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Corriere della Sera Milano, 6 aprile 2013 (f.b.)

A differenza dei grandi progetti urbani che stanno cambiando il volto di Milano, l'area dell'ex ospedale psichiatrico Paolo Pini, 270 mila mq ai confini settentrionali della città, si connota come un caso a sé. Di nuovi edifici qui non c'è nemmeno l'ombra mentre gli esistenti sono stati ristrutturati e destinati a nuove funzioni. Un intervento «leggero» ma definito da scelte coraggiose, lungimiranti e innovative. Nel '78, l'emanazione della Legge Basaglia, che sanciva la chiusura degli ospedali psichiatrici, ha avviato il processo di metamorfosi dell'area. Nel 2000 l'ospedale ha definitivamente cessato le sue attività. Da allora i trenta padiglioni immersi nel parco sono stati via via ristrutturati e riutilizzati ma attraverso piccole trasformazioni.

Oggi l'area ospita servizi sanitari, ricettivi, ricreativi, religiosi. Alcuni amministrati da strutture pubbliche, altri gestiti da gruppi non profit come Olinda, cooperativa nata nel '96 che impiega il 50% di persone svantaggiate. Olinda, il cui presidente è Thomas Emmenegger, organizza durante l'estate il festival di teatro, musica, poesia «Da vicino nessuno è normale» che rappresenta uno degli eventi culturali di punta della città. Il parco ospita inoltre giardini e orti comunitari utilizzati dagli abitanti dei quartieri vicini. Massimo Bricocoli, ricercatore presso il Dipartimento di architettura e studi urbani del Politecnico di Milano, che ha condotto per il Ministero francese della pianificazione una ricerca sul Pini, ci ha accompagnati sul posto.

Com'è che proprio in assenza di un progetto urbano d'insieme si è realizzato uno degli interventi urbani più interessanti in città? «Sembra paradossale ma in realtà esiste un vincolo urbanistico importante che si è mantenuto nel corso degli anni, quello della destinazione di tutti gli edifici a "servizi alla persona". In più, sia le aree sia gli immobili sono sempre stati di proprietà pubblica — anche se di enti diversi — e questo ne ha sicuramente facilitato il complesso processo di assegnazione e riuso».

Quanto hanno giocato l'intraprendenza e la lungimiranza della cooperativa Olinda?«Olinda è il nome di una delle città invisibili di Calvino quella che cresce e non produce periferia. È quello che si è cercato di fare qui adoperandosi affinché la periferia diventasse attrattiva quanto o più del centro. Organizzare un concerto con Piero Pelù o uno spettacolo teatrale di Marco Paolini significa richiamare persone non solo da Milano ma da tutta Italia».

Si è puntato molto sulla cultura, è questa la chiave di volta?«Sicuramente superare la nicchia del sociale tout court è stato il modo per rendere il luogo attrattivo per tutti. Oggi, tanto per fare due esempi, il Teatro LaCucina (dove un tempo c'era la mensa dell'ospedale psichiatrico) gode di fama crescente mentre il ristorante slow food Jodok (ricavato nell'ex obitorio) è frequentato da chi lavora e vive all'esterno del Pini».

Che rapporti hanno oggi gli abitanti della Comasina con questo luogo?«Un tempo quest'area era off limits, la grande scommessa è stata quella di aprirla alla città. Oggi gli abitanti dei quartieri vicini la descrivono come un grande parco con tanti servizi di qualità. Ormai dire "abito vicino al Pini" ha un'accezione positiva. Anche il progetto dell'associazione Il Giardino degli aromi con i suoi orti comunitari ha contribuito a questo processo di apertura: oggi i soci sono circa 120 ma le persone che li frequentano sono più di 400».

Proprio le aree minacciate dal progetto di nuova edificazione inserito nel Piano di governo del territorio… «Sì. Un progetto che solleva molte questioni rispetto allo sviluppo di Milano. In città ci sono già molti progetti residenziali avviati o approvati che rischiano di rimanere invenduti a causa della crisi. È giusto chiedersi: è opportuno creare ulteriore offerta consumando oltretutto suolo vergine?».

Al Pini l'amministrazione pubblica è stata distratta ma benevola, un binomio proficuo…«Guardare alla valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico non solo in un'ottica economica ma anche sociale è fondamentale. Cedere gli immobili in comodato d'uso gratuito o agevolato è sicuramente un buon viatico. Con la delibera Benelli-Castellano che definisce la messa a disposizione di spazi di proprietà comunale per attività con valenza sociale o culturale l'amministrazione attuale ha imboccato una strada feconda».

per chi non l'avesse ancora firmata QUI la petizione per l'ex OP Pini (f.b.)

L'urbanista, come insinuano mica troppo sottilmente i grandi flussi di comunicazione di massa, è in fondo una specie di narratore folcloristico novecentesco, roba buona per le sagre paesane, quando attorno a una tavolata di vino e salame a filiera corta equi e solidali si rievoca il tempo che fu. Quando si facevano quei piani superati dalla storia, e giustamente soppiantati poi dalla misura d'uomo, dal diritto del cittadino, dall'efficienza dello sviluppo del territorio, dalle misure urgenti per superare la crisi senza dimenticare l'equità sociale. Il tutto in una prospettiva di sostenibilità, lotta al consumo di suolo, rispetto per l'ambiente eccetera eccetera. Quindi, ciò premesso, quanto segue è solo folklore per bambini curiosi, mica roba seria, che lasciamo agli ingegneri trasportisti sostenibili e ai conti delle imprese di grandi costruzioni.

Ieri mattina sul presto, dato che mi si era tranciato in due per la seconda volta il telaio della bici (la spesa moderna da supermarket nei cestini esercita una leva pari al peso del reddito spostato) sono uscito in macchina. E già che c'ero mi sono preso una vacanzina sul territorio metropolitano, andando a curiosare dentro la nuova Grande Opera che il mondo ci invidia, il tunnel che scavalcando l'abitato di Monza promettevano avrebbe dato senso a un cartello piazzato orgogliosamente parecchio più a nord: Roma Km 600. L'incongrua segnalazione fa umoristica mostra di sé là dove scendendo con orgogliosa sicurezza dalle valli alpine confluiscono i tracciati della SS38 dello Stelvio e della SS36 dello Spluga. Peccato che da lì a Roma, nonostante la biblica promessa e lo sforacchiamento miliardario di tutto un versante prealpino, della città di Lecco, di una montagna subito dopo, ci fossero di mezzo un paio di semafori. Il marinettiano futurista del terzo millennio si sentiva già scagliato zang-tumb-tumb verso l'ineluttabile destino della Capitale, e si ritrovava invece obbligato a inchiodare davanti a una casalinga e un pensionato brianzoli col sacchettino della spesa, intenti al gesto sacrilego di attraversare sulle strisce.

Benvenuti a Monza, di cui lo scomparso Califano cantava che “la gente fa gara a chi è più stronza”. Per esempio piazzando dei semafori tra l'automobilista moderno e l'anello delle tangenziali milanesi. Semafori che facevano quotidianamente incolonnare per chilometri mezzi a motore di varie stazze e potenze di inquinamento, accumulando veleni poi inopinatamente aspirati anche dalla casalinga, dal pensionato col sacchetto della spesa, e dai loro parenti che risiedono nei quartieri affacciati sulle otto corsie del cosiddetto tratto urbano. Giustamente i parenti tutti, insieme alle loro vie respiratorie, non erano entusiasti della situazione, e uniti in lobby democratica e sostenibile hanno dato ulteriore impulso a un progetto che era nell'aria da tempo: un megatunnel (in qualche modo gemello di quanto già sforacchiato a Lecco anni fa) sotto i quartieri semisoffocati, che finalmente sbolognasse il serpentone semovibile là dove deve andare, ovvero nella rete autostradale metropolitana, magari per scagliarsi poi proprio verso Roma Km 600 meno qualcosa.

Monza San Fruttuoso: sei corsie da attraversare ogni giorno

Dopo alcuni anni, e revisioni in corso d'opera, la suddetta opera è stata inaugurata l'altro ieri da neogovernatore padano Maroni e notabili vari, e insieme ai comuni mortali mi ci sono cacciato dentro anch'io, per vedere di nascosto l'effetto che fa. Scoprendo che, come hanno riferito e continuano a riferire gli organi di informazione, superata la strettoia se ne è subito creata un'altra, peggio della prima perché il tunnel funge un po' da canna di fucile, concentrando il fuoco sulle carenze del tracciato che già esistevano. Dicono un'ecatombe, e in effetti stare intrappolati dentro una galleria per tanto, tanto tempo, sperando di tornare e riveder le stelle, non è carino, era quasi meglio il semaforo con lo spettacolo della signora Maria intenta a guardarsi la punta delle scarpe inzaccherata. Ora speriamo che i supertecnici facciano cadere anche l'ultimo diaframma verso le tangenziali, ma sospetto che poi sarà là dentro che si scarica il casino suppletivo, con richiesta di nuove corsie, nuove tangenziali esterne a quelle esterne … Ma torniamo indietro, nello spazio e nel tempo.

Nello spazio, percorrendo il tunnel al contrario, se ne scopre una funzione abbastanza interessante: ci sono un centro commerciale con ancora Auchan all'estremità meridionale, e un centro commerciale con ancora Auchan allo sbocco settentrionale. La grande opera miliardaria verrebbe così a configurarsi come meta-shopping mall virtuale, delineando nuove frontiere del consumo e dell'esperienza commerciale a orientamento automobilistico per il terzo millennio. Oltre ad andare a ritroso nello spazio, ovvero giusto risalire un po' in disordine e con poca speranza la SS36, si può però anche andare indietro nel tempo usando il desueto metodo urbanistico. Al 1933 ad esempio: ah, memorabile quell'anno!

Quando nel pieno della modernizzazione fascista-futurista del paese i giovani virgulti dell'intellighenzia nazionale adottavano il meglio del dibattito internazionale sulle città, ad esempio aderendo ai nascenti CIAM di le Corbusier. I quali congressi di architettura moderna, come abbastanza noto, divulgavano una modellistica territoriale magari a posteriori discutibile, ma senza dubbio dotata di senso: una città ordinata, relativamente divisa per funzioni e spazi specializzati, e distesa sul territorio secondo schemi efficienti. Per esempio organizzando l'espansione per quartieri autosufficienti, separati dal centro attraverso cunei e fasce a verde a evitare piccole conurbazioni, e con le infrastrutture stradali concepite organicamente dentro questo disegno. Al concorso per il piano regolatore di Monza bandito in quel fatidico 1933 vinse il progetto del gruppo coordinato da Aldo Putelli, architetto già inserito nel gruppo del Piano Provinciale milanese per l'Abitazione Operaia, e in seguito nel famoso Piano AR. Il suo era un piano di schietta matrice razionalista.

Fondo Archivio RAPu da una mia ricerchina di qualche anno fa
Senza entrare troppo nei particolari, lo schema territoriale si organizzava per quartieri satellite, attestati su una circonvallazione stradale di raccordo con le reti regionali. Guardando quel disegno, molto abbozzato come si addice all'elaborato di un concorso, salta abbastanza all'occhio allenato un'anomalia, rispetto alle carte contemporanee: l'asse della nuova Milano Lecco (prolungamento dell'idea Pirelli di inizio secolo per un corridoio regionale industriale) non è più attestato esclusivamente sul tracciato che separa alcuni quartieri dal centro e interferisce con le aree monumentali della Villa e dei Giardini Reali. Quell'asse ha invece un suo doppione esterno, pronto a trasformarsi in percorso principale, e poi a articolarsi verso nord su almeno tre direttrici. Siamo all'alba della cosiddetta pianificazione metropolitana/regionale, e non è dato di sapere quale consistenza reale abbia quel pur vistoso segno sulla mappa, ma lo schema è perfettamente coerente e il tracciato pure, a scala comunale e provinciale.

Quello “stradone” nei decenni avrebbe potuto ad esempio guarnirsi di polverosi guard-rail, piazzali di sosta per il rifornimento di benzina, occasionali sovrappassi in corrispondenza delle vie intercomunali, o che diavolo d'altro. Non un eden o terra promessa, quindi, solo una stramaledetta ennesima superstrada detestabile per il fracasso, l'inquinamento, ma arteria che alimenta le attività dell'operosa Brianza e più oltre collega direttamente i flussi economici della fascia alpina al core metropolitano milanese. Soprattutto avrebbe svolto il suo ruolo, quell'asse viario, senza tagliar fuori una fetta di città dal resto dell'insediamento, visto che nel disegno si capisce benissimo l'organizzazione dei quartieri satellite e il loro rapporto coi nuclei storici, centrale e secondari. E il tunnel? Sarebbe servito il tunnel? Domanda retorica. Qui viene davvero da dire: “il problema è un altro”. E si lascia la risposta al lettore, ricordando che la pianificazione territoriale è roba folcloristica, superata, novecentesca, da raccontare ai bambini curiosi attorno al fuoco. Che oggi i problemi si risolvono a misura d'uomo, sostenibile, equa e solidale. Che chissà cosa vuol dire, ma intanto ci teniamo il tunnel e i nuovi problemi che ha creato puntualmente all'altra estremità.

La Repubblica Milano, 2 aprile 2013, postilla (f.b.)

IN UNA città dall’altissima domanda (e bisogno) di abitazioni low cost, l’11 per cento degli uffici è inutilizzato. Il censimento del patrimonio terziario sfitto è emerso da un recente meeting tra operatori e banche a cui anche il Comune è stato invitato. Gli ultimi dati milanesi, aggiornati a fine 2012 ed elaborati dall’organizzazione immobiliare Urban land institute e dalla banca Bnp Paribas, collocano i due terzi del terziario fantasma nelle zone (semi) periferiche della città, talvolta più lontane dalla rete di trasporto metropolitano — è in questa fascia che sorgono i principali Office district come Maciachini-Farini, Portello, Certosa, Lorenteggio, Ripamonti, Porta Romana- Centro Leoni, Missaglia-Business park e Bicocca — e nell’hinterland milanese, come San Donato. Il restante 30 per cento circa è dentro la Cerchia dei Bastioni, di cui l’11 per cento in pienissimo centro. Un fenomeno cresciuto negli anni, quello degli uffici senza affittuario o compratore.

Più se ne sono costruiti e più è cresciuta la quota rimasta vuota che nel 2007 si attestava sugli 800mila metri quadri. E il mercato fatica ad assorbire questo eccesso di offerta: nel 2012 i metri quadri terziari venduti o affittati sono stati 200mila contro i 290mila del 2011. Che fare allora oggi? Palazzo Marino pone la questione sul tavolo: «La grande scommessa per il futuro è il riutilizzo del patrimonio esistente». E lancia un’ipotesi di lavoro: «Sulla gestione dell’invenduto e degli sfitti — dice il vicesindaco e assessore all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris — il Comune intende far partire un confronto con tutti i soggetti interessati, dagli operatori ai sindacati, per avviare anche in via sperimentale modalità di trasformazione degli uffici in alloggi con affitto a prezzi accessibili ». Un’opportunità che potrebbe convenire a tutti, per sbloccare lo stallo di tutti quegli immobili.

In Inghilterra l’hanno fatto: a fine gennaio il governo ha deregolamentato il cambio di destinazione d’uso da uffici a residenza, consentendo di farlo senza pagare oneri. Una misura contenuta in un più ampio pacchetto di sostegno alla crescita economica. Il sistema anglosassone, più leggero dal punto di vista normativo, lo permette; in Italia, e a Milano, la ricetta inglese è ancora tutta da costruire. Ma le premesse ci sono. L’operazione nasce per sanare «le scelte sbagliate del passato che oggi si portano dietro criticità significative con le quali è necessario confrontarsi» afferma De Cesaris. Errore doppio, secondo l’amministrazione: l’esagerata realizzazione di locali destinati al terziario, causata dalla “forzatura” da parte degli operatori delle valutazioni sul mercato, e la mancanza di un corretto disegno della città, imputabile anche alla pubblica amministrazione. E il Pgt, piano di governo del territorio, e la delibera con cui si applica a Milano il Piano casa regionale, riescono solo in parte a far fronte al fenomeno.

Crisi a parte, il boom di uffici sfitti secondo gli esperti si giustifica così: «Per un verso pesa il divario tra domanda e offerta in termini di prezzo, specie in centro — ragiona il Country manager
per l’Italia di Bnp Paribas Real Estate, Cesare Ferrero — in secondo luogo molti stabili sono obsolescenti, per struttura e funzioni; terzo, spesso le ubicazioni non sono coerenti con le attuali necessità di prossimità alle infrastrutture di trasporto, o a zone con servizi pubblici». Prezzo, prodotto e posizione, insomma, le tre cause del diffondersi dello sfitto. Così il Comune prova a farsi regista del piano di recupero. Su cui serve partecipazione anche dalle altre istituzioni: «È necessario — aggiunge il vicesindaco — un progetto condiviso che preveda incentivi fiscali, nuove e diverse modalità di accesso al credito, e che coinvolga governo, Regioni e Comuni. A ciò, poi, deve seguire l’impegno di tutti a realizzare interventi che rispondano alla domanda effettiva di abitazioni e di terziario, partendo dai dati reali e dalle effettive esigenze di chi abita in città».

Postilla

Ci sono almeno due aspetti della faccenda che consigliano di andare coi piedi di piombo: l'origine dello studio alla base di questa proposta, e il riferimento all'esperienza britannica. Se cominciamo da quest'ultima, di sicuro non sfugge ai lettori del sito come da quando si è insediato il governo di coalizione Tory-Liberaldemocratico ci sia una poderosa spinta alla deregolamentazione del planning nazionale, entro la quale si inserisce anche questa abolizione di buona parte delle autorizzazioni al cambio di destinazione d'uso, sulla spinta di una assai vociferata emergenza casa che, a parere della sinistra di opposizione, viene spudoratamente sfruttata per far altro. Sul versante dell'origine degli studi alla base della pensata milanese, chiaramente immobiliarista, la si può inserire nel più vasto panorama mondiale dei tentativi di rilancio del settore, devastato dalle proprie passate intemperanze, ad esempio con una offerta di cubature terziarie senza capo né coda, che oggi producono proposte di “soluzione” tra le più stravaganti, come quella di demolizione generalizzata degli edifici curtain wall di Manhattan (sic) e ricostruzione con caratteristiche a basse emissioni, sostenuta da studi di origine assai simile a quelli milanesi. Ciò premesso, ben vengano le sperimentazioni puntuali, ma sempre evitando di ripetere le prospettive delle giunte di centrodestra passate, totalmente succubi di spinte particolaristiche, che hanno combinato esattamente i guai attuali (f.b.)

Visto che si sono citati due esempi, anche due links di eventuale riferimento
1) un esempio di "politiche per la casa" britanniche di amministrazione locale Conservatrice sotto un governo Conservatore (che dovrebbe dimostrare quantomeno la contraddittorietà di queste idee di riconversione uffici/case tanto sbandierate)
2) in che logica si inserisce a ben vedere l'attivismo dei centri studi legati a interessi particolari, quando si discute di "riuso dello stock edilizio terziario obsoleto" nelle grandi città (vedi anche links e allegati)

Corriere della Sera Milano, 31 marzo 2013, postilla (f.b.)

Il futuro del Cerba, il Centro europeo di ricerca biomedica avanzata di Umberto Veronesi, è appeso a un filo. Sottile. Il Comune ha lanciato il suo ultimatum: se entro 90 giorni non si provvederà alla firma della convenzione l'intero progetto verrà considerato decaduto e le aree torneranno di pertinenza del Parco Sud. In gergo tecnico quella di Palazzo Marino è una «diffida» che arriva alla fine di un lunghissimo e travagliatissimo iter culminato con il fallimento di Imco e Sinergia, le due società della famiglia Ligresti, proprietarie dell'area. Senza «proprietari» in grado di assumersi gli impegni assunti (tra cui 90 milioni da versare nelle casse di Palazzo Marino) e senza una «prova» dell'avvenuto acquisto dei terreni non è possibile arrivare alla stipula della convenzione per l'attuazione del programma integrato di intervento. Una firma che doveva arrivare già un anno fa ma che è slittata nel tempo a causa dei guai economici del gruppo Ligresti. Sono intervenuti i curatori fallimentari.

Sono intervenute anche le banche creditrici che devono rientrare dei 330 milioni di euro prestati a Ligresti. Ma nonostante le sollecitazioni del Comune, i curatori fallimentari non hanno fornito i chiarimenti necessari, a partire da chi saranno i «nuovi proprietari» delle aree. Si è parlato di un interessamento del gruppo Hines, ma fino a ora senza esiti concreti. Neanche le banche hanno messo nero su bianco le loro intenzioni, anche se da più parti spunta l'ipotesi del concordato.
Adesso, la diffida del Comune cambia le carte in tavola. O meglio, le accelera. Se le banche sono disposte a sottoscrivere il concordato hanno tre mesi di tempo per farlo. Stesso discorso per il gruppo Hines. C'è anche un'altra possibilità per non far naufragare tutto: sia i curatori fallimentari sia la Fondazione Cerba hanno chiesto delle modifiche al progetto che comporterebbe un'integrazione all'accordo di programma siglato tra Comune, Regione, Provincia, Parco Sud e Fondazione Cerba nel 2009.

Il Pirellone potrebbe decidere di rivedere e rimodulare l'Accordo di programma. Strada tentata nei mesi scorsi con la precedente giunta Formigoni ma che non ha portato a esiti in quanto l'allora assessore si era dichiarato incompetente. Il neo-presidente, Roberto Maroni potrebbe pensarla in maniera diversa e riaprire la partita. Anche dal punto di vista urbanistico. E qui Palazzo Marino potrebbe giocare un ruolo fondamentale in un'area considerata strategica dal punto di vista ambientale come quella del Parco Sud. La rimodulazione dell'intervento, visto che si tratta di un progetto «rilevante ed esteso», deve tenere conto dell'interesse pubblico in un «disegno urbanistico condiviso». Condivisione significa molte cose. Anche che si possa arrivare a una mediazione tra diverse aree della città. La partita è delicatissima. Gli attori in gioco sono tanti. La mossa del Comune cerca di fare chiarezza. È ora di mettere sul piatto le carte. Chi è veramente interessato al futuro del Cerba si faccia avanti. Ci sono 90 giorni di tempo per capire se il sogno di Umberto Veronesi potrà diventare realtà.

Postilla

“Anche che si possa arrivare a una mediazione fra diverse aree della città” insinua cautamente l'articolo. Ovvero farla finita con l'ignobile ricatto culturale, ampiamente sostenuto dalla politica bipartisan (do you remember Penati?) tra i sostenitori del progresso scientifico e gli oscurantisti sotto sotto amici del cancro, che volevano tutelare chissà perché qualche campicello fangoso accanto a un viottolo di periferia. Ecco, adesso si può ragionare, Regione leghista permettendo, la stessa Lega che in campagna elettorale si è sbracciata a favore del contenimento del consumo di suolo. Ecco, spiegateglielo anche voi: la cosa su cui andrebbe il progettone di Veronesi, si chiama appunto “suolo”. Per i particolari il riferimento è sempre al primo articolo descrittivo del CERBA comparso su queste pagine qualche anno fa (f.b.)

Corriere della Sera Milano, 14 marzo 2013, postilla (f.b.)

La richiesta di un vincolo di tutela sulla via Gluck è già depositato alla Soprintendenza per i Beni culturali e paesaggistici. Ma domenica attraverso il sito www.amicidellamartesana.it viene promossa una petizione popolare che sarà indirizzata al ministro dei Beni culturali. Nei giorni scorsi, intanto, le commissioni Cultura e Urbanistica di Zona 2, decise a far propria la battaglia dell'associazione di quartiere, hanno programmato un sopralluogo in via Gluck, primo passo per uno studio di riqualificazione complessiva dell'area, assediata dal cemento. La proposta al Comune è che l'intero tratto di via, dai civici 11 al 23 e dall'8 al 16, sia inserito nel Pgt tra gli immobili con vincolo di tutela.

Una battaglia che il molleggiato ha dimostrato di gradire. Al 14 della via Gluck egli è nato e cresciuto. Adriano Celentano l'ha scritto in una breve mail indirizzata al presidente del comitato, Pippo Amato, autorizzandolo a «riportare il testo della mia canzone "il ragazzo della via Gluck" nella vostra relazione, a sostegno della richiesta di dimostrare la storicità degli edifici del tratto che coinvolge anche la Via Gluck quali beni culturale e paesaggistici e a testimonianza di un mondo operaio/ industriale/sociale, ormai scomparso». Per la petizione si potrà firmare presso i negozianti che aderiranno alle iniziative tutte le domeniche di svolgimento del Mercatel su la Martesana. La raccolta di firme potrà essere fatta anche online con un modulo che sarà presto pubblicato.

E c'è chi, già, in Zona 2 pensa ad una via Gluck piena di verde, alberi... ma prima di tutto pedonalizzata. Sono novanta metri di strada in tutto. Gli edifici in questo tratto della via Gluck furono costruiti tra la fine dell'800 e i primi del Novecento. Era un borgo di periferia, un agglomerato di case popolari di ringhiera ma cui gli architetti del tempo non fecero mancare ornamenti del primo Liberty, le ringhiere in ferro battuto lavorato, le finestre con i vetri a «cattedrale». «Non hanno caratteristiche monumentali architettoniche di particolare pregio — spiega Pippo Amato — ma sono una testimonianza importante storico-culturale degli insediamenti sorti nelle periferie milanesi in concomitanza con lo sviluppo industriale». La Pirelli cominciò ai primi del Novecento la produzione dei pneumatici per automobili. A Greco, piccolo comune della cinta orientale della metropoli, dalla quale sarebbe stato assorbito nel 1923, la vita costava meno e la via Gluck fu il centro del nucleo abitato dagli operai della Pirelli.

Era un piccolissimo borgo autosufficiente: oggi non ci sono più il panettiere, il macellaio, hanno chiuso l'idraulico e la gelateria. Sono però ancora le stesse «case fuori città...» e «la gente tranquilla che lavorava» cantate da Celentano. E il retrobottega al piano terra, dove Adriano Celentano visse con la famiglia (mamma Giuditta era sartina e aveva il negozio affacciato sulla strada), poi deposito di pesce congelato e dopo ancora panetteria, è tornato all'antica funzione abitativa. L'iniziativa milanese ha dei precedenti: in Inghilterra, la casa dove abitava Paul McCartney a Liverpool in Forthlin Road 20, è stata inserita da tempo tra gli edifici storici da tutelare, a cura del National Trust.

Postilla

“Castelfranco Veneto, 14 marzo 2030 - Il comitato promotore del Parco Distretto Diffuso inoltra all'Unesco la richiesta per il riconoscimento di Patrimonio dell'Umanità di tutto il territorio compreso tra la fascia settentrionale urbana e le colline di Asolo inclusa l'area ex industriale di Caselle, dove rischiano la demolizione alcuni capannoni realizzati con una particolare tecnica di prefabbricati. L'obiettivo è di promuovere e tutelare lo stile di vita di un tempo, quando questa ampia zona era uno dei tanti territori dello scomparso Modello Veneto”. Quello che mi sono inventato qui è un possibile articolo di giornale futuro se, indipendentemente dal merito specifico della tutela di qualche edificio (a quanto pare in sé di scarso valore) passerà il metodo di estendere a tutto ciò che è considerato in qualche modo “tradizionale” il criterio affermatosi a metà '900 coi tessuti storici. In definitiva: se ci sono problemi urbanistici, andrebbero affrontati a viso aperto con quegli strumenti, magari cambiando le regole, e non scimmiottando obiettivi di conservazione degni di migliora causa, che così rischiano solo di essere banalizzati da un uso improprio (f.b.)

Il Fatto Quotidiano, 9 febbraio 2013

Costruttori vicini a Comunione e liberazione e cooperative rosse. Ma sopratutto le banche, con Intesa Sanpaolo in prima fila. Sono i beneficiari di uno degli ultimi provvedimenti di Roberto Formigoni. Un colpo di coda che per l’istituto che per anni è stato nelle mani di Corrado Passera vale almeno 300 milioni di euro. Il regalo si nasconde dietro alla Città della salute, il mega ospedale che verrà costruito sull’ex area Falck di Sesto San Giovanni. La struttura riunirà due istituti pubblici di ricerca e cura, il neurologico Besta e l’Istituto nazionale dei tumori, in un progetto che mette la sanità lombarda al servizio di banche e mattone.

Nel 2011 sull’area di Sesto, la stessa al centro dell’inchiesta sull’ex campione del Pd Filippo Penati, è stato approvato un piano di intervento faraonico, che prevede un milione di metri quadrati di nuovi edifici, tra residenze, alberghi, uffici, servizi e un grande centro commerciale. Una nuova città da 20mila abitanti dentro a quello che è già uno dei comuni più densamente abitati d’Italia e che “con il nuovo insediamento salirà al quarto posto dopo tre comuni della cintura vesuviana”, accusa Orazio La Corte, ex consigliere comunale di Sesto San Giovanni e membro del direttivo lombardo di Legambiente. Valore di mercato stimato: 4 miliardi di euro. Ma il rischio è grosso: nei tempi di magra del settore immobiliare gran parte di quel cemento potrebbe rimanere invenduto. E allora il nuovo ospedale è l’elemento che mancava, il volano per tutta l’operazione: perché i suoi 660 posti letto si portano dietro il fabbisogno di alloggi per il personale e l’offerta di spazi ricettivi per i parenti dei pazienti.

E fa niente se tra gli addetti alla sanità qualcuno considera insensata la costruzione di un ospedale che costa 450 milioni. O se la nuova struttura si mangerà ben 205 metri quadri di quel parco da 450 che il piano originario aveva già promesso ai cittadini per il riequilibrio delle zone verdi di Sesto. Non sono certo un po’ di alberi in meno a preoccupare la Sesto Immobiliare di Davide Bizzi, la società che nel 2010 ha rilevato l’area dall’indebitatissima Risanamento che fu di Luigi Zunino. Fanno parte della cordata guidata da Bizzi anche le cooperative rosse del Ccc, il Consorzio cooperative costruzioni di Bologna finito nelle carte di un’indagine della procura di Monza parallela a quella su Penati. Loro non si fanno toccare da questioni di verde o di efficienza sanitaria. E nemmeno le banche, che così avranno ottime probabilità di recuperare parte di vecchi crediti rimasti bloccati per anni. Intesa, Unicredit e Popolare di Milano, infatti, negli anni d’oro avevano finanziato Zunino a piene mani, salvo poi diventare azioniste di Risanamento per evitarne il fallimento. E’ stato quindi sotto la loro regia che si è conclusa la vendita a Bizzi dell’area, operazione che vide le banche investire complessivamente più di mezzo miliardo contro i 16,6 milioni di Bizzi e prendersi in pegno tutte le azioni della Sesto Immobiliare a fronte di crediti che a fine 2011 superavano i 400 milioni (oltre 300 quelli in capo a Intesa) senza contare i prestiti diretti ai soci di Sesto. Unico l’obiettivo: che il progetto vada in porto, le case si vendano e i crediti divengano solvibili.

Allora ben venga “l’ospedale modello”, come lo definisce l’archistar che firmerà il progetto, Renzo Piano, mentre nei piani alti di Palazzo Lombardia lo slogan recita: “Prende forma la sanità del futuro”. Un futuro fondato su un binomio piuttosto vecchio, quello di mattone e finanza, che fa felice anche la giunta di centrosinistra alla guida di Sesto San Giovanni che si è aggiudicata il progetto dopo un derby con il Comune di Milano. Il sì definitivo è arrivato in fretta e furia in autunno, prima della fine anticipata della legislatura, mentre il progetto è stato presentato in pompa magna sotto Natale. Un’accelerazione del processo burocratico che come effetto collaterale, tra l’altro, potrebbe evitare indagini della Corte dei Conti sui 3,2 milioni già spesi per la Città della Salute, quando ancora si pensava di farla nella zona di Vialba, a nord di Milano.

Il derby tra Sesto e Milano – Il progetto della Città della salute parte da lontano. Se ne fa carico lo stesso Formigoni, che nell’aprile 2009 arriva alla firma di un accordo di programma per realizzare una struttura che dovrebbe riunire il Besta, l’Istituto dei tumori e il Sacco. Viene costituito, sotto la guida di Luigi Roth, un consorzio che riunisce i tre enti e che avvia uno studio di fattibilità. Il nuovo ospedale dovrebbe sorgere accanto al Sacco, nella zona di Vialba. A favore del consorzio viene impegnata sul bilancio regionale del 2010 una somma di 28 milioni di euro, con due decreti del direttore generale della Sanità Carlo Lucchina. Ma a fine 2011 il progetto salta per problemi di tipo logistico e per la presenza di un corso d’acqua, che sino a quel momento nessuno ha preso in considerazione. Il consorzio viene sciolto, ma intanto sono già stati bruciati almeno 3,2 milioni di euro. Serve un nuovo spazio e Giorgio Oldrini, il sindaco del Pd successore di Penati a Sesto San Giovanni, candida l’ex area Falck. Si fa avanti anche Giuliano Pisapia, che per mantenere le strutture sanitarie sul territorio milanese propone l’area della caserma Perrucchetti. Ma il Celeste sin da subito sembra non voler concedere a Palazzo Marino il tempo necessario per arrivare a un accordo con il ministero della Difesa, proprietario della Perrucchetti. Così a fine maggio 2012 Milano esce di scena e lo studio di fattibilità pensato per Vialba viene preso per buono anche per l’area di Sesto. Un esito scontato, dopo un balletto di scadenze, rinvii sulla decisione e divergenze tra il Pd milanese che sostiene Pisapia e i democratici di Sesto San Giovanni e consiglio regionale, favorevoli all’operazione sull’ex area Falck.

Interessi ‘rossi’ (e non solo) – La decisione della giunta formigoniana, infatti, piace anche ai consiglieri regionali del Pd. Del resto sull’area di Sesto sono forti gli interessi delle cooperative rosse del Ccc, già in prima fila per aggiudicarsi i lavori di bonifica, i cui costi sono a carico della Sesto Immobiliare. Il progetto della bonifica è stato firmato dallo studio di Claudio Tedesi, ingegnere vicino al ras della sanità pavese Giancarlo Abelli. Tedesi ha già lavorato con il defunto Giuseppe Grossi a progetti controversi, come quello del quartiere Santa Giulia anch’esso della galassia che fu di Zunino e finito al centro di un’inchiesta della Procura di Milano per lavori di bonifica mai eseguiti.

Nella partita giocherà da protagonista anche la Compagnia delle opere, il braccio economico di Cl che, oltre a Formigoni, in Lombardia ha tra i suoi maggiori esponenti politici Maurizio Lupi, vicino a Bizzi.

I costi di un progetto “monco” – L’unione di Besta e Istituto dei tumori, però, non piace a tutti. Il progetto è troppo costoso e, dopo l’esclusione del Sacco, è diventato pure monco, sostiene Alberto Maspero, ex direttore medico del Besta: “Manca un ospedale generalista con la possibilità di avere un pronto soccorso e reparti adatti a gestire patologie concomitanti che possono colpire un malato neurologico”. Paolo Crosignani, primario dell’unità Registro tumori ed Epidemiologia ambientale dell’Istituto dei timori, non vede alcuna sinergia tra il suo ospedale e il Besta: “Che hanno in comune oncologia e neurologia? L’una cerca di distruggere cellule tumorali, l’altra di fare sopravvivere cellule deteriorate. Forse in comune ci sono solo la caldaia e la farmacia”. Ma il progetto si farà. In Regione sono tutti d’accordo: il Besta deve traslocare dalla propria sede, ormai troppo obsoleta, e la Città della salute consentirà di integrare ricerca e nuovi strumenti di cura. Dei 450 milioni che verranno spesi, il Pirellone ne mette 330, lo Stato 40, gli altri 80 dovrebbero arrivare dai privati. Il finanziamento regionale, però, non è a fondo perduto, ma proviene da un fondo di rotazione, cioè un prestito che nei prossimi anni peserà sui due istituti pubblici come un debito. “Avremo meno risorse per comprare tecnologie, strumentazioni, per assumere un buon chirurgo e investire nel personale”, aggiunge Crosignani. Il tutto a scapito dell’offerta sanitaria, visto che le risorse vengono investite in un intervento di edilizia.

La Salute con il cemento attorno – Il super ospedale sorgerà al centro di una nuova città con 607mila metri quadri di nuovi alloggi. A cui si aggiungono 100mila metri quadri di centro commerciale e negozi, 147mila di terziario, 27mila di strutture ricettive, 81mila di strutture produttive e 49mila di servizi. Oltre a 60mila metri quadri di edilizia sociale, benedetta dall’ex assessore regionale alla Casa Domenico Zambetti appena qualche mese prima di finire in carcere con l’accusa di aver comprato voti dalla ‘ndrangheta. Il suo arresto ha dato il colpo di grazia alla giunta, ultima mazzata dopo gli scandali della sanità lombarda. E, ora, proprio alla sanità è dedicata la riga più importante del testamento di Formigoni. Prossimo passo, la pubblicazione ad aprile del bando di gara per i lavori dell’ospedale. Fine prevista nel 2017, collaudo e trasloco nel 2018. Celeste eredità.

Corriere della Sera Milano, 7 febbraio 2013, postilla (f.b.)

L'inaugurazione della prima tratta e il completamento dell'intera linea 5 permetteranno a Milano di fare un enorme passo avanti in termini di estensione di rete metropolitana. Oggi si aggiungono 4,1 km agli attuali 83,5 km di rete complessiva di metropolitana e in futuro altri 8,5 km. Si arriverà a un totale di oltre 96 km di rete. Milano ha quindi raggiunto, anche se faticosamente e lentamente, reti metropolitane presenti in città europee quali Monaco di Baviera (95 km) e Barcellona (102 km). La crescente capillarità del servizio collettivo di Milano è dimostrata anche dal fatto che la neonata linea lilla interscambierà, quando sarà ultimata, con tutte le linee di metropolitana, il passante ferroviario e numerose linee suburbane su ferro. La completa automazione (sistema driverless) della marcia garantisce elevati livelli di innovazione tecnologica e permette di offrire un servizio più sicuro impedendo gli investimenti di persone e, al gestore, una maggiore economia e un aumento del numero dei treni in servizio. Questa elevata automazione deve però essere affiancata da un elemento fondamentale quale la percezione di sicurezza delle stazioni.

Oltre a questi aspetti positivi è necessario riflettere e cercare soluzioni sul perché a Milano e in Italia i poli attrattori e generatori di spostamenti si costruiscano senza pensare alle dovute infrastrutture di trasporto, se non anni dopo. Infatti solo ultimamente è stato collegato il forum di Assago alla rete metropolitana; da ora la linea 5 servirà l'università Bicocca, l'ospedale Niguarda e il Cto e in futuro lo stadio di San Siro, non certo costruito recentemente, mentre le linee di metropolitana progettate (si veda la linea 4) raggiungeranno l'aeroporto di Linate unendolo finalmente alla città con una linea di forza, come succede in tutte le maggiori città europee. Ora, e sempre di più, esiste un'alternativa al trasporto privato e di conseguenza si rende necessario convincere in tutti i modi, Area C inclusa, i cittadini ad usare meno l'auto e più i trasporti collettivi.

Un incentivo sarebbe l'esistenza di una rete metropolitana che si estendesse maggiormente verso l'hinterland, permettendo di svolgere lo spostamento integralmente su mezzo collettivo. È però doveroso sottolineare che la linea lilla manca di parcheggi di interscambio per invogliare gli utenti ad abbandonare l'auto ed utilizzare la metropolitana. Parcheggi che potrebbero, in maniera innovativa, prevedere una condivisione degli spazi destinati alla sosta di interscambio con funzioni tipicamente di natura commerciale, con una condivisione della spesa tra pubblico e privato.
Infine dopo aver raggiunto standard europei in termini di estensione di rete metropolitana, è ora necessario potenziare e sfruttare al meglio la rete di superficie composta da tram e autobus, la cui estensione è superiore a tantissime città europee. Per avere servizi affidabili e di elevata qualità si deve proteggere e dare priorità al trasporto collettivo.

Postilla
Figuriamoci se è possibile non essere d'accordo con questo articolo: che però si limita a sfiorare quello che, in buona parte, è il vero problema, ovvero la dimensione extraurbana. Ulteriormente sottolineata dal fatto che tutti i nodi di prossima realizzazione citati si trovano ancora, rigorosamente, nel comune di Milano, nel microscopico comune di Milano, per chi non lo conoscesse direttamente. Mentre gli spostamenti col mezzo privato, lei mi insegna, hanno quasi sempre origine (a volte anche destinazione) suburbana. Certo non è cosa che si possa risolvere dall'oggi al domani, ma dare le giuste proporzioni a queste poche centinaia di metri di percorso in sotterranea della nuova Linea 5 aiuta a capire l'entità della sfida. Per ora rinviata (f.b.)

La Repubblica Milano, 5 febbraio 2013 (f.b.)

C’È IL progetto dell’Arci, che sogna la cascina Cotica a Lampugnano per la sua nuova sede aperta alla città. Ma c’è anche un’associazione di cittadini che vorrebbe trasformare la Sella Nuova, in zona Bisceglie, in una sorta di “università delle buone pratiche”. In tutto, sono 79 i progetti presentati a Palazzo Marino da associazioni e privati, che coinvolgono tutte e 16 le cascine comunali alle quali si vuol dare una seconda vita. È il risultato dell’indagine pubblica preliminare che l’amministrazione ha svolto per salvare il patrimonio, spesso storico, di immobili in condizioni disastrate.

Tecnicamente, le proposte pervenute si chiamano manifestazioni d’interesse, risultato di un’iniziativa del Comune per testare la disponibilità dei cittadini a rilanciare questi edifici. Ed è sulla base proprio di queste indicazioni che l’amministrazione modellerà i bandi da lanciare entro l’estate, in modo graduale. La città ha risposto con progetti di attività sociale, agricola, di accoglienza, ma anche con proposte per realizzare incubatori d’impresa e centri di co-working. Pensati per tutte e 16 le cascine da recuperare. Casanova, Taverna, una parte di Monluè, Colombè, Vaiano Valle, San Bernardo, Campazzino, Monterobbio, Carliona, Case Nuove, Lampugnano, Torchiera (dove oggi c’è un centro sociale), nessuna esclusa. Per la Sella Nuova il progetto presentato dall’omonima associazione punta a trasformare la cascina in un centro didattico con cantierescuola sul restauro, una scuola di cucina biologica e orti urbani.

Un centro dedicato all’agricoltura è l’idea per la cascina Brusada, in via Caprilli, e un’intenzione simile c’è anche sulla Sant’Ambrogio, in zona Forlanini. Alla Cotica l’Arci vorrebbe traslocare la sua sede provinciale, oggi in zona Porta Romana. «È un progetto aperto alla città che vorremmo realizzare a impatto zero — spiega Emanuele Patti, presidente di Arci Milano — . Una nuova sede ma anche uno spazio di aggregazione, orti didattici. Un luogo aperto alla cittadinanza attiva, polifunzionale ».

C’è, però, un problema risorse. Il progetto della giunta è di dare le cascine a chi si impegna a recuperarle in concessione fino a 90 anni e ad affitti calmierati, a fronte della garanzia che i progetti abbiano una funzione pubblica e siano sostenibili dal punto di vista finanziario. Ma in media, ogni piano di riqualificazione costa dai tre ai quattro milioni. E chi si è fatto avanti con i progetti è anche lo stesso che fa notare che servirà qualche agevolazione per recuperare tutti i fondi, da banche e investitori privati. «Abbiamo chiesto per esempio che oltre al comodato d’uso della cascina ci venga ceduto anche il diritto di superficie in modo da poter chiedere un mutuo — aggiunge Patti — qualche garanzia per il credito per darci una mano».

Il Comune esulta: «Siamo molto soddisfatti — dichiara l’assessore all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris — per la qualità delle proposte. Molti progetti provengono da organizzazioni che operano sul territorio che, spesso, hanno anche un rapporto diretto, oltre che affettivo, con questi luoghi. Questo significa che i milanesi hanno colto lo spirito con il quale desideriamo avviare la riqualificazione delle cascine: sono spazi storici, belli e preziosi che dobbiamo cercare di rendere il più possibile aperti attraverso attività di tipo sociale, culturale, ma anche imprenditoriale ».

Il Fatto quotidiano, 5 febbraio 2013, postilla (f.b.)

Milano. Costruttori vicini a Comunione e liberazione e cooperative rosse. Ma soprattutto le banche, con Intesa in prima fila. Sono i beneficiari di uno degli ultimi provvedimenti di Roberto Formigoni. Un colpo di coda che per la banca che per anni è stata nelle mani di Corrado Passera vale almeno 300 milioni. Il regalo si nasconde dietro alla Città della Salute, il mega ospedale che verrà costruito sull’ex area Falck di Sesto San Giovanni. La struttura riunirà due istituti pubblici di ricerca e cura, il neurologico Besta e l’Istituto nazionale dei tumori, in un progetto che mette la sanità lombarda al servizio di banche e mattone.

Nel 2011 sull'area di Sesto, la stessa al centro dell’inchiesta sull’ex campione del Pd, Filippo Penati, è stato approvato un piano di intervento faraonico, che prevede un milione di metri quadrati di nuovi edifici, tra residenze, alberghi, uffici, servizi e un grande centro commerciale. Una nuova città da 20 mila abitanti dentro a quello che è già uno dei comuni più densamente abitati d’Italia. Valore di mercato stimato: 4 miliardi. Ma il rischio è grosso: nei tempi di magra del settore immobiliare gran parte di quel cemento potrebbe rimanere invenduto. Il nuovo ospedale è l’elemento che mancava, il volano per tutta l’operazione. E fa niente se tra gli addetti alla sanità qualcuno considera insensata la costruzione di un ospedale che costa 450 milioni. O se la nuova struttura si mangerà 205 metri quadri del parco da 450 che il piano originario aveva già promesso ai cittadini per il riequilibrio delle zone verdi

Non sono certo un po’ di alberi in meno a preoccupare la Sesto Immobiliare di Davide Bizzi, la società che nel 2010 ha rilevato l’area dall’indebitatissima Risanamento che fu di Luigi Zunino. Fanno parte della cordata guidata da Bizzi anche le cooperative rosse del Ccc, il Consorzio cooperative costruzioni di Bologna finito nelle carte di un’indagine della Procura di Monza parallela a quella su Penati. Loro non si fanno toccare da questioni di verde o di efficienza sanitaria. E nemmeno le banche che avranno ottime probabilità di recuperare parte di vecchi crediti rimasti bloccati per anni. Intesa, Unicredit e Popolare di Milano, infatti, negli anni d’oro avevano finanziato Zunino a piene mani, salvo poi diventare azioniste di Risanamento per evitarne il fallimento.

È stato sotto la loro regia che si è conclusa la vendita a Bizzi dell’area, operazione che vide le banche stesse investire complessivamente più di mezzo miliardo nel progetto contro i 16,6 milioni di Bizzi e prendersi in pegno tutte le azioni della Sesto Immobiliare a fronte di crediti che a fine 2011 superavano i 400 milioni (oltre 300 quelli in capo a Intesa) senza contare i prestiti diretti ai soci di Sesto. Ben venga, quindi, “l’ospedale modello”, come lo definisce l’archistar che firma il progetto, Renzo Piano, mentre nei piani alti di Palazzo Lombardia lo slogan recita: “Prende forma la sanità del futuro”. Un futuro che fa felice anche la giunta di centrosinistra alla guida di Sesto che si è aggiudicata il progetto dopo un derby con il Comune di Milano. Il sì definitivo è arrivato in autunno, prima della fine anticipata della legislatura, mentre il progetto è stato presentato sotto Natale. Una decisione che come effetto collaterale potrebbe evitare indagini della Corte dei Conti sui 3,2 milioni già spesi per la Città della Salute, quando ancora si pensava di farla a nord di Milano.

La scelta della giunta formigoniana, poi, piace anche ai consiglieri regionali del Pd, mentre il Ccc è già in prima fila per aggiudicarsi i lavori di bonifica, il cui progetto è stato firmato dallo studio di Claudio Tedesi, ingegnere vicino al ras della sanità pavese Giancarlo Abelli. Tedesi ha già lavorato con il defunto Giuseppe Grossi a progetti controversi, come quello del quartiere Santa Giulia anch’esso della galassia che fu di Zunino e finito al centro di un’inchiesta della Procura di Milano per lavori di bonifica mai eseguiti. Nella partita giocherà da protagonista anche la Compagnia delle opere, il braccio economico di Cl che, oltre a Formigoni, in Lombardia ha tra i suoi maggiori esponenti politici Maurizio Lupi, vicino a Bizzi. Il super ospedale, però, non piace a tutti. Il progetto è troppo costoso e monco, visto che manca un polo generalista (inizialmente doveva essere il Sacco). Paolo Crosignani, primario dell’unità Registro tumori ed Epidemiologia ambientale all’Istituto dei tumori, si chiede: “Che hanno in comune oncologia e neurologia? Forse solo la caldaia e la farmacia”. Ma il progetto si farà: la Regione ci mette 330 milioni, lo Stato 40, gli altri 80 dovrebbero arrivare dai privati. Il finanziamento regionale, però, nei prossimi anni peserà sui due istituti pubblici come un debito. Celeste eredità.

Postilla
Ecco, forse sono le ultimissime battute dell'articolo, ben oltre i classici - giustificati - toni un po' complottardi tipici del Fatto quotidiano, a dare il senso agli esiti di tutta l'operazione: investimenti immobiliari anziché in qualità dei servizi sanitari, come si sarebbe potuto fare anche senza alcuna cittadella ospedaliera. Si spera se non altro che coi nuovi equilibri politici auspicabili dopo le elezioni si cominci a riflettere in questo senso. Per i retroscena degli interessi economici in gioco, ovviamente, gli appassionati possono stare tranquilli: cambio di nomi a parte, lo spettacolo è destinato a proseguire. Solo, si spera, più lontano dalle aule dei tribunali (f.b.)

La Repubblica Milano, 1 febbraio 2013, postilla (f.b.)

(foto Corriere della Sera)

È PROBABILE che di fronte a una presentazione “alla pari” delle varie ipotesi, quella di tenere viva una parte dell’oasi nella Darsena come isola avrebbe potuto anche prevalere nell’opinione pubblica. Ma non ce n’è stata l’occasione, e in ogni caso sarebbe stata contrastata. È comunque notevole che la controversia abbia appassionato non poche persone, tra gli architetti, gli ambientalisti, nel mondo politico comunale, sui giornali e soprattutto in rete. Anche chi accetta che “dal letame nascono i fiori” e ha continuato a parlare di “erbacce e rospi”, potrà convenire che se le ruspe portano via il verde spontaneo della Darsena, però l’idea della opportunità e possibilità di oasi urbane di biodiversità si è fatta strada a Milano attaverso questa discussione.
Anche perché — particolare da non trascurare — costano molto meno in termini di manutenzione rispetto al tradizionale verde artificiale urbano.

I rappresentanti dell’amministrazione hanno detto che intendono realizzare nella stessa Darsena, nel suo lembo più occidentale, un’analoga vegetazione per 2.500 metri quadrati capace di attirare l’avifauna. Non sarà visibile e centrale come quella che viene soppressa ora, ma a questo punto è importante che ci provino davvero a farla, e da subito: anche per una questione di coerenza. E poco più a Sud, a poche centinaia di metri, tra i due Navigli c’è una fantastica Cascina semidiroccata in mezzo ad aree verdi non curate da anni, con alberi e cespugli, i rovi dell’abbandono, e una roggia che ha sempre acqua. Si chiama Sieroterapico. Si rifugeranno lì anche le gallinelle e gli aironi? Dipende anche dagli umani, da chi vuole avere nella città spicchi di calma e di biodiversità.

Postilla
L'invito è anche a chi non è particolarmente interessato alle cose milanesi, a riflettere davvero su quanto intuito un po' confusamente dai cittadini a proposito di questo specifico progetto: la natura in città, stavolta davvero ragionando in termini “globali” (l'urbanizzazione del pianeta ecc.), deve essere oggetto di profonda riflessione e trasformazione di prospettive. Quindi anche di modus operandi delle pubbliche amministrazioni, magari sostenuto da apposite leggi, norme, politiche di informazione e animazione, sinergia fra i vari settori (f.b.)

Il Fatto quotidiano, 29 gennaio 2013, postilla (f.b.)

Il destino di una spina di verde selvaggio e planiziale padano – sorta spontaneamente nella porzione della Darsena dei Navigli semi-prosciugata e abbandonata per anni per colpa di un progetto poi abortito di parcheggio sotterraneo – ha agitato le anime del centrosinistra milanese. Quella spina verde ha attirato decine di specie di avifauna e qualche anfibio e su questa esperienza di natura urbana sono sorti il gruppo e le proposte di Darsena Pioniera.

Gli ultimi fatti

Nell’assemblea convocata dal Comune la sera del venerdì 25 gennaio per illustrare il progetto Darsena si è definitivamente consolidata ed esplicitata la posizione della Giunta Comunale di demolire la cosiddetta “oasi naturale” della Darsena. Le ragioni addotte da Confalonieri (responsabile per il Sindaco dei progetti Expo) e dalla De Cesaris (assessore all’Urbanistica) sono state quelle della tempistica tecnico-amministrativa che impedirebbe di mettere in atto la necessaria variante senza perdere il già difficile treno per arrivare a marzo 2013 con la Darsena rifatta. C’erano anche però vari esponenti (per lo più di area Pd e/o Comitato Navigli) apertamente contrari a quello che un oratore ha definito l’insulto che un paio di isole vegetali porterebbero alla monumentalità della Darsena. Hanno definito “saggia” la “decisione” del Comune, lasciando intendere di non credere che solo di valutazioni di tempistica si sia trattato (ma di una scelta di scartare l’Oasi).

Nel finale dell’assemblea, l’assessora De Cesaris ha accusato Darsena Pioniera di essersi fatta viva solo tre mesi fa (“ho le mail”). Ma Darsena Pioniera aveva indirizzato le sue prime missive post elezione diPisapia all’assessore Maran, ignorando che la questione fosse di competenza della De Cesaris. Gli assessori non comunicano tra loro? Al di là di questa curiosa diatriba restano due fatti: a) che la Giunta Pisapia e la maggioranza comunale, nonostante alcuni interessamenti episodici, non avevano considerato l’opzione rappresentata dall’oasi e dalla presenza dell’avifauna e b) che una forte battaglia di pressione, con coinvolgimento di stampa e consigli di zona è stata condotta da Darsena Pioniera e dai suoi alleati solo dopo le vacanze estive del 2012, quando già era stato approvato un progetto che non prevedeva l’oasi.

Milano potrebbe amare i suoi spicchi di natura?
L’Amministrazione Comunale e lo stesso consiglio comunale non hanno mostrato complessivamente una particolare sensibilità alle nuove tendenze internazionali sul tema verde urbano, con valorizzazione delle biodiversità e delle forestazioni naturali, e l’esperienza di Bosco in Città è rimasta più che altro fuori città.

Nello specifico dell’Oasi della Darsena c’è da dire però che contro l’ipotesi “pioniera” hanno giocato anche due potenti fattori, (che hanno anche influenzato la Amministrazione Comunale) ovvero: 1) ilmalumore della popolazione verso la situazione di stallo e di abbandono della Darsena, che portava in prima istanza a identificare i difensori dell’oasi come i difensori del degrado (sindrome della “pantegana”) e 2) la presenza di una corrente fondamentalista ‘rivogliamo la Darsena com’era’ che anche di fronte alla illustrazione di un’ipotesi di isolette non era disposta ad accettare alcuna mediazione. Non erano disposti neanche ad entrare nel merito dell’altezza degli alberi o della vastità delle isolette.

E’ probabile che di fronte a una presentazione “alla pari” delle varie ipotesi, quella di tenere viva una parte dell’oasi nella Darsena avrebbe potuto prevalere nell’opinione pubblica, come dimostra il 75% dei voti a un sondaggio aperto da Gazzetta.it. Ma non ce n’è stata la possibilità, e in ogni caso sarebbe stata dura.
E’ comunque notevole che la controversia abbia agitato non poche persone, in Internet, tra gli architetti, tra gli ambientalisti, nel mondo politico comunale e anche sui giornali.
Anche chi non ha capito che “dal letame nascono i fiori” e ha continuato a dileggiare “erbacce e rospi” potrà convenire che se le ruspe porteranno via il verde spontaneo della Darsena, però l’idea della opportunità e possibilità di oasi urbane di biodiversità si è fatta strada a Milano attaverso questa discussione. Anche perché – particolare da non trascurare – costano molto meno in termini di manutenzione rispetto al tradizionale verde artificiale urbano.

I rappresentanti dell’Amministrazione l’altra sera hanno detto che intendono realizzare nella stessa Darsena, o meglio nel suo lembo più occidentale, un’analoga vegetazione per 2.500 metri quadrati capace di attirare l’avifauna. Non sarà visibile come quella che viene soppressa, ma a questo punto è importante che ci provino davvero a farla, e da subito.
E poco più a sud, a poche centinaia di metri, tra i due Navigli c’è una fantastica Cascina mezza diroccata in mezzo a aree verdi non curate da anni, con alberi e cespugli, i rovi dell’abbandono, e una roggia che ha sempre acqua. Si rifugeranno lì anche le gallinelle e gli aironi? Dipende anche dagli umani, da chi vuole avere nella città spicchi di calma e di biodiversità.

Postilla
La questione forse non è tanto se amare o meno la natura, cosa che in un modo o nell'altro facciamo tutti, visto che ne facciamo parte e ci viene spontaneo. Dal punto di vista delle strategie urbane (e metropolitane), come pure ricorda Hutter, è indispensabile inserire coerentemente e gradualmente elementi naturali nella rete sinora artificiale e comunque squilibrata della città. Forse l'agire per progetti simbolo come quello della Darsena non basta e in fondo non serve, almeno finché le scelte puntuali non troveranno il modo per fare sistema, magari individuando priorità e sinergie che per ora appartengono solo alle "infrastrutture grigie" (f.b.)

La Repubblica Milano, 23 gennaio 2013, postilla (f.b.)

I DIRITTI degli animali che lì vivono e hanno fatto il nido sarà preservato. Ma la vegetazione spontanea cresciuta nella Darsena, quell’oasi della biodiversità come la definiscono i suoi difensori, verrà tagliata e tutta l’area sarà ripulita per far partire, quando sarà il momento, i lavori per la riqualificazione promessa da Expo. La decisione del Comune, dopo mesi di braccio di ferro con le associazioni ambientaliste, è nero su bianco in una determinazione dirigenziale firmata dalla direzione centrale Mobilità, trasporti e ambiente che fissa in 589.986,60 euro la spesa per l’intervento affidato direttamente ad Amsa e già iniziato pochi giorni fa.

Si spiega, nell’affidamento dell’incarico, che «le operazioni prevederanno la rimozione della vegetazione spontanea cresciuta in luogo, essendo la stessa non compatibile con le esigenze di navigabilità e di funzionalità portuale della Darsena, e non essendo pervenute da parte del settore tecnico Arredo urbano e verde, interpellato a riguardo, limitazioni alle operazioni di taglio». Via, insomma, a tutte le piante spontanee, anche nella parte di Darsena rimessa a posto dopo la chiusura del contenzioso sul mega-parcheggio ormai stralciato dai progetti del Comune.

Amsa si dovrà occupare, ora, del «taglio, sfalcio e pulizia dell’area » nella prima fase dei lavori, di «caratterizzazione dei rifiuti, movimentazione, trasporto e smaltimento terre, rocce e asfalto giacenti nell’area» nella seconda fase. I quasi 600mila euro necessari all’operazione — compresi 13mila euro per la sicurezza del cantiere — sono quelli che Palazzo Marino ha dai canoni di concessione lungo il canale, visto che la Darsena rientra nel demanio comunale. Il vero lavoro arriverà in seguito, quando partirà la vera riqualificazione della Darsena e dei navigli compresa nel progetto di Expo: l’obiettivo è quello di farla tornare ad essere porto di Milano, con spazi per il tempo libero, per il commercio, per manifestazioni di vario genere.

Ma alcuni comitati di cittadini contestano da tempo che, per realizzare quel progetto, si debba fare piazza pulita dell’oasi spontanea in cui si sono insediati gli esemplari di alcune specie animali. «Non c’è nessun bisogno di eliminare tutta quella terra, quegli alberi e quei nidi, e farli rimuovere come fossero detriti o rifiuti dall’Amsa sarebbe un atto di forzatura e di intolleranza, anche inutilmente costoso rispetto al modesto intervento di ingegneria naturalistica necessario per trasformare l’oasi», è la posizione degli ambientalisti, che nei giorni scorsi hanno scritto anche al sindaco Pisapia e che, attraverso alcuni simpatizzanti — come il candidato di Sel alle Politiche Paolo Oddi — chiedono alle istituzioni di fermarsi e continuare il dialogo, nonostante la partenza dei lavori di Amsa induca a credere che ormai sia impossibile fermarli.

Postilla
Fra le varie riflessioni che stimolava l’auspicio a una ecologia della mente di Gregory Bateson, c’era l’accettazione quasi fatalista di una complessità che a volte riusciamo a intuire solo confusamente. Un approccio difficilmente praticabile a scala individuale, e figuriamoci quando ci sono di mezzo sia la collettività, che la politica, che una lunga e consolidata tradizione culturale e amministrativa ad agire per vasi non comunicanti. La scelta, tutto sommato di compromesso al ribasso, di spazzar via la piccola colonia di natura metropolitana, trasformandola in una variante postmoderna di certe rovine romane ritagliate nel giardino di un condominio, forse era inevitabile dati i tempi e il contesto. Ma vicende del genere non possono non far tornare alla mente altre infinite questioni pressoché identiche in tante altre città e aree metropolitane del mondo, e che certo non si riassumono con il frettoloso assimilare aironi e nutrie a Titti e Silvestro, o certe stravaganti e ingombranti erbacce al geranio sul davanzale: urbanizzazione del pianeta, in una prospettiva ragionevole di sostenibilità, significa anche transustanziare l’idea stessa di urbanizzazione, ad esempio interpretando in modo aperto e processuale il concetto di infrastruttura verde. Che non può essere ridotto, come osservava giustamente George Monbiot, alla funzione ingegneristica e mercificata di servizio all’ecosistema, che poi qualche ragioniere valuta con la sua tabellina costi-benefici. Ma che si deve studiare e calibrare sia negli aspetti urbani classici che in quelli che la natura ci sta suggerendo, con segnali come quello della nicchia ecologica sui Navigli milanesi, ma anche dei cervi e coyote nei parcheggi di qualche centro commerciale degli Usa, fino ai leoni che pare si aggirino molto ammansiti in certe periferie suburbane dell’Africa, frugando nei bidoni della spazzatura, versione terzo millennio extralarge delle ormai integrate volpi europee, o dei procioni. Insomma non si tratta di riflessioni filosofiche sui diritti delle specie, ma di intervenire in modo assai pratico sulla sostenibilità del territorio e dell’equilibrio natura-artificio, all’interno del quale incidentalmente stiamo anche noi (f.b.)

Sievocano atmosfere e terminologie americane per un progettointeressante, ma che rischia di nascere monco proprio di queglielementi di innovazione. La Repubblica Milano, 20 gennaio 2013,postilla (f.b.)

L’ISOLAcerca di ricucire una “ferita” vecchia di 60 anni. È ilcavalcavia “Eugenio Bussa”, lungo 300 metri, sospeso sopra iventi binari della stazione Garibaldi e il super trafficato vialeSturzo. Che fare di questa striscia d’asfalto, così inospitale edegradata ma fondamentale per unire l’Isola all’area di corsoComo? Il modello c’è ed è l’High Line, la vecchia ferrovia diNew York trasformata in un giardino sopraelevato con passeggiatapanoramica.

Conla differenza che qui si manterrebbe la percorribilità in auto, ma abassa velocità. I progetti elaborati all’Isola sono ricchi diproposte, per la prima volta cittadini, tecnici del Comune, designere architetti si sono messi insieme e hanno elaborato otto progetti.Il filo conduttore che li unisce tutti è quello di rendere vivibilee bello il cavalcavia con tanto verde, spazi per i bambini, ilmantenimento della pista ciclabile e un percorso per le auto, più unbar, una piazza attrezzata per incontri e un posto per gli spettacolie speciali strutture per godersi il panorama: da una parte i nuovigrattacieli di Garibaldi e dall’altro le montagne, una vistaspettacolare nei giorni in cui il cielo è limpido.

Negliotto progetti si ridisegna tutto, compresi gli innesti del cavalcaviada via Quadrio e da via Borsieri, in modo tale da ricucire per semprequella ferita, frutto di un “asse attrezzato” di un pianoregolatore del 1953, che intendeva spazzare via un’ampia fetta delquartiere. Il piano per rilanciare il ponte Bussa si chiama “Lacharrette”» ed è un esempio di “progettazione partecipata”che gli assessori Lucia De Cesaris (Urbanistica) e Daniela Benelli(Area metropolitana) intendono utilizzare anche per altre iniziativemilanesi, “in modo da ridisegnare la città insieme ai cittadini”.I progetti elaborati all’Isola sono stati messi in rete (“Garibaldie l’Isola partecipata”) ma il “confronto creativo” continueràa breve con l’esposizione dei rendering e dei modellini di cartoneall’Urban Center in Galleria. Poi la parola passerà al Comune, cheall’Isola, quartiere in grande evoluzione, intende realizzare ancheun Centro Civico, sempre consultando gli abitanti della zona.

Postilla
Esistonodue tipi di sogni: quelli belli dove progettiamo a modo nostro il mondo ideale, e quelli un pochino disturbati e contraddittori. Il secondo è tipico di quando si sonomangiati i peperoni della zia a cena, con quella sua cucina troppograssa e pesante: questo sogno della High Line alla milanese, a unirenon solo idealmente due quartieri separati dalla ferrovia (e cheferrovia) certamente non è un incubo, ma del tormentato su e giùimposto dalla peperonata della zia conserva più di qualcosa. Saràche non siamo abituati alle pietanze americane, ma almeno raccontatacosì la faccenda manca di qualche ingrediente essenziale alla buonadigestione. Che quel ponte a galleggiare da parecchi anni nel nullafosse un'occasione sprecata per la città lo sanno tutti, tranneovviamente le ex amministrazioni di centrodestra, che l'hannolasciato lì, al massimo a fare da sfondo ai videoclip del generealienazione metropolitana de noantri, o alle occasionali sfilate deiguru della moda. A questo si aggiunge lo strampalato (a esseregentili e non pensare proprio male) approccio dei progettoni ditrasformazione privata in corso, attentissimi a guglie vertiginose eindici di metri cubi, ma a dir poco svogliati quando si tratta dicostruire qualità urbana tangibile. Però la High Line originale di New York non è unprogetto principalmente spaziale. Nasce da una lunga riflessione di ordinesocioeconomico, piuttosto partecipata localmente, per il rilanciodelle attività e dei valori immobiliari di un ambito degradato dapolitiche di trasporto e zoning funzionale miopi. Gli architetti, gliagronomi a studiare e sperimentare essenze che crescono anche senzamanutenzione, a studiare il recupero della vecchia infrastruttura apasseggio e parco, sono arrivati dopo. La “charrette” (termineripreso dagli esami finali della parigina Ecole de Beaux Arts, dove icandidati saltavano anche all'ultimo minuto sulla carriola che ritirava i voluminosi rotoli degli elaborati, per ritoccare i disegni) è invece un processopartecipativo sì, ma che di solito è verso il basso, finalizzatosoprattutto a convincere i cittadini, recependone solo spuntisuperficiali e formali. Insomma ottima cosa cercare di allontanarsidall'urbanistica delle densità regalate agli amici e perequate da unangolo all'altro della città, ma perché i cittadini saltino davverosul carro delle politiche urbane bisogna farne ancora, della strada(f.b.) Qui sotto un esempio di uso "scenografico" tamarrissimo della futura High Line alla milanese, nell'epoca trionfante del socialismo craxiano locale


Corriere della Sera Milano, 7 gennaio 2013, postilla

La storia dei trasporti è una storia di rivoluzioni, caratterizzate prima dalla ricerca di maggiore rapidità negli spostamenti, in un secondo momento dai diversi tipi di carburanti disponibili e, negli ultimi anni, dai problemi ambientali che molte tipologie di trasporti generano. Si pensi che, quando venne introdotta l'automobile, i gas di scarico erano considerati meno inquinanti dei residui solidi e liquidi prodotti dai cavalli, che nell'Inghilterra urbana del diciannovesimo secolo furono stimati in circa 6 milioni di tonnellate all'anno. Oggi quando incontriamo un cavallo lo guardiamo felici e lo associamo a un ambiente sano e naturale.

Tutto cambia quindi, anche il concetto di tempo e spazio, i due fattori chiave legati alla mobilità. Oggi, soprattutto in città come Milano, non si misurano più le distanze in chilometri, ma in tempo necessario per percorrerle; e allora entrano in scena le opzioni. Spesso escludiamo a priori il mezzo primario per muoverci in città, e cioè le nostre gambe, camminare è una di quelle attività che in città sembra essere stata dimenticata. Ci sembra di camminare molto ogni volta che il nostro appuntamento è a 300 metri dall'uscita della metropolitana; si gira in continuazione cercando un impossibile parcheggio pur di non dover fare qualche metro a piedi. Ma se camminare nelle nostre realtà metropolitane è considerato ormai solo una perdita di tempo, per centinaia di milioni di persone nel mondo continua a essere l'elemento caratterizzante delle loro giornate. Escludendo, per le distanze più lunghe il sistema più antico, il più delle volte la macchina è l'opzione peggiore, in termini di tempo, in termini economici, in termini di stress e di inquinamento atmosferico.

Quest'ultimo aspetto è tuttavia un aspetto legato a un cosiddetto bene comune e, come tale, non sempre e non da tutti percepito come critico, nonostante la cultura politically correct ci dipinga una opinione pubblica disponibile a qualunque tipo di sacrificio per il supremo bene della collettività; purtroppo non è così. Ma quando il beneficio pubblico e il beneficio individuale coincidono si è forse trovata la strada più idonea per la ricerca di un sistema di mobilità urbana più sostenibile.

Da anni utilizzo il bike sharing del Comune di Milano, un sistema che elimina lo stress da furto di bicicletta, tristemente cosi diffuso a Milano, elimina il problema del parcheggio, spesso paradossalmente difficile da trovare nel centro di città, dove ogni palo a cui legare la bicicletta è ricercato come in una caccia al tesoro; è inoltre un sistema sostanzialmente economico e che introduce la condivisione, presupposto fondamentale per creare davvero un' attenzione generale verso i beni comuni. Sta faticosamente partendo anche il car-sharing, molto più diffuso in molte altre città europee, dove la rinuncia alla macchina di proprietà è una scelta sempre più diffusa, con ricadute positive per l'intero territorio. È la strada giusta, percorriamola con decisione.

Postilla
Pare quasi naturale tornare alle varie critiche pubblicate su questo sito al nuovo piano urbanistico di Milano, sia sui due aspetti di merito esplicitamente sottolineati negli interventi (la mancata scala metropolitana e la rete della mobilità), sia sul metodo, che parrebbe non garantire una minima qualità spaziale, se è vero come sostenuto che si affida sostanzialmente ai medesimi soggetti e alla loro discrezionalità il processo di trasformazione. E allora si comprende che l’auspicio di una mobilità più sostenibile, costruita su diversi stili di vita, potrebbe a breve termine cominciare a scontrarsi con l’insufficienza sia della buona volontà dei singoli, sia del sistema entro cui devono svilupparsi questi auspicati stili di vita. Basta scorrere di nuovo l’articolo, ad esempio, per capire a quale tipo di utenza media si sta pensando: uno spostamento urbano semplice, diciamo casa lavoro, andata e ritorno. Che percentuale coprono, nella loro forma pura, questi spostamenti? Sono davvero così preponderanti nel degrado ambientale complessivo a cui si vorrebbe rimediare? Non ci si rivolge, come spesso accade affrontando le questioni con questa prospettiva un po’ elitaria, ai soli vicini di casa o colleghi di chi sta scrivendo l’articolo, escludendo allegramente il famoso 99% del problema? Ecco, forse qualche riflessioni in più sulle decine di migliaia di poveracci che sono materialmente costretti a usare l’auto per pura mancanza di alternative decenti (che non sono solo linee di mezzi pubblici) non guasterebbe, se si vuole andare oltre le buone intenzioni e le mode di quartiere bene (f.b.)

Nota: per chi volesse leggere direttamente a proposito della faccenda della cacca di cavallo che inquinava più degli scarichi delle auto, consiglio il bell'intervento all'alba del '900 a un convegno europeo di una vera e propria leggenda dell'urbanistica moderna, l'autore del Piano di Chicago Daniel Burnham, che ho tradotto su Mall col titolo La Città del Futuro governata democraticamente (Londra 1910)

Corriere della Sera Milano, 5 gennaio 2013, postilla (f.b.)

«Prima regola: abbassare la suoneria. Seconda: tutti devono essere a disposizione, anche per fare da segretario o portinaio. Terza: raccolta differenziata obbligatoria». Condividere un luogo di lavoro è un po' come entrare in un club. Non basta iscriversi, bisogna anche rispettarne le leggi. Ilaria Innocenti, 30 anni, viene da Modena, dopo gli studi allo Ied ha unito le forze con quelle di un gruppo di compagni di corso e amici. Coworking puro: un architetto, un fotografo, una designer, una grafica, una stilista che dal 2006 condividono aria, spazi, telefono, Internet, ma anche affari, clienti e conoscenze. Hanno affittato un ufficio da 200 mq in via Sciesa e così è nato lo Studio Morinn.

Come loro, sono ormai sempre di più, sulle tracce di un modello di lavoro importato, manco a dirlo, dai cluster informatici della Silicon Valley. Per esempio, i ragazzi di Meda36.it, società di comunicazione digitale e coworking: spazio asettico da 120 metri quadri, sono in due ma ospitano altre sette persone, scelte soprattutto per le competenze. Per riconoscere una realtà ormai diffusa in tutta Europa, quindi, il Comune di Milano sta procedendo a un censimento. Il passo successivo sarà un bando da 198 mila euro, a fine mese da erogare sotto forma di voucher da 1.500 euro l'uno, poco meno dell'affitto annuale di una postazione. «Una misura sperimentale per ora riservata ai minori di 40 anni e pensata di concerto con gli operatori già attivi sul territorio» spiega l'assessore comunale al Lavoro, Cristina Tajani.

Un intervento pubblico sollecitato dal «pioniere» Massimo Carraro. Lui ha fondato la rete Cowo che conta 15 uffici a Milano e 63 in Italia. Il primo è a Lambrate, in via Ventura, in un trionfo di luce, vetrate e colore bianco. «Abbiamo fatto da modello per altri. La nostra filosofia è quella di uno spazio al servizio delle relazioni». Aprire un'attività in proprio infatti richiede impegni a lungo termine, spesso insostenibili. «Noi offriamo postazioni anche solo per una mezza giornata». «Viviamo di passaparola online» racconta. Tra i più entusiasti ci sono Elisa Mori, 30 anni, architetto, e Michele D'Amore, scrittore e copywriter, 34. Sono loro a spiegare perché scegliere la condivisione allo stare a casa gratis. «Troppo alienante, io sono abituata a lavorare in squadra» dice Elisa, che progetta spa e centri benessere a misura di casa. «Venire qui serve ad autoregolamentarsi» conferma Michele, pronto a lanciare l'agenzia creativa Berlin1948.

Man mano che si esplora il mondo del coworking, inevitabilmente s'incrocia l'universo delle start-up, degli incubatori e degli acceleratori d'imprese. Come Avanzi, spazio da 750 mq in espansione a Città Studi, laboratorio di idee sullo sviluppo sostenibile da 15 aziende e 65 persone: «L'obiettivo è trasformare le idee in impresa, sottraendole a quella "valle della morte" dove finirebbero senza accompagnamento manageriale» spiega l'ad Matteo Bartolomeo. Cita le esperienze di un sistema di bike sharing universale, di una piattaforma per la riattivazione di spazi abbandonati e dell'incubatore organizzato per Expo 2015 insieme con Telecom Italia.

Oppure come The Hub, una rete in grado di mettere in contatto oltre 6.000 persone nel mondo nel campo dell'innovazione sociale: progetti ecologici, tecnologie per disabili, finanza etica, terzo settore. Profit. «Un brodo primordiale di idee — sintetizza Alberto Masetti Zannini — ben più strutturato della sola condivisione dello spazio». Altre iniziative in città sono Piano C, pensato per le donne, e Talent Garden, 3.000 mq in via Merano. Su eventuali altre aree pubbliche da destinare al coworking, l'assessore Tajani infine spazza i dubbi: «Stiamo valutando spazi, sì, ma per incubatori».

Postilla
Visto che il modello è stato citato esplicitamente dall’articolo con riferimento alla Silicon Valley, forse val la pena ricordare subito che quello americano si sviluppa secondo una logica sia imprenditoriale che soprattutto territoriale del tutto diversa, e con effetti potenzialmente nefasti sul consumo di suolo, a differenza dei processi invece virtuosi di riuso efficiente raccontati per Milano. La differenza è sostanziale, e sta fra il refurbishment di spazi esistenti, o eventuale densificazione locale per attività terziarie, e la costruzione di grandi o piccoli office parks suburbani, magari dispersi nell’hinterland remoto a promuovere sia urbanizzazioni superflue che altra mobilità automobilistica di lunga gittata. Ergo va benissimo parlare di incubatori e altre iniziative del genere, ma con la progressiva esponenziale crescita delle attività professionali e di microimpresa la questione territorio deve essere chiarita una volta per tutte. Rispetto ai meccanismi americani e alle relative osservazioni di un osservatore attento come Richard Florida, ho dedicato mesi fa un articolo intitolato Un capannone ci seppellirà (f.b.)


Il sistema della mobilità.

Con una scarna relazione (quattro pagine su un documento di circa mille) e sommari elaborati grafici, la parte dedicata al “sistema della mobilità a rete” del Documento di Piano del PGT adottato dalla Giunta Moratti aveva cambiato in modo sostanziale la pianificazione dei trasporti, approvata dal consiglio Comunale con il PUM del 2000 ed il successivo aggiornamento del 2006, strumenti che, per quanto se ne sappia, non sono stati mai revocati. Venivano, infatti, introdotte nuove linee di metropolitana, inserito un nuovo tracciato ferroviario, aboliti il secondo passante, la M6 e la diramazione per via Mecenate della linea M4. Nella successiva fase di osservazioni alcuni chiesero una revisione di queste scelte argomentando sulla base della consolidata tradizione milanese -ma anche provinciale e regionale- di pianificazione dei trasporti.

Queste osservazioni non furono accolte nemmeno nella seconda lettura decisa dalla Giunta Pisapia. L’Amministrazione, in sede di controdeduzioni, affermò di avere in corso di redazione un nuovo Piano della Mobilità che avrebbe fatto definitiva chiarezza sulla rete. I testi dedicati alle infrastrutture furono integrati, tuttavia il PGT oggi definitivamente approvato presenta la stessa rete di trasporto pubblico di quello adottato ed una rete stradale decisamente peggiorata: il che non fa ben sperare. È mia convinzione che la motivazione profonda di questo ribaltamento della politica dei trasporti dipenda da una carente concezione dell’assetto urbanistico di grande scala e del ruolo di Milano nella sua area urbana.

Infatti, le reti di trasporto non sono infrastrutture “neutrali”, necessarie e buone per tutte le città. Al contrario, ogni schema di rete incorpora una precisa strategia di sviluppo della città e, viceversa, non c’è strategia di sviluppo di un’area urbana che non richieda una specifica configurazione di rete. Se consideriamo la configurazione della rete, l’idea di città sottostante il PGT, fin dalla sua prima formulazione, è opposta all’idea di città da sempre presente nella cultura milanese. Da molto tempo, almeno dai dibattiti tra Carlo Cattaneo e Cesare Cantù su Milano, il comune sentire di tutti gli urbanisti milanesi è che Milano non finisca ai suoi confini, ma che la vasta regione urbana insediata al suo intorno sia tutt’uno con essa; e perciò ne condivida - anzi, ne debba condividere - la vita urbana e l’acces­sibilità alle funzioni. Gli urbanisti si sono poi divisi in varie scuole di pensiero, ma le differenze tra di loro (peraltro molto affievolite nel corso del tempo) sono cosa da poco rispetto al concetto fondamentale.

Il comune sentire è che tutti abbiano diritto di essere milanesi (ovvero condividere vantaggi, grandi servizi, opportunità, mercato del lavoro) e che l’obiettivo degli urbanisti sia quello di rendere quest’integrazione sempre più reale, efficace e meno congestiva. Milano ed il suo intorno possono divenire funzionalmente una sola città, per acquisire la massa critica di una città mondiale. La tradizione della pianificazione milanese, non solo comunale ma anche regionale, provinciale, soprattutto nei trasporti, ha sempre traguardato (anche se con modi diversi e talvolta con contraddizioni) l’obiettivo cattaneiano di ‘fare città’ di tutta l’area milanese. Ebbene, nonostante le molte pagine dedicate alla “nuova visione della città”, invero a livello prevalentemente microurbanistico, e quelle dedicate a “Milano metropoli a rete”, e nonostante che si faccia esplicito riferimento all’area urbana di sette milioni d’abitanti, la strategia macrourbanistica nel PGT sembra muoversi in direzione opposta.

Il problema del PGT non è che non s’interessi o che non preveda interventi per il territorio esterno a Milano (ove non ha il potere d’intervenire), ma che non incorpori né un’attiva visione strategica della città nel sistema regionale in cui si colloca, né una visione di Milano inserita in quel sistema. Le diverse strategie macro provocano riflessi ben differenti all’interno della città e le infrastrutture programmate in Milano, ove confluiscono tutte le reti, possono consentire o negare sviluppi a livello di tutta la regione. La rete del PGT piega i tracciati delle metropolitane e delle metrotranvie al servizio prevalente degli spostamenti interni alla città, amputa le linee metropolitane, nega l’estensione dell’accessibilità ferroviaria a tutta la regione (tramite il secondo passante) concentrando l’investimento nel miglioramento dell’interscambio tra le linee regionali (attuali) ed i servizi di lunga distanza e Alta Velocità.

La mancanza di una chiara visione macrourbanistica indebolisce anche il concetto di “densificazione” che è stato assunto come obiettivo strategico in entrambe le formulazioni del PGT. Infatti, se va riconosciuto il merito di aver messo l’accento sulla necessaria densità degli insediamenti ai fini di una politica dei trasporti meno congestiva, questa va applicata ai nodi della grande rete regionale, non alla città di Milano a livello microurbanistico. È ben diversa la strategia di collocare i grandi servizi ed i grandi attrattori di traffico sui nodi della grande rete estesa a tutta la regione Lombardia da quella di prescrivere una volumetria maggiore intorno alle fermate del tram, come nella tavola S.03 del Piano dei Servizi. Altrimenti si finisce per “densificare” le periferie generando domanda di nuove infrastrutture, come traspare dalla previsione delle nuove linee “metropolitane” periferiche. [...]

(per leggere integralmente questa lunga sezione dell’articolo di Giorgio Goggi sulla mobilità, si può scaricare il pdf alla fine degli estratti)

L’edilizia sociale

Anche nel campo dell’edilizia sociale il PGT sembra voler negare la tradizione milanese.

L’edilizia sociale (un tempo assai più opportunamente denominata economica e popolare) è sempre stata un vanto dell’urbanistica del capoluogo lombardo: dai primi del ‘900 - quando i quartieri IACP di Milano erano all’avanguardia dell’abitare civile -, alla storia delle cooperative edilizie, fino alla 167 al Garibaldi. Il PGT, invece, rinuncia ad applicare la legge 167, rinuncia ad individuare in azzonamento nuove aree vincolate all’edilizia sociale, disperde le sue - invero modeste - previsioni di edilizia sociale in un ventaglio di indici di volumetria aggiuntiva (“obbligatoria” ma trasformabile in edilizia convenzionata o monetizzabile) applicati agli Ambiti di Trasformazione e nelle aree d’intervento superiori ai 10.000 mq.

Ai tempi dell’assessore Masseroli, il Comune si difendeva dicendo di volere, in questo modo, evitare la creazione di “ghetti”. Ma non è ineluttabile che un quartiere di edilizia residenziale pubblica diventi un “ghetto”. Al contrario la storia dell’urbanistica milanese è prevalentemente caratterizzata da quartieri di edilizia popolare che non sono affatto diventati ghetti, ma hanno favorito l’integrazione sociale ed il progressivo miglioramento delle condizioni economiche dei loro abitanti. Quartieri che si sono assimilati alla città e che nessuno oggi chiamerebbe di “case popolari”. Vi sono, invece, casi di quartieri privati nei quali sta accadendo proprio ciò che si paventa per i quartieri di edilizia pubblica.

Ora però in Lombardia, ed in particolare a Milano, la carenza di edilizia sociale ha ormai le caratteristiche di un’emergenza: il grado di soddisfacimento della domanda di edilizia residenziale pubblica a Milano risultava essere di circa il 30% nel 2007 (1), il dato del 2012 è sicuramente peggiore. Spetta agli strumenti urbanistici comunali mettere a disposizione le aree necessarie per la realizzazione di questi interventi. Infatti, la legge 167/62, art. 1 e art. 3, obbliga tutti comuni con popolazione superiore ai 50.000 abitanti a determinare il fabbisogno di edilizia “economica e popolare” e a destinare aree sufficienti per soddisfarne almeno il 40%. Legge che non è mai stata abrogata; ma il Comune di Milano ha scelto di considerare la legge come non più in vigore, di non determinare il fabbisogno e di non individuare alcuna area destinata all’edilizia sociale.

Nel PGT la realizzazione dell’edilizia sociale viene, infatti, resa obbligatoria tramite la concessione di un incremento dell’indice di utilizzazione territoriale di 0,35 mq/mq applicato agli ambiti di trasformazione ed alle aree d’intervento superiori ai 10.000 mq. Questo indice è poi articolato in: 0,20 mq/mq di edilizia convenzionata agevolata o in locazione con patto di futura vendita; 0,10 mq/mq per edilizia in locazione a canone moderato, concordato o convenzionato o residenze universitarie; 0,05 mq/mq per edilizia in locazione a canone sociale (sostituibile con convenzionata tramite monetizzazione). E’ poi previsto un indice di 0,15 mq/mq di edilizia sociale nelle aree da “densificare” in quanto vicine a linee di trasporto pubblico, peraltro sostituibile con diritti edificatori “perequati” trasferiti da aree vincolate.

Come si vede, alla parte di edilizia sociale assimilabile a quella residenziale pubblica (una volta detta “sovvenzionata”) è destinato solo un indice di 0,05 mq/mq, sempre sostituibile con altre categorie qualora l’operatore accetti l’onere della monetizzazione di una parte del “maggior ricavo” conseguito. Viene spontaneo chiedersi se questa complessa articolazione degli indici obbligatori di edilizia sociale possa giungere al soddisfacimento di una quota consistente del fabbisogno di abitazioni. Occorre dire che l’unica quota di edilizia sociale di cui abbiamo una qualche sicurezza è quella inserita negli Ambiti di Trasformazione Urbana, perché gli altri tipi d’intervento dipendono da scelte private, non sono definiti in azzonamento, e la loro attivazione è meramente eventuale, legata al ciclo economico dell’edilizia.

Il sistema delle quote di edilizia sociale inserite negli Ambiti di Trasformazione o nelle aree d’intervento superiori a 10.000 mq nasconde un’altra insidia, quella di legare l’edilizia sociale al ciclo economico dell’edilizia. Viene così snaturata la funzione dell’edilizia sociale, che è sempre stata eminentemente anticiclica, legandola ai momenti espansivi del mercato. Il meccanismo di legare la realizzazione dell’edilizia sociale a quella dell’edilizia privata è esposto alla variabilità del mercato immobiliare. Non è nemmeno detto che i privati, in periodo di crisi, rinuncino a realizzare i loro interventi per non dover subire il peso economico dell’edilizia sociale. Perciò questo meccanismo non può dare la necessaria sicurezza di risolvere l’attuale emergenza sociale. Il rischio è che si finisca per produrre prevalentemente edilizia convenzionata con prezzi più o meno calmierati, tagliando la fascia di maggior bisogno, ossia quella che è tutelata dall’edilizia pubblica.

Piano dei Servizi

Nel Piano dei Servizi il Comune dichiara di non voler “stabilire in maniera rigida quali saranno i servizi che andranno attivati nel futuro e dove questi servizi saranno localizzati”; e difatti nessuna area per servizi pubblici viene vincolata, ad eccezione di quelle destinate a verde ed infrastrutture. Tutti gli altri servizi saranno direttamente realizzati dagli attuatori degli ambiti di trasformazione e dei piani attuativi o deriveranno comunque dalle cessioni ivi ottenute. Ora, una cosa è la critica alla pianificazione tradizionale, che ha generato l’annoso problema dei vincoli, e tutt’altra cosa è rinunciare del tutto a prevedere nuovi servizi e ad individuarne la localizzazione.

Quest’omissione assume maggiore rilevanza quando, di contro, il piano viene dimensionato per un significativo incremento della popolazione residente (ancorché minore di quello calcolato nelle proiezioni demografiche del PGT adottato, peraltro riportate invariate). I piccoli servizi di quartiere possono essere realizzati dagli operatori nei piani attuativi, ma che fare per le università (2), gli ospedali, i plessi scolastici, gli istituti di ricerca, i centri sportivi, che richiedono grandi superfici? In questo modo il Comune, per tutto quanto non previsto oggi negli ambiti di trasformazione, rinuncia totalmente alla strategia di localizzazione dei servizi, che è parte integrante e fondamentale della strategia di sviluppo urbano. E che è anche il contenuto prevalente della pianificazione urbanistica, se consideriamo le leggi che l’hanno istituita: un obbligo che non potrebbe essere eluso.

Dal momento che il resto del territorio è azzonato senza vincolo di destinazione d’uso, il rischio è che i servizi di cui la città avrà necessità nel futuro saranno localizzati in aree di risulta, o nei parchi di cintura. Di contro, si corre il rischio che le proposte di realizzazione di servizi da parte di privati confluiscano nella realizzazione di quegli interventi che siano maggiormente remunerativi, con il che si assisterebbe allo straordinario proliferare di palestre e centri benessere. Nella storia urbanistica di Milano sono molte le occasioni perse per non aver voluto o potuto apporre tempestivamente un vincolo su aree ritenute strategiche per il futuro della città (dal carcere di S. Vittore, alle aree di P.ta Vittoria che erano state destinate alla nuova sede dell’università Statale). Tutto ciò sembra essere stato dimenticato.

Piano delle Regole

Il Piano delle Regole è incentrato su due concetti: la perequazione e la rinuncia alla pianificazione per zone funzionali. Tralasciando per brevità il tema della perequazione, che è il più critico del PGT, e che merita una trattazione a parte (3), vale la pena di commentare la rinuncia alla pianificazione per zone funzionali. Questa non avrebbe controindicazioni se dalla città fosse totalmente scomparsa la produzione industriale, che non è sempre compatibile con la città residenziale. Fortunatamente non è così e non possiamo certo augurarci che questo avvenga. La cultura di Milano è da sempre quella di una città produttiva. La presenza della produzione industriale a Milano non può essere né negata, né tantomeno trascurata, perché avrà sempre un ruolo strategico, anche se si tratterà di produzione industriale ben diversa da quella del secolo scorso, ed evidentemente minoritaria nei confronti della città dei servizi. Gli eccessi del passato, in termini di vincoli industriali, non possono certo giustificare l’abbandono di qualsiasi prospettiva di produzione.

Visto l’alto valore delle aree a destinazione residenziale, non basta dire che le destinazioni sono libere: le industrie difficilmente potranno permettersi di pagare il costo di aree che possono avere altra, più remunerativa, destinazione. Per la produzione è stato poi inserito un premio di volumetria, anche trasferibile, di 0,2 mq/mq; ma giudico improbabile che questo meccanismo possa superare la differenza di valore tra le aree residenziali e quelle produttive. Anche su questo tema il Comune si è impegnato con il Sindacato a “sostenere le aree con le attività produttive esistenti” e a “incentivare il recupero degli insediamenti produttivi esistenti”. Ma di che cosa vivranno i milanesi nel 2030?

La crisi economica che stiamo vivendo ci ha mostrato come la finanza e le attività terziarie e direzionali non siano sufficienti, da sole, a garantire una solida prosperità. Ma nel PGT manca persino l’indicazione di una qualche direzione di sviluppo produttivo. Sembra insomma che si sia dimenticata la funzione dei piani generali, che è anche quella di costituire una riserva di aree (per l’edilizia sociale, per la produzione, per i servizi) in funzione dello sviluppo futuro. Non a caso il piano delle regole e quello dei servizi non hanno scadenze temporali di validità, come non ne aveva il PRG. Qui si torna, pur in altro contesto, alla carenza di visione già più volte sottolineata.

(1) Dati dell’“Osservatorio regionale sulla condizione abitativa”.
(2) A Milano almeno 20.000 mq di funzioni universitarie sono ospitate in strutture inadeguate, costruite per altri usi.
(3) Si veda G. Goggi “Perequazione sconfinata alla milanese i motivi per rimediare a una situazione incerta e pericolosa” su Edilizia e Territorio on line, 30.8.2012

QUI la versione integrale di questo articolo

Corriere della Sera Milano, 29 dicembre 2012, postilla (f.b.)

Nei numeri su Milano del censimento 2011 pubblicati qualche giorno fa sulla Gazzetta Ufficiale c'è un aspetto che mette a disagio. La città è tornata ad avere lo stesso numero di abitanti del 1951: se avevamo bisogno di un dato simbolico che certificasse quanto siamo fermi nel mondo che corre, eccolo qui. Le cose ovviamente non stanno solo così. I demografi spiegano che tutto, sempre, è in movimento e quindi anche il milione e duecentoquarantamila residenti fotografato dal censimento 2011 è assai diverso dal milione e duecentomila del 1951. Molto è successo, dal baby boom all'arrivo degli immigrati, eppure siamo ancora lì, al «milione e qualcosa» che solo per un periodo, all'inizio degli anni Settanta, Milano si era davvero scrollata di dosso (1.732.000).

Il risultato del 2011 impone agli amministratori una riflessione più vasta dei rari commenti — sarà stato per i giorni di festa — che hanno accompagnato la pubblicazione dei dati statistici. Non è sufficiente la soddisfazione dell'assessore allo Sviluppo economico Cristina Tajani che, tra i numeri, nota il contributo degli immigrati, determinate per arrestare la decrescita verticale dei milanesi. L'assessore tocca un punto centrale, la presenza dei «nuovi cittadini» nella vita della metropoli. Ma ne lascia senza risposta un altro: perché Milano non attragga più italiani, anzi ne abbia fatti «scappare», negli anni, un grande numero (mezzo milione in meno dal 1971 ad oggi). Non è sufficiente nemmeno la preoccupazione dell'ex vicesindaco Riccardo De Corato che vede come sempre nella crescita degli stranieri (oggi sono il 14,2 per cento degli abitanti) una minaccia per la sicurezza e la coesione sociale.

I dati della città, così simbolicamente bloccati, interrogano la politica su campi più vasti e nuovi: nel 2021, quando si svolgerà il prossimo censimento, che città ci proponiamo di essere? Per quei tempi dovremmo aver finalmente finito di «misurare» Milano all'interno dei suoi confini comunali, ormai sempre più angusti. L'imminente città metropolitana, un'area da oltre 4 milioni di abitanti, conferirà ai temi (e alle soluzioni proposte) una dimensione, si spera, più innovativa. Mario Monti ha dedicato una parte del suo discorso di fine mandato al ruolo delle donne («una vera politica di pari opportunità genera un punto di Pil in più») e ai rari bambini («quel deficit di nascite che caratterizza il nostro Paese ha una serie di conseguenze economiche, sociali e psicologiche»). Ora, nelle politiche per la città dei prossimi dieci anni, quale posto troverà il dato del censimento che fa di Milano una metropoli nettamente femminile (quasi centomila donne in più degli uomini)? E quale peso avrà il fatto che la ripresa delle nascite — che la città aveva guidato con un piccolo boom ottimista nel 2007 — si sia ormai drasticamente arrestata sotto i colpi della crisi? Temi impegnativi, insomma, che meritano discussioni e visioni che vadano oltre il day by day che spesso ci prende.

Postilla
Su queste pagine del sito da molto tempo ci si chiede, a proposito di Milano ma ovviamente non solo, sino a che punto la politica riesca a cogliere il respiro di una sfida strategica per il futuro. Si è detto tante volte degli aspetti ambientali, climatici, energetici, di rapporto tra forme insediative e mobilità; tutte cose a cui troppo spesso si risponde a pezzi e bocconi, apparentemente lasciando al caso o a miracolistiche mani invisibili il compito di formulare una sintesi. Questo articolo, scritto da un giornalista attento ma certo non particolarmente specializzato, mette in luce un altro lato della medaglia, quello più squisitamente sociale, e immediatamente dopo economico: che città vogliamo? Quella del centrodestra si era più o meno esplicitata nei lustri, dalle prime sparate degli anni ’90 ai surreali metri cubi salvifici del garrulo assessore Masseroli, ammorbiditi (si fa per dire) dalle promesse di capitalismo compassionevole del social housing. Ad ascoltare le critiche, molto aspre ma a quanto pare assai motivate e documentate, proposte da questo sito a proposito del Piano di governo del territorio, le modifiche tecniche apportate sinora dalla nuova giunta lasciano tutto in sostanza allo stato precedente. E la questione di quale città vogliamo perfettamente inevasa (f.b.)

zoning, e dei suoi limiti. Corriere della Sera Milano, 24 dicembre 2012, postilla (f.b.)

Saracinesche chiuse in via Bramante. Proprio qui dove, negli anni Novanta, arrivarono i primi grossisti cinesi, si registra qualche defezione. Chi conosce il quartiere è pronto a scommettere che «i commercianti hanno capito l'antifona». Tra due mesi, a fine febbraio, s'accenderanno le telecamere della «Ztl commerciale». In ritardo sulle tabelle di marcia, ma necessarie per garantire il rispetto degli orari di carico-scarico merci dalle 10 alle 12.30 e bloccare l'accesso all'isola pedonale di via Sarpi dalle laterali Montello, Procaccini, Canonica ed Elvezia.

Sono cambiati i toni, ma non i contenuti del dibattito in corso da anni in via Sarpi tra il nucleo storico di residenti e negozianti al dettaglio, che resiste alla trasformazione della via in una Gerrard Street londinese, e i grossisti anche italiani. «La multiculturalità in un quartiere che rimanga a vocazione residenziale è una ricchezza, non certo che qui rimangano solo i cinesi», dice Pier Franco Lionetto, presidente di ViviSarpi. «Le telecamere sono percepite anche dai nostri clienti come un problema. Non siamo pronti, non abbiamo i parcheggi e i servizi. Invece viviamo di riflesso il disagio del cantiere per il metro, al Monumentale», rimbalza Remo Vaccaro, dell'associazione di via Ales. Sono passati cinque anni dalla rivolta di Chinatown, quando per una multa in via Sarpi si scatenò il caos.

E c'è chi invita a non arrivare ad una nuova «guerra dei carrelli». «L'accensione delle telecamere è inevitabile, perché se ho un'area Ztl non posso scaricare il traffico determinato dalla presenza dei grossisti nelle aree limitrofe — dice il presidente di zona 1, Fabio Arrigoni —. Ma è urgente aprire un tavolo vero con i grossisti, perché bisogna trovare una soluzione e studiare anche se necessario incentivi». Il Pgt dice con chiarezza che l'attività di grossisti è «incompatibile con i nuclei di antica formazione». Ma «chi è già qui non può essere allontanato sventolando il Pgt». Ieri, nella domenica prenatalizia, via Sarpi era affollata: «Che questo quartiere non abbia una vocazione per l'ingrosso lo pensano anche molti cinesi — conclude Francesco Novetti, presidente di Sarpi doc, che raggruppa i dettaglianti —. Nessuno viene deportato, ma è giusto disincentivare i grossisti. Invece di dilazionare sull'accensione delle telecamere, si studi in fretta un piano di delocalizzazione».

Postilla
Forse è un gran bene, che qui ci sia lo zampino benevolo di una comunità economicamente (anche politicamente, si è scoperto) forte come quella dei grossisti di origine cinese, perché almeno si conferisce il giusto rilievo anche mediatico a una questione generale: che vogliamo farne delle nostre città, dal punto di vista del metodo? Il Grosso Guaio a Chinatown insieme a tante altre cose è stato ereditato dall’attuale amministrazione come strascico della trascuratezza precedente del centrodestra cronico milanese-lombardo. Il solito laissez faire che alla fine non lasciava faire nulla a nessuno, perché la pubblica amministrazione sta lì proprio a costruire equilibri, non a fare il sindacato delle cordate via via vincenti. Come accaduto col citato Pgt e la sua revisione, forse c’è o c’è ancora un profilo culturale troppo modesto di fronte a sfide di innovazione invece molto avanzate. C’è un quartiere cosiddetto mixed-use che pare un po’ troppo mixed per i gusti della media di chi ci abita o sta nelle vicinanze. Si tratta della vetusta faccenda che a cavallo fra XIX e XX secolo venne risolta con l’invenzione urbanistica delle zone omogenee, a tutelare qualità della vita e conseguenti valori immobiliari. Si è poi capito col tempo che però quelle zone dovevano essere non troppo omogenee, e mescolarsi armoniosamente nel tessuto urbano e metropolitano. Si è anche capito, col tempo, che l’urbanistica degli indici e norme tecniche doveva affiancarsi ad altre politiche urbane, e a volte (quasi sempre) a un ragionamento a dimensione metropolitana, come nel caso dello stretto intreccio fra questioni insediative e della mobilità. Guarda caso, fra le critiche più feroci alla politica urbanistica della nuova giunta c’è proprio la schizofrenia apparente fra trasporti e città. Speriamo che non debba intervenire ancora il consolato della Repubblica Popolare Cinese, stavolta a chiedere una variante al Pgt favorevole ad alcuni propri concittadini, manco fosse una versione postmoderna e globalizzata di Ligresti (f.b.)

». Scritto per eddyburg.it

Il nuovo Piano di governo del territorio di Milano è vigente. Il sindaco Pisapia e la sua giunta l’avevano sottoposto al Consiglio comunale, che l’ha approvato con un solo voto contrario, nel mese di maggio del 2012 ed ora è ufficialmente pubblicato e accessibile sul sito web del Comune. Il piano è il risultato di nuove controdeduzioni alle migliaia di osservazioni presentate dai cittadini al piano adottato nel 2010 dalla giunta Moratti. Il piano adottato era caratterizzato da intenti di estrema concentrazione insediativa e densificazione della città, dalla mancanza di ogni inquadramento territoriale rispetto all’area metropolitana e di qualsiasi indicazione sulle strategie competitive per la città - a parte quelle fondate sullo stimolo allo sviluppo edilizio -, da progetti di notevole intensificazione infrastrutturale sia su ferro che su gomma, strettamente limitati al territorio del capoluogo, dall’introduzione della cosiddetta perequazione urbanistica in forma tale da consentire il trasferimento dei diritti volumetrici generati da qualsiasi terreno verso qualsiasi altro punto della città, e infine dall’azzeramento convenzionale della superficie lorda di pavimento di tutti i servizi pubblici e privati, che sarebbero così tutti diventati generatori di nuovi ingenti diritti volumetrici.

Il Piano è, nel suo impianto sia analitico che progettuale, sostanzialmente sovrapponibile a quello adottato dalla precedente giunta Moratti, salvo alcune modifiche puntuali che possono essere così sintetizzate. Viene ridotto l’indice unico di edificabilità e vengono ridotte le quantità edilizie previste in alcune aree di trasformazione, mentre per altre, come gli scali ferroviari le decisioni vengono rinviate ai futuri accordi di programma. Le aree periurbane del parco sud, che prima generavano diritti volumetrici trasferibili per le porzioni che sarebbero state considerate non agricole, verranno definite nelle loro vocazioni e destinazioni (e dunque anche nella loro capacità di generare diritti edificatori) dai successivi Piani di cintura urbana elaborati su iniziativa del Parco, oggi presieduto dal presidente della Provincia (1). Sono state apportate anche altre modifiche alla normativa, di portata meno generale, che in questa sede, per brevità, si evita di descrivere analiticamente ed è infine stata cancellata qualche previsione viabilistica, come ad esempio il tunnel autostradale per Linate.

Dato il carattere puntuale, benché non irrilevante, delle modifiche apportate, è evidente che il Piano mantiene i difetti di fondo della versione originaria. In primo luogo resta privo sia della individuazione di efficaci strategie competitive per Milano, sia di qualsiasi respiro di dimensione metropolitana. Il piano Masseroli Moratti, come si è già accennato, ignorando completamente il tema delle strategie competitive nel campo dell’efficienza dell’ organizzazione territoriale, delle infrastrutture, dei servizi e della produzione, affidava il futuro di Milano alla espansione edilizia, facilitata con ogni mezzo, e sostenuta da un mirabolante programma di nuove linee di trasporto strettamente urbane. Una scelta dunque di densificazione della città fine a sé stessa, ed inevitabilmente in conflitto con gli interessi dell’hinterland. La strategia sembrava essere dunque quella di cavalcare la crisi, scaricandola da un lato sull’hinterland, e dall’altro sulla qualità della vita urbana.

Il piano della nuova giunta non sostituisce questa strategia con una diversa. Nessuna scelta chiara sulle principali grandi infrastrutture, a partire dall’aeroporto, nessuna analisi e nessun progetto specifico sui settori dell’economia, sia nel campo dei servizi che in quello della produzione, capaci di restituire qualche dinamicità all’economia milanese, e conferma, sia pure soggetta a verifica nel piano di settore, dell’ambizioso ed irrealistico piano di nuove linee urbane su ferro. Certo i volumi vengono un po’ ridotti, ma comunque ve ne saranno in abbondanza per decenni, vista la recessione in atto e la massa dell’invenduto e dell’inutilizzato.

Il piano urbanistico di Milano è dunque ridotto ai suoi minimi termini di puro strumento di gestione dei diritti edificatori. Ed è proprio in questo campo che continua a mostrare grandi difetti. In primo luogo quello della generale trasferibilità di tutti i diritti edificatori sull’intero territorio comunale: il che non potrà non determinare processi di notevole densificazione delle più appetibili aree centrali, già oggi molto congestionate e afflitte da cattiva qualità ambientale, dove tutti tenteranno di trasferire e realizzare i propri diritti volumetrici, ovunque originati. In secondo luogo grazie alla bizzarrissima norma che azzera il computo della superficie lorda di pavimento per tutti i nuovi servizi, pubblici e privati, definiti con estrema larghezza (dalla discoteca alla borsa valori, dalle fiere ai centri congressi, dai mercati rionali ai negozi di vicinato, dalle università alle cliniche, eccetera, eccetera) (2). Tali insediamenti, potranno perciò essere localizzati dovunque senza vincoli planivolumetrici e dunque con qualunque densità insediativa, pur essendo, di solito, i più potenti attrattori di traffico che si possano immaginare. Non dovrebbe sfuggire a nessuno, e tanto meno a dei giuristi, la totale illogicità di una simile impostazione. Non dovrebbe nemmeno sfuggire il rischio che tutti i gestori di servizi non strettamente pubblici (dal Policlinico al Politecnico, tanto per esemplificare con due nomi assonanti scelti a caso) siano indotti ad inventarsi necessità di trasferimento, per trasformare le rispettive attuali volumetrie ( anche fisicamente ricostruibili ) in residenza, uffici privati e commercio in modo da sfruttare poi la bizzarra ed inaudita norma sulla illimitata gratuità urbanistica delle nuove slp a servizi. Un piano sensato avrebbe dovuto spingere i gestori di grandi servizi a concentrarsi sulla propria missione, invece di offrire loro la scappatoia drogata del passaggio al mattone.

Il piano continua a distribuire edificabilità sulle grandi aree pubbliche in dismissione in misura rilevante, anche se un po’ ridotta rispetto a quello adottato e facendo slittare la definizione della parte più grossa, quella degli scali ferroviari, alla procedura separata dell’accordo di programma con le Ferrovie. La grande potenziale penetrazione di verde della Piazza d’armi viene così dimezzata, quella ancor più grande di Bovisa Farini Lugano è addirittura ridotta ad un quarto, soprattutto a causa della massiccia edificazione di Bovisa. Lo scalo di porta Romana lascerà al verde solo il 40%, e quello di porta Genova il 30% (3). Milano si gioca così, del tutto inutilmente vista la crisi del mercato immobiliare, la possibilità di usare in futuro le ultimissime aree non edificate per dotarsi di grandi parchi urbani e di penetrazione e connessione con le aree verdi esterne alla città.

La parte di pianificazione relativa ai servizi, benché pomposamente enucleata come un piano a sé, il Piano dei servizi appunto, è priva di ogni contenuto progettuale, che dunque verrà esercitato nelle forme oscure delle decisioni settoriali dei singoli assessorati e di centinaia di soggetti pubblici, semipubblici o privati, liberi ciascuno di muoversi a proprio piacimento, naturalmente anche alla luce dell’illogica normativa che azzera il computo della superficie lorda di pavimento (slp) di qualsiasi nuovo intervento. L’edilizia sociale, oltre ad essere caratterizzata da gradi di socialità indeterminati, è affidata alla buona volontà degli operatori. Sul versante dei parcheggi, la totale libertà di scelta del mix funzionale degli interventi e la “gratuità” della slp a servizi, potrà provocare gravi fenomeni di congestione.

La pianificazione delle tutele del patrimonio storico ed ambientale della città, genericissima ed inefficace nel piano adottato, tale è rimasta nel piano approvato, senza alcuna apprezzabile variazione (4). La parte computazionale del piano è approssimativa, inverificabile e in definitiva viziata d’errore. La relazione dichiara una capacità insediativa aggiuntiva di 182.873 abitanti teorici, senza curarsi di precisare le modalità di calcolo, il che è di per sé insolito. In mancanza di dati dichiarati, e dunque induttivamente, sembra di poter arguire che essa sia stata ottenuta attribuendo ad ogni abitante insediabile un volume pari a circa 300 metri cubi convenzionali (5), corrispondenti di fatto, grazie ai generosissimi sconti applicati alla definizione della Superficie lorda di pavimento, alla bellezza di oltre 700 metri cubi vuoto per pieno a testa (6): più di sette volte tanto rispetto ai parametri della legislazione nazionale, disapplicata in Lombardia grazie alle leggi di Formigoni e Boni.

Presumibilmente il clamoroso sconto nel computo degli abitanti teorici cela l’ipotesi di destinazione di una parte delle volumetrie ad usi terziari, certo più che plausibile, ma non dichiarata nella computazione. Come se non bastasse, nel calcolo vengono dimenticati tutti i cantieri aperti e i volumi esistenti inutilizzati, e soprattutto viene sbadatamente dimenticato il possibile enorme aumento di capacità insediativa dovuto al riuso per funzioni urbane dei servizi esistenti, stimolati al trasferimento dalla già citata norma che azzera il peso insediativo dei nuovi insediamenti. In conclusione non è azzardato affermare che i veri abitanti teorici sono un grande multiplo intero del valore dichiarato: qualcosa come il triplo del dichiarato: non 182.873 ma almeno 500 - 600.000 abitanti (7), il che purtroppo ci riporta assai vicini alle quantità – obbiettivo dichiarate dalla giunta precedente. Sono quantità del tutto incompatibili con la realtà modesta di Milano demograficamente statica da decenni, foriere di un doppio risultato negativo: sviluppo lento ma ciononostante di cattiva qualità. Il cavallo non beve e dunque invece che dieci ci vorranno cinquant’anni e forse più a realizzare il piano, ma grazie alla imputrescibilità dei diritti immobiliari acquisiti Milano per molti decenni si godrà, oltre al piacere della stagnazione, anche quello dello sviluppo edilizio densificato. Un colmo di irrazionalità in cui ci si è volontariamente cacciati.

La parte normativa presenta altrettante criticità. Senza volere entrare in questa sede nell’estremo dettaglio ci si limita ad osservare come alcune delle definizioni più delicate perché foriere di conseguenze radicalmente divergenti in termini di diritti volumetrici come, a titolo di esempi non esaustivi, la definizione e gli ambiti di applicazione degli indici fondiari e di quelli territoriali e le modalità di verifica della saturazione degli indici esistenti (8), o la definizione dei servizi su area pubblica (9), appaiono incertissime e dunque foriere di un enorme lasco interpretativo, lasciato all’umore interpretativo di questa o quella struttura del Comune o, peggio, al contenzioso giudiziario. Non sembra ci fosse bisogno di aggiungere ulteriori incertezze al già confusissimo mondo del diritto urbanistico italiano e soprattutto lombardo.

Il piano è divenuto definitivo attraverso procedure quanto meno discutibili. Non solo i cittadini, ma nemmeno i consiglieri comunali, hanno avuto a disposizione le tavole modificate, che sono state rese note solo dopo l’entrata in vigore del piano; la votazione delle controdeduzioni è avvenuta per grandi gruppi di osservazioni, senza permettere al consiglio una valutazione dei singoli aspetti, inclusi quelli più rilevanti. Nonostante tutto questo, il clima in cui è avvenuta l’approvazione è stato di allineamento di tutte le forze politiche del centro sinistra - ed oltre sul lato cosiddetto sinistro - e di astensione dal voto, parsa più che benevola, da quelle del centro destra. Solo voto contrario quello del rappresentante Cinque stelle. La Facoltà di architettura del Campus Leonardo ha organizzato due incontri a carattere celebrativo.

Tutto questo non cancella la sostanza culturale di ciò che è avvenuto e il contrasto tra il risultato conseguito e le speranze politiche generate dalla campagna elettorale di Pisapia, alla quale chi scrive ha, assieme a tanti altri, partecipato con entusiasmo. Al Sindaco è forse allora lecito chiedere quali prossimi passi vorrà compiere per ridurre i danni prodotti dall’affrettatissima approvazione del piano, decisa per ottemperare puntigliosamente alla scadenza temporale indicata da una delle grida dell’ormai ex presidente della Regione. Il precipitoso sboom immobiliare e la creazione della città metropolitana ci stanno dando l’occasione e in anzi dovrebbero imporci la necessità di rivedere profondamente le scelte del nuovo, vecchio PGT, d’altronde sempre modificabile per legge. Il sistema politico milanese, rinnovato nelle persone ma forse non nella struttura profonda, saprà e soprattutto vorrà finalmente utilizzare questa duplice grande occasione?

Altri articoli sull'argomento sono stati scritti nei giorni scorsi su eddyburg.it nell'articolo di Maria Cristina Gibelli e nell'eddytoriale 155. Altri più antichi sull'urbanistica milanese e sul PGT della giunta Moratti li trovate in archivio.eddyburg.it, e precisamente in questa cartella.

NOTE

(1) Documento di piano, Norme di attuazione, art. 4, comma 3, pag. 309

(2) Norme di attuazione del Piano delle regole, articolo 4, comma 6, lettera m., pag. 12, Norme di attuazione del Piano dei servizi, art. 4, comma 7, pag.10 e Relazione generale e catalogo dell’offerta dei servizi pagg 154-161.

(3) Documento di piano, Allegato 3, Schede di indirizzo per l’assetto del territorio e tabella dati quantitativi.

(4) Il carattere labile delle tutele relative al patrimonio edilizio esistente nei Naf (Nuclei di antica formazione) risulta chiaro dalla lettura dell’art 13 delle Norme di attuazione del Piano delle regole, pag 24.

(5) La valutazione è ricavata dal confronto aritmetico tra i dati esposti nella Relazione del documento di piano, pag. 272 e quelli contenuti nella Tabella dati quantitativi, contenuta nel già citato allegato 3 del Documento di piano.

(6) Il dato è desunto dai dati ufficiali pubblicati dal comune di Milano sul periodico “Milano statistica”, che consente il confronto tra volumi vuoto per pieno e superfici di pavimento nei permessi di costruire rilasciati, divisi per tipologie funzionali.

(7) Poiché il piano non fornisce alcuna quantificazione né dell’inutilizzato, nè dei servizi non pubblici che possono generare ingenti diritti edificatori, chi scrive è stato costretto ad usare propri data base per pervenire ad quantificazione, sia pure di larga massima.

(8) Si veda, come esempio di notevole indefinitezza, quanto prescritto dall’art. 4, comma 16, pag.13 delle Norme di attuazione del Piano delle regole.

(9) Giuristi consultati affermano che poche definizioni sono così scivolose come quella di servizi localizzati su aree “pubbliche” per discernere tra quelle che generano o meno diritti edificatori. L’area di un’azienda ospedaliera è pubblica?

Corriere della Sera, 20 dicembre 2012 (f.b.)

Le banche creditrici del fallimento delle società di Salvatore Ligresti, Im.co e Sinergia, fanno pressing per la realizzazione del Cerba, il Centro europeo di ricerca biomedica avanzata che deve sorgere nel Parco Sud. L'opera è in progetto su terreni già di proprietà di Ligresti. Così l'ambizioso progetto della cittadella della scienza, che l'oncologo Umberto Veronesi aveva annunciato nella seconda metà del 2003, diventa uno degli asset strategici più importanti per gli istituti bancari per recuperare i soldi (la ristrutturazione del debito dovrebbe seguire la strada del concordato fallimentare, quindi con il consenso del Tribunale).

È quanto emerge da documenti riservati, inviati di recente al collegio dei curatori fallimentari. «Si invita cortesemente il collegio dei curatori — scrive Unicredit — a volere rappresentare alla prossima riunione l'interesse delle banche creditrici a proseguire l'iniziativa». Complessivamente in gioco ci sono quasi 330 milioni di euro. È la cifra che gli istituti di credito devono riavere in seguito al fallimento di Ligresti: la più esposta è proprio Unicredit (con il 57,5%), le altre sono la Banca Popolare di Milano, il Banco Popolare, la General Electric, il Monte dei Paschi di Siena, la Banca Sai e la Banca Popolare di Sondrio. La questione nasce anche perché Salvatore Ligresti era riuscito ad avere prestiti importanti ipotecando per 120 milioni proprio l'area su cui dovrebbe sorgere il Cerba.

La realizzazione del progetto, però, al momento non è per nulla scontata. Una riunione fondamentale a tal proposito è fissata per domani: parteciperanno Regione Lombardia, Provincia, Comune di Milano, Parco Sud e Fondazione Cerba (i cui soci sono Enpam, Banca Intesa, Unicredit, Banca Popolare di Milano, Allianz, Generali, Unipol-Fonsai, Rcs, Pirelli). Il pallino è in mano al Comune, che deve decidere se bloccare la convenzione (alla luce della scadenza dei termini entro i quali il progetto avrebbe dovuto partire) oppure se concedere altro tempo. È una decisione delicata: da un lato c'è la realizzazione di un progetto scientifico di rilevanza internazionale, dall'altro il timore di possibili speculazioni immobiliari sul Parco Sud. E la preoccupazione di Palazzo Marino appare tutta concentrata proprio su questo secondo aspetto. In caso di un via libera del Comune, l'idea delle banche è di conferire l'area del Cerba a un fondo immobiliare gestito da Hines Italia di Manfredi Catella.

Nota
E' certamente inelegante ricordarlo e ribadirlo, ma sin dal primo momento L'avevamo detto (f.b.)

La sinistra pare proprio aver perso la sua identità quando si tratta di ripensare la città e l’urbanistica.
Fra le tante componenti che la crisi delle ideologie ha ridotto in pezzi che non riescono a ricomporsi, vi è sicuramente l'idea di città, o almeno una sua declinazione davvero progressista, orientata al bene comune.
Da Milano, dal suo ‘nuovo’ Piano di Governo del Territorio, ci aspettavamo una decisa presa di distanza dal modello neoliberista e mercatistico che ha dominato nelle politiche urbanistiche lombarde: un modello che, dall’inizio degli anni ’90 in poi, ha progressivamente smantellato il sistema di pianificazione, nel silenzio, quando non con l’esplicito sostegno, di una parte della cultura tecnica e politica. Ci aspettavamo maggiore creatività e coraggio e, soprattutto, risposte innovative alle speranze e alle attese dei cittadini che avevano votato per il cambiamento.

Così non è stato.
A Milano, con il ‘nuovo’ PGT, si sta toccando con mano questa perdita di identità della sinistra.
Come noto, il PGT, adottato dalla Giunta Moratti nel 2010 ma non ancora divenuto efficace allo scadere del mandato, era un piano meramente al servizio del mattone: prometteva infatti espansioni edilizie tali da poter accogliere in prospettiva 257.946 nuovi abitanti (sugli attuali 1,3 milioni). Ma analisi attente delle previsioni di sviluppo urbanistico-edilizio avevano evidenziato un ben maggiore sovradimensionamento delle opportunità edificatorie: per oltre 600.000 nuovi abitanti!

Fra i primi atti del nuovo governo municipale retto da Pisapia in materia urbanistica vi fu una decisione apparentemente coraggiosa: si decise di revocare la delibera di approvazione del Piano di Governo del Territorio, ripartendo dal riesame delle osservazioni che erano state respinte in blocco dal governo precedente. Un preludio necessario, pensavamo, per ricostituire un sistema di garanzie, trasparenza e pubblicità; preliminare, pensavamo, a una profonda e radicale revisione del Piano. Ma il Piano non è stato cambiato in maniera sostanziale e si è persa una grande occasione: di provare a ripensare alle politiche urbanistiche milanesi in una dimensione davvero metropolitana e con una visione di respiro europeo.
Il riesame delle osservazioni non è infatti servito, come era possibile e legittimo, per riaprire la ‘questione urbana’ milanese, ma per dare un segnale di solo apparente discontinuità e per completare al più presto i lavori garantendosi una ossequienza formale alla tempistica prescritta dalla legge 12/2005; in pratica per non rischiare le procedure commissariali.

Ci chiediamo: perché, di fronte a sfide così rilevanti e troppo a lungo trascurate, si è scelta la strada del minor rischio? Non sarebbe stato più lungimirante, e un vero segnale di cambiamento, cestinare il Piano Moratti/Masseroli e dare forma a una nuova visione strategica per l’intera area metropolitana milanese, anche a costo di incorrere nelle sanzioni di legge per le amministrazioni inadempienti (una situazione in cui si trovano oggi del resto molti altri comuni lombardi)? Oltre tutto, in una fase di crisi manifesta del settore edilizio/immobiliare; con la prospettiva, sia pure incerta, di imminente istituzione delle Città Metropolitane e con l’accumularsi di scandali che hanno totalmente delegittimato il governo regionale?
Si è invece preferito produrre un piano soltanto blandamente modificato del quale non condividiamo né il metodo né il merito.
Approvato il 22 maggio 2012 in tutta fretta dal Consiglio Comunale un documento ancora in bozza, in cui venivano segnalate con i diversi colori le modifiche apportate al Piano Masseroli – peraltro difficilmente comprensibili ai non addetti ai lavori - e senza tavole allegate (!), il Piano è stato pubblicato in versione completa sul BURL il 21 novembre 2012. Ma solo contestualmente alla pubblicazione, il PGT integrale è stato messo in rete, consentendoci finalmente di conoscerne i contenuti, di fatto sottraendo alla civitas il diritto alla informazione e al dibattito critico.

Dunque, è in primo luogo il metodo con cui si è arrivati alla pubblicazione del Piano a suscitare sconcerto: una frettolosa discussione in Consiglio Comunale su Bozze di Piano ‘secretate’(è grazie a Masseroli, proprio lui, che le Bozze sono state inserite in Internet e rese accessibili ai cittadini!) e senza tavole allegate; una approvazione con un solo voto contrario e l’assenza dall’aula dell’opposizione; la pubblicazione del PGT completo sul BURL, giusto in tempo per ottemperare alle scadenze imposte da un governo regionale già in caduta libera.
Strategia davvero discutibile: oltre a qualche evento di presentazione a carattere celebrativo e piuttosto retorico, che ha lasciato gran parte delle possibili questioni inevase, del PGT e dei suoi contenuti poco o nulla si è saputo; e dal recinto chiuso dei decisori e dei loro consulenti nulla è filtrato alla società civile e ai cittadini, salvo ostici e incompleti documenti di dettaglio per soli addetti ai lavori e incontri pubblici pilotati.

Il governo locale milanese ha una volta di più mostrato una modesta propensione all’ascolto e alla costruzione partecipata del piano, in un’epoca in cui tutte le grandi città europee hanno ormai fatto di queste procedure il fondamento della propria legittimazione.
Ma il nuovo Piano di Governo del Territorio ci lascia perplessi anche nel merito, e ci conferma una volta di più dell’intreccio, arduo da districare, fra politica, finanza e mattone che tanto ha nuociuto e continua a nuocere alla vivibilità urbana.
Sono davvero troppo modesti i cambiamenti rispetto alla versione Moratti/Masseroli. Qui segnalerò soltanto le criticità più rilevanti, rinviando agli articoli di approfondimento già pubblicati su eddyburg. E altri ne seguiranno.

Il nuovo PGT ha stabilito che il Parco Sud non potrà generare diritti edificatori trasferibili altrove e ha operato una riduzione dell’indice unico di edificabilità e delle quantità previste in alcune aree di trasformazione.
Ma quest’ultima misura a ben vedere più che un segnale di inversione di rotta (anche se la stampa ne ha enfatizzato la rilevanza) appare poco incisiva, data la drammatica crisi economica e del settore edilizio, e di solo buon senso a fronte di un mercato già carico di tensioni e di quote elevatissime di invenduto o sfitto. Inoltre, la indicazione ufficiale di una capacità insediativa aggiuntiva di 182.873 abitanti teorici appare comunque molto elevata. Si tratta di un incremento del 13% rispetto alla popolazione attuale, in una città dal perimetro angusto e già molto densa. E alcune verifiche puntuali in corso, che pubblicheremo su questo sito, stanno evidenziando dati assai più preoccupanti: gli abitanti teorici potrebbero essere più del doppio. Comunque, una vera assurdità!

Su altri aspetti cruciali il Piano appare molto debole, se non rischiosissimo: è privo di qualsivoglia visione di ampio respiro proiettata sul futuro della regione urbana, chiuso in una dimensione tutta milanocentrica, muto sulla disponibilità di spazi pubblici e nuove funzioni pubbliche di rilievo, evasivo sulla drammatica ‘questione delle abitazioni’ che affligge gli strati più deboli della popolazione.

Sono quattro le domande che vogliamo porre alla amministrazione milanese.

Ha senso continuare a pensare di rilanciare la città pubblica attraverso l’utilizzo estensivo, mai sperimentato altrove al mondo in un contesto urbano denso, di una perequazione urbanistica in cui “l’impiego, anche in forma frazionata, dei diritti edificatori è libero e può essere esercitato su tutto il territorio comunale edificabile” (Piano delle Regole, art. 7, comma 5)? Non solo la città pubblica non ne guadagnerà in qualità, ma si potranno determinare abnormi processi di addensamento centrale e disinteresse per bassa profittabilità di interventi sui tessuti periferici, nonché un indebito vantaggio per i proprietari di aree non centrali ai quali vengono attribuiti diritti edificatori utilizzabili ovunque e quindi anche al centro (si vedano i contributi di Camagni, Gibelli e Roccella in eddyburg).
La Giunta Pisapia si è assunta la responsabilità di avallare la versione più deregolativa possibile della già
controversa perequazione urbanistica: una versione che – ricordiamolo - la legge 12/2005 rende possibile, non certo obbligatoria.
È lungimirante ipotizzare che la qualità di Milano possa essere migliorata con un approccio meramente quantitativo? Se la scelta del mix funzionale nella città consolidata è lasciata libera (come è nel PGT milanese) e se manca una visione di futuro per la metropoli e per il suo territorio, non basterà certo una riduzione degli indici edificatori rispetto alle surreali previsioni insediative del PGT Masseroli a migliorarla. Anche se non sono questi i tempi per prevedere una spesa pubblica rilevante, non era forse possibile pensare, grazie all’ingente quantità di diritti edificatori concessi e attraverso accordi con i grandi proprietari, tra cui le Ferrovie dello Stato, di progettare e finanziare qualche nuova funzione di rilievo per Milano, per la sua area metropolitana, per la immagine internazionale?

È socialmente accettabile che l’edilizia residenziale sociale, che riceve un incremento dell’indice di utilizzazione territoriale di 0,35 mq/mq, sia obbligatoria soltanto negli Ambiti di Trasformazione Urbana e sulle aree d’intervento superiori ai 10.000 mq.? E che alla ‘vera’ edilizia economico popolare, e cioè in affitto a canone sociale, spetti la modestissima quota di 0,05 mq/mq, peraltro sempre sostituibile con altre categorie qualora l’operatore accetti l’onere della monetizzazione di una parte del “maggior ricavo” conseguito? E’ accettabile che, nel resto del tessuto urbano, la realizzazione di edilizia residenziale sociale sia unicamente affidata alla buona volontà/convenienza dei privati? A puro titolo di esempio di maggior coerenza fra obiettivi e azioni: nell’attuale PLU (Plan Local d’Urbanisme) di Parigi approvato nel 2005, e di cui il sindaco Delanoë ha fatto una bandiera del suo mandato descrivendolo come un piano che persegue la ‘rupture avec le passé’, per tutti gli interventi di nuova edilizia residenziale privata superiori a 800 mq. di superficie netta di pavimento, è obbligatoria una quota di edilizia residenziale sociale (HLM) del 25%: una misura considerata cruciale per garantire vera mixité. E nel Programme Local pour l’Habitat de Paris (2011-2016) questa quota è stata estesa anche alle porzioni più centrali e pregiate della città: il Marais e il Settimo Arrondissement).

E ancora, ha senso, per quanto riguarda il sistema della mobilità, avere ulteriormente rafforzato una progettualità tutta milanocentrica, anziché proiettata sulla regione urbana?

In conclusione

Le grandi promesse contenute nell’iniziale Documento di Indirizzo per il Governo del Territorio dell’ottobre 2011 si sono rivelate ingannevoli: “città come bene comune, concezione attiva della cittadinanza, metodo metropolitano, massimizzazione nell’housing sociale dell’affitto e, in particolare, della quota a canone sociale, mobilità dolce …” ecc. ecc…
Troppo invadente appare ancora oggi l’eredità del passato in cui Milano ha fatto da apripista e da cantiere sperimentale di tutte le controriforme urbanistiche lombarde: dalla radicale deregolamentazione volta a premiare gli interessi del mattone; alla semplificazione delle procedure al fine di sottrarre decisioni rilevanti al dibattito democratico in Consiglio Comunale; agli ampi premi concessi alla rendita fondiaria (volumetrie, monetizzazioni a prezzo di realizzo, oneri irrisori); alla propensione a evitare un diffuso e partecipato confronto con gli interessi deboli e le associazioni di base; alla opacità di procedure di elaborazione e approvazione degli atti di pianificazione sempre tese a sopire e sedare.

Preoccupante è stata la mancanza di informazione e confronto pubblico, come d’abitudine sostituita da retoriche occasioni celebrative piene di promesse anziché di contenuti.
Imbarazzante infine, come da troppi anni avviene, è stato il sostegno di parte della cultura urbanistica, e nel caso particolare del Politecnico di Milano che in passato aveva già avuto modo di distinguersi per autocensure quando non per aperto supporto alle strategie ‘innovative’ dell’urbanistica milanese.
Alla domanda di cambiamento delle regole del gioco, di coinvolgimento civico e di trasparenza, che ha costituito una delle leve potenti del successo elettorale di Pisapia si è risposto, per quanto riguarda la politica urbanistica, scegliendo la strada del minore attrito con gli interessi forti, del restyling, del business as usual.

Davvero, ci aspettavamo un’altra storia. Questo piano, che ha dovuto soggiacere a vincoli istituzionali rilevanti (veri o presunti), dovrà essere subito riconsiderato e rinvigorito per quanto riguarda beni comuni, funzioni pubbliche e apertura a una dimensione davvero metropolitana. D’altra parte, proprio la legge regionale lo consentirebbe, grazie alla sua filosofia di fondo che rende gli atti di pianificazione sempre modificabili: una flessibilità che nel breve periodo potrebbe tornare utile per porre rimedio ai difetti più vistosi di questo Piano.
Non ci resta che sperare infine che un eventuale e auspicabile futuro Presidente di una Giunta progressista al comando della Regione Lombardia si dimostri consapevole della immediata necessità di riscrivere la inaccettabile Legge di Governo del Territorio: che è tale solo nel titolo.
E basta restyling per favore!
La legge 12 ha già fatto troppi danni. Occorrerà mettervi mano e riformarla completamente!

la Repubblica e Corriere della Sera Milano, 19 dicembre 2012, postilla (f.b.)

la Repubblica
Città della salute ecco il progetto di Renzo Piano
di Gabriele Cereda

DALL’AREA dismessa dell’ex Falck di Sesto San Giovanni alla Città della salute. Un polo sanitario d’eccellenza, immerso nel verde, pronto per il 2018. Il progetto è stato presentato ieri con l’architetto Renzo Piano, che firmerà il masterplan: «Sarà — ha detto — uno dei cantieri più belli della mia vita ». Il progetto, che riunisce l’istituto neurologico Besta e l’istituto Tumori di Milano, prevede un investimento di 450 milioni. Nascerà un polo sanitario di alto livello con seicento camere, immerso in un parco di 400mila metri quadrati. Un polo sanitario d’eccellenza, immerso nel verde, pronto per il 2018: è quello che si prospetta dopo che nella notte di domenica è stato raggiunto un accordo tra il Comune dell’hinterland e la proprietaria dell’area, Sesto Immobiliare, per la cessione dei terreni su cui nascerà la cittadella.

«Al centro di tutto c’è l’uomo» ha più volte sottolineato ieri, durante la presentazione in uno dei capannoni dell’ex fabbrica, l’architetto Renzo Piano accompagnato dal governatore Roberto Formigoni. Sua la firma sul masterplan di recupero: «Sarà - ha detto - uno dei cantieri più belli della mia vita». Il progetto che riunisce l’istituto neurologico Besta e l’istituto Tumori prevede un investimento di 450 milioni garantiti da Regione Lombardia (330 milioni), da fondi statali (40) e in parte da risorse esterne (80). Verranno costruiti 850 posti auto per i dipendenti e 650 per gli utenti. Confermati i posti letto attualmente attivati agli Irccs Besta e Tumori, rispettivamente 610 e 660, per un totale di circa seicento camere.

Gli spazi sono pensati per far «dialogare costantemente diagnostica e ricerca» ha spiegato Piano; e nei sotterranei «ci sarà la macchina pulsante, le sale operatorie e i centri diagnostici. Ai piani superiori, invece, il day hospital e la degenza». L’architetto ha voluto presentare il piano di recupero sotto le altissime volte del capannone T3, «la Pagoda» come l’hanno ribattezzato i sestesi, per via di quel profilo dall’aspetto orientale che spunta davanti agli automobilisti sulla tangenziale Nord. Immersi tra i ruderi dell’archeologia industriale, e sferzati da un vento gelido rotto da decine di quelle “stufe fungo” usate per riscaldare i dehors dei locali, gli invitati hanno visto il futuro dell’area immaginato da Piano, che armato di bacchetta e aiutato da disegni proiettati su un megaschermo spiegava l’operazione di recupero.

Nel dettaglio, l’ospedale sarà composto da cinque padiglioni di tre piani, alti solo 18 metri e immersi nel verde: «Tutto attorno si estenderà un parco di 400mila metri quadri, perché un grande ospedale è giusto che stia in mezzo al verde». Nel progetto figurano diecimila alberi: tigli, aceri, querce. Le stanze ospiteranno solo due pazienti e tutte avranno la zona pranzo affacciata direttamente sui giardini. C’è anche l’idea di lasciare spazio per un orto dove produrre ortaggi e frutta. Per il tetto, poi, si sta pensando a diverse soluzioni: una prevede di piantare graminacee in grado di ridurre le radiazioni solari, l’altra invece privilegia l’installazione di pannelli solari per abbassare il consumo energetico.

Accanto alla Città della salute verrà costruita la nuova stazione di Sesto e, sottolinea l’architetto, sarà una stazione a ponte, dove passeranno sia treni che metropolitana ». A unire il tutto, un viale lungo 120 metri. Entro gennaio 2013 è previsto l’avvio delle procedure di gara; a primavera 2014, conclusa la bonifica a carico dell’attuale proprietà, l’avvio del cantiere ed entro la fine del 2017 la conclusione dei lavori. Per arrivare al secondo semestre del 2018, quando il nuovo ospedale accoglierà i primi pazienti.

Corriere della Sera
Un ospedale nel verde Ecco la Città della salute disegnata Renzo Piano
di Simona Ravizza

La Città della salute — in progetto a Sesto San Giovanni per unire l'Istituto dei tumori e il neurologico Besta — sarà realizzata sulla base delle linee guida indicate dall'architetto Renzo Piano. Così su una delle più grandi aree industriali d'Europa, la ex Falck, è destinato a sorgere l'ospedale-modello ideato dall'archistar. Una struttura articolata solo su tre piani (più uno sotterraneo), alta non più di 18 metri, che tiene insieme il meglio degli ospedali dell'Ottocento costruiti a padiglioni e le realizzazioni del Novecento a monoblocchi. Un ruolo fondamentale lo giocheranno gli alberi: «Sono la metafora della guarigione, io ne ho previsti 10 mila — spiega Piano, 75 anni —. Tutto sarà pensato per mettere al centro il malato. Persino il tavolo delle stanze, dove il paziente mangia, non sarà collocato in un angolo contro il muro, ma in una sorta di bovindo affacciato sul verde esterno. E, in generale, l'altezza delle costruzioni non supererà quella degli alberi».

L'area in gioco, per dimensioni, vale 500 campi da calcio. Il progetto dell'ospedale-modello è lo stesso che Piano aveva presentato nel marzo 2001 al Sant'Anna di Roma, insieme con l'allora ministro della salute Umberto Veronesi. Adesso il sogno dell'architetto può diventare realtà. Nella gara d'appalto per la progettazione e la costruzione della Città della salute saranno recepite le indicazioni di Piano. «Sarò il custode e il guardiano della realizzazione dell'opera», sottolinea l'architetto che ieri ha illustrato le sue idee proprio nell'ex area Falck (il cui progetto complessivo di riqualificazione è firmato proprio da lui). «Sarà il cantiere — azzarda Piano — più bello della mia vita».

Presenti all'evento, sotto il suggestivo scheletro d'acciaio del vecchio laminatoio, anche il governatore Roberto Formigoni, il sindaco di Sesto Monica Chittò, i presidenti dei due istituti Alberto Guglielmo (Besta) e Giovanni De Leo (Tumori). È l'occasione per fare il punto sull'avvio dei cantieri che prevedono un investimento da 450 milioni di euro (di cui 330 a carico della Regione Lombardia, 40 dallo Stato e 80 da privati). È imminente — come annuncia il sindaco di Sesto Monica Chittò — la firma della convenzione urbanistica con Sesto Immobiliare per il passaggio di proprietà dell'area, e di conseguenza l'intesa Sesto-Regione per la cessione a quest'ultima dell'area bonificata. L'avvio delle procedure di gara è previsto per gennaio. I tempi tecnici considerati nel cronoprogramma segnano come tappe il 2014 per la fine delle bonifiche ambientali e l'avvio del cantiere, il 2017 per la fine dei cantieri, il 2018 per il collaudo e il trasloco. In mezzo, però, ci sarà il cambio alla guida della Regione Lombardia, travolta dalle inchieste giudiziarie. L'ultima è di ieri.

Postilla

Su eddyburg basta cercare – e neppure senza troppa attenzione - nelle pagine milanesi per trovarne dozzine, di articoli che davano ormai in dirittura d’arrivo la vicenda della cosiddetta Città della Salute. A quest’ultimo riaffiorare della faccenda, guarnita dalla potenza comunicativa del workshop Renzo Piano (a cui la benedizione del discutibile Formigoni non fa proprio benissimo) si possono se non altro porre un paio di questioni, proprio a partire dalle ultime battute: le bonifiche ambientali e il cambio di guida alla Regione. Durante le primarie di quello che presumibilmente sarà lo schieramento al governo nella prossima legislatura, e che dovrebbe gestire la nascita delle cittadella, il fortissimo candidato Andrea Di Stefano ne ha più volte criticato la localizzazione nell’area dismessa industriale proprio per la questione bonifiche: costi spropositati, e incertezza sui risultati, col rischio o di trascinare la faccenda all’infinito, o anche peggio di non garantire affatto un contesto pulito per il cosiddetto fiore all’occhiello della sanità. Meglio, e questa è anche l’opinione di tanti, tantissimi operatori sanitari (ovvero più interessati alla salute che alle cittadelle), riorganizzare le sedi attuali riqualificando e ricostruendo. Il che si mescola anche ad alcune ottime ragioni pure in fase evolutiva, e che riguardano il territorio metropolitano: ha senso ed equilibrio continuare con la concorrenza fra cordate locali, il caso per caso, il vagare continuo, dei grandi poli di servizio, vuoi per la salute, vuoi per la ricerca, l’istruzione ecc. ecc. Proprio la prospettiva di un governo che teorizza meno l promozione degli interessi particolari, dovrebbe far riflettere, nel metodo se non nel merito specifico. Per adesso, dietro la scintillante comunicazione dello studio dell’archistar, c’è solo in trionfo di una serie di soggetti, e la sconfitta sostanziale della città, se non ancora della salute (f.b.)

Corriere della Sera Milano, 14 dicembre 2012, postilla (f.b.)

Continua e si allunga il viaggio dei ciclisti in metrò. La convivenza con gli altri passeggeri s'è dimostrata pratica e indolore, l'urto è stato assorbito, i treni sopportano il carico delle due ruote, il «traffico» nei vagoni è risultato gestibile e l'Atm non ha ricevuto reclami. In sintesi, lo stress-test è superato: «La sperimentazione del trasporto bici sulle linee 2 e 3 della metropolitana riprenderà il 7 gennaio, dopo la pausa festiva concordata con le associazioni — fa sapere l'Atm —. E dalla primavera estenderemo il servizio sulla M1 e su alcuni tram».

Soddisfatto Eugenio Galli, 46 anni, presidente di Fiab-Ciclobby dal 2004: «È un segnale importante per la città». Il progetto è partito il 25 ottobre. Ed è stato promosso. La dirigenza di Foro Buonaparte ha aperto una «finestra bici» nella fascia oraria centrale di servizio della «verde» e della «gialla»: accesso libero in metrò dalle 10.30 alle 16 (oltre che dall'alba alle 7 e dopo le 8 di sera). L'integrazione al regolamento era stata sollecitata dalla Milano che pedala (categoria in espansione, che reclama più spazio e diritti) per incentivare gli spostamenti e favorire i percorsi misti (su e giù dal sellino con una corsa di passaggio sul mezzo pubblico). La linea «rossa» è stata esclusa, nella prima fase, per consentire ai tecnici Atm di completare il monitoraggio del nuovo sistema di sicurezza che regola il traffico in galleria e mantiene le distanze fra i treni: la M1 sarà aggiunta alla sperimentazione del «trasporto-bici» dopo la Pasqua del 2013, assieme ad alcuni tram (tra le ipotesi: il 4, il 15 e il 31).

Il via libera alla «Fase 2» è arrivato al terzo incontro del Tavolo della ciclabilità istituito dall'azienda con i rappresentanti di Ciclobby e «Salvaiciclisti». I temi: trasporti integrati e raccordo tra i sistemi di care bike sharing. «Abbiamo ricevuto segnali concreti e incoraggianti, dalla nuova dirigenza, dopo troppi anni in cui è stato difficile anche solo abbozzare un confronto — commenta Eugenio Galli —. È interesse di tutti che il servizio possa crescere e migliorare, ma serve la collaborazione e il buon senso da parte di tutti. Del personale Atm, certo, ma anche degli utenti». Tra i «segnali positivi», conclude Galli, ci sono anche le rastrelliere alle stazioni del metrò. Gli ultimi dieci stalli per le bici sono stati posizionati nel parcheggio d'interscambio di San Leonardo, sulla linea «rossa».

Per oggi, intanto, è stato indetto uno sciopero del trasporto locale dalla segreteria nazionale del sindacato Fast-Confsal: a Milano l'agitazione è prevista dalle 8.45 alle 15 e dalle 18 in poi, ma non dovrebbe provocare grossi disagi. Il Comune non spegne Area C: telecamere accese dalle 7.30 alle 19.30 e ticket da 5 euro per l'ingresso delle auto nella cerchia dei Bastioni.

Postilla
Ecco spuntare piccola piccola un’interpretazione progressista del concetto di joint-venture pubblico-privata, ovvero dove entrambe le parti fanno il proprio mestiere, e non (come ci hanno insegnato anni di disastri per tutti, salvo che per le casse di qualcuno) con la collettività che paga e gli interessi particolari che intascano. Per far circolare la linfa umana che trasforma le città da scatole vuote, più o meno eleganti e chiaroscurali, in organismi vivi, ci vuole intelligenza, o per essere alla moda proporre una smart city, dove smart non sta a significare qualche tavoletta elettronica lampeggiante, ma intelligenza diluita anche al di fuori delle teste che la producono, e innaffiata sul territorio urbano. Allora non nuovo cemento (non solo, almeno) per fare piste ciclabili, o corsie riservate, o sovra o sottopassi, ma reti materiali e immateriali lungo cui muovere e muoversi, usando i luoghi anziché produrne doppioni sprecando risorse naturali e intellettuali. Ci voleva tanto? Evidentemente si (f.b.) Sull’idea di smart city contemporanea, si veda anche QUI

Corriere della Sera Milano, 29 novembre 2012, postilla (f.b.)

La recentissima pubblicazione degli atti del nuovo Piano di governo del territorio conferma una gradita sorpresa per tutti coloro che si sono dichiarati favorevoli alla riapertura dei Navigli (95 per cento dei votanti) in uno dei referendum ambientali del 2011. Accogliendo le numerose osservazioni formulate da cittadini e associazioni, la giunta ha proposto e il consiglio ha approvato l'inserimento del tracciato degli storici Navigli come ipotesi di possibile riapertura.
Dopo 130 anni e cioè da quando Cesare Beruto cancellò dal Piano di Milano (1884) così larga parte dei Navigli, riappare in una planimetria urbanistica della città quel segno d'acqua storico.

Così è possibile oggi pensare ad un progetto di fattibilità della riapertura dei Navigli come elemento nuovo e qualificante di una stagione urbanistica diversa che emblematicamente cambia il suo orizzonte: dalla spinta incontrollata all'edificazione e alla densificazione, alla cura per la qualità urbana e del vivere quotidiano. L'idea è quella di stendere sulla città lo storico sistema di canali, lungo i tracciati della Martesana in via Melchiorre Gioia e sulla Cerchia dei Navigli dal Ponte delle Gabelle sino alla Darsena, passando per i luoghi più belli di Milano. Una via d'acqua navigabile per battelli di ridotte dimensioni di trasporto pubblico, collegata al tema più generale della navigabilità dal lago di Como al Ticino, come da anni sostengono l'architetto Empio Malara e l'Associazione Amici dei Navigli. Un progetto fattibile, disegnato via per via, in grado di salvaguardare i diritti dei residenti affiancando sempre al naviglio una strada di servizio e soprattutto una pista ciclabile che magicamente potrebbe congiungere Ticino e Adda con il centro di Milano.
Niente a che vedere con la nostalgia del passato, ma anzi progetto per il futuro, capace di collegare storia e innovazione (basti pensare alle risorse energetiche derivanti dai salti d'acqua e dalla possibilità ad esempio di usare gli scavi per realizzare un possibile anello del teleriscaldamento per il centro della città). Le obiezioni principali riguardano essenzialmente l'impatto che la riapertura dei Navigli avrà nei confronti del traffico e della viabilità e i costi della realizzazione.

Ma, sulla questione del traffico, Area C e prima ancora Ecopass, non avevano e hanno per obiettivo la riduzione del traffico veicolare privato nel centro storico e un invito per tutti a usare i mezzi pubblici per giungere nel suo centro? La riapertura dei Navigli potrebbe costituire un elemento fondamentale per centrare l'obiettivo garantendo al contempo la fluidità degli spostamenti essenziali (residenti, carico e scarico merci e emergenze, mezzi pubblici). Sulla sostenibilità finanziaria di un intervento di questo tipo, considerando la questione da un punto di vista più ampio, bisogna saper collegare i costi ai benefici economici che deriveranno dal rilancio turistico di Milano e dalla sua maggiore attrattività e competitività nell'ambito europeo. Un progetto di questo tipo può radicarsi solo attraverso una progettazione partecipata che è d'obbligo quando la città chiede a chi la abita di modificare le consuetudini di vita. La posta in gioco è molto alta ed è in grado di rendere la Milano di domani ancora più bella e vivibile.

Postilla
Se, come sostengono le obiezioni alla riapertura dei Navigli, ci saranno degli impatti sul traffico e la mobilità, non si può trattare altro che di impatti positivi, e proprio per via del rapporto strettissimo fra assetto spaziale e circolazione. Basta ricordare a quali eventi e circostanze corrispondono i due ripristini citati da Boatti: il collegamento fra ponte delle Gabelle e Darsena attorno al centro storico, e l’asse della Martesana attualmente tombato sotto la via Melchiorre Gioia. Nel primo caso la copertura avviene proprio all’alba dell’automobilismo trionfante a cavallo tra gli anni ’20 e ’30, e basta leggere gli articoli dei giornali paralleli al dibattito sul piano in formazione di Cesare Albertini per intuire quanto l’auto sia il sottofondo naturale di tutte le riflessioni sulla nuova città dai parcheggi alle direttrici al nuovo ruolo delle piazze. Nel secondo caso risulta ancora più vistoso, il legame tra la tombatura della Martesana e certa cultura modernista auto-oriented del secondo dopoguerra, visto che attorno all’asse di via Melchiorre Gioia si organizza il cosiddetto Centro Direzionale, intersecato all’altra direttrice automobilistica di viale della Liberazione, che oggi sono il fulcro del cosiddetto quartiere Porta Nuova (quello del Formigone, del Bosco Verticale e compagnia bella). Ben venga dunque, almeno nelle intenzioni, una marcia indietro nella costruzione della città automobilistica: sarà un passo avanti per tutto il resto, naturalmente coordinando le politiche (f.b.)

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