Vezio De Lucia nel suo scritto molto opportunamente solleva la questione se la vittoria di candidati non sponsorizzati dalle segreterie dei partiti maggiori nelle primarie di coalizione del centro-sinistra, tra cui in particolare quella di Pisapia a Milano, possa aprire una riflessione anche sulla lunga stagione di acquiescenza di quei partiti alle politiche di deregolazione del controllo dell’assetto urbano, affermatasi sempre più estesamente con lo strumento dei PII. Confesso di essere non poco titubante a rispondere in senso affermativo. Cerco di argomentare il perché.
I Programmi Integrati di Intervento:
un ritorno alle “convenzioni” contro il PRG
nate in Lombardia e applicate ovunque
Dal 1992 in poi, col progressivo diffondersi di una sempre più estesa deregulation di ogni progetto complessivo di città, le grandi trasformazioni urbane indotte dall’attuale cambiamento del modello produttivo, attuate in un’ottica di sommatoria di singole opportunità di valorizzazione aziendale hanno di nuovo prodotto e via via continuano sempre più estesamente a produrre effetti molto più simili a quelle degli anni ’50-’60 dalle “convenzioni” fuori PRG, che non a quelle pensate e in parte prodotte dalla Legge del ’42 e dalla Legge Ponte nel periodo 1967-1992.
Si tratta, nel complesso, di una tendenza – precocemente praticata dalla Lombardia (Leggi Verga e Adamoli), ma poi generalizzatasi a livello di legislazioni regionali e nazionale - che alimenta una sostanziale sfiducia negli esiti prodotti dall’applicazione delle norme sui rapporti tra densità edificatorie e spazi pubblici, faticosamente conquistate fra il 1967-’68 (Legge Ponte e DM sugli standard) e il 1977 (prime leggi regionali di Lombardia, Piemonte, Emilia, Liguria, Toscana e, infine, Legge Bucalossi sul regime dei suoli).
I Programmi Integrati di Intervento (PII), che costituiscono l’estensione a livello nazionale di quelle esperienze, col tempo sono andati diffondendosi sino a divenire il principale strumento d’intervento soprattutto nelle trasformazioni urbane più significative e consistenti (ma spesso anche in quelle relativamente più minute e diffuse), non solo perché potevano prescindere dalle previsioni di un determinato PRG sulla base di occasionali convenienze attuative di proprietà fondiaria e operatori immobiliari e spesso di occasionali maggioranze politico-amministrative disposte ad approvarle, ma soprattutto perché si andava affermando che – trattandosi di strumenti negoziali – essi potevano prescindere anche dai limiti normativi imposti a PRG e relativi strumenti attuativi dal DM n. 1444/68.
Tale deriva interpretativa è stata facilitata dall’introduzione nelle legislazioni regionali del concetto di standard qualitativo che, prevedendo un’equivalenza tra la cessioni di minori aree pubbliche rispetto a quelle del PRG (o addirittura rispetto a quelle minime di leggi regionali e DM nazionale) in cambio della realizzazione di opere pubbliche di maggior valore rispetto a quelle degli oneri urbanizzativi di base, rendono quanto mai aleatoria e discrezionale la valutazione della effettiva convenienza pubblica al mutamento di previsione urbanistica rispetto a quella prescritta in precedenza dal PRG per quell’area e per destinazioni analoghe a quelle propostevi.
Solo recentemente, a fronte di ricorsi di cittadini che si ritengono danneggiati da tali previsioni abnormi, i TAR hanno cominciato a sentenziare circa l’inderogabilità delle norme nazionali del DM in tema di densità edificatorie, altezze massime, distanze tra edifici e dotazioni pubbliche minime da parte di normative e piani attuativi regionali e comunali in tema di PII, sopralzi e usi di sottotetti, ampliamenti in deroga normativa a scopo di rilancio economico dell’edilizia.
E’ desolante, tuttavia, constatare che ciò possa avvenire solo come conflitto tra interessi privati contrapposti, come è tipico dei ricorsi al TAR, dove viene rigettata come legittimamente improponibile qualunque istanza di carattere generale e collettiva.
Lo scambio ineguale tra liberismo pubblico e virtù privata:
il progetto pubblico di città soppiantato
dal risparmio energetico-ambientale degli edifici
L’urbanistica, dopo essere stata al centro di grandi aspettative e rivendicazioni sociali negli anni Sessanta-Ottanta, negli ultimi decenni non gode ormai più di buona fama in un periodo di difficoltà finanziarie e di rapidità di mutamenti economico-produttivi e il suo posto nell’immaginario sociale collettivo dell’aspettativa di un futuro migliore è stato preso dall’ambientalismo ecologista.
Eppure il rischio è che anche questo si riveli alla fine un obiettivo illusorio e succube del neoliberismo economico, oggi prevalente, che ritiene un lusso insostenibile mantenere le regole di un progetto di territorio e città, pubblicamente individuato e condiviso, che è stato il pensiero fondante dell’urbanistica. Accettarne la progressiva demolizione a fronte della promessa di edifici “intelligenti”, “verdi”, “energeticamente autosufficienti”, in uno scambio ineguale tra liberismo pubblico e virtù privata, credo sarebbe la resa ad un “pensiero unico” di privatismo cui è colpevole rassegnarsi
Per quanto le pubbliche amministrazioni possano, caso per caso, contrattare alcune contropartite di utilità sociale, in assenza di un bilancio di sostenibilità urbana e ambientale complessiva, si finisce comunque per entrare in un gioco truccato a saldo finale in perdita dal punto di vista dell’utilità sociale e della sostenibilità ambientale, che finisce per produrre effetti esiziali, anche se probabilmente non necessariamente di nuovo e soltanto nella forma - come fu nel 1966 - di una frana edilizia, ma piuttosto con lo slittamento del Paese nella gerarchia produttiva e contestualmente col crollo della vivibilità sociale ed ecologica delle nostre città e dell’ambiente. C’è solo da augurarsi che non debbano solo essere tragicamente gli episodi d’intolleranza sociale o gli eventi catastrofici, che pure sempre più frequentemente si susseguono, a far sì che ci se ne debba render conto.
In campo di governo della città e del territorio, infatti, ci muoviamo ormai da tempo in una situazione che potremmo descrivere come analoga a quanto in questo periodo si cerca di attuare nei confronti dello Statuto dei Lavoratori e del contratto collettivo: cioè, ridurre ogni rapporto (in questo caso non tra lavoratore e azienda, ma tra Ente locale e trasformazioni urbane) ad un caso a sé, senza alcun criterio generale con cui operare il confronto e la trattativa nel definire l’interesse collettivo e generale da perseguire.
Una nuova “Milano da bere”:
dallo stilismo della moda
allo stilismo immobiliare delle “archistar”
A Milano, in particolare, questa stagione di allegre contrattazioni sull’orlo del baratro e senza alcun progetto generale di città ha inteso nobilitarsi dandosi il nome di Nuovo Rinascimento Urbano. La denominazione appare quanto mai appropriata, se s’intende con ciò sottolinearne il carattere di decisioni élitariamente garantite dal placet del “principe” istituzionale (formalmente di volta in volta il Sindaco pro-tempore, - Marco Formentini, Gabriele Albertini, oggi Letizia Moratti - benché, dietro la loro immagine, l’assessorato all’urbanistica sia sempre stato saldamente in mani CL) sotto l’influsso della capacità massmediatica dei progettisti di fama ingaggiati di volta in volta dai promotori immobiliari per lubrificare con fantasmagorie inusitate l’inflazione delle volumetrie edificatorie progettate senza adeguate dotazioni di verde e servizi pubblici. E’ lecito, quindi, dubitare che si tratti di prìncipi ed artisti altrettanto “illuminati” quanto quelli rinascimentali, quando comunque si poteva essere “grandi” nelle ambizioni e talvolta anche negli errori, senza con ciò provocare catastrofi irreversibili.
Senza consapevolezza della necessità di tornare ad un progetto generale del “bene comune città” è inevitabile che ogni tentativo di discutere collettivamente limiti ed indirizzi ai criteri di riutilizzo di queste aree sulla base di interessi generali degli utenti delle città venga bollato come un’indebita intromissione nelle “magnifiche sorti e progressive” che le forze economiche e finanziarie – col benevolo consenso di amministrazioni pubbliche sempre più condizionate dall’immediatezza delle ristrettezze di bilancio - pretendono di interpretare egemonicamente nella trasformazione delle città, e per la quale ritengono propria legittima prerogativa proporre quantità e funzioni secondo una valutazione delle opportunità di mercato di volta in volta ritenute attendibili dalle proprie aspettative aziendali.
Ciò consente loro di pretendere non solo una docile adattabilità delle decisioni pubbliche alle eventuali fluttuazioni di stima di quelle quantità e funzioni, ma anche quella di fornirne una conformazione progettuale e di immagine che, ovviamente, nella loro visione attiene piuttosto al carattere della riconoscibilità del marchio aziendale o del logo pubblicitario, che non a quello dei caratteri insediativi o della tradizione culturale del contesto o della città in cui si colloca l’intervento. In questo, occorre dirlo, supportate dal pervasivo diffondersi di una cultura progettuale veicolata in campo urbanistico-architettonico dall’ambito mass-mediatico e più affine al mondo della novità effimera della moda e del design che non all’individuazione di tendenze stabili e durature, che meglio si confanno a fenomeni di lunga durata come sono quelli di costruzione della città e dell’ambiente. Insomma bisognerebbe riflettere se non sia giunto il momento di promuovere un’estensione delle rivendicazioni no logo anche al campo delle manifestazioni della creatività architettonica e urbanistica !
Gli esiti morfo-tipologici dei casi milanesi più noti e rilevanti (Citylife, Garibaldi-Repubblica) sono stati giustificati dall’Amministrazione comunale sia per l’eccezionalità simbolica loro attribuita (il Rinascimento Urbano), sia per sancire che negli strumenti di programmazione negoziata vige l’insindacabilità degli esiti delle trattative “politiche”, anche in deroga alle norme strappate negli anni Sessanta-Settanta all’approvazione del Centro-sinistra storico (limiti massimi di densità fondiaria, di distanza e di altezza, limiti minimi di aree pubbliche), sinora ritenute inderogabili anche da PII e Accordi di Programma . Invece, essi sono stati fortemente contestati sia dalla cultura urbanistico-progettuale sia dall’opinione pubblica per la forte disomogeneità con il tessuto urbano circostante e l’incongrua distribuzione dei pochi spazi pubblici racchiusi tra altissime edificazioni.
I grattacieli sghembi o il “verde verticale”, bizzarramente teorizzato e praticato dallo stesso Boeri come surrogato degli spazi pubblici mancanti, sono stati oggetto non solo dei lazzi dei comici e degli anchormen delle televisioni pubbliche e private, ma persino delle critiche dello stesso Berlusconi e della rivista del suo consigliere culturale Dell’Utri, sia pure in nome di uno spirito di preservazione della tradizione espressiva locale e nazionale, ambiguamente contraddittorio con l’altrove decantato liberismo economico nell’uso immobiliare della città .
Il diffondersi dell’insoddisfazione e della vera e propria protesta popolare di fronte agli esiti delle prime trasformazioni in corso d’attuazione a Milano (ex Fiera, Isola, Garibaldi-Repubblica) e le preoccupazioni per l’annunciato riproporsi di quel metodo sulle ancor più vaste aree (ex scali ferroviari in dismissione: Farini-Romana-,Vittoria-Greco-S. Cristoforo; Expo 2015, ex caserme, aree a margine dei grandi Parchi urbani: Parco Sud, Parco Groane; ecc.) sono in parte stati alla base del rifiuto ad avallare la scelta del PD verso la candidatura di Boeri ed è forse l’argomento più palese per pretendere che anche tra i fautori di quanto sinora attuato si avvii una riflessione sulla necessità di mutare radicalmente il modo di affrontare un tema di portata così vasta e collettiva.
Senza voler rinfocolare le polemiche in corso su quelle due aree e sui motivi del trattamento di favore loro riservato, è tuttavia evidente che esso non potrà essere riproposto sull’intera estensione delle aree degli scali ferroviari in dismissione (1.340.000 mq, più di cinque volte l’area dell’ex Fiera!), né su quello delle aree destinate ad Expò per sei-sette mesi nel 2015 (circa 1 milione di mq) senza mettere in discussione la sostenibilità ambientale dell’assetto insediativo.
Occasione per dare impulso ad un disegno complessivo e largamente condiviso di sostenibilità insediativa nel lungo periodo (imposto anche dalla direttiva europea sulla Valutazione Ambientale Strategica) o ennesimo cedimento al pervasivo diffondersi di una cultura amministrativa e progettuale dell’occasionalità, improntata più al carattere della riconoscibilità del marchio aziendale o del logo pubblicitario, che non a quello dei caratteri insediativi e culturali del contesto urbano, mutuata dall’ambito mass-mediatico, più affine al mondo della novità effimera della moda e del design che non ai fenomeni di lunga durata della conformazione urbana e assunta acriticamente da pubblici amministratori inclini (tanto a destra, quanto a sinistra) alla politica-spettacolo ?
In particolare nel caso milanese, se non si vuole ridurre la discussione sulla morfologia urbana che si vuol ottenere a mero pettegolezzo sulle personali preferenze estetiche di questo o quel pubblico amministratore o uomo politico, di questo o di quell’architetto di grido (come già avvenuto non senza contrasti anche trasversali agli schieramenti politici nel caso dell’ex Fiera e di Garibaldi-Repubblica), occorre, che il potenziale espresso dal riuso di quelle aree si indirizzi fuori da quell’effimera temperie di iniziative progettuali che producono una frammentata congerie edifici dalle variegate figure organiche sparse quasi non noncuranza, al limite della casualità dell’objet trouvé, in un pot pourri che vorrebbe alla fine dare soddisfazione a tutti i palati, sia nel campo delle aspettative di commesse professionali che in quello della pubblica opinione. Una rassicurante miscela tra l’effimera inusualità formale e un’aura di internazionalismo mondano che evoca il clima di compiaciuta autocelebrazione della “Milano da bere” poco prima del suo tracollo in Tangentopoli.
Il PGT di Milano:
Un consumo di suolo
quadruplo che in Germania
Molti articoli di stampa hanno commentato in maniera un po’ scontata e convenzionale che il Piano di Governo del Territorio (PGT) in corso di approvazione a Milano in base alla Legge regionale del 2005 ne segnerà il destino urbanistico per i prossimi venti-trent’anni (ma, per vero, del tutto analogamente in quasi tutti i comuni dell’hinterland, compresi quelli tuttora amministrati dal centro-sinistra, come Sesto San Giovanni e Cinisello a nord o San Giuliano a sud): i giornali non si sono resi conto, tuttavia, di accreditare con ciò una verità paradossale. Infatti, con una scelta per vero discutibile e assai probabilmente illegittima, la legge urbanistica regionale del 2005 ha deciso di utilizzare in Lombardia solo una pianificazione urbanistica di durata quinquennale, senza più alcun orizzonte strategico di medio-lungo periodo, e quindi le previsioni del PGT di Milano cesseranno di avere effetto verso il 2016, giusto all’indomani del mitizzato evento di Expo.
Ciò nonostante le quantità edificatorie messe in gioco corrispondono effettivamente ad un ritmo di crescita che è dell’ordine di tre-quattro volte quello ritenuto sostenibile da realtà socio-economiche ben più solide e strutturate di quella italiana, anche se per qualche verso comparabili con quella lombarda, come quella della Repubblica Federale Tedesca, la quale ha imposto alle proprie amministrazioni locali previsioni urbanizzative con un consumo massimo di suolo di 1,34 mq/abitante/anno (cioè 30 ettari l’anno per l’intera RFT). Se applicassimo quel parametro alla situazione milanese, il PGT dovrebbe consentire la nuova urbanizzazione di 8-9 milioni di mq, mentre ne prevede invece quasi 32 milioni di metri quadri. Vale a dire, appunto, un consumo urbanizzativo di suolo che la Germania riterrebbe sostenibile in un orizzonte temporale di venti-venticinque anni.
Su quelle aree alla densità geografico-urbanizzativa attualmente in atto a Milano (comprendendo cioè il consumo di suolo per reti infrastrutturali e attrezzature generali), che è di oltre 90 mq/abitante e che, come constatiamo quotidianamente, produce una qualità di vita assai congestionata, si può stimare una nuova quantità edificatoria dai 10 ai 17 milioni di metri quadri di superficie lorda abitabile (intesa in senso lato, ossia comprendendovi sia le funzioni residenziali che terziarie), a seconda dell’indice di affollamento stimato (un abitante/utente ogni 30 o 50 mq abitabili). Gli stessi dati del PGT (in genere piuttosto propensi alla sottovalutazione) stimano una quantità abitabile di nuova realizzazione di 12-13,5 milioni di metri quadri.
E’ assai interessante rilevare, inoltre, che l’ulteriore residua superficie di suolo ancora urbanizzabile dopo quella messa in gioco dal PGT è di altri 8 milioni di metri quadri: cioè, dopo questo PGT ci resta nuovo suolo urbanizzabile solo per un altro PGT, ma se in fatto di consumo di suolo ci acconciamo a comportarci come la prudente Germania.
A queste quantità edificatorie vanno aggiunte le nuove edificazioni negli ambiti già urbanizzati che, come dimostrano alcune simulazioni recentemente illustrate all’Ordine degli Architetti di Milano, con densità edificatorie ammesse superiori ai 7 mc/mq, alcuni stimano possano produrre altri 12 milioni di metri quadri edificatori abitabili. E’ assai difficile credere che tutte queste quantità possano davvero realizzarsi nel prossimo quinquennio, anche in considerazione delle iniziative immobiliari già in atto e della difficile situazione economico-finanziaria.
I nostalgici del sovradimensionamento
scorazzano nella prateria delle iniziative immobiliari
In realtà ciò che il PGT prefigura è una vasta prateria di iniziative immobiliari nella quale la finanza possa scorrazzare acquisendo diritti edificatori virtuali (dei veri e propri futures speculativi, cui possono accedere solo banche e finanziarie che abbiano una dimensione economica in grado di attendere nel medio-lungo periodo la ripresa dei mercati, come dimostrano le recenti estromissioni degli immobiliaristi più tradizionali alla Zunino e Ligresti dalle più rilevanti iniziative immobiliari in corso), e che, con il meccanismo dei cosiddetti scambi perequativi, non si sa dove, come e quando si consolideranno in forme insediative.
Ma al Comune questo sembra non importare gran che: l’importante è far girare il business. In fondo è quello che già era accaduto con il sovradimensionamento dei PRG negli anni Cinquanta-Sessanta, e per alcuni la nostalgia sembra davvero irrefrenabile, se si è avuto il coraggio di rievocare, rivalutandolo, il cosiddetto “rito ambrosiano”, tempo addietro simbolo di pratiche consociative deteriori tra amministratori pubblici e interessi speculativi. Basti dire che per garantire l’attuale livello della rendita fondiaria (900-1.200 Euro/mq abitativo realizzabile) basterebbe un indice edificatorio di 0,40 mq/mq ad uso privato, mentre il PGT promuove senza alcuna contropartita usi edificatori privati di 0,65 mq/mq, cui si aggiungono le quantità edificatorie per l’edilizia sociale e per la premialità ambientale, sino a spingere la densità edificatoria a superare 1 mq/mq (di nuovo anche in questo aspetto del tutto indifferentemente tra amministrazioni di centro-destra o di centro-sinistra e nel capoluogo milanese o nei grandi comuni dell’hinterland).
Invertire questa tendenza sarebbe possibile proprio a partire dalla risorsa strategica rappresentata dalle grandi proprietà pubbliche istituzionali di aree destinate alle trasformazioni urbane (gli ex scali ferroviari, le ex caserme, ecc.), se il Comune, anziché incentivarne l’omologazione al comportamento degli speculatori immobiliari nella ricerca della massimizzazione delle rendite, subordinasse la sottoscrizione degli accordi di programma con queste proprietà all’impegno da parte loro ad attuare un meccanismo di alienazione dei propri patrimoni fondiari con il criterio del ribasso sulla quota di edificazione privata e conseguentemente con la crescita della quota di edilizia sociale, ferma restandone l’edificabilità totale ammessa. In tal modo si potrebbe sia stabilizzarne il livello della rendita fondiaria attorno ai valori attuali sia massimizzarne l’utilità sociale.
Purtroppo è esattamente il contrario di ciò che i Comuni amano fare quando sono condizionati dal dover far fronte a necessità immediate cui non sono più in grado di rispondere con le ordinarie risorse di bilancio: si accetta l’omologazione del comportamento di queste proprietà istituzionali a quello degli immobiliaristi, alla sola condizione che le rendite fondiarie vengano totalmente o parzialmente reinvestite in ambito locale, non importa se in un orizzonte di investimenti infrastrutturali di lungo periodo o, come per lo più accade, anche solo in modo congiunturale. In questo modo si finisce per incentivarne lo sviamento di comportamento persino quando si tratta di enti, quali FS, che per compito istituzionale e funzionalità aziendale dovrebbero indirizzare prioritariamente i propri investimenti a sostenere gli obiettivi di riequilibrio territoriale di area vasta e di lungo periodo. I proventi derivanti dalla rendita fondiaria delle trasformazioni urbane più rilevanti, anche se milanesi, dovrebbero infatti essere indirizzati prioritariamente al finanziamento dei collegamenti infrastrutturali a livello regionale, interregionale e internazionale, quali le tratte italiane di collegamento su ferro da Milano al progetto svizzero AlpTransit/NTFA, via traforo del San Gottardo, o, a livello interregionale, la Gronda ferroviaria Novara-Malpensa-Seregno-Verdello-Orio al Serio. Gli investimenti sul nodo ferroviario di Milano verrebbero così indirizzati a sistema con i centri di interscambio delle merci e le nuove polarità intermedie dell’area padana, anziché finire per surrogare le carenze di investimento dei bilanci municipali, provinciali e regionali nel far fronte ai costi dei movimenti pendolari sul capoluogo milanese, il cui ruolo di dominanza finisce per esserne confermato ed anzi esaltato.
D’altra parte, anche rimanendo in ambito municipale, l’assoluta illogicità urbanistica di attribuire gli indici edificatori in base alle crescenti aspettative di rendita delle proprietà fondiarie nel medio-lungo periodo (e che come si è detto potranno essere incamerate solo da grandi investitori finanziari) si evidenzia nel fatto che con l’indice di edificabilità territoriale di 1 mq/mq non solo nei singoli piani attuativi non è possibile realizzare le aree pubbliche per 17,5 mq/abitante di parchi pubblici e grandi servizi prescritti dalla legislazione nazionale , ma persino i servizi propri di quartiere sono inferiori al minimo di 18 mq/abitanti sempre fissati dalla legislazione nazionale nel mitico 1968 e mai abrogata.
La legge urbanistica della Lombardia:
un regressivo protofederalismo urbanistico
La legge regionale lombarda del 2005, in una sorta di empito anticipatorio di un regressivo protofederalismo in campo urbanistico , proclama che con l’approvazione dei nuovi strumenti urbanistici quinquennali inventati in Lombardia (i PGT) si disapplicherà l’odiato Decreto ministeriale del 1968. Tuttavia, ogni qual volta i cittadini hanno l’accortezza e la forza di impugnarli di fronte ai Tribunali Amministrativi, le sentenze ribadiscono che questo non è assolutamente legittimo, in assenza di un quadro di sostenibilità dell’assetto insediativo finale cui essi metteranno capo.
Per confondere le acque il Comune di Milano va sbandierando il fatto che nei PII ai privati si chiede la cessione ad uso pubblico del 50% delle aree di intervento, e tende surrettiziamente a presentare questa richiesta (in realtà del tutto immotivata dal punto di vista logico) come una sorta di equispartizione mezzadrile tra interesse pubblico e privato, mentre è possibile dimostrare che anche solo per garantire le dotazioni pubbliche minime di quartiere e quelle per parchi e servizi territoriali generali (da 35,5 a 44 mq/abitante, a seconda che quelle di quartiere siano le minime del 1968 o quelle maggiorate dalle regioni), persino con l’indice 0,65 mq/mq occorre oltre il 67% dell’area da destinare ad uso pubblico. Come ho già detto, con l’indice di 1 mq/mq è, invece, addirittura fisicamente impossibile realizzare tutti gli spazi pubblici richiesti e contemporaneamente farci stare gli edifici se la maggior parte delle aree pubbliche non viene monetizzata e non si aggirano i vincoli di altezza e distanza tra gli edifici privati.
E’ questo, infatti, l’altro vincolo che con la disapplicazione da parte della legge regionale lombarda del Decreto ministeriale del 1968 ci si propone di aggirare, poiché con densità edificatorie così elevate è spesso comunque fisicamente difficile farci stare tutte le volumetrie se non facendole salire molto in altezza e accostando molto gli edifici tra loro. Il Decreto ministeriale, invece, pur con la macchinosa rigidità di meccanismo normativo che talvolta gli è stato rimproverato, impone un obbligo di semplice ma grande sensatezza: se si interviene con un piano urbanistico attuativo che realizza tutti gli spazi pubblici richiesti, il progetto può liberamente proporre altezze e distanze degli edifici secondo un proprio autonomo criterio insediativo; se invece le densità sono talmente elevate da non consentire di realizzare tutti gli spazi pubblici richiesti e occorre monetizzarne una parte rilevante (e quindi il progetto urbanistico non è autonormato, ma si impianta sulle condizione urbane contestuali) il decreto impone, oltre a limiti massimi di densità fondiaria, che gli edifici rispettino le altezze massime degli edifici preesistenti e circostanti ed abbiano distanze pari almeno alla propria altezza.
Un obbligo odioso ed intollerabile per le fantasie da archistar cui fanno ricorso i promotori immobiliar-finanziari del Rinascimento Urbano, ma che rischia soprattutto di mandare in fumo tutte le lucrose architetture finanziarie che si celano dietro l’incremento degli indici edificatori. Un obbligo che, ovviamente, è invece visto come l’ultima ancora di salvezza da parte dei cittadini che si trovano malauguratamente a vivere letteralmente all’ombra di quei mastodonti che la deregulation normativa consentirebbe; ad esempio, nel progetto Citylife (Ras, Generali, Deutsche Bank, Ligresti) sull’area dimessa dalla vecchia Fiera – indice edificatorio 1,15 mq/mq, 50% di area pubblica - gli edifici sul margine sono alti tre volte quelli circostanti e le tre torri centrali (alte il doppio dei grattacieli più alti della città, simbolicamente rappresentati dal mitico Pirelli degli anni Sessanta, ora sede del Consiglio regionale e dal nuovo Palazzo del Governatore recentemente voluto da Formigoni) in inverno oscureranno molti edifici circostanti per l’intera giornata.
Per l’assessore all’urbanistica del Comune di Milano, il CL Masseroli, tuttavia, tutto questo non è un problema (soprattutto nel caso dell’area dell’ex Fiera perché il venditore dell’area, che ha realizzato il doppio della base d’asta proposta, era Fondazione Fiera, sino a poco tempo fa completamente egemonizzata da CL a partire dal Presidente Roth e giù per li rami di Fiera Congressi, Fiera Esposizioni dai vari Lupi, Intiglietta e Compagnia delle Opere cantante), perché, come spiega l’assessore, se gli edifici crescono in altezza, attorno rimane comunque dello spazio libero. Che il peso insediativo e addirittura l’ingombro fisico sia abnorme non lo preoccupa affatto: è come se ci spiegasse che la sera nelle discoteche alla moda della “Milano da bere” può non esserci alcun limite alla quantità di alcolici che si può ingerire, purché la si beva in bicchieri alti e stretti!
Il problema, come ho spiegato, è che non si vuol intaccare la possibilità di attribuire ai privati l’intera densità edificatoria di 0,65 mq/mq, che è la massima ragionevolmente ammissibile per ottenere un insediamento urbanisticamente ed ambientalmente sostenibile, devolvendola invece interamente all’accresciuta aspettativa della rendita immobiliar-finanziaria, salvo poi dovere e volere incrementare ulteriormente l’edificabilità totale per riconoscere delle premialità all’accresciuta sensibilità verso il risparmio energetico degli edifici o far fronte alle esigenze di housing sociale, su cui si appuntano gli appetiti delle sussidiarietà dei più svariati orientamenti politico-sociali. Chi ne fa le spese è il carico insediativo sul territorio, i cui effetti negativi si misurano solo su un orizzonte temporale di lungo periodo, cui la politica amministrativa degli enti locali non è interessata né dal punto di vista degli interlocutori né da quello dei risultati.
Tuttavia tutti questi provvedimenti dal punto di vista della conquista di un consenso di massa hanno avuto il limite di tornare utili quasi esclusivamente alle aspettative delle grandi e medie proprietà fondiarie, quali quelle delle aree dimesse e dei PII. Questo avviene nonostante la Regione Lombardia abbia da tempo provveduto a introdurre la possibilità di trasformare ad uso abitativo e in deroga agli indici edificatori prescritti dagli strumenti urbanistici non solo i sottotetti degli edifici già esistenti da tempo, ma anche quelli degli edifici di nuova progettazione (anche se per questi ultimi, un po farisaicamente e al fine di evitare il rischio di impugnazione per mancato rispetto degli indici edificatori che vengono violati, solo dopo un periodo di “invecchiamento” di cinque anni dalla avvenuta realizzazione dell’immobile cui appartengono.
Molte sono state le proteste degli ambienti più sensibili alla qualità storico-estetica dell’immagine urbana per le aberranti e invadenti incombenze visive delle sopraelevazioni che sono andate dilagando per l’intera città. Sta di fatto che questa liberalizzazione è stata diffusamente applicata per la trasformazione d’uso dei sottotetti condominiali, ma ben poco nelle piccole e piccolissime proprietà delle casette mono-bifamiliari dell’hinterland, sia nella versione spartana delle “coree” degli Anni Cinquanta sia in quella più agiata degli Anni Sessanta-Settanta del “boom” economico.
Su questo aspetto sono, quindi, intervenute più di recente le disposizioni recepite dal cosiddetto “Piano Casa” che consentono incrementi volumetrici da 300 a 600 metri cubi per gli edifici mono e bifamiliari e sino a 1000 metri cubi per quelli plurifamiliari (in pratica da uno a tre nuovi alloggi in più) e sino al 40% in più (senza limiti volumetrici complessivi e anche con la costruzione di nuovi edifici) per gli insediamenti di edilizia economica popolare. Anche nei centri storici (e salvo il parere discrezionale di una commissione ad hoc), la demolizione e ricostruzione di edifici di più recente costruzione verrebbe premiata con un incremento volumetrico del 30%, a fronte dell’utilizzo di tecniche costruttive a risparmio energetico, che tuttavia non farebbero che aggravarne la dissonanza dal contesto insediativo.
Ciò che si vuol dar ad intendere alla piccola e piccolissima proprietà è che anche loro (nel loro piccolo, s’intende!) e nonostante il degrado urbano in cui vivranno, potranno godere dei vantaggi individuali di cui hanno sinora goduto i grandi interventi mossi dai PII in spregio a qualunque criterio di logica insediativa, ma solo di valorizzazione fondiaria; e, tuttavia, con edifici di assoluta impermeabilità non solo alla dispersione energetica, ma anche all’interazione col contesto urbano. Una vera capsula di sopravvivenza individuale, in qualche modo riproposizione aggiornata all’emergenza socio-ambientale del mito del rifugio antiatomico degli anni Cinquanta-Sessanta! E’ quel che accade nei vari PII Citylife, Porta Nuova, Santa Giulia a Milano, ma anche all’ex Falck di Sesto San Giovanni, che ha un’amministrazione PD-PRC!
E’ necessario, invece, che si confermi il ruolo di indirizzo pubblico promosso dall’ente comunale, non più succube di progetti che celano dietro l’effimera novità di immagine, la più torva predominanza della rendita fondiaria elevata a sistema dominante, vera stella polare dell’azione dell’attuale amministrazione comunale.
Una perequazione non liberistica,
ma progettualmente e socialmente orientata
Ciò è possibile spalmando le aspettative di rendita immobiliare della proprietà sull’ampia platea di aree messe in campo dal PGT in corso, usandone i meccanismi perequativi non nel senso di un indistinto liberismo insediativo, come va pontificando l’assessore all’urbanistica Masseroli , ma proprio per riservare alcune aree a funzioni pubbliche di indirizzo strategico.
Occorre, quindi, riprendere una consolidata tradizione progettuale dell’urbanistica progressista imprimendo un deciso orientamento pubblico ai progetti lungo la direttrice di Nord-Ovest da quelle destinate ad EXPO, a Nuova Bovisa, all’ ex Scalo Farini e, per quanto ancora possibile, all’ex Fiera-Citylife e Garibaldi-Repubblica, su cui incombono così numerose, eterogenee ed estemporanee aspettative immobiliari, spesso veicolate da altrettali iniziative progettuali.
Soprattutto sulle aree di Expo è necessario fondare un centro di attività pubbliche permanenti tese all’indirizzo dell’uso appropriato delle risorse agricolo-alimentari, spalmando le aspettative di riuso immobiliare della proprietà sull’ampia platea di aree messe in campo dal PGT in corso, coi meccanismi perequativi tanto cari all’assessore all’urbanistica di Milano, il CL Masseroli. Si darebbe così finalmente seguito concreto alla forse unica ma essenziale, indicazione strategica nella relazione redatta nel 2000 dal prof. Mazza, come premessa al Documento di Indirizzo Urbanistico (D.I.U.) dei Programmi Integrati di Intervento (PII) introdotti dalla legge del 1992: “Un intervento nel settore nord-ovest avrebbe un rilievo strutturale sulla forma della regione urbana…La dimensione dell’area deve essere tale da permettere l’insediamento di uffici e servizi con superfici monopiano a luce diretta ed insieme una parte rilevante di verde e spazi e attrezzature per il tempo libero e sportive. Costruire uno spazio urbano capace di fare concorrenza all’attrattività dei centri storici per qualità monumentale e ambientale. Un’ambizione che dopo tanti disastri dell’urbanistica e dell’architettura moderna può far sorridere, ma è una condizione indispensabile per il successo del progetto.” .
Avrà presente Pisapia tutto ciò (ha parlato poco di urbanistica e ambiente durante la campagna elettorale delle primarie, e più di lui l’hanno fatto Sacerdoti e Onida, sia pure in termini un po’ generici di partecipazione e attenzione all’ambiente e allo svantaggio sociale) ? E soprattutto saprà resistere alle sirene neo-liberiste intonate dalle forze centriste (Tabacci in primis, coi suoi occhi dolci ai vari Albertini, Profumo & Co.) e dallo stesso PD, come condizione per confermargli l’appoggio? Non finirà che a un candidato sindaco particolarmente connotato a sinistra si pretenderà di affiancare una squadra che lo controbilanci in senso moderato, soprattutto in campo edilizio-immobiliare?
Solo dopo aver sciolto questi dubbi, i fumi che avvolgono l’ebbrezza dell’inattesa vittoria potrebbero lasciar intravedere un’alba nuova anche per l’urbanistica milanese!