di Ed Lewis e John Brissenden per il New Left Project con postilla

David Harvey è uno dei principali teorici del marxismo del mondo. Ha discusso i temi del suo nuovo libro, Rebel Cities: From the Right to the City to UrbanRevolution [Città ribelli: dal diritto alla città, alla rivoluzione urbana] con i curatori del sito New Left Project: John Brissenden ed Ed Lewis

John:Lei direbbe che c’è un argomento centrale in Città Ribelli, oppure è piuttosto un modo di mettere insieme una certa gamma di argomenti?

David:Penso che sia un po’ tutte e due le cose. Se c’è un argomento fondamentale, sono in realtà il capitolo 2 (Le radici urbane delle crisi capitaliste) e il capitolo 5 (Recuperare la città per la lotta anticapitalista); il capitolo 2 tratta essenzialmente del rapporto tra capitale e urbanizzazione, e il capitolo 5 in realtà tratta dell’opposizione al capitale e all’urbanizzazione. Il conflitto di classe, quindi, è trattato direttamente nei capitoli 2 e 5.John: Lei parla di un profitto del monopolio e delle contraddizioni insite in quel processo, e mi chiedevo se potrebbe spiegarci quelle contraddizioni e il loro significato per la sua analisi.

David: Ci viene detto che il capitalismo riguarda molto la competizione e tutti continuano a parlare di competizione, ma se qualche volta si parla con un qualsiasi capitalista, si troverà che essi preferiscono il monopolio, se potessero averlo. Quello che si trova, quindi, è in realtà una lunga storia di tentativi di uscire da situazioni di competizione con qualche giochetto monopolistico.

Per esempio, soltanto semplicemente dare un marchio al proprio prodotto è un tentativo di mettergli il timbro di monopolio, in modo che si avrà un fruscìo Nike o qualche cosa del genere che lo rende diverso da qualsiasi altro. C’è una tendenza perpetua a far prevalere il monopolio, e quello che mi interessava nel mio pezzo “L’arte del profitto” era quale è il modo in cui ai capitalisti piace qualche cosa che possono chiamare originale, autentica, unica – perché a loro piace il mercato dell’arte – qualsiasi cosa del genere. C’è perciò una tendenza a trattare la storia come una fonte di unicità, e i luoghi come unici, così c’è un enorme flusso di capitale verso qualunque cosa che si può facilmente monopolizzare.

John:Però, una volta che è iniziato il processo, naturalmente



David:Ebbene, allora si deve considerare qualche cosa che non è in realtà una merce e trasformarla in merce, che quindi diventa come qualsiasi altra. C’è quindi sempre quella tensione continua. Penso che le nuove strutture portuali siano un esempio adatto. La prima è stata fatta molto bene, e tutti hanno detto: “come è interessante”, e ora si può andare in giro per il mondo e si può andare in tutte queste città e tutti dicono: “Hai visto il porto?” e voi dite: “Ebbene, ne ho visto uno ed è come se li avessi visti tutti.” Barcellona, quindi non sembra così unica come era una volta, perché ha una struttura portuale che è simile a qualsiasi altra. Rotterdam ne ha una, Cardiff ne ha una e così via. Naturalmente, qui a Londra ne avete una; non è quindi più una caratteristica unica, diventa soltanto una specie di azienda urbana standard.

John:Lei sostiene che c’è uno spazio che si apre in quella tensione tra gruppi contrastanti

David:Sì. Penso, per esempio, che la qualità della vita in una città è un qualche cosa che viene definita da coloro che vi abitano, e dal loro modo di vita, dal loro modo di essere, e così via. Nella misura in cui questa diventa unica, significa che il capitale non deve dipendere dall’inventiva di una popolazione di fare qualche cosa, di fare qualche cosa di diverso. Il capitale tende a rendere omogenei. Spesso è la gente che fa la differenza e quella allora diventa la caratteristica unica, e quindi c’è un una specie di relazione in questo. Questo significa, quindi, che i movimenti popolari possono avere uno spazio dove poter fiorire, per cercare di definire qualche cosa che sia radicalmente diverso.

John:Lei parla di un profitto del monopolio e delle contraddizioni insite in quel processo, e mi chiedevo se potrebbe spiegarci quelle contraddizioni e il loro significato per la sua analisi.

David: Ci viene detto che il capitalismo riguarda molto la competizione e tutti continuano a parlare di competizione, ma se qualche volta si parla con un qualsiasi capitalista, si troverà che essi preferiscono il monopolio, se potessero averlo. Quello che si trova, quindi, è in realtà una lunga storia di tentativi di uscire da situazioni di competizione con qualche giochetto monopolistico.

Per esempio, soltanto semplicemente dare un marchio al proprio prodotto è un tentativo di mettergli il timbro di monopolio, in modo che si avrà un fruscìo Nike o qualche cosa del genere che lo rende diverso da qualsiasi altro. C’è una tendenza perpetua a far prevalere il monopolio, e quello che mi interessava nel mio pezzo “L’arte del profitto” era quale è il modo in cui ai capitalisti piace qualche cosa che possono chiamare originale, autentica, unica – perché a loro piace il mercato dell’arte – qualsiasi cosa del genere. C’è perciò una tendenza a trattare la storia come una fonte di unicità, e i luoghi come unici, così c’è un enorme flusso di capitale verso qualunque cosa che si può facilmente monopolizzare.

John:Però, una volta che è iniziato il processo, naturalmente

David:Ebbene, allora si deve considerare qualche cosa che non è in realtà una merce e trasformarla in merce, che quindi diventa come qualsiasi altra. C’è quindi sempre quella tensione continua. Penso che le nuove strutture portuali siano un esempio adatto. La prima è stata fatta molto bene, e tutti hanno detto: “come è interessante”, e ora si può andare in giro per il mondo e si può andare in tutte queste città e tutti dicono: “Hai visto il porto?” e voi dite: “Ebbene, ne ho visto uno ed è come se li avessi visti tutti.” Barcellona, quindi non sembra così unica come era una volta, perché ha una struttura portuale che è simile a qualsiasi altra. Rotterdam ne ha una, Cardiff ne ha una e così via. Naturalmente, qui a Londra ne avete una; non è quindi più una caratteristica unica, diventa soltanto una specie di azienda urbana standard.

John:Lei sostiene che c’è uno spazio che si apre in quella tensione tra gruppi contrastanti

David:Sì. Penso, per esempio, che la qualità della vita in una città è un qualche cosa che viene definita da coloro che vi abitano, e dal loro modo di vita, dal loro modo di essere, e così via. Nella misura in cui questa diventa unica, significa che il capitale non deve dipendere dall’inventiva di una popolazione di fare qualche cosa, di fare qualche cosa di diverso. Il capitale tende a rendere omogenei. Spesso è la gente che fa la differenza e quella allora diventa la caratteristica unica, e quindi c’è un una specie di relazione in questo. Questo significa, quindi, che i movimenti popolari possono avere uno spazio dove poter fiorire, per cercare di definire qualche cosa che sia radicalmente diverso.

John:Può pensare a esempi particolari dove questo accade?

David:Ad Amburgo c’è una zona, il distretto di San Paolo che era occupato da abusivi che hanno creato un tipo unico di ambiente, di tipo molto misto, con etnie miste, classi sociali miste, con una vita di strada molto vivace, ecc. I promotori immobiliari hanno comprato in molte altre zone di Amburgo e le hanno trasformate in qualche cosa di molto omogeneo e poi, improvvisamente, si sono resi conto che San Paolo è un distretto meraviglioso, e quindi adesso stanno cercando di entrarvi e di appropriarsene, comprando singole case e affittandole poi a un fitto alto e dicono “non è vero che interessante vivere in questo stretto così vivace?” Questo è il tipo di situazioni che continuano a esserci sempre nelle città: la gente crea un rione piuttosto unico e poi questo si imborghesisce e diventa noioso.

John:Chiaramente, sappiamo che, all’interno del capitalismo cittadino ci sono forti forze di compensazione, e mi interesserebbe chiederle come possiamo impegnarci a superare quella logica.

David:Per esempio, il movimento Occupy di New York City ha provocato una reazione della polizia molto, molto violenta e davvero esagerata. Basta andare nelle strade e dimostrare, e ci si trova circondati da 5000 agenti di polizia, anche molto aggressivi.

Cerco di chiedermi: perché? Mentre quando la squadra dei Giants ha vinto il Superbowl, la gente è uscita fuori e ha fatto esattamente la stessa cosa, in realtà anche di peggio di quanto è accaduto con Occupy, e la polizia non ha fatto nulla. “Oh, stanno soltanto festeggiando”, si diceva, ma Occupy, a causa del suo significato politico, provoca questa durissima reazione. E se ci si chiede il perché, ho la sensazione che la gente di Wall Street abbia molta paura che questo movimento cominci davvero a prendere piede e se succederà, ci saranno naturalmente richieste di responsabilità per tante cose accadute a Wall Street e la gente di Wall Street sa quello che ha fatto e sa che se sarà ritenuta responsabile, probabilmente finirà in carcere. Penso, quindi, molto semplicemente, che abbiano detto al sindaco e a tutti gli altri: “Reprimete questo movimento prima che si diffonda molto.” Isolatelo, fatelo sembrare molto violento, ecc. Si ottiene quindi questo tipo di reazione politica.

John:Quali altre qualità del movimento Occupy ci sono in generale che secondo lei sono particolarmente significative?

David:L’anno scorso sono stato sempre via, e quindi non mi trovavo a New York durante il periodo di maggiore attività del movimento Occupy negli Stati Uniti, ma una delle cose che hanno ottenuto è stata di attirare grande attenzione sul problema della qualità sociale, e grande attenzione sugli enormi indennità e vediamo che ora questo sta trapelando. Prima della loro occupazione, nessuno di questi problemi veniva discusso. Ora il Partito Democratico negli Stati Uniti, e perfino Obama, sono disponibili a parlare della disuguaglianza sociale come un problema. Gli azionisti cominciano a votare contro grossi buste paga, quindi penso che si sta originando tutto questo da quello che il movimento Occupy ha messo in programma. Come sempre accade in questi casi, però, i poteri politici di un certo tipo cooptano parte di quello di cui parlano e poi cercano in un certo modo di farlo cadere. Siamo quindi un po’ in fase di cooptazione in quanto gli azionisti stanno cooptando un po’ della retorica, Obama sta cooptando un po’ della retorica: ecco a che punto siamo.

Ed:Procedendo da questo punto, ci interessa la sua discussione sulla strategia. Come punto di partenza, è chiaro che la concezione tradizionale che aveva la sinistra, della classe lavoratrice come soggetto rivoluzionario, l’agente del cambiamento, non è una concezione a cui noi in Occidente possiamo aggrapparci. Ci può parlare quindi, del modo in cui lei ri-concepisce il soggetto rivoluzionario, chi potrebbe costituirlo ora, e in che modo esso è collegato alle città e all’identità urbana?

David:Per trattare di questo, mi faccio la domanda: chi è che produce e riproduce la vita urbana? Se dite che questo è il tipo di produzione al quale guardiamo, allora vi trovate a definire il proletariato in modo completamentediverso che se voi semplicemente vi atteneste all’idea di lavoro in fabbrica.

Questa quindi è l’idea fondamentale, e poi chiedete: quali forme di organizzazione sono possibili in quelle comunità? Esattamente perché essi non sono in fabbrica, sono così difficili da organizzare. Per esempio, i lavoratori addetti alle consegne , tutti i camion che sono in circolazione,: come si possono organizzare tutti i lavoratori addetti alle consegne? Negli Stati Uniti i Teamsters (un sindacato americano di lavoratori, n.d.T.), hanno lavorato un po’ in questo campo. O i tassisti, per esempio: è possibile organizzarli? Attualmente abbiamo un’organizzazione molto interessante di tassisti a New York City e un’altra a Los Angeles. Dal punto di vista politico, non possono essere un sindacato nel senso comune del termine, devono diventare una forma diversa di organizzazione. I lavoratori domestici : anche in questo caso, si trova una buona organizzazione di lavoratori domestici a New York City e in tutti gli Stati Uniti, e questo, proprio adesso, è un grosso problema. Quello per cui lottavano e che hanno finalmente ottenuto, è che lo Stato di New York ha approvato una specie di carta dei diritti dei lavoratori domestici, che inizia a spiegare con precisione quante ore di lavoro devono prevedere, e tenta di codificarla.

Anche in questo caso è molto difficile organizzare i lavoratori domestici e particolarmente, se sono illegali diventa ancora più difficile. Essi però sono ora una forza lavoro importantissima in molte città. Voglio anche dire che tutte queste forme di lavoro che ci sono in città, sembra siano fondamentali per riprodurre la vita urbana, e quindi dovremmo iniziare a pensare al modo di organizzare politicamente questa forza lavoro in modo che possa iniziare a esercitare un certo potere sulla qualità e la natura della vita urbana. Questa è l’idea generale. Parte di questa forza lavoro è molto difficile da organizzare, altri sono in realtà organizzati molto solidamente, ma spesso ci vuole un tipo di organizzazione diverso dal sindacato convenzionale

Ed:Lei pensa che la sinistra l’ha tirata per le lunghe riguardo a questo, in termini di realizzazione delle sfide e di opportunità che ci sono qui?

David:Penso che, storicamente, la sinistra abbia esercitato sempre una specie di divisione tra quelle che si potrebbero chiamare organizzazioni dei lavoratori e organizzazioni basate sulla classe sociale, e i movimenti sociali. Sono stato assediato in difficoltà negli scorsi 30 0 40 anni, a dire: in realtà dovete considerare questi movimenti sociali come movimenti di classe – forse di un tipo diverso rispetto a quelli che ci sono nelle fabbriche e nei campi, ma sono movimenti di classe. Penso che ci sia stata una riluttanza ad accettare questa idea in molti settori della sinistra.

Ed:Voglio ritornare sull’argomento che lei aveva toccato: la scelta di una pluralità di strategie, che aveva messo in relazione con una varietà di forme organizzative. Lei si è buttato a capofitto in un dibattito duraturo e talvolta piuttosto ostile che va avanti da molto tempo ma che è stato piuttosto vivace negli ultimi anni, tra “orizzontalisti” e “centralisti” o “verticalisti”. Può sviluppare questo punto, e come questo si rapporta alla sua analisi del capitalismo e della città?

David:Credo che adesso ci sia un grande attaccamento all’orizzontalità.

Cerco di dire ai miei studenti che mi piace passare gran parte della mia vita orizzontalmente, ma mi piace anche stare in posizione eretta di tanto in tanto e andare in giro a piedi! Perché penso che non aiuti. Ma, ripeto, non sono contrario a essere orizzontale il più possibile. C’è quello che nel mio libro chiamo una specie di feticismo rispetto alla forma di organizzazione, e questo è stato un altro male nelle forme di centralismo democratico dell’organizzazione, nei partiti leninisti e comunisti.

Penso che la domanda per me sia: che tipo di organizzazione è in grado di confrontarsi e di trattare quel tipo di problema, in che misura? E penso che l’orizzontalità può funzionare per certi problemi di una certa portata, ma presto esaurisce le possibilità. Viviamo in un mondo dove ci sono in giro un sacco di sistemi strettamente connessi l’uno con l’altro, in modo tale che bisogna disporre e controllare immediatamente le strutture per poi occuparsene. Per esempio, una centrale nucleare è un sistema strettamente collegato. Quando qualche cosa si guasta, bisogna reagire immediatamente perché interesserà tutto il resto dell’impianto e ci sarà un’esplosione. L’università non è un sistema strettamente connesso. Se qualche cosa va male, per esempio qualcuno non si presenta a fare lezione, non importa. L’università sopravvive perfettamente. Invece nei sistemi strettamente connessi bisogna prendere decisioni rapide.

Dico quindi a tutti gli orizzontalisti: volete organizzare il controllo del traffico aereo su principi orizzontalisti? Volete tenere assemblee di continuo nella torre di controllo del traffico aereo? Funzionerebbe? Come vi sentireste se foste a metà di un volo sull’Atlantico e improvvisamente vi dicessero: “Veramente i controllori del traffico aereo sono andati in assemblea e ci faranno sapere domani che cosa faranno”? Ci sono molte cose del genere che hanno bisogno di un tipo diverso di forma organizzativa, e penso che sia positivo che la gente parli dell’orizzontalità, ma che non vada bene che dicano che le cose devono essere orizzontali e basta.

Ed:Credo che provenga almeno da un semi-anarchismo e da un profondo sospetto di qualsiasi forma di autorità. Fondamentalmente lei dice che, per essere anarchico, per essere estremista, per essere anti-capitalista, ha ancora bisogno di riconoscere che delle volte l’autorità ha un suo ruolo?

David: Sì, naturalmente. Penso che l’autorità abbia il suo ruolo. Il problema che quindi si pone, e che è molto importante, è: come si ritiene che l’autorità sia responsabile? Quali sono i meccanismi del richiamo e quali sono i meccanismi di controllo, perché una struttura gerarchica può diventare davvero del tipo che parte dall’alto e quindi autoritaria. C’è però una grossa differenza tra l’autoritarismo e l’autorità. Penso che in certi momenti c’è bisogno di qualcuno che abbia l’autorità.

L’esempio famoso che tanta gente cita era quello degli Zapatisti. Gli Zapataisti, però, dal punto di vista militare, non sono orizzontali. L’unico motivo del fatto che sono sopravvissuti è proprio che se si cerca e di immischiarsi con loro in campo militare, essi hanno ottime strutture di comando e di controllo per mezzo delle quali di fatto possono resistere. Se non si hanno queste, si è molto vulnerabili. Una delle critiche che è stata sempre fatta alla Comune di Parigi, è stata che, dato che una gran parte di questa è cresciuta in una specie di anarchismo filosofico, non c’era un’autorità centrale che potesse difendere tutta la città. La gente difendeva il proprio arrondissement (quartiere), ma non tutta la città, e quindi le forze reazionarie potevano penetrarvi facilmente perché non c’era alcuna struttura di comando e di controllo per opporsi all’invasione di tipo militare che è sopraggiunta.

John:Nel suo libro lei parla di Murray Bookchin, e del suo approccio come forse un modo per uscire da questo problema di portata??. Ce ne parli.

David:Dato che sono un geografo, l’estremismo tradizionale in geografia è stato sempre di tipo anarchico, e gli anarchici hanno da lungo tempo la fama, soprattutto gli anarchici sociali, di essere più interessati ai problemi ambientali e della città rispetto a quanto lo siano mai stati i Marxisti (uso la M maiuscola, ma non è stata mai stabilita la grafia della parola “marxista”). E naturalmente hanno esercitato molta influenza negli anni sulle procedure e di pianificazione esotto altri aspetti; ci sono personaggi come Lewis Mumford che provengono da quella tradizione che penso abbiano avuto grande influenza, anche su di me, ovviamente. E Bookchin continua quella tradizione, e quindi mi interessano i suoi saggi sul municipalismo libertario, nei quali parla delle forme orizzontali di organizzazione che vengono decentralizzate, ma poi parla della confederazione delle assemblee regionali, che possono rivolgersi alle necessità della bioregione, invece che alle necessità della particolare comunità, o comunque vogliate chiamarla.

Quindi Bookchin era molto disponibile a pensare a una struttura gerarchica di qualche tipo, e poi a cercare di parlare del modo in cui i poteri erano assegnati e che cosa dovevano riguardare. Usava un piccolo trucco usato da Saint-Simon; i livelli superiori dovrebbero riguardare la gestione delle cose e non delle persone. Dovrebbero preoccuparsi, per esempio, della gestione della fornitura dell’acqua o dello smaltimento delle acque nere dell’intera regione, ma non gestire le attività della gente. E’ una linea di demarcazione difficile rispetto alle politiche reali, ma penso che l’idea sia interessante. Trovo, quindi, molto interessanti le idee di Bookchin.

Sono stato a una riunione a New York un paio di settimane fa con David Graeber, e nella discussione è capitato di parlare di Murray Bookchin. Abbiamo saputo che la figlia di Murray Bookchin era presente tra il pubblico e alla fine abbiamo parlato con lei dell’idea di fare una scelta di alcuni degli scritti di Bookchin relativi a questo argomento e di pubblicarli tutti in un libretto. Penso che sia un momento molto opportuno per reintrodurre la tradizione anarchica che è preparata per parlare di alcuni di questi problemi più ampi, come, per esempio: come esaminate tutte queste assemblee pubbliche e non vi mettete nella difficile posizione di chiedervi che quelle con tante risorse diventano ricchissime e quelli senza risorse diventano poverissime? C’è un modo di equiparazione tra le assemblee municipali, e se c’è, con quali meccanismi potete guardare il livello più alto di confederazioni e così via?

Ed:La sua opinione sembra essere che in definitiva si ha bisogno di uno stato, e sembra che lei pensi che Bookchin in definitiva lo accetti ma non possa ammetterlo.

David:Sì. Se sembra uno stato, e dà la sensazione di stato e fa qua qua come uno stato, allora è uno stato. (http://it.wikipedia.org/wiki/Test_dell’anatra). Ho potuto vedere che esiste qualche cosa che si potrebbe chiamare stato capitalista, che si vorrebbe fare a pezzi per poi liberarsene, ma c’è una certa forma di organizzazione che tratterà dei rapporti tra assemblee diverse e gruppi diversi. E su una base mondiale, a un certo momento si deve anche pensare a certi problemi, come, per esempio, il riscaldamento globale, che dovrebbero essere trattati e compresi a livello globale, e perciò certe idee su che cosa fare rispetto a che cosa, dovrebbero provenire da interessi globali.

John:Questo si riferisce a qualche cosa di cui ci parlava prima, sull’organizzazione geografica. C’è una distinzione, o forse un’opposizione, tra urbano e non-urbano.

David:Un sacco di gente mi fa questa domanda. Dicono: “La città in realtà non esiste più, perché quindi lei parla del diritto a un qualche cosa che non esiste realmente?”, e poi, “Lei parla della città, perché non parla della campagna, perché non parla del mondo rurale?” La mia risposta a queste domande è che noi, in effetti, negli ultimi 50 anni siamo diventati un mondo che si va completamente urbanizzando e quello che poteva essere stato vero in un certo momento, cioè che c’era una vita di città, e poi una vita contadina che era in gran parte autosufficiente, indipendente ecc - è in gran parte scomparso. Quello che si vede ora è un continuum dai campi fino dentro la città, quindi entrambe le realtà diventano sistematicamente intersecate l’una con altra; la mia osservazione riguarda molte parti del mondo, l’America Latina, per esempio: se ci si trova fuori, in zone rurali, si vede che la gente guarda la stessa televisione, e guida le stesse macchine: è quello che chiamo lo sviluppo geografico all’interno di un processo irregolare di urbanizzazione.

E da quel punto di vista si dice che le differenze all’interno della città sono importanti quanto quelle che esistono tra la città e i sobborghi, e tra i sobborghi e le aree intorno alla città. Quindi ci sono tante differenziazioni all’interno del processo di urbanizzazione e quindi la differenza tra zone dove le persone hanno un alto reddito e i quartieri degradati poveri è altrettanto drammatica, in realtà in vari modi più drammatica, di quella che c’è tra la città e le zone fuori città.

Ci sono ora delle forme di organizzazione che riflettono quanto ho detto: se guardate al movimento brasiliano dei contadini senza terra, esso è molto consapevole dei suoi rapporti con la città. Non si considera come se fosse fuori in un mondo autonomo, si considera come parte di questo processo generale di urbanizzazione. Questo è il modo in cui vorrei considerare questo, il che vuol dire che è molto importante organizzarsi attraverso tutti questi elementi. Ora ci sono in corso dei tentativi in alcuni posti, per organizzare una catena alimentare in città, che prevede di iniziare nei campi e poi fare il percorso in vari stadi, fino alla fine –cioè, dall’inizio fino al supermercato – e penso che sia un’idea molto interessante. A El Alto, che è uno dei miei esempi preferiti, l’interconnessione tra la gente che vive in città e quella che vive fuori, è fortissima ed è stata rafforzata negli scorsi 10 o 15 anni grazie all’agri-business e al modo in cui la campagna è stata trasformata in un paesaggio capitalista.

Ed:Quindi un urbanesimo rivoluzionario è una specie di forma universale di politica rivoluzionaria?

David:Sì, vorrei sostenerlo. L’unico motivo per cui sono fedele alla parola “città” è che essa ha un certo significato iconico, e su di essa si concentrano i sogni e le utopie, e quindi richiama alla mente l’immagine della città bella, la città sulla collina, tutte queste cose. Quindi rimango fedele alla parola “città”, ma capisco perfettamente bene che una città in una specie di senso compatto, che si differenzia da qualunque altra cosa, è fondamentalmente scomparsa.

postilla

David Harvey esprime sulla città, sul suo ruolo possibile nel superamento del capitalismo, sulla possibile analogia tra la città di oggi e la fabbrica di ieri, sul rapporto tra “orizzontalità” e “verticalità” (tra società e stato) posizioni che largamente condividiamo e da tempo sosteniamo. Ci piacerebbe discutere con lui su almeno tre questioni:

1) sui modi diversi di concepire la fine della “città compatta” e sulla possibilità di pensare forme dell’habitat dell’uomo formalmente diverse da quella del passato ma ispirate ai medesimi principi e, soprattutto, capaci di soddisfare più largamente la rivendicazione del “diritto alla città”;

2) in particolare al significato e alle declinazioni dei concetti di multiscalarità (trattato da Harvey in Rebel cities) nell’ambito dei processi di pianificazione democratica;

3) sul significato del termine “rivoluzione” e sulle forme possibili del passaggio da un sistema economico sociale a un altro



Il testo dell’intervista, è ripreso (qui semplificato nella formattazione) nella traduzione di Maria Chiara Starace, dal sitohttp://www.zcommunications.org/

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