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Edoardo Salzano
20100909 Parole per ragionare sulla rendita
13 Gennaio 2011
Interventi e relazioni
Testo base dell'intervento nella mattina del 1° giorno, dedicato al ema "La rendita urbana. Nozioni fondamentali per capirla e contrastarla", in dialogo con Roberto Camagni

Ragioniamo sulla rendita urbana

contributi di Edoardo Salzano

0. Introduzione

1. La rendita

2. Rendita e potere

0. INTRODUZIONE

Premessa

Quest’anno e il prossimo alla Scuola di eddyburg si parlerà di economia. In modo un po’ diverso da quello che adopera il mainstream urbanistico.

Quest’anno parleremo di rendita, l’anno prossimo di sviluppo. Si tratta, in entrambi i casi, di termini che hanno pesato e pesano molto sulla città e sulla buona urbanistica. Nelle cinque precedenti sessioni della scuola abbiamo ragionato del peso che “rendita” e “sviluppo” hanno avuto per il consumo di suolo (2005), per il paesaggio (2006), per la città pubblica (2007), per la vivibilità (2008), per lo spazio pubblico (2009). Nella sesta e nella settima andremo al cuore della questione.

In questi quattro giorni ci interrogheremo sui meccanismi che provocano la rendita (in particolare quella urbana) e la sua appropriazione privata; sull’evoluzione storica del peso della rendita urbana e sul suo significato odierno; sui modi e gli strumenti capaci di ridurne gli effetti negativi e utilizzarla “a fin di bene”. E l’anno prossimo ragioneremo analogamente su quell’altro termine così spesso presente nell’urbanistica odierna, e nelle sue mistificazioni: “sviluppo”.

Parleremo della rendita (e dello sviluppo) criticamente, come è d’uso in questa scuola. E ne parleremo da urbanisti e da cittadini, non da economisti: anche se valorosi economisti ci aiuteranno a non dire troppe sciocchezze dal punto di vista della loro scienza, e soprattutto ad approfondire alcune prospettive di lavoro.

Per cominciare, con una breve premessa, cercheremo di raccontare in che modo vediamo il mondo dell’economia partendo da una visione dell’uomo. Anche perchè ci muoviamo in un terreno - quello dell’economia - che, negli ultimi decenni è stato poco frequentato dall’urbanistica. A differenza di quanto succedeva mezzo secolo fa, l’urbanistica delle università e delle associazioni, come quella delle amministrazioni, si è fortemente tecnicizzata: si è separata dagli altri saperi, di cui ha utilizzato quasi esclusivamente le technicalities, gli aspetti più biecamente strumentali e tecnologici. Questo ci impone di prendere l’argomento un po’ alla larga.

I saperi

In un mondo abitato da una società giusta i diversi saperi, che concorrono allo sviluppo dell’uomo, dovrebbero essere in equilibrio tra loro e tutti finalizzati, appunto, al miglioramento della condizione umana: la filosofia e l’economia, l’arte e il diritto, la politica e la fisica – e via enumerando. Ciascuno dei saperi corrisponde infatti a un aspetto dell’uomo: una dimensione della sua intelligenza e della sua attività, volte a comprendere e a governare il mondo che lo circonda.

Secondo il buonsenso (e secondo gli studiosi più attenti[1]) oggi non c’è affatto un equilibrio tra i saperi. Uno di essi, la cui formazione si è consolidata nel corso degli ultimi 2-3 secoli, domina oggi sugli altri. Si tratta dell’economia, cui sono di fatto asservite tutte le altre dimensioni. Asservite in un duplice senso: che hanno minor peso sociale, minore considerazione, minore importanza nell’assunzione delle decisioni; nel senso che gli altri saperi sono ridotti al sostegno strumentale dell’economia.

Per di più, negli ultimi decenni la scienza economica ha smarrito, o ha fortemente ridotto, la sua capacità critica nei confronti della realtà. Non tutta la scienza economica, ma certamente quella dominante (l’economia mainstream) è ancora tutta racchiusa all’interno di questo sistema economico dato (il sistema capitalistico, così come si è venuto conformando nel XVIII e XIX secolo e come, da allora, si è venuto a modificare e reincarnare). Non ne critica i dati di fondo, così come l’analisi scientifica li ha individuati del XIX e nel XX secolo, ma analizza il funzionamento nei suoi apparati tecnici nell’impegno a lubrificarne i meccanismi.

Di conseguenza, si può affermare che si è perso un elemento decisivo, anzi basilare, del ragionamento dell’economia: la consapevolezza del suo ruolo ai fini dello sviluppo dell’uomo, intendo il termine sviluppo nel senso di miglioramento della sua condizione esistenziale e accrescimento delle sue capacità di conoscere e governare il mondo.

Il bisogno, il lavoro

Due concetti secondo me essenziali per riannodare correttamente l’economia all’uomo (e alle sue più generali finalità) sono costituiti dal bisogno e dal lavoro. Riporto qui una spiegazione abbastanza chiara di questi due termini, riprendendo alcune formulazioni di Claudio Napoleoni.

«I bisogni umani sono molteplici, e sono suscettibili di indefinito sviluppo. Che i bisogni siano molteplici è una circostanza che risulta immediatamente evidente a una considerazione, anche superficiale, della realtà umana, così come essa si presenta in ogni momento dato. […] Ma dovrebbe pure risultare chiaro che i bisogni non solo si presentano come molteplici in ogni momento dato, ma si sviluppano anche lungo il tempo. I bisogni dell’uomo di oggi non sono certo gli stessi dell’uomo di duemila anni fa; e quella disponibilità di beni che nei tempi antichi poteva essere giudicata degna di un ricco, o magari di un sovrano, potrebbe essere giudicata oggi intollerabile anche dal più umile lavoratore. […] Questo sviluppo dei bisogni si presenta come illimitato, giacchè è il fatto stesso che certi bisogni siano stati soddisfatti ciò che fa nascere nuovi bisogni»[2].

E se l’uomo è riuscito a soddisfare in qualche modo i bisogni più immediati, più elementari, quelli cioè che dipendono dalla sua vita animale, i bisogni della sussistenza, ecco allora che

«vorrà poi soddisfare bisogni più propriamente umani, come quelli della cultura e della vita spirituale. I bisogni da soddisfare sono imposti o suggeriti all’uomo dalla sua vita fisica, dai suoi affetti, dalla necessità di vivere in una comunità, dal suo intelletto, dalla sua fantasia, e, magari, dalle sue fantasticherie e dai suoi capricci. E tutte queste fonti da cui i bisogni si formano e si manifestano sono stimolate a produrre bisogni nuovi ogni volta che i bisogni vecchi siano stati, in qualche misura, soddisfatti. Non c’è limite a questo processo, né si può immaginare l’eventualità che, nella storia, si arrivi a uno stadio nel quale tutti i bisogni possibili siano completamente soddisfatti, e nel quale quindi l’uomo si possa fermare, cioè, in sostanza, non vivere più»[3].

Il consumo è l’attività economica finalizzata alla soddisfazione del bisogno, la produzione ha a sua volta la sua finalità nel consumo. Lo strumento mediante il quale l’uomo produce è il lavoro, altra dimensione essenziale del processo economico e del progresso dell’uomo. Seguendo anche qui la definizione di Napoleoni, il lavoro

«è, per sua natura, lo strumento, peculiarmente umano, col quale l’uomo consegue i suoi fini; ed è strumento universale, nel senso che esso è a disposizione dell’uomo per ogni possibile suo fine. I fini che l’uomo può proporsi sono potenzialmente infiniti, ma l’uomo, come essere finito, li può perseguire e raggiungere solo in un processo, passando da ogni determinato ordine di fini ad altri ordini superiori, e intanto questo processo è pienamente umano in quanto ogni suo momento è una tappa per il passaggio ai momenti successivi, e mai un punto di arrivo definitivo. Corrispondentemente il lavoro, in condizioni naturali, realizza la sua natura di strumento universale solo passando sistematicamente attraverso una successione di determinazioni particolari, senza mai fissarsi in alcuna, ma anzi stando in ciascuna solo per conseguire fini che, una volta raggiunti, lo metteranno in grado di acquisire una maggiore efficacia come strumento e quindi di servire per fini superiori. In questo processo naturale di sviluppo, c’è dunque un rapporto di azione reciproca tra i fini e il lavoro: è il raggiungimento del fine che arricchisce il lavoro, ed è il lavoro arricchito che consente fini più alti»[4].

Accanto a queste definizioni vorrei aggiungere quelle sul lavoro di Karl Marx, che troverete anche nel Glossario di eddyburg:

«Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi genere»[5].

«In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita»[6].

In altri termini, il lavoro è lo strumento mediante il quale l’uomo è in grado di comprendere il mondo (cioè tutto ciò che è fuori di sé) e di governarlo (cioè di utilizzarlo ai fini propri e della propria specie.

Il sistema capitalistico

L’analisi di Marx ha avuto un lungo periodo d’oblio. Il suo metodo d’analisi e i fondamenti della sua descrizione del capitalismo sono riemersi negli ultimissimi anni, poiché sono stati considerata da molti come quelli da cui si poteva partire per interpretare in modo corretto la crisi nella quale è precipitato (ancor oggi sembra senza via d’uscita) il sistema capitalistico. Quest’ultimo non è solo un sistema di produzione: è un insieme di meccanismi e strumenti, di valori e di principi che condizione l’intera vita della società. É, al tempo stesso, una ideologia[7] e un dispositivo[8].

Se lo guardiamo criticamente e nel suo sviluppo storico, ha avuto grandissimi meriti e demeriti. Ha reso possibile uno sviluppo incredibile della produzione di beni, materiali e immateriali, utilizzabili per la sussistenza, quindi ha liberato potenzialmente l’umanità intera dalla fame e dalla malattia. Grazie alla dialettica sociale implicita nel conflitto tra capitale e lavoro ha consentito di riversare gran parte dei suoi benefici a strati amplissimi della popolazione (quasi alla totalità nelle regioni direttamente legate ai suoi meccanismi produttivi).

Ricco di elementi positivi, ma almeno altrettanto più ricco di quelli negativi. Tra questi vorrei sottolinearne due costitutivi (che cioè sono emersi ben prima della crisi attuale, e prima ancora che la consapevolezza dei limiti del nostro pianeta facesse apparire quello ecologico). Essi riguardano appunto il bisogno dell’uomo e il suo lavoro.

Nell’analisi marxiana il proprietario dei mezzi di produzione (il capitale) compra la forza lavoro, pagandola un prezzo inferiore al suo valore. Il profitto (cioè il guadagno dell’imprenditore in quanto tale) corrisponde alla differenza tra il valore del lavoro e il suo prezzo, cioè è il risultato dello sfruttamento del lavoro. Il punto essenziale ai fini del nostro ragionamento è il seguente. Riducendo il lavoro a merce, e con questo a mero strumento della produzione del plusvalore (del profitto), il capitalismo interrompe (per dirla ancora con Napoleoni) quel «processo naturale di sviluppo» dell’uomo che nasce dalla stretta interrelazione dinamica tra fini (bisogni) e mezzi (lavoro).

«Con lo sfruttamento, infatti, il lavoro perde la sua natura di strumento universale, in quanto viene rinchiuso entro una cerchia definita e invalicabile di bisogni, quella dei bisogni della vita fisica. Quando quella parte della capacità lavorativa di un uomo che resta ancora disponibile dopo che egli ha soddisfatto i propri bisogni di sussistenza, e che potrebbe perciò essere ordinata alla soddisfazione di bisogni superiori, viene viceversa piegata verso la produzione occorrente per soddisfare i bisogni di sussistenza di un altro uomo, allora il lavoro rimane fissato entro una categoria determinata di bisogni, il rapporto di interazione tra lavoro e fini è spezzato, il processo stesso dello sviluppo umano (almeno come sviluppo interessante la generalità degli uomini) risulta interrotto»[9].

Il lavoro è “alienato”, ossia ordinato a fini diversi da quelli che naturalmente (secondo una determinata antropologia) sono suoi propri. E mano a mano che si è riusciti a soddisfare in modo ampio (all’interno dei mercati rilevanti per il sistema) quei determinati bisogni, ci si è unicamente adoperati a soddisfarli in modi sempre più complicati, ridondanti, “opulenti”.Questa doppia riduzione del bisogno e del lavoro ha la sua radice nel fatto che il sistema economico capitalistico è finalizzato alla massimizzazione del profitto ottenibile dai proprietari dei mezzi di produzione mediante il processo di trasformazione delle merci. Il consumo (e quindi il soddisfacimento del bisogno) è stato considerato come una variabile dipendente: consumare perché si possa produrre sempre di più; e consumare quelle determinate merci che il sistema è in grado di comprendere, quindi di produrre.

La scienza economica

Una definizione di scienza economica che mi sembra abbastanza ampia da abbracciare sia una visione generale dell’economia come attività umana che l’economia data (quella cioè all’interno del sistema capitalistico) è quella dell’economista inglese Lionel Robbins:

«La scienza economica studia le azioni che gli uomini compiono per soddisfare i propri bisogni in quanto tali azioni comportino delle scelte in conseguenza della limitatezza dei mezzi che possono rendersi disponibili per la soddisfazione dei bisogni stessi» [10].

Questa definizione ci fa comprendere che ciascuno di noi fa economia (è “economista”) ogni volta che si pone il problema di decidere a quali fini destinare risorse scarse: se impiegare una quota del suo tempo e una quota del suo reddito per andare alla scuola di eddyburg, o per passare tre giorni al mare, oppure per comprare dieci libri, cinque CD e una bottiglia di whiskey e stare a casa a leggere, sentire musica e bere. Così come fa politica (è “politico”) ciascuno di noi ogni volta che incontra altri e discute con loro come fare per risolvere un problema di carattere generale, che con altri condivide.

Naturalmente come tutti i saperi (e tutte le dimensioni dell’uomo cui i saperi corrispondono) anche l’economia ha le sue parole chiave, i suoi concetti e principi, le sue regole. Questi cambiano tutti a secondo delle diverse fasi della storia del mondo e delle civiltà che convivono e si susseguono. Quelli che adoperiamo oggi si sono sviluppati nell’ambito della nascita e dello sviluppo del sistema capitalistico e dell’analisi di esso. É a essi quindi che mi sono riferito e continuerò a riferirmi, pur tenendo presente che sarebbe un errore grave ritenere che questo sistema sia l’unico possibile.

Beni economici; valore d’uso e valore di scambio; bene e merce

Bene economico è qualsiasi cosa, materiale o immateriale, che sia idonea a soddisfare qualche bisogno e che sia disponibile solo in quantità limitata, ossia sia utile e scarsa (p. 9). Osserviamo che l’utilità può assumere caratteristiche diverse: può essere reale o percepita, può essere tale per uno specifico uomo oppure per una moltitudine, può essere effettiva oppure indotta. E osserviamo che la scarsità (cioè il fatto che quel bene sia disponibile in quantità inferiore a quanto sarebbe richiesto per soddisfare la totalità dei bisogni) può dipendere dalle caratteristiche proprie del bene, oppure dal fatto che esso è reso artificiosamente disponibile in quantità limitata.

Ogni bene può essere considerato in due modi:

- a seconda dell’utilità, ai fini della soddisfazione di un bisogno, che ne può ricavare un determinato soggetto, oppure

- a seconda del vantaggio che ne può ricavare il suo possessore dall’atto di scambiarlo con un altro soggetto.

Prescindendo dalla discussione su che cosa debba intendersi per valore (come esso si formi, da che cosa derivi ecc.) limitiamoci ad annotare che, a seconda di quei due modi, l’economia classica parla di valore d’uso e valore di scambio. Il primo è quella che deriva dall’utilità che ha quel bene, per la sua specifica corrispondenza a un determinato bisogno di un determinato soggetto; il secondo alla capacità di ottenere, in sostituzione di quel determinato bene, un altro qualsiasi bene.

Da questa fondamentale distinzione discende che il valore d’uso è legato ai concetti di individualità (del bene e del soggetto), di specificità, di bisogno, mentre il valore di scambio ai concetti di generalità, di fungibilità, di sostituibilità. Il valore d’uso è una caratteristica propria di quel determinato bene. Il valore di scambio è una caratteristica che accomuna tutti i beni oggetto di valutazione economica. In teoria nessun valore d’uso è riconducibile a un altro, mentre ogni valore di scambio è riconducibile (e riducibile) a moneta. Marx la definisce come l’”equivalente universale” di ogni valore di scambio.

Possono esserci beni che hanno valore d’uso ma non valore di scambio. In generale si tratta di beni che non posseggono la seconda caratteristica attribuita dl bene economico dalla definizione che ne abbiamo dato, cioè la scarsità: così l’aria ha certamente valore d’uso (è utile per un irrinunciabile bisogno di ogni uomo) ma non ha valore di scambio perché è presente in misura superiore al bisogno. Ed è aperta la lotta per conservare in questa condizione anche l’acqua, cui si vuole invece attribuire valore di scambio.

In eddyburg e nella sua scuola abbiamo spesso sottolineato la rilevanza della distinzione tra bene e merce. Abbiamo detto che si tratta di termini che si riferiscono ai medesimi elementi, ma li vedono da punti di vista diversi. Se considero, ad esempio, una pagnotta o una casa o un paio di scarpe dal punto di vista dell’utilità che ne traggo, quell’oggetto è per me un bene; se invece lo considero come qualcosa da scambiare con qualche altra cosa (magari per guadagnarci sopra), allora è giusto definirlo merce. Il bene è destinato all’uso, la merce allo scambio. É in relazione a questa distinzione che gli economisti classici parlavano di “valore d’uso” e “valore di scambio”, grosso modo coincidenti con il valore degli oggetti come beni o come merci. Naturalmente, ci sono beni che non sono merci: l’aria, l’acqua, l’amicizia, la solidarietà, l’informazione sono certamente beni, ma non sono merci.

La scienza economica ha conservato la distinzione tra valore d’uso e valore di scambio e continua a parlare di entrambe le forme. Fino a qualche tempo fa si sosteneva che in ogni bene deve essere comunque presente un valore d’uso, altrimenti non sarebbe oggetto di scambio e quindi non avrebbe il valore corrispondente a questa virtualità. La cosiddetta finanziarizzazione dell’economia potrebbe portare a dubitare di questa affermazione. A meno che non si voglia considerare valore d’uso quello derivante dal possesso di un maggior potere. Disporre di un elevatissimo valore di scambio di qualcosa che dà potere (come una massa monetaria) potrebbe insomma essere considerato un bisogno. Certamente non nell’ambito di quei “bisogni umani” cui mi sono finora riferito.

Produzione, consumo

Produzione e consumo sono due parole importanti nel linguaggio (e nel procedimento) dell’economia.

«Il consumo è l’uso dei beni economici allo scopo di soddisfare direttamente certi bisogni […] La produzione è il processo mediante il quale il lavoro fa uso di beni economici allo scopo di ottenere con essi altri beni, che o sono beni di consumo o sono beni che, a loro volta, servono a ottenerne altri, lungo una catena che, prima o poi, mette capo a certi beni di consumo»[11].

Ci si può domandare se nel processo economico dato comandi il consumo o comandi la produzione. In linea teorica comanda il consumo, poiché non esiste produzione che non sia finalizzata a un determinato consumo. Ma l’analisi ha rivelato da tempo che in realtà gran parte dei consumi sono indotti dalla produzione. Chi controlla la produzione ha i mezzi per convincere gli uomini a sentire come propri determinati bisogni, o determinati modi di soddisfare bisogni preesistenti. A partire dallo studio di Vance Packard[12] è stato dimostrato che un impegno sempre maggiore è attribuito dai gestori della produzione a convincere il consumatore che ha bisogno di consumare (quindi comprare) determinati prodotti o servizi. L’induzione del consumo ha caratterizzato sempre di più la società moderna, nella quale il rapporto tra bisogni > consumo > produzione si è progressivamente allontanato da quello naturale, cui mi sono riferito all’inizio di questo scritto[13].

Napoleoni osserva che nel sistema capitalistico

«il consumo, anziché essere il fine del processo, è soltanto un vincolo; esso è (si potrebbe dire correttamente) un costo che il sistema deve pagare, perché qualunque sistema, comunque configurato, deve assicurare la riproduzione dei suoi membri. Ma una volta pagato questo costo, una volta osservato questo vincolo, il sistema procede all’espansione della ricchezza come obiettivo avente senso in se stesso»[14]

La riduzione dei bisogni a quelli della sussistenza, l’accumulazione del potere nelle mani dei gestori della produzione, hanno decisamente radicato il bastone del comando nelle mani della produzione e dei suoi gestori. Sono questi oramai che costruiscono (progettano) il consumo che serve. Foggiano il consumatore a immagine e somiglianza del potenziale acquirente dei prodotti che, sempre più abbondati e sempre più superflui, invaderanno il pianeta e le sue discariche.

1. LA RENDITA

1.1 Definizioni generali

Reddito: profitto, salario, rendita

Il reddito è il flusso di ricchezza che, in un determinato tempo (un giorno, un mese, un anno…), raggiunge un determinato soggetto. Nel sistema economico-sociale capitalistico le figure sociali sono tre: i capitalisti, i lavoratori, i proprietari fondiari Questi ricevono quote del reddito sotto forma – rispettivamente – di profitto, salario, rendita[15].

La rendita è la quota del reddito che è percepita dal proprietario fondiario per aver messo a disposizione del processo produttivo il terreno sul quale si è svolta l’attività. Il salario è il prezzo della forza lavoro: cioè è la fetta del reddito totale che viene percepita dal lavoratore per il fatto che esso mette a disposizione del capitalista la sua forza lavoro per un determinato tempo. Il profitto (in termini molto schematici) è il guadagno del gestore dell’attività produttiva: è la quota del reddito totale percepita dal capitalista, come differenza tra il prezzo che ottiene in cambio delle merci prodotte e ciò che ha dovuto pagare per comprare le merci adoperate nel processo produttivo (ivi comprese non solo le materie prime e i salari, ma anche i mezzi di produzione: capannoni, macchinari ecc.), nonché la rendita che ha dovuto pagare per ottenere lo spazio necessario alla produzione.

Come è facile comprendere la rendita ha una fondamentale differenza rispetto alle altre forme di reddito: ad essa non corrisponde nessuna attività (né quella lavorativa vera e propria = salario, né quella imprenditiva = profitto) ma solo la proprietà (anzi, il possesso) di un bene scarso e utile per lo svolgimento del processo produttivo. Perciò gli economisti classici attribuiscono alla rendita l’aggettivo di “parassitaria”. Questo non è un attributo che distingue un particolare tipo di rendita da un’altro, ma è un attributo generale della rendita.

É interessante domandarsi in che modo le tre figure sociali del sistema capitalistico impiegano la quota di reddito che spetta a ciascuno di essi. Il lavoratore impiegherà il salario per i bisogni della sussistenza (coprirsi, alimentarsi, procreare, riposarsi, comunicare con gli altri, apprendere, ricrearsi); la sua ambizione sarà di soddisfarli nel modo più completo e qualificato possibile, e successivamente di soddisfare nuovi bisogni che dal soddisfacimento di quelli elementari saranno scaturiti. Il capitalista dovrà impiegare il profitto primariamente per resistere alla concorrenza con gli altri capitalisti, e dunque dovrà investire nel miglioramento del suo apparato produttivo, nell’acquisizione di nuovi mercati, nella riduzione dei costi di produzione, nel miglioramento del prodotto, e nella ricerca finalizzata a questi obiettivi. Il rentier (percettore di rendita) sarà libero di spendere il suo reddito in qualsiasi forma lo desideri.

Il conflitto che necessariamente sorge tra le classi corrispondenti alle diverse figure sociali riguarda la ripartizione delle risorse tra le tre forme di reddito. Si tratta della matrice della “lotta di classe”, che la cultura revisionista ha preteso di cancellare dal vocabolario politico, come se fosse un’invenzione e non il portato inevitabile del sistema economico-sociale.

Rendita fondiaria agraria

Il concetto di rendita è stato analizzato inizialmente in riferimento alla rendita agraria: ossia al prezzo che il proprietario di un terreno poteva ottenere da un imprenditore che volesse usare quel terreno per coltivarlo e venderne i prodotti. Poi si è esteso al reddito proveniente da altre posizioni proprietarie che consentivano di agevolare od ostacolare determinati processi produttivi per la particolare posizione (in senso sia concreto che astratto) che quella proprietà ha in relazione al processo produttivo.

La rendita fondiaria agraria è la forma classica della rendita. È il reddito percepito dal proprietario fondiario (proprietario di terreno) in conseguenza del fatto che egli è proprietario di un bene (la terra) destinabile alla coltivazione o al pascolo.

La rendita fondiaria agraria consente di comprendere facilmente il meccanismo elementare della rendita. Supponiamo distinte le figure del proprietario terriero e del capitalista produttore agricolo. Se la terra complessivamente coltivabile in una determinata area è inferiore a quella che sarebbe necessario coltivare per produrre beni agricoli in quantità tale da soddisfare la domanda, è evidente che una parte di quelli che sarebbero disponibili a diventare produttori agricoli (e avessero i mezzi necessari per diventarlo) non possono invece diventarlo. Il proprietario terriero allora, in virtù del privilegio di essere proprietario di un bene scarso, ha la possibilità di far pagare un prezzo al produttore che voglia utilizzare il suo terreno.

Rendita assoluta e rendita differenziale

Fin qui ci siamo riferiti a beni disponibili in quantità scarse e alla rendita come forma di reddito percepibile per la scarsità generale di quel bene. Questo tipo di rendita è quella che si definisce “rendita assoluta”, e cioè - nel caso della rendita fondiaria - la rendita che sorge nella misura in cui la terra disponibile complessivamente nell’ambito di una determinata area economica è scarsa rispetto al fabbisogno.

Ma esiste anche un’altra forma di rendita, che generalmente si sovrappone e si aggiunge alla prima: è la “rendita differenziale”. Questa deriva dal fatto che, se la terra è generalmente scarsa, e quindi la proprietà di essa rende possibile la percezione di una rendita, esistono tuttavia differenze tra i vari tipi di terra in relazione all’uso che se ne vuole fare. La terra può essere più o meno fertile, più o meno vicina al mercato dei prodotti o ai nodi di trasporto, più o meno soggetta a calamità naturali. Esiste quindi una rendita differenziale, o relativa, che è la quota di reddito che il proprietario percepisce per il fatto che la sua terra, il suo fondo, è più fertile o più sicuro o meglio collocato rispetto agli altri.

In definitiva e riepilogando, ogni bene scarso dà luogo a un reddito, percepibile dal proprietario in quanto tale, il quale nella generalità dei casi è costituito da due parti: una parte. che c’è in ogni rendita, è la rendita assoluta e dipende dalla scarsità generale di quel bene; un’altra parte, che c’è solo in corrispondenza di un sottoinsieme di beni, è la rendita differenziale o relativa, e dipende dalla maggiore appetibilità, o utilizzabilità, di quel particolare bene rispetto ad altri della stessa categoria. È evidente che la rendita totale, cioè la rendita complessiva che il proprietario di un determinato bene percepisce per il fatto d’essere proprietario di un bene scarso, coincide con la rendita assoluta nel caso dei beni meno appetibili (per esempio, la terra meno fertile e più lontana).

1.2 La rendita urbana

che cos’è e come funziona

Che cos’è la rendita urbana

Alla rendita fondiaria agraria si sogliono assimilare altre forme di reddito derivanti dalla proprietà di beni scarsi. Alcune derivano dalla proprietà di altre risorse naturali (le miniere, le acque); altre derivano della proprietà di beni la cui scarsità è artificiale, ossia è provocata. Quando si tratta di beni resi artificiosamente disponibili in quantità più limitata di quella della domanda, molti autori ritengono più corretto parlare di “quasi rendita”, o di “guadagno differenziale”, o di “sovrapprofitto di monopolio”. Ma non c’è, in sede scientifica, alcuna controversia sull’assimilabilità alla rendita fondiaria di una particolare forma di rendita, che soprattutto ci interessa in questa sede: la “rendita fondiaria urbana”.

La rendita fondiaria urbana è il reddito che deriva dalla proprietà del suolo in relazione non suo uso agricolo, ma all’uso edilizio urbano. Suolo agricolo e suolo urbano sono entrambi beni scarsi, ma la loro scarsità è di natura e grado notevolmente differenti. Al limite, praticamente ogni suolo può essere destinato a un uso agricolo; l’utilizzabilità di un suolo a fini agricoli è sostanzialmente un connotato naturale del terreno.

Viceversa, mentre vediamo empiricamente che i suoli urbani sono una porzione limitata, più sostanzialmente osserviamo che essi sono quelli nei quali è avvenuto un processo storico di urbanizzazione: non nel senso che ogni suolo sul quale sia percepibile rendita fondiaria urbana sia stato concretamente investito da un processo di urbanizzazione in senso stretto, sia cioè dotato di strade, fogne, luce ecc., ma nel senso che ognuno di tali suoli è stato posto dalla storia in una collocazione tale da poter essere utilizzato a fini edilizi, e cioè concretamene urbanizzato.

Si può dire che ogni terreno è utilizzabile fini agricoli o silvo-pastorali con un investimento modesto, e al limite nullo; viceversa, sono utilizzabili a fini edilizi (urbani) solo i suoli i quali, con un più o meno modesto investimento di opere di urbanizzazione dirette, può essere collegato all’insieme dell’organizzazione urbana del territorio, ossia a quell’insieme di manufatti - prodotto storico della società - che consentono lo svolgimento delle varie attività della vita sociale.

La scarsità del bene “suolo urbano” non è quindi una scarsità naturale in senso proprio (come quello del suolo in generale), ma una scarsità che deriva dal fatto che solo un numero limitato di suoli è storicamente dotato di quei requisiti che ne rendono possibile, nell’immediato o mediatamente, una utilizzazione edilizia-urbana.

Rendita urbana assoluta, r. u. differenziale

Anche nel caso della rendita fondiaria urbana si può distinguere la componente assoluta dalla componente differenziale. La rendita fondiaria urbana assoluta è quella che deriva al terreno dal fatto che esso è edificabile, (o più esattamente, del fatto che per quel terreno l’utilizzazione edificatoria è conveniente rispetto all’utilizzazione agricola). La rendita differenziale è invece quella che deriva dal fatto che un particolare terreno presenta - ai fini della utilizzazione edilizia - vantaggi e requisiti che lo rendono più appetibile di altri.

La scarsità del terreno urbano è quindi una scarsità manovrabile. Più precisamente, è manovrabile sia la scarsità assoluta del terreno urbano (e quindi il differenziale tra la rendita fondiaria assoluta e la rendita urbana, che è molto elevato) sia la scarsità di terreni caratterizzati da determinati requisiti (quindi la rendita differenziale). E poiché il grado della scarsità influenza la rendita, anche i livelli della rendita sono manovrabili.

Rendita fondiaria urbana e intervento pubblico

Già da queste rapidissime annotazioni si comprende il ruolo che svolge l’intervento pubblico nell’influire sulla rendita fondiaria urbana. Infatti l’intervento pubblico:

a) con i piani urbanistici e, più in generale, con le politiche urbane (repressione dell’abisivismo, controllo dello sprawl, realizzazione delle opere di urbanizzazione ecc.) determina quali e quante aree sono potenzialmente edificabili, e quindi determina il passaggio dalla rendita fondiaria agraria alla rendita fondiaria urbana assoluta;

b) con la realizzazione delle opere di urbanizzazione, con l’inserimento delle aree nei programmi urbanistici e con il rilascio delle concessioni edilizie, rende le aree concretamente edificabili, e quindi incide in un primo modo sulla rendita fondiaria urbana differenziale;

c) con la quantità e la qualità delle opere di urbanizzazione e dei servizi, con la determinazione delle qualità edilizie e urbanistiche delle varie parti degli insediamenti (altezze, distacchi, densità ecc. ) accresce o diminuisce l’appetibilità relativa delle varie aree edificabili, e quindi incide sulla rendita urbana differenziale.

Rapporti tra estensione delle aree urbanizzabili

e livello complessivo della rendita.

Il rapporto tra grado di scarsità e livello della rendita è - nel campo della rendita fondiaria urbana – molo diverso da quanto sia in altri campi. In linea generale, maggiore è la disponibilità di un bene (cioè minore è la sua scarsità) minore è il livello della rendita assoluta. Questo per i beni che sono, in larga misura, fungibili, ossia per i beni nei quali la rendita assoluta è una parte consistente della rendita totale (es., il grano può essere di qualità migliore o peggiore, ma le differenze tra i prezzi del grano migliore e del grano peggiore sono modeste rispetto al prezzo medio; un aumento delle produzione di grano diminuisce quindi i prezzi).

Ma i terreni urbani hanno due caratteristiche. La prima è che la rendita urbana assoluta è molto più elevata della rendita agraria, anche quando questa assume valori elevati. La seconda è a che la rendita differenziale è molto più consistente delle rendita assoluta, e che - nell’attuale situazione delle grandi e medie città - le differenze delle qualità dei terreni sono notevolissime. Si può dire, al limite, che ogni terreno ha una sua qualità differente da tutte le altre.

In una situazione di questo tipo, l’immissione nel mercato di una consistente quantità di nuove aree edificabili determina un innalzamento generale del valore (e quindi della rendita) in tutte le aree che erano già riconosciute edificabili. Questa considerazione è particolarmente importante per valutare sia gli effetti della urbanizzazione abusiva e dello sprawl urbano sia per il dimensionamento dei piani regolatori e i suoi effetti sulla rendita.

Una dimostrazione molto efficace del rapporto tra valore della rendita ed estensione della città fu elaborata dall’economista Siro Lombardini in un suo lavoro sulla riforma urbanistica nel 1963[16]. In sintesi, possiamo immaginare l’andamento dei valori della rendita come una curva crescente a seconda che dalla “periferia” ci si avvicina al “centro” (intendendo per “centro” il luogo che ha ma maggiore appetibilità, e quindi il valore della rendita più alto, e per “periferia” il contrario). Ora il valore del punto più periferico (per definizione: rendita urbana assoluta) è comunque molto più alto di quello della rendita agraria.

Se inseriamo nell’ambito urbano un’ulteriore area, questa sarà meno appetibile della precedente, la quale presenterà a questo punto un valore più alto: Ma quella che giò era più vicina al “centro” conserverà la differenza con la precedente, quindi assumerà un valore più alto di quello che aveva prima. Via via, tutta la curva dei valori della rendita subirà una traslazione verso l’alto. Il valore complessivo della rendita in quel contesto avrà subito un aumento generale.

Rendita immobiliare; altre rendite connesse alla città

Quando si parla di rendita urbana ci si riferisce generalmente alla rendita fondiaria: ossia alla rendita derivante dalla proprietà di un fondo, di un terreno potenzialmente o effettivamente edificabile. Esiste peraltro - ed è distinta dalla rendita fondiaria - un’altra forma di rendita urbana, ed è la rendita edilizia. Per comprendere questa distinzione basterà fare una ipotesi del tutto teorica: l’ipotesi, cioè, di un assetto del regime proprietario tale che le aree edificabili non siano di proprietà privata, ma siano espropriate dalla mano pubblica e cedute in uso a chi voglia utilizzarle a un prezzo uguale a zero. In questo caso, evidentemente, non c’è più rendita fondiaria urbana. (Più precisamente si dovrebbe dire che il proprietario, in questo caso pubblico, rinuncia alla rendita che le logica del sistema gli consentirebbe di percepire).

Ma chi ha ricevuto in uso il terreno può costruirvi a utilizzare il costruito a suo piacimento. Ci troveremo perciò di fronte a questa situazione: avremo una nuova categoria di beni - anch’essi scarsi e anch’essi in appartenenza a qualcuno a titolo proprietario. Anche qui, dunque, avremo un meccanismo di rendita: con una componente assoluta, dipendente dalla scarsità generale di edifici rispetto al fabbisogno, e una rendita differenziale, nella quale entrano quelle stesse componenti di differenziazione qualitativa e d’uso tra i vari edifici che avevamo già visto nel caso dei terreni urbani.

Possiamo dire che, nel corso del processo di urbanizzazione ed edificazione, la rendita fondiaria viene trasformata in rendita edilizia. L’insieme dell’una e dell’altra la chiameremo “rendita immobiliare”, la quale comprende quindi sia la rendita fondiaria urbana che la rendita edilizia.

La rendita immobiliare non è l’unica forma di rendita offerta dalla città (e, più in generale, dal territorio urbanizzato) ai privilegiati che si trovino un una posizione tale da poter esigere una forma di pedaggio.

Pensiamo alla gestione dei servizi urbani, per loro natura tendenzialmente monopolistici (trasporti, acqua, elettricità, gas, informazioni). Pensiamo alla realizzazione delle opere pubbliche (controllo degli appalti e relativi sovraprofitti).

1.3. Gli effetti della rendita

Gli effetti sul sistema economico-sociale

Se teniamo presente che il reddito totale prodotto in un determinato periodo è un dato, e che esso va distribuito tra tre soggetti (tra tre figure economiche) è evidente che maggiore è la quota che va alla rendita, minore è quella che dovranno dividersi profitti e salari (cioè capitalisti e lavoratori). Le conseguenze di una crescita eccessiva della rendita in generale (compresa la rendita immobiliare) sono una riduzione dei salari e/o una riduzione dei profitti. Nel primo caso peggiorano le condizioni di vita dei lavoratori (quindi della grande maggioranza degli abitanti), nel secondo caso si riduce l’attività di ricerca e di progresso della produzione, quindi perde competitività l’area dove questo avviene. Lo avevano compreso bene i protagonisti del “capitalismo avanzato” in Italia negli anni Sessanta e Settata del secolo scorso, quando scesero in campo a favore di una riforma urbanistica che riducesse il peso della rendita immobiliare.

Nell'autunno del 1972 poi - con una intervista al settimanale Espresso che fece clamore, e successivamente in una conferenza-stampa organizzata all'inaugurazione del Salone internazionale dell'auto e con un documento pubblico mandato al presidente del Consiglio - i due fratelli Agnelli, padroni della Fiat, entrarono direttamente nell'agone, nel quadro dell'iniziativa da essi stessi promossa per provocare un mutamento di linea e di scenario al vertice della Confindustria (Gianni Agnelli venne poi eletto presidente dell'organizzazione il 30 maggio 1974). Afferma Agnelli:

«Il mio convincimento è che oggi in Italia l'area della rendita si sia estesa in modo patologico. E poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto d'impresa. Questo è il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire (...) Oggi pertanto è necessaria una svolta netta. Non abbiamo che due sole prospettive: o uno scontro frontale per abbassare i salari o una serie di iniziative coraggiose e di rottura per eliminare i fenomeni più intollerabili di spreco e di inefficienza» [17].

L'iniziativa degli Agnelli suscitò larga eco sui giornali e nella stampa; provocò scompiglio ai vertici dell'organizzazione degli industriali. Essa era certamente mossa da motivi anche strumentali; ma è certo che si collocava in una atmosfera più che pronta a recepirla, come è altrettanto certo che a rileggere oggi alcune delle formulazioni e motivazioni di allora, sembra quasi di esser discesi su di un altro pianeta. Scrive ad esempio nel 1973 un giornale molto vicino agli industriali, pur dimostrando un certo stupore:

«I Giovani Industriali credono di avere le carte in regola e parlano con estrema chiarezza. Per loro, ad esempio, non c'è alcun dubbio che per salvare il profitto, inteso come giusta remunerazione dell'attività imprenditoriale e come misura dell'efficienza produttiva, occorre mollare e gettare in mare le rendite parassitarie e speculative ed anche, al, limite, le classi ad esse più tradizionalmente abbarbicate. (...) Requiem per la rendita fondiaria potrebbe ben intitolarsi la relazione presentata dal prof. Bastianini, assistente al Politecnico di Torino e - mi dicono - liberale. Egli ha in effetti difeso il "diritto di superficie" ("concessione a tempo" l'ha chiamato, definendola anche "una scelta di civiltà che dobbiamo compiere a favore delle generazioni future") contro il diritto di proprietà. Bastianini ha anche compiuto una stima del costo globale della rendita urbana in Italia rilevando che, nel 1972, in rapporto ad un valore aggiunto nel settore delle abitazioni risultato pari a 3,037 miliardi di lire, la quota pagata alla rendita è stata di 750-800 miliardi» [18].

In quegli anni il capitalismo industriale italiano tentava anche altre strade. In collaborazione con l’industria di stato (IRI) e con le cooperative si proponeva come promotore, pianificatore e gestore di interventi urbani complessi (“Sistemi urbani”) nei quali la posta economica in gioco era, oltre al profitto, l’insieme delle rendite urbane[19]. La scelta di privilegiare nettamente la rendita avvenne più tardi. Ma di questo parleremo più avanti, e se ne tratterà più ampiamente nella giornata di domani.

La rendita e la città

C’è un’intera letteratura sugli effetti della rendita (anzi, dell’appropriazione privata della crescente rendita immobiliare) sulla città, sia nella capacità di governarla a fini diversi da quello dell’ulteriore accrescimento della rendita, sia nella sua vivibilità (in termini di funzionalità, equità, bellezza).

Mi limiterò a citare pochi brani di Hans Bernoulli. La critica dell’autore di La città e il suolo urbano parte dal racconto di ciò che avvenne quando – nello sfaldarsi della civiltà medievale e nell’arretrare dal diritto comune al diritto individuale – vennero aboliti i vincoli, dominicali e regolamentari, sui terreni urbani: quando il suolo urbano fu suddiviso, e da bene divenne merce.

«Il diritto fondiario della nobiltà venne meno, come anche la maggior parte dei diritti di proprietà del comune. […] Il monopolio del suolo passò alla proprietà privata e la proprietà privata divenne un bene commerciabile»[20].

Il suolo urbano non fu più la base della casa della società, il fondamento del suo ordine e della sua bellezza: divenne una merce come quelle che le fabbriche producevano a getto continuo.

«La terra, sfuggita di mano alla comunità quasi per errore e ora proprietà di contadini avveduti e cittadini oculati, era destinata a divenire in breve un vero e proprio oggetto di speculazione. […] La città si trovò quindi ad una svolta: il diritto fondiario di proprietà influì sulla sua struttura e sulle sue costruzioni. L’età moderna, risvegliatasi all’improvviso in piena industrializzazione offriva al proprietario quasi illimitate possibilità di speculazione sul proprio terreno. Ognuno poteva vendere il proprio terreno al più alto prezzo raggiungibile sul mercato. […] Questa speculazione venne metodicamente condotta dalle società fondiarie. La massima rendita si ottiene col massimo sfruttamento del suolo; quindi, in ragione della possibilità di costruire su un dato lotto cinque piani piuttosto che tre, oppure tre quarti dell'area piuttosto che un quarto. determina diversità notevoli di rendita e quindi diversità notevoli del prezzo di vendita del lotto. Come la speculazione sui terreni aveva ottenuto un frazionamento tale da moltiplicare gli angoli fabbricativi, cosi è riuscita ad ottenere un progressivo aumento delle altezze di fabbricazione» [21].

Come distrugge la bellezza, così il nuovo regime proprietario distrugge la funzionalità. La città è una realtà dinamica. Mutano le esigenze che essa deve soddisfare, mutano le possibilità di soddisfarle: tutte, però comportano l’uso di spazio, di suolo urbano. Se la città fosse rimasta, o fosse divenuta, proprietaria del suolo avrebbe avuto campo libero, ora invece non è più così. Dopo la privatizzazione del suolo urbano accade che

«quando la città, per una miglioria che deve servire a tutti, per esempio un nuovo parco, un campo sportivo, una caserma per pompieri, un cimitero, deve rivolgersi al proprietario privato del terreno o dell’edificio, questi si mette sorridendo a disposizione della comunità, ma dà gentilmente a comprendere che l’affare sarà un po' costoso. Comincia un contrattare, un mercanteggiare che non ha mai fine; tanto più l’area conviene per lo scopo che la città prefigge, tanto più si eleva il prezzo che il proprietà richiede. Spesso il rappresentante del Comune se ne deve andare scuotendo deluso le spalle. La ricerca del terre per molti edifici pubblici diventa spesso una faccenda dolorosa, poiché con ritagli casuali di terreno non si possono costruire né un teatro, né un museo, né un municipio […] E per questa ragione che le nostre città difettano di ampie località libere per il riposo delle persone anziane e di ampi campi di gioco per i bambini. L'alto prezzo delle aree spaventa tutti»[22].

2. RENDITA E POTERE

2.1. Il ruolo della politica

Rendita e governo del territorio

La necessità di sottrarre le decisioni sull’organizzazione del territorio allo spontaneismo concorrenziale proprio del sistema economico-sociale del capitalismo è nato agli albori dell’affermazione storica di quel sistema. Le leggi che consentivano di costruire strade, ferrovie e canali vincendo gli ostacoli e riducendo le pretese economiche dei proprietari fondiari nascono in Europa già alla fine del XVIII secolo. Il piano regolatore di New York (1811) può essere considerato il primo dell’età contemporanea. Il prelievo fiscale del plusvalore fondiario (cioè dell’aumento della rendita provocato dalle opere di urbanizzazione) fu uno degli strumenti impiegati dalle borghesia ottocentesche per pagare gli investimenti pubblici.

In Italia le prime leggi che aiutano a contenere gli effetti dell’appropriazione privata delle crescenti rendite urbane sono tra le prime approvate nel quadro dell’unità nazionale. Domani Piero Bevilacqua e Vezio De Lucia ve ne parleranno in un quadro storico. Qui vogliamo parlarvi dei principali strumenti adoperati.

Se li esaminiamo con attenzione vediamo che sono tutti ispirati ad alcuni principi. Ne voglio sottolineare due.

1) L’esigenza di regolare con l’autorità pubblica l’urbanizzazione (pianificazione delle città, realizzazione delle reti di trasporti e altre infrastrutture ecc.) deve comporsi con la tutela della proprietà privata ma, in caso di contrasto, la prima esigenza deve prevalere anche autoritativamente, compensando il proprietario con un indennizzo.

2) Il gradiente di valore che ha un terreno quando da agricolo diventa urbano (quando è compreso in un ambito di edificabilità, oppure quando è reso più facilmente collegato alla rete delle città mediante le infrastrutture di trasporto), è il risultato di decisioni e investimenti pubblici.

Da questi principi derivano alcune conseguenze.

1) Tra gli strumenti dell’azione pubblica deve essere prevista l’espropriazione, come mezzo per vincere la volontà dei proprietari che ostacolano l’acquisizione delle aree necessarie per gli interventi pubblici. Questi possono prevalere sugli interessi privati solo se sono correttamente motivati con un interesse pubblico.

2) Al proprietario deve essere riconosciuto un’indennità che compensi la riduzione di valore derivante dalla mutilazione della sua proprietà, e cioè dal minor reddito che potrà percepire rispetto alla precedente utilizzazione (in generale agricola).

3) Dal reddito del proprietario può essere prelevato, in tutto o in parte, il maggior valore che la sua proprietà (o la parte residua di essa) ottiene grazie alla decisione o all’investimento pubblico.

Naturalmente, accanto a questi principi e alle pratiche conseguenti si affiancano tesi più determinate, che portano a maggiore coerenza il principio dell’appartenenza pubblica del gradiente della rendita urbana e quello del carattere parassitario della rendita, e quindi del danno allo sviluppo capitalistico (allo sviluppo della ricchezza nazionale) determinato dall’appropriazione privata della rendita fondiaria. É, quest’ultimo, il caso di un singolare pensatore nordamericano, Henry George[23], le cui teorie ebbero largo influsso sia negli USA che in Europa e ispirarono protagonisti del dibattito urbanistico europeo come Hans Bernoulli.

I tentativi, nel corso della storia

La politica italiana ha vissuto diverse fasi nel rapporto con la rendita urbana. Domani se ne parlerà a lungo. Oggi vogliamo solo accennarvi, per collocare in un quadro comprensibile l’ultima parte di questo intervento, nel quale si cercherà di comprendere ciò che sta succedendo oggi, ed è molto diverso da tutto quello che è stato prima.

I principi ora illustrati, e le conseguenti pratiche, sono quelle che i Parlamenti e i Governi italiani hanno sostanzialmente seguito nelle fasi della formazione e del consolidamento dello stato prefascista, con oscillazioni non molto sensibili tra il periodo costitutivo del nuovo stato (Destra storica), sia in quelli successivi (Sinistra storica e periodo giolittiano). Rispetto ad altri stati si può dire che in Italia abbia prevalso un potere forte della proprietà (rendita) rispetto all’impresa (profitto), in virtù sia della debole presenza del potere statale e dell’amministrazione pubblica (a differenza della Gran Bretagna e della Francia), sia dalla forza conservata dalla proprietà feudale nel processo di unificazione (a differenza che negli altri paesi del centro e nord Europa) grazie al compromesso storico con la borghesia industriale.

Come scrive Luigi Scano

«non pare illegittimo riconoscere nel legislatore del 1865, operante in un contesto, culturale e giuridico, ma anche, e soprattutto, sociale ed economico, tale da motivare, se non da giustificare, il riferimento ai valori di mercato per la determinazione delle indennità espropriative, l'embrionale coscienza di un concetto che fu poi chiaramente espresso nel Parlamento Italiano nel 1907, discutendosi la legge Giolitti: il concetto per cui non è ammissibile riconoscere ai proprietari dei beni immobili gli aumenti di valore del bene che non sono prodotti né dal capitale né dal lavoro del proprietario, ma che sono dovuti al capitale e al lavoro della collettività»[24].

Le legge Giolitti del 11 luglio1907, n. 502 “Provvedimenti per la città di Roma” prescrive che per le aree fabbricabili comprese nel perimetro del nuovo piano regolatore il comune è autorizzato a espropriare «a un prezzo corrispondente al valore dichiarata dal proprietario delle aree agii effetti della tassa sulle aree stesse», tassa che a sua volta colpisce quella parte di valore capitale che ecceda ciò ch'è rappresentato dalla rendita della coltura agraria colpita da imposta fondiaria»;[25]

Una fase particolare e molto poco studiata a questo proposito è quella fascista, nella quale la prevalenza del potere pubblico statale sulla proprietà fondiaria diede luogo come vedremo domattina, a pratiche largamente basate sull’espropriazione con indennità di moderata entità, e a una legge urbanistica notevolmente avanzata.

Una fase di grande rilievo fu quella degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso in cui, se non si giunse a provvedimenti radicali e completi di riforma del settore, si approdo a soluzioni che rendevano in larga misura indipendenti dal prevalere degli interessi dei proprietari e dal peso economico della rendita urbana sia la realizzazione di opere pubbliche di notevole entità e diffusione (non solo infrastrutture, ma “standard urbanistici”, sia la realizzazione di nuove urbanizzazioni residenziali, industriali e commerciali. Anche di questo si parlerà domani e dopo domani.

2.2 La rendita oggi

La rendita nell’età del neoliberalismo e della globalizzazione

La riflessione della Scuola di edddyburg sui cambiamenti intervenuti, nella città e nei principi e strumenti del suo governo, nella fase della globalizzazione - o del turbocapitalismo, o del neoliberismo – sono aperte da tempo. Un recente scritto di Walter Tocci affronta proprio il tema di questa sessione della Scuola riferendolo alla fase attuale della società[26]. L’autore parte dalla considerazione che con la crisi che, a partire dagli USA, ha scosso il mondo:

«Sono cadute insieme le due forme di rendita, quella finanziaria e quella immobiliare, come erano cresciute insieme nel decennio passato, rivelando un indissolubile legame strutturale e, forse più, una medesima visione del mondo. La condivisione di ascesa e declino mette in luce la natura anfibia di questa economia di carta e di mattone, capace di librarsi su quanto di più etereo e, d’altro canto, saldamente ancorata a quanto di più solido»[27].

«L’immobiliare – continua Tocci - è stato il proseguimento della finanziarizzazione con altri mezzi e mai il rapporto era stato così organico tra questi due modi di formazione della ricchezza. Da questa totalità discende una forte capacità di organizzare la società e di modificare lo spazio. Così, la rendita, a dispetto della scarsa attenzione ricevuta dalla pubblicistica corrente, è stata una forza che ha agito in profondità modellando le strutture produttive, gli assetti territoriali, l'immaginario collettivo e i comportamenti dei diversi attori politici, tecnici ed economici».

La rendita urbana ha svolto in passato due funzioni ed ha assunto due caratteristiche diverse, che Tocci definisce rispettivamente della rendita marginale e della rendita differenziale[28].

«Nella fase di espansione urbana che va dalla ricostruzione del dopoguerra fino agli anni settanta ha prevalso la rendita marginale prodotta dal progressivo ampliamento dei tessuti edilizi: la decisione pubblica di spostare i confini dell’edificato valorizzava i terreni limitrofi sottraendoli all’uso agricolo. Il salto era enorme e corrispondeva a una mutazione di specie della valorizzazione che passava dagli irrisori redditi dominicali al florido mercato immobiliare. La finanza entrava nel processo nel modo semplice e tutto sommato subalterno del credito bancario, che consentiva al costruttore di sopportare i costi di costruzione per poi incamerare con la vendita degli immobili una rendita di gran lunga superiore ad un ordinario profitto industriale. Gli attori protagonisti del processo erano pochi e ben definiti: il politico e il costruttore prendevano le decisioni e il tecnico svolgeva una funzione servente, ma in alcuni casi anche di coscienza critica del processo».

Più tardi, negli anni Ottanta, con la “rivoluzione terziaria” cambiò il verso della trasformazione.

«Si tornò a operare all’interno della città per rispondere ai bisogni localizzativi e di prestigio delle nuove funzioni terziarie, utilizzando gli immobili liberati nel contempo dalla dismissione industriale e dalle funzioni pubbliche (caserme, ferrovie, poste, uffici amministrativi ecc.). Prevalse quindi la cosiddetta rendita differenziale, termine […] che indica la valorizzazione di immobili interni alla città, dotati di vantaggi posizionali diversi tra loro e comunque superiori a quelli marginali. La trasformazione divenne molto più complessa e meno decifrabile per quanto riguarda sia gli attori sia le modalità. Tipicamente la decisione pubblica consisteva nel modificare la destinazione d’uso di immobili già esistenti […] Il capitalismo industriale, che fino a quel momento aveva guardato con aristocratica diffidenza l’imprenditoria del mattone, dovette fare i conti con le regole della trasformazione per portare a termine il riuso dei grandi impianti produttivi, dal Lingotto alla Bicocca per citare due casi emblematici».

Ed ecco il punto:

«La dismissione industriale fece scoprire ai capitalisti i vantaggi immeritati delle plusvalenze immobiliari, un modo più semplice di arricchirsi, senza dover fare i conti con l’organizzazione del ciclo produttivo. A quel punto terminarono i dibattiti sull’improbabile patto tra i produttori, venne messa in soffitta qualsiasi ipotesi di separazione tra rendita e profitto e non se ne parlò più».

All’inizio degli anni Novanta la bolla edilizia sembrò segnare il punto d’arresto del trend immobiliarista. Ma alla fine del decennio l’espansione riprese alla grande e si aprì la fase della “rendita pura”. Conviene soffermarvisi.

La fase della “rendita pura”

Ricominciò un ciclo di “valorizzazione” immobiliare con i livelli di crescita mai raggiunti in precedenza. Si dispone di un nuovo strumento: il fondo immobiliare introdotto proprio in quel periodo in Italia, seppure in ritardo rispetto agli altri paesi.

Tocci rileva che

«il fondo immobiliare consente di raggruppare in un portafoglio unico le proprietà di una vasta gamma di immobili e di coinvolgere anche i piccoli risparmiatori su operazioni altrimenti fuori dalla loro portata, godendo altresì di agevolazioni fiscali negate ai comuni cittadini. Con il fondo la valorizzazione [immobiliare] approda a una rendita immobiliare pura, distante dalle concrete condizioni fisiche della trasformazione edilizia e connessa alle tendenze macroeconomiche determinate dalla finanziarizzazione. Allo stesso tempo, però, il fondo immobiliare consente una maggiore opacità delle operazioni rispetto alla normale gestione finanziaria».

Il “fondo immobiliare” è in sostanza la forma nuova, istituzionalizzata, del “blocco edilizio” analizzato da Valentino Parlato nel 1970 [29]

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