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In in recente articolo pubblicato sulla rivista online Arcipelago Milano il collega e amico Marco Ponti, nel quale ho moltissima stima per l’onestà intellettuale e la generosità con la quale mette il suo sapere al servizio delle cause giuste, nell'articolo "chi paga è irrilevante: paga il principe"ha sostenuto la necessità di guardare alle proposte in materia di mobilità (è il suo specialismo) in termini massimamente razionali, sforzandosi di superare i luoghi comuni e le apparenze. E’ un atteggiamento che condivido. Però mi sembra criticabile chiudersi nel recinto di un solo settore della realtà. Avrei voluto limitarmi a chiosare l’articolo di Marco con una breve postilla, ma poi la penna mi è sfuggita ed è nato questo articolo

Marco Ponti conclude il suo articolo con queste parole:«Ma già, dimenticavo: cosa importa chi paga? Decide il principe….». D’accordo Marco. Ma su che base deve decidere il principe? Se fossi il principe mi rifiuterei di decidere in relazione a un solo settore senza considerare il resto del mio dominio. Se fossi il principe , e fossi anche saggio, saprei che certi capitoli del mio bilancio saranno in deficit e altri in attivo. Se fossi il principe, e anche un economista, saprei che l’importante è che sia in pareggio il bilancio nel suo complesso. Se fossi il principe saprei anche che una parte dell’attivo del bilancio è costituito dalle tasse. Se fossi un principe che vuole essere equo, quindi privilegiare i più deboli saprei che alcuni capitoli del bilancio saranno in passivo, e non solo parchè bisogna essere buoni e fare beneficenza ai poveri ma perché ci sono determinati diritti che devo rispettare(diritto a un’abitazione adeguata, all’istruzione, alla salute e così via); per tutti, e non solo per chi può ricorrere al “mercato”. Se fossi il principe saprei che nel bilancio che mi propongono i miei contabili ci sono spese che non servono per garantire i diritti della maggioranza dei cittadini. Ernesto Nathan, che prima di essere sindaco di Roma agli inizi del secolo scorso era assessore al bilancio , spulciando i bilanci degli esercizi precedenti scoprì che c'era un cespite troppo oneroso in relazione al resto: le spese per l’alimentazione dei gatti del Campidoglio. da buon politico (di quei tempi) esclamò: non c’è trippa per gatti e depennò la voce relativa. Forse se fosse principe oggi direbbe: “non c’è trippa per gli armamenti”

Infine, se fossi principe saprei che secoli fa, per far quadrare il bilancio, hanno inventato le tasse: cioè il prelievo di una parte della ricchezza che alcuni hanno accumulato. Poiché sono un principe, saprei che posso decidere se prelevare dalla ricchezza dei meno dotato (da cui posso spremere poco, ma sono tanti) o dai più dotati (che sono pochi, ma ciascuno dei quali ha tanto o tantissimo). Insomma, hai capito dove voglio andare a parare. Pensiamo non solo alla tassazione dei grossi patrimoni privati (la nostra Costituzione non parla di “progressività”) ma pensiamo anche che, oltre allatassazione dei redditi da lavoro o da profitto (cioè dall’attività imprenditoriale) ci sono anche i rdedditi che non derivano da nessuna attività socialmente utile. Poiché, sei un economista sai che sto parlando della rendita. Mettiamo anche questa, e la sua tassazione, nelle voci attive del bilancio di un principe equo.

E per finire davvero, caro Marco, poiché sono un urbanista devo fermarmi su un punto particolare del tuo articolo. Tu dici: « A proposito di socialità, come si può ignorare la ricerca del CENSIS sui pendolari, che testimonia che il 10% va in treno, il 20% in bus, e il 70% in auto, ma non solo: gli operai vanno molto di più in auto, gli impiegati e gli studenti, lavorando e studiando in aree più centrali, usano molto di più i mezzi pubblici. L’argomentazione che con i soldi pubblici si potrebbe fornire più servizi anche alla mobilità operaia, e più in generale nelle aree a bassa densità, è indifendibile: per motivi di reddito, infatti gli operai risiedono e lavorano in tanta malora (cioè generano una mobilità estremamente frammentata), che non è servibile dai trasporti collettivi se non in piccola parte». Poiché sono, come dicevo, un urbanista, so anche che il fatto che l’operaio e l’impiegato siano obbigati a utilizzare l’automobile e non il tram o il treno dipende dal fatto che l’insediamento sul territorio è stato organizzato male: certo anche per colpa degli urbanisti, ma anche dai pruncipi succubi di una certa idea dell’economia. Perciò, se fossi un principe mi adopererei perché olti bravi urbanisti lavorassero, con tutti gli altri attori della vita cittadina, perche l’habitat dell’uomo venisse organizzato per il ben-vivere, e non per arricchire gli usurpatori del bene comune chiamato terra.

Gli autori, dichiarandosi completamente d’accordo con l’eddytoriale n.156, ci inviano note su due questioni: l’assenza, nel documento sulle politiche urbane del governo Monti, di una visione territoriale della questione urbana, e le scelte perverse in materia di regime degli immobili.

Considerazioni critiche e proposte, riguardanti il documento:
Comitato Interministeriale per le Politiche Urbane.
Metodi e Contenuti sulle priorità in tema di Agenda Urbana.

Nota dominante del Documento è la volontà di perseguire una politica nazionale delle e per le città, aderendo all’istituzione della “provincia metropolitana”, di cui alla Legge 192/1990, modificata con l'articolo 23, comma 6 della legge 42/2009, in base al quale il Governo è delegato ad adottare, entro 36 mesi dalla data di entrata in vigore della legge (e cioè entro il 21 maggio 2012), un decreto legislativo per l’istituzione delle città metropolitane.E’ certo importante che l’amministrazione centrale, dopo anni di assenza, formuli una politica nazionale di attenzione nei confronti dei centri urbani. L’assenza di qualunque indirizzo in merito ha infatti contribuito al prevalere di una lunga pratica di provvedimenti episodici, di contraddizioni e di sprechi, tutti all’insegna delle politiche urbane, fondate sulla competizione sregolata fra le maggiori città del paese e fra queste e le città dell’Europa.

Il Documento non sembra però voler uscire da detta pratica; in primo luogo si rifà (pagina 4) alla recente istituzione del Comitato Interministeriale per le Politiche Urbane (articolo 12-bis, legge 7 agosto 2012, n. 134). Quel provvedimento è chiaramente ritagliato sulle caratteristiche dei grandi comuni, per i quali sono evidenti sia l’episodicità degli interventi ammessi che l’incentivo alla prosecuzione della destrutturazione degli strumenti urbanistici: ad esempio la legge per le Politiche Urbane ammette come normale la possibilità di avvalersi della “premialità”[1], posta fra i criteri, in base ai quali ha avviato la raccolta delle proposte dei comuni.

Al di là delle modalità, attraverso le quali si preveda di operare, appare discutibile concentrare l'attenzione prevalentemente sui grandi centri, senza chiarire:
(1) cosa si debba intendere oggi per “città”, alla luce di processi di ampia diffusione dell’urbanizzato, documentati da alcune poche ricerche di rilievo nazionale;
(2) quale sia oggi la realtà di numerosi centri urbani, ove da un lato si registra la diffusione degli insediamenti abitativi, la concentrazione delle funzioni direzionali nelle località centrali (spesso coincidenti con i settori storici delle principali città italiane), la distribuzione dei flussi di mobilità, addirittura in ambito regionale, mentre nel contempo si deve prendere atto dell’accantonamento non motivato dei tentativi a suo tempo (anni ’60 e ’70 del secolo scorso) messi in atto in città quali ad esempio Roma o Torino, di innescare assetti regionali, basati su forme di policentrismo dei nodi più rilevanti, sedi auspicate di nuove ubicazioni periferiche, a servizio delle più forti funzioni centrali, di rilievo sia locale che nazionale.

Il documento fa inoltre riferimento (nel capitolo n. 4) al Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR), evidenziando come si stia per esaurire il Fondo 2007-2013, e contemporaneamente si stia per aprire il successivo (2014-2020). Tuttavia mentre il Fondo, per ragioni di ordine istituzionale, dovrebbe operare per «ridurre lo scarto esistente fra i vari livelli di sviluppo delle regioni europee e .. consentire di recuperare il ritardo accumulato dalle regioni meno favorite», il Documento non accenna ad alcun bilancio circa l’eventuale incidenza di tale Fondo (assieme ovviamente ad altre risorse nazionali, che pure furono annunciate) sulla realtà ad esempio del Mezzogiorno d’Italia. Il silenzio del Documento non può far dimenticare che negli ultimi anni il divario[2] fra Nord e Sud d’Italia e fra quest’ultimo e le altre regioni d’Europa appare ingigantito.

Non solo, ma una serie di questioni attendono soluzioni e interventi, mentre si prosegue in direzione di provvedimenti episodici, senza che alcuno, a livello nazionale, operi il bilancio delle scelte compiute e quindi ricerchi indirizzi e politiche equilibrate. Il Fondo europeo citato atterra nelle varie realtà, prevalentemente metropolitane (anche in conseguenza dei criteri con i quali è nato) secondo scelte, che, con il metodo della programmazione, poco o nulla hanno a che vedere.

E’ condivisibile che occorra mobilitare l’intervento dello stato, proposto dal Documento, da svolgere tuttavia in altri termini e per altri fini, rispetto a quelli invocati: privilegiare i grandi centri urbani. Com’è possibile, ad esempio, intervenire sul sistema dei trasporti nelle grandi aree urbane, senza coinvolgere (almeno in termini di ripartizione delle risorse) il sistema dei trasporti nella sua organizzazione complessiva, all’interno, o accanto alla quale, si colloca l’insieme delle reti di trasporto delle grandi città?

La stessa “vexata questio” relativa alla TAV o TAC treno ad alta velocità (o capacità, dilemma per altro mai chiarito), che, previsto e in parte attuato in corrispondenza del “canale cinque”, accompagnato da anni dal travaglio delle forze politiche nazionali e delle popolazioni, di fatto attiene ad una logica di organizzazione dei trasporti, che, per essere correttamente stimata ed eventualmente posta in attuazione, dovrebbe investire la realtà economica, sociale e territoriale, così come le risorse disponibili, di ampi settori della pianura padana. Esempio significativo del comportamento episodico ed improvvisato dello Stato centrale è rappresentato dal fatto clamoroso (per l’entità delle risorse coinvolte e in parte anche spese), relativo alla scelta da tempo compiuta di realizzare il famigerato ponte sullo Stretto di Messina. Per lunghi anni, sempre in modo altalenante, si è deciso, senza il sostegno di alcuna motivazione argomentata, di intraprendere l’avventura (e che avventura!), ora revocata (per sempre?).

In ogni caso, senza ricercare l’elenco completo dei temi e dei problemi, che travagliano il Mezzogiorno d’Italia, l’ambiente, l’economia, la società, non si può tuttavia ignorare che l’esigenza di intervenire e governare con logiche coerenti, attiene a tutte le grandi questioni: il risparmio energetico, come la ricerca di fonti alternative, la stabilità delle terre, il governo delle acque, le grandi dorsali dei trasporti nazionali/europei, l’ammodernamento dei porti, connesso con il potenziamento del trasporto delle merci via terra/via acqua, ecc. Affrontare nell’insieme, questi temi, scegliendo priorità e obiettivi, non conduce forse alla già negletta disciplina della programmazione? Forse non negli stessi termini del passato, quando dal centro pareva soprattutto che ci si dovesse attenere alla allocazione di risorse, i cui effetti erano spesso stimati sulla base di strumenti econometrici, ignorando non di rado le realtà locali, le loro capacità di intervento e di spesa, la presenza eventuale della criminalità organizzata ecc.

Il metodo della programmazione è certo da aggiornare, anche alla luce delle esperienze, condotte per la formazione dei programmi europei. Non pare in ogni caso accettabile che si continui, come operato ormai da circa 25 – 30 anni, a concentrare risorse nei grandi centri urbani, individuati come i luoghi deputati per la ripresa dell’economia nazionale, sollecitati inoltre verso forme immotivate di competizione, nei confronti sia dei centri nazionali, che di quelli d’oltralpe.

La questione della rendita

Una seconda questione percorre il Documento: la rendita urbana, seppure in modi non approfonditi, emergendo in vari punti, incidendo in termini più o meno diretti su molti dei contenuti, esposti nei paragrafi, che articolano le cosiddette “Macro aree di interesse” (di cui alla pagina 10).

In modi espliciti la rendita è invocata principalmente alle pagine 6, 19 (la socializzazione della rendita), 22 (la perequazione) del Documento; ma a ben vedere essa è presente con effetti non marginali, nella trattazione dei seguenti argomenti: la dispersione insediativa (residenziale e industriale), il consumo di suolo, la congestione dei sistemi urbani, il recupero e il rinnovamento del patrimonio edilizio, con particolare attinenza alle “densità”, le politiche abitative per strati sociali a basso reddito, l’integrazione o comunque il controllo del patrimonio edilizio pubblico/privato. Pertanto la seconda parte della presente nota tratta esclusivamente degli argomenti sopra elencati, con riferimento al punto 3.3.1 (Riqualificazione urbana), di cui a pagina 18. Di seguito, si cerca di evidenziare le carenze e le contraddizioni, che paiono emergere, ove non si ponga mano alla acquisizione pubblica dei valori di rendita, in termini radicali.

Riqualificazione urbana, paragrafo 3.3.1

Il consumo di suolo (pag. 18), inteso come bene comune. La definizione dei perimetri, all’interno dei quali concentrare gli interventi, necessari per la riqualificazione degli insediamenti, assume un ruolo importante per porre freno all’espansione illimitata degli abitati ed appunto al consumo dei suoli già agricoli o comunque non urbanizzati. Prescindendo dal fatto che il controllo pubblico della rendita, avrebbe l’effetto dirimente di togliere di mezzo la spinta fondamentale all’occupazione indifferenziata del suolo, da sempre fondata sulla rincorsa alla valorizzazione progressiva, possibilmente di tutti i suoli, anche di quelli marginali, rimane comunque il fatto che in ogni caso, all’interno dei perimetri di contenimento dell’espansione, l’esigenza di rinnovo urbano si fonda di norma su due aspetti fino ad ora irrisolti: la mancanza, ovvero l’estrema difficoltà, di reperire gli spazi necessari per i servizi pubblici (specie negli aggregati già edificati ad alta densità); l’incremento delle densità di edificazione, che a sua volta si traduce in carenza di spazi, ecc. Il controllo della rendita da parte della mano pubblica presenterebbe pertanto il vantaggio di poter progettare gli eventuali interventi sulla base dell’equilibrio fra insediamenti e spazi pubblici, attenuando l’assillo, derivante dalla ricerca degli equilibri economici privati, che, in questi casi, inducono a incrementi di densità con le conseguenze ben note.

Perequazione urbanistica

La socializzazione della rendita (pag. 19), altrimenti denominata perequazione urbanistica (pag. 22). In primo luogo l’argomento appare svolto in termini assai contraddittori. Infatti in parte della trattazione (pag. 19) si direbbe pienamente accolto il principio della cooperazione pubblico privato (“moduli consensuali di cooperazione”), che indurrebbe appunto alla “socializzazione della rendita”, sulla base di iniziative delle amministrazioni pubbliche alla ricerca del consenso dei privati.

A ben vedere le “iniziative”, di norma, sono assunte non dalle amministrazioni pubbliche, in conseguenza di progetti definiti di assetto urbano, ma al contrario a seguito di sollecitazioni private, volte alla valorizzazione delle proprietà immobiliari; in ogni caso pare di capire che qui il Documento faccia riferimento alla ripartizione dei valori di rendita fra la proprietà privata e la mano pubblica, sotto varie forme, ampiamente sperimentate nella realtà amministrativa italiana. La ripartizione si traduce di norma nella cessione di aree, da destinare ai servizi pubblici (gli standard, spesso assai falcidiati nel corso delle trattative) o al versamento di risorse monetarie a favore degli enti locali, o ancora nel mettere a disposizione delle amministrazioni beni, quali quote di alloggi destinati ad affitti concordati per strati sociali disagiati; il tutto in entità e termini di volta in volta determinati con criteri contrattati e variabili, anche sulla base di valori monetari (di rendita), funzione di localizzazioni, più o meno “centrali” (e quindi più o meno remunerative), degli intorni urbani interessati. Questa prassi si direbbe individuata dal Documento in termini positivi, tanto da essere valutata come “la maggiore innovazione che ha interessato l’urbanistica con riferimento al complesso della legislazione nazionale e a quella delle legislazioni regionali”, avendo comportato “la trasformazione del suo (riferito all’urbanistica) carattere fondamentale che è passato da una natura fortemente autoritativa – conformativa alla individuazione di modelli organizzativi basati sulla ricerca di accordi fra pubblico e privati e fra gli stessi soggetti pubblici letti, in alcuni casi, come derogatori della normativa vigente” (pag. 19).

Sulla base del giudizio positivo, espresso nei confronti di tale “maggiore innovazione”, il Documento (pagg. 19-20) sente la necessità di trarre una conclusione “straordinaria”, giungendo perfino a richiedere di abbandonare il termine di “urbanistica contrattata”, battezzando la prassi descritta con i termini innovativi di “urbanistica concertata o consensuale”. Di qui il riconoscimento che il contesto più favorevole per adottare la pratica dell’urbanistica concertata o consensuale appare quello della rigenerazione, della riconversione, della riabilitazione, del recupero, della trasformazione degli ambiti urbani, dando forse per scontato che non si debba più avere a che fare con i processi di espansione urbana (auspicio, a ben vedere, tuttaltro che consolidato).

Quindi, sollevati alcuni quesiti importanti del tipo “come tutelare l’interesse pubblico?”, tenuto conto e della prevalenza della proprietà privata in campo immobiliare e della scarsità marcata delle risorse pubbliche, pare che si pervenga, attraverso ad alcuni passaggi (non tutti consequenziali) al riconoscimento della necessità “di elaborare una politica nazionale delle città e di individuare un luogo di allocazione di tale politica” (pag. 21). Segue l’ipotesi eventuale di mettere mano all’elaborazione di una legge nazionale di governo del territorio, senza che il Documento senta l’opportunità di accennare alla storia ad un tempo gloriosa e dolorosa dell’urbanistica italiana (anni ’60 e 70’ del secolo scorso), entro la quale sono forse da ricercare le ragioni non ultime dell’attuale incertezza e contraddittorietà dell’urbanistica stessa. In ogni caso quella strada sembra doversi accantonare anche per non confliggere con la legislazione delle regioni, la quale, ormai “diffusa e consolidata”, qualora rimessa in discussione, potrebbe innescare un non auspicabile conflitto Stato - Regioni.

A questo punto il Documento (pag. 22) ritiene indispensabile “una legge [...] che determini il contenuto del diritto di proprietà immobiliare sotto il profilo del suo contenuto minimo, ai fini della distinzione tra vincoli espropriativi e semplicemente conformativi, e sotto il profilo dello scorporo della facoltà di edificare, ai fini di dare un fondamento legittimo alle leggi regionali sulla perequazione.” Due sono le questioni che la nuova legge invocata deve affrontare e risolvere: lo scorporo della facoltà di edificare e dare fondamento legittimo alla “perequazione”, praticata dalle regioni. Lo “scorporo della facoltà di edificare” si direbbe trascinarsi dietro il complemento indispensabile: “dal diritto di proprietà immobiliare”. Una questione da poco! Siamo nel bel mezzo del tentativo, operato con la Legge 10/1977, rimasta in vigore per alcuni anni e alla fine colpita al cuore dalla Corte Costituzionale con la nota Sentenza n. 5 del gennaio 1980. Quella Sentenza sancì che, malgrado la buona intenzione, la legge 10 non aveva operato alcuno scorporo e di conseguenza introduceva nel comportamento degli enti pubblici (Stato, Regioni, Comuni) disparità di trattamento fra proprietà interessate da esproprio o comunque dalle conseguenze dello scorporo presunto, e proprietà, libere di disporre del proprio bene.

La questione, come tutte le questioni di incidenza reale, ha la testa dura e quindi è tuttora lì, in attesa della risoluzione, ove si persegua quella finalità (scorporare ecc.). Il Documento però non accenna a quale sia la strada da seguire per un compito tanto impegnativo. Al contrario, invoca tale nuova legge per dare “fondamento legittimo alla perequazione”, aprendo così alcune contraddizioni.

In primo luogo non si capisce quale possa essere la differenza fra la “perequazione”, qui invocata, e la “socializzazione della rendita”, di cui a pag. 19. Si tratta in entrambi i casi, senza operare scorporo alcuno, di «contrattare», o meglio di «concertare» al fine di attribuire alla proprietà privata la rendita, in cambio della cessione di aree per servizi pubblici o di altre entità (come sopra accennato), a favore della collettività, così come esposto alla stessa pagina 22, ove si ricorda che «la perequazione è pratica diffusissima sia con finalità di incentivo alla qualità ambientale e architettonica e ancor più con finalità di compensazione, cioè come mezzo di acquisizione di aree senza esproprio, mediante cessione gratuita ottenuta attribuendo nuova cubatura (o nuova superficie di pavimento) da utilizzare su altra area». In secondo luogo, appena valutata positivamente, la perequazione è subito investita da dubbi di legittimità (nella stessa pagina 22).

Alla fine non si comprende quale sia la strada da battere, se non «la sperimentazione di strumenti di intervento che sappiano coniugare… le valenze e i contenuti di una urbanistica conformativa con quelli propri degli strumenti strategici: da una parte, i criteri e le regole per la qualificazione fisica, dall’altra le condizioni per possibili obiettivi di rilancio economico e sociale dei centri urbani oggetto di intervento». In sostanza la questione sopra esposta sfuma rapidamente in altre questioni tuttaltro che limpide, difficilmente riconducibili al nodo centrale.

A conclusione di quanto osservato sulla “perequazione”, si ritiene di dover esprimere un giudizio assolutamente contrario in termini definitivi e inappellabili. La perequazione è nata come estensione della possibilità/opportunità, contenuta nell’articolo 23 (Comparti edificatori) della Legge urbanistica del 1942, successivamente abrogato. Il significato originario della logica pianificatoria, prendendo le mosse dal piano regolatore, progetto di assetto del territorio comunale, di totale responsabilità della pubblica amministrazione, individuava i piani particolareggiati quali strumenti unici di attuazione del piano, a loro volta oggetto dell’intervento coordinato delle proprietà. Queste, rette in consorzio, potevano avvalersi del comparto edificatorio per giungere all’attuazione del piano, anche attraverso l’esproprio delle proprietà non aderenti, se minoritarie, rispetto all’imponibile catastale dell’intero comparto. In sostanza le scelte di piano (nelle quantità, nelle destinazioni, nel corredo dei pubblici servizi), erano attribuite totalmente al Comune, il quale aveva l’obbligo di ordinarle in un progetto del territorio, da attuare eventualmente con il concorso delle proprietà o attraverso la loro piena assunzione di responsabilità mediante lo strumento del comparto. Questa logica pianificatoria nel tempo, in particolare dai terribili anni ’80 è stata progressivamente destrutturata. Oggi si giunge alla conclusione: la perequazione urbanistica svolge un ruolo totalmente rovesciato, rispetto alla logica sopra sintetizzata. Essa, soprattutto nei casi, nei quali è applicata ad estensioni territoriali consistenti, rappresenta il potere della proprietà di determinare il contenuto del piano, sulla base dello scambio fra interventi edificatori ed aree (oppure valori monetari, oppure altro ancora), mettendo a tacere la ricerca più efficace del disegno della città (vale a dire le destinazioni, il tracciato del sistema delle comunicazioni, la distribuzione più efficace delle aree pubbliche, ecc.), scaduto a componente marginale, funzione dell’interesse privato, concentrato esclusivamente sulla valorizzazione massima della rendita fondiaria.

Le politiche abitative

Le politiche abitative per strati sociali a basso reddito (pag. 23) Prescindendo dall’eventuale applicazione della socializzazione della rendita, ovvero della perequazione urbanistica, trattata nel punto precedente, con la quale fra altri beni le amministrazioni pubbliche talvolta contrattano disponibilità di alloggi per periodi definiti, la disponibilità di abitazioni per strati sociali a basso reddito da sempre ha comportato l’esborso di risorse pubbliche, per coprire in tutto o in parte (a suo tempo edilizia sovvenzionata o edilizia agevolata) il divario fra costo calmierato dell’affitto o dell’acquisto e costo di mercato.

La scelta di intervenire in favore dell’edilizia sovvenzionata in Italia, a differenza di altri paesi europei, ha da sempre riguardato una quota molto contenuta, rispetto al totale della produzione edilizia. Tuttavia fino ai terribili anni ’80 l’intervento in questo settore, seppure modesto, mobilitava risorse pubbliche in misura prevista e continuativa (tipico l’intervento Gescal), mentre oggi provvedere all’edilizia a basso costo consegue a scelte saltuarie, nel tempo e nello spazio. Dal punto di vista della sostanza, nulla pare mutato, rispetto al passato. La differenza è data dal fatto che, nel periodo precedente, caratterizzato dall’espansione degli abitati, l’edilizia popolare spesso era collocata in località marginali delle città, per ragioni di contenimento del costo delle aree, dando luogo così non di rado alla mancanza delle urbanizzazioni (di varia entità), tanto da rendere assai disagiate le condizioni dell’edilizia popolare, rispetto all’edilizia sita nelle zone centrali delle città. Oggi, volendo/dovendo contrastare il consumo di suolo, intervenendo perciò esclusivamente all’interno delle fasce urbanizzate, il costo del suolo tende ad incidere maggiormente, rispetto al passato, sia nei casi di nuova edificazione sia nei casi di recupero, trasformazione ecc..

Si possono ricercare forme diverse per affrontare tale nodo, rimanendo tuttavia la rendita al centro della questione. Non per nulla, nel passato, forze politiche e sindacali, preoccupate per il costo della casa, esorbitante rispetto ai livelli di reddito di ampie fasce sociali, ricorsero (1969) anche allo sciopero per abbattere il costo delle aree edificabili, componente fra le più rilevanti, fra quelle concorrenti al costo complessivo delle abitazioni.

Il controllo del patrimonio edilizio pubblico/privato

Il tema è trattato (p. 24) prescindendo da un fatto sostanziale, che di norma caratterizza il comportamento degli enti locali, in accordo con il demanio dello Stato o comunque degli enti (oggi aziende) collegati: la formazione di varianti degli strumenti urbanistici, finalizzati alla valorizzazione immobiliare del patrimonio eventualmente smobilizzato. Si tratta di un comportamento a logica privatistica; esso, anziché concorrere alla risoluzione delle esigenze della città, evidenziate dalla pianificazione, mediante l’uso del patrimonio pubblico, interviene con il fine di garantire la rendita urbana, più elevata possibile, a favore degli enti, che in tal caso, solo nominalmente, rappresentano l’interesse generale.

In conclusione

Con la presente nota ci si è limitati ad osservare su due questioni emergenti dal Documento: l’opportunità/necessità e di una nuova programmazione nazionale e della definizione di un nuovo regime di controllo sulla formazione e sulla appropriazione della rendita urbana. Ove si riconosca la centralità di tale valore nel rendere effettivo il governo delle città, prevalentemente sotto la direzione della mano pubblica, si dovrebbe passare a discutere dei modi e delle forme, attraverso le quali si formano e si acquisiscono i valori della rendita, con il fine ovviamente di riservare alla collettività il ruolo dominante su entrambe i versanti.

Torino maggio 2013



[1]La premialità altronon è che un incremento di cubatura, da attribuire eventualmente ad interventiin aree urbane da riqualificare o degradate, (definizione per altro assaiampia); tale incremento ad esempio nella Regione Piemonte è stato previsto conun limite massimo del 35 % del volume preesistente (art. 14 della Legge regionale14 luglio 2009, n.28).
[2] Si veda il “Rapporto sulla situazione sociale del Paese” 2012 del Censis edaltre pubblicazioni; fra queste di indubbio interesse quella di FrancescoBarbagallo “La questione italiana”, Editori Laterza 2013, dalla quale, inparticolare dall’ultimo capitolo: “IlMezzogiorno attuale”, si estrae qui un solo dato illuminante: tra il 1995 eil 2007 il prodotto pro capite del Mezzogiorno, rispetto alla media europea, èsceso di dieci punti, passando dal 79 al 69 %.

Giuro che non ho capito niente. La RAI ha strombazzato per settimane "il ritorno di Carosello"come fosse il ritorno di chissà quale Rai e di chissà quanti contenuti. D'accordo il vintage. E' finalmente sdoganato e gli immaginari più o meno nostalgici di generazioni coesistono liberamente in vari formati: dai ricordi sessantottardi Italia Germania 4 a 3 alle riunioni karaoke-club dei quarantenni generazione "Mazinga Zeta". Ma la pubblicità (di oggi) che interrompe non il solito film, il concerto o il talk show ma... se stessa (il Carosello nella serata del gran ritorno, dopo una prima "riattualizzazione" della nota ditta di crema cioccolato spalmabile), è qualcosa che va oltre i cortocircuiti. Se volete, un golpe interno ai palinsesti. Il marketing che spadroneggia a spese di contenuti, cultura e utenti che pagano il canone. Come il sinistro computer ammazza cristi di 2001 Odissea nello Spazio, ha fatto fuori uno ad uno, programmi, conduttori apriscatole...della fortuna, direttori generali, starlette etc., si è forse liberato della Clerici con un'overdose di crema pasticcera.

Gira, il marketing, come un nastro-software. Avete presente il finale de "l'Eclisse" di Antonioni? Rimangono semafori indifferenti che segnalano in strade vuote e lampioni che si accendono e spengono secondo un tempo automatico. Gli esseri umani sono andati via. Loro continuano anche senza di noi. Cominciarono con la cultura...poi vennero a prendere i contenuti...rimase la pubblicità.
Il "Carosello" ritrovato di questa sera sembra un esercizio con poche idee e senza troppa convinzione. A chi nella Rai è scampato all'ecatombe suggerisco senza ironia di riproporre piuttosto l' "Almanacco del Giorno dopo". Il sole sorge alle sette...la luna tramonta... compendio di cultura e umanità indimenticabile, nella bella lingua italiana.

Il presidente Letta ha dichiarato che occorre "mettere da parte la discussione ideologica a livello europeo su austerità e rigore e fare cose concrete". E tuttavia – me ne dispiaccio – questa è precisamente la discussione che dobbiamo avere, anche e soprattutto per poter fare cose concrete.

L'uscita dalla crisi economica che attanaglia il continente e soprattutto l'Europa meridionale sarà lunga e dolorosa senza l'allentamento dell'isteria del rigore a livello continentale e senza una più espansiva politica monetaria. Su quest'ultimo punto, il graduale cambio di rotta della Banca Centrale Europea inaugurato dal governatore Mario Draghi sta dando i suoi frutti: la meno equivoca riaffermazione della funzione della Bce come prestatore di ultima istanza ha domato gli spread, e nel processo ha peraltro mostrato che la loro impennata era dovuta più alla percezione del rischio di crisi di liquidità, piuttosto che un problema di solvibilità dei bilanci (tant'è che i tassi sul debito sono scesi sia per la Spagna che ha un rapporto debito/PIL comparativamente più basso, sia per l'Italia cui rapporto era già alto ed è persino salito nell'ultimo anno).

L'allentamento del rigore dei bilanci, specie attraverso le politiche fiscali da parte del nucleo economico dell'Europa settentrionale, assieme ad una ancora più attiva politica monetaria che innalzi gli obiettivi di inflazione, specie nel nord Europa, sarebbe quindi una possibile ricetta per l'uscita della stagnazione economica del continente e della depressione del sud europeo.

Per ragioni politiche ed economiche questo possibile corso ha sinora trovato uno sbarramento categorico da parte dei paesi del nucleo economico con a capo la Germania. Eppure si tratta di una ricetta che, alla luce dell'esperienza degli ultimi cinque anni di politiche economiche, sta acquistando sempre più credito nei circuiti del dibattito economico.

Che molto, quasi tutto, dipende della rotta della politica economica a livello europeo, di questo sembrava essere consapevole anche il presidente Letta. Sembrava. È ciò che ha fatto intendere nel suo discorso di insediamento al Parlamento.
Eppure, invece di voler ravvivare questo dibattito, invece di segnalare di voler credibilmente agire per determinare questo cambiamento di rotta, ora il presidente Letta ci informa che questa ipotesi non è sul tavolo, e che anzi non serve nemmeno discuterne, e che anzi si tratta solo di uno sterile dibattito ideologico.

C'è in tutto questo una storia più grande da raccontare. C'è sempre qualcosa di iper-ideologico negli inviti di abbandonare discussioni "ideologiche" e di fare "cose concrete". In genere, è un modo per anestetizzare e squalificare la possibilità di discutere e di ragionare sulle cose che davvero contano, e tali squalifiche sono per loro natura iper-ideologiche: dietro l'invito alla concretezza si cela l'idea che non c'è niente da fare, che è meglio rivolgersi all'omeopatia, perché tanto un cambio di rotta non è possibile, perché non ci sono alternative. "Non ci sono alternative" ("There is no alternative") lo diceva Margareth Thatcher, ed era appunto un esempio di ideologia allo stato puro.

E ora su questi passi la segue Enrico Letta l'Ideologo, che bolla come sterile discussione ideologica l'unico dibattito che in fatto di politica economica dovremmo davvero avere a livello europeo.

... postilla

Così è arrivato anche il momento di verità del PD.
Per lunghi anni c'erano quelli che "ce la farà o non ce la farà", "passi avanti e passi indietro", quelli che "le forze della luca sconfiggeranno il lato oscuro", "i Jedi prevarranno sui Sith", quelli a sinistra che "dì qualcosa di sinistra" (in una pandemia della sindrome di Moretti), quelli che #occupypd, teneri, sino a cinque secondi alla mezzanotte, e così via a non finire.
E invece no. In un experimentum crucis nel giro di due giorni si produce il nitido fatto che parla la lingua della verità, ti risvegli e capisci: il PD è quello che è, quello che appare, quello che i fatti dicono che è.
Dovevamo prevedere che il Re-è-nudo-momento sarebbe arrivato in modo imprevedibile. Sì certo, possiamo essere indulgenti con noi stessi che sapevamo che c'era del marcio in Danimarca, eppure sono momenti, come la caduta del Muro di Berlino o la Piazza Tahrir, che nessuno ha mai saputo prevedere che sarebbero accaduti, lì e in quel momento.

E sono verità che non si possono rivelare dalla ragione – la ragione è tortuosa, pervertita e ha bisogno delle fantasie che da sola si crea per campare. In questi casi, la verità non è un prodotto della ragione, ma si rivela attraverso questi fatti singolari che produce e che la producono.

Come sempre c'è il "problema del giorno dopo". Tutti quegli autentici momenti di verità dimostrano come il cambiamento che producono il giorno dopo è tortuoso, incerto e in fondo ambiguo. Così è stato per la caduta del Muro di Berlino e per la Piazza Tahrir, così sarà per il più prosaico affaire PD.
Eppure non c'è ombra di dubbio: questi sono momenti che parlano la verità. Fatti che arrivano di colpo, come i quadri che cadono, frrram!

Postilla

Il quadro del Partito democratico era appeso a un chiodo logoro da molto tempo. Possiamo dire dalla nascita? Certo da molto tempo. Certamente da quando era diventato una semplice coalizione elettorale, da quando è diventato "una organizzazione in franchising", come scrisse Walter Tocci nel 2010. In una sua "opinione" su eddyburg Piero Bevilacqua argomentò in modo convincente il fallimento del PD, nel 2012. Il fatto è che non può esistere un partito, una parte di società finalizzata alla proposta di un suoi progetto di futuro, se questa "parte" non ha una sua ideologia: un sistema di principi e di convinzioni condivise, che si pongono in contrasto dialettico con altri principi e convinzioni nel tentativo di cstruire una sintesi attraverso gli strumenti e i metodi della democrazia. Quando la politica si riduce a una lotta per il potere in nome del solo potere chi la pratica non regge a lungo l'urto con la realtà. tanto più quando, smarrita una ideologia senza rinnovarla sulle antiche radici, si fa conquistare da quella ormai divenuta egemonica sull'intero pianeta. Indurrebbe a riflettere il fatto che l'ideologia della Tatcher e di Reagan, di Pinochet e di Deng Xao Ping abbiano avuto come propri portavoce, in Italia, proprio uomini della sinistra non comunista, come Bettino Craxi. Il potere di questa ideologia e delle politiche che ne derivano in risposta alla crisi nella quale ci dibattiamo è oggi più forte che mai, se pensiamo alle corrrenti nelle quali il PD si divide: le principali sembrano essere quella che definirei berlusconiana, che ha il suo leader in Renzi, e quella che può essere legittimamente definita "montiana di sinistra", rappresentata da Barca. Tra i due vedo, sul proscenio il segretario battuto, che un partenopeo descriverebbe come "un asino in mezzo ai suoni"; e vedo infine dietro le quinte, gli abili tessitori delle "larghe intese", che hanno ridotto il ostro paese a essere il zimbello dei popoli. (es)

Sapete di che parlo: Gangnam Style è quello stupido brano techno sudcoreano su questo quartiere alla moda di Seul. Una faccenda oscena assai: un uomo grassoccio di mezz'età che pare inneggiare alla ragazza che – suprema fantasia maschilista – di giorno fa la vita composta e di virtù, ma di notte diventa calda, slega i cappelli – si trasforma in ragazza-Gangnam.

Come ha fatto una spazzatura del genere a diffondersi a fenomeno globale? Come accade che una roba, iniziata come uno stupido brano, viene poi avvolta da un'aura quasi sacrale e cattura folle immense, stadi interi al ritmo di Gangnam e Youtube con il botto di un miliardo e mezzo (un miliardo e mezzo!) di hit?

Come spiega Slavoj Žižek, è un bel esempio dell'odierna meccanica dell'ideologia, e la ragione è che il tutto è spudoratamente autoironico: è così ridicolo ed osceno che chi inscena la danza Gangnam Style ovviamente crede, pensa e fa capire di farlo solo per prendersi un po' in giro, che si metta a ballarlo per strada, in discoteca, o alle inaugurazioni presidenziali.

E precisamente qui sta il punto: puoi prenderlo e prenderti in giro, sai (credi di sapere) che non è da prendere sul serio, eppure ti cattura lo stesso, ti entra in testa, lo canticchi e lo balli, funziona. Funziona quando prende in giro sé stesso, o meglio: funziona precisamente perché si prende in giro. È efficace perché il nostro grado di cinismo è tale che per essere catturati ci serve quest'alibi, questa scappatoia del distacco dell'autoironia: "so bene che ballare è da idioti; sì sto ballando Gangnam Style, però qui ballo (posso sempre dire e dirmi) per scherzo e non per davvero", e intanto funziona, lo ballo per davvero.

E così pure in politica, il regnante cinismo, quasi nichilismo, popolare rende impraticabili e non-credibili (nel senso stretto della possibilità di "credere") le ideologie convenzionali "crude e pure", anche se fossero zeppe di ragioni da vendere. Per acquiescere (o ingannare) quel cinismo, e dunque per diffondersi, esse devono invece già in sé prevedere la possibilità di quel distacco, quell'autoironia, per funzionare devono poter prendere in giro la loro stessa ideologia, e così però nel medesimo tempo catturare e funzionare lo stesso, come ideologie.

Il fenomeno del Movimento 5 Stelle è una rivoluzione Gangnam Style in questo preciso senso.

Partiamo da alcuni fondamentali, prima di tutto questo: non si capisce come diavolo nelle nostre democrazie televisive e mass-mediatiche possa esistere una politica non populista. (E non è necessariamente un male, dopotutto, "populismo" potrebbe essere un termine da recuperare: almeno nella l'accezione politica americana esso ha saputo avanzare l'agenda progressista, a sostegno dei diritti e degli interessi economici dei lavoratori e dei piccoli coltivatori contro quelli del grande capitale, specie dai due Roosevelt in poi.)

Qui il comico serve allo scopo alla perfezione. In un suo comizio, tutto ciò che dice Grillo funziona perché può essere preso sul serio e allo stesso tempo sul faceto. Anzi, in perfetto Gangnam Style, è serio precisamente quando è faceto. Questo doppio gioco è peraltro l'impeccabile soluzione al dilemma di ogni politico a caccia del consenso popolare: come sovraesporsi senza sovradefinirsi: "devo essere in vista il più possibile, ma se mi sovraespongo rischio di far capire con sempre maggiore precisione le mie posizioni politiche, anche su temi controversi: tasse, IMU patrimoniale, matrimoni gay, … E così chi non è d'accordo con me non mi voterà."

Entra il comico: una perfetta macchina della libido politica: dice quel che gli pare e le persone si scelgono à là carte che cosa prendere sul serio e che cosa invece per battuta, proiettando su Grillo i loro desideri. Un altro esempio di un'altra caratteristica della moderna meccanica dell'ideologia, Gangnam Style.

À propos della collocazione destra-sinistra del M5S. È ovviamente una colossale stupidaggine che la sinistra e la destra non esistono più e che sono "concetti antiquati". E guarda caso, è esattamente ciò che dicono di sé Grillo e i suoi: non sono né di destra né di sinistra, loro sono ovviamente über. Ma questa non è che un'altra mossa Gangnam Style per titillare, come direbbe Žižek, la scissione del feticista: "so benissimo che cos'è vero, ma nonostante ciò agisco come se non lo fosse."

La mossa è questa, ragiona Grillo&C.: è da idioti autodefinirsi, specie di "sinistra" se la parola ha un gigantesco problema di public relations, e non solo perché c'è in Italia ancora chi per sensibilità sociale è di sinistra, ma non la voterebbe mai perché "sono tutti comunisti" (un retaggio del voto di appartenenza che continua a sopravvivere come ha sempre sopravvissuto, tramandandosi da generazione a generazione – chiedere ai markettari di Berlusconi per credere!). Quindi, ragiona il nostro, piuttosto che sbattere la testa contro il muro, la mossa migliore – e populisterrima – per avanzare l'agenda politica è rifiutare di autodefinirsi. (Tant'è, la destra in giro per il mondo usa questo trucco da decenni.)

Ma leggiamo per un momento al valor facciale quest'agenda politica del M5S. Oppa!, non ditelo in giro, ma a me pare l'unico programma con una dignitosa dose di radicalità, quasi un ritorno alla radice etimologica del "comunismo": avere cose in comune, difesa dei beni comuni.

OK, non è strettamente un programma comunista (non si chiede ad esempio l'abolizione della proprietà privata sui mezzi di produzione), e per risolvergli il problema di PR chiamiamola invece un'agenda "commonista" (dall'inglese commons, beni comuni): che cos'è la richiesta del reddito incondizionato di cittadinanza se non l'idea che almeno una parte del prodotto sociale sia un bene comune che si può usare per avanzare le libertà reali per tutti? che cos'è la battaglia contro l'attuale sistema di brevetti e copyright se non l'idea che la conoscenza sia un bene comune (e perbacco, sono gli unici che ospitano interventi di Richard Stallman!), che cos'è la strenua difesa dell'ambiente e del paesaggio se non l'idea che il valore di questi vada oltre al profitto che potrebbero rendere? e la lotta alle lobby e al potere del capitalismo finanziario? o robette come la statalizzazione delle dorsali telematiche? Ma insomma, varrebbe la pena chiamarli rivoluzionari anche solo per il fatto di essere l'unica forza parlamentare che in chiaro e tondo scrive nel suo programma "abolizione della legge Gelmini" sull'università.

Ma non è tanto il programma, il vero spettacolo è che senza che quasi nessuno se ne accorgesse, Grillo è riuscito con questo programma a farsi votare da quasi un terzo degli italiani: oppa oppa Gangnam Style! E c'è di più: i parlamentari M5S paiono testardamente ostinati a volerlo realizzare (e perciò chi gliela fa a fare a sostenere un governo Bersani?).

In questo sta un'importante differenza tra il M5S e la Syriza in Grecia. La povera Syriza si autodichiara di sinistra e così si fa accerchiare in quell'angolo lì senza tante possibilità di crescere più elettoralmente, mentre Grillo, per non dirsi né di destra né di sinistra ma con una piattaforma politica simile, può invece crescere ad libitum; arrivare, come dice, al 100%, ovviamente Gangnam Style.

Gli è che Syriza non sa ballare Gangnam Style. Ma c'è una cosa che li accomuna: se prendessero il potere, Syriza in Grecia e M5S in Italia, state certi che gli austeriani europei darebbero vendetta senza pietà orchestrando per i due paesi una punizione esemplare.

Potevano mai le nostre varietà domestiche di teorici della rivoluzione cogliere che si trattasse di una rivoluzione? Qui il gioco è facile: ovviamente no, per due semplici motivi.

Uno (un'altra splendida battuta di Žižek), per i nostrani esegeti le vere rivoluzioni hanno una fondamentale caratteristica: avvengono sempre altrove: prima c'era l'Unione Sovietica, poi la Cina, poi Cuba, ultimamente tira l'America Latina: "lì si che sanno come si fanno rivoluzioni".

Due, a rivoluzione fallita, sono bravissimi a spiegarti le ineluttabili ragioni del suo fallimento. E questa expertise li rende oltremodo choosy: quando c'è l'hanno una sotto il naso fanno gli schizzinosi, non c'è verso che qualcosa gli vada a genio, e ti spiegano con docenza e perizia perché questa non è né può essere una vera rivoluzione e che cosa le manca perché lo sia: che il leader è un autocrata, che manca un chiaro programma, che il popolo non è pronto (oppure, secondo una scuola molto avanzata, che il popolo è poco istituito o semplicemente rincoglionito), che questa o quest'altra cosa.

Era inevitabile che si perdessero la rivoluzione Gangnam Style.

Peraltro, su quest'ultima linea di obiezioni, ultimamente circolano due memi. Il primo non merita attenzioni perché conferma solo la ferrea validità della legge di Godwin (in Latino da canile nota anche come reductio ad Hitlerum). L'altro meme è che il M5S non è "democratico". Su questo, senza scomodare l'antico dibattito sulla legge dell'oligarchia di Robert Michels, avrei due brevissimi appunti da offrire. Primo: ho visto invece parlamentari di M5S riunirsi e discutere, come non ho visto altrove, e mi pare una bella cosa. Secondo appunto: non fosse democratico, e allora? Che obiezione idiota, qualcuno ha forse mai sostenuto che una rivoluzione debba passare per vie strettamente democratiche? E comunque, dopotutto, non risulta che il M5S voglia prendere il potere in modi diversi da quelli strettamente previsti dell'ordine istituzionale costituito (e qui la questione Michels ci sarebbe di nuovo utile, ma desistiamo).

E per concludere non ci resta che la grande domandona: il fenomeno-Grillo si sgonfierà? Certo che sì, come sempre si sgonfiano le rivoluzioni, e in un certo senso sempre falliscono.

Quando? e quali effetti produrrà nel frattempo? Come rispose Mao Tse-tung, uno che di rivoluzioni si intendeva, quando gli chiesero degli effetti che ha prodotto la Rivoluzione Francese: "È troppo presto per dirlo". Pare sia un aneddoto un po' apocrifo, ma è delizioso lo stesso.

È troppo presto per dirlo. Benvenuti in tempi interessanti.

Qualche giorno fa Eddyburg ha pubblicato una riflessione sulla fine della stagione urbanistica che ha avuto nel “modello Roma” il suo punto di riferimento. L’esperienza del suo PRG, avviata dalle giunte Rutelli e Veltroni a partire dagli anni ’90, viene ora valutata alla luce delle criticità emerse ancor prima che il piano venisse definitivamente approvato. (Cfr. J. Bufalini, Il PRG di Roma, un esempio da non seguire )
La novità introdotta nella prassi urbanistica nazionale dal piano per la Capitale sono i diritti edificatori e loro successiva trasformazione in volumi edilizi attraverso il meccanismo della compensazione perequativa. Il “modello Roma” ha fatto scuola, sia nelle grandi città che nei piccoli centri, tanto che questa sembra ormai essere l’unica strategia percorribile per la pianificazione urbanistica, anche se non sono mancate le voci critiche puntualmente registrate da Eddyburg. Qui ne presento una breve rassegna.

Diritti edificatori

Cerchiamo innanzitutto di capire da cosa discende l’invenzione di questo meccanismo pensato, come si evince dal caso di Roma, per superare i limiti della costruzione della città pubblica che, ricorda Campos Venuti, è fortemente condizionata dai meccanismi della rendita fondiaria. L’assunto è semplice: i vecchi piani “dirigistici” pensati per la crescita demografica e socio-economica della stagione del boom economico ed oltre, prevedevano incrementi di popolazione e, conseguentemente di volumetrie, che non hanno trovato riscontro in ciò che poi è veramente successo. I centri urbani si sono infatti svuotati di abitanti a beneficio dell’hinterland, cresciuto sia in abitanti che in edificazioni mentre la città vera è propria diventava sempre di meno il luogo in cui si vive e sempre di più la destinazione degli spostamenti casa-lavoro-scuola-ecc.

Tuttavia, malgrado un po’ delle città da dentro i loro confini amministrativi si fossero spostate all’interno dei territori dei comuni confinanti, le previsioni insediative rimanevano vigenti anche se non realizzate, poiché, appunto, risucchiate dalle migliori condizioni di mercato offerte, sia per la domanda, che per l’offerta, dagli abbondanti terreni ex agricoli dei comuni di cintura. Quindi che farne di quel potenziale edificatorio inespresso ma computato dai vecchi PRG? E’ possibile far tornare a destinazione agricola dei terreni dove magari si coltiva qualcosa ma per i quali il piano urbanistico prevede un’edificabilità? Di primo acchito viene da rispondere sì ma questo ragionamento lineare si contra con lo scoglio della controversa questione dei vincoli urbanistici, cioè della possibilità di separare la proprietà del suolo dalla sua edificabilità.
In sostanza vincolare un terreno ad una destinazione che preveda solo marginalmente l’edificazione, come quella agricola, va di pari passo con il riconoscimento della sua funzione intrinseca, che non è quella di ospitare volumi edilizi ma di consentire la produzione di beni primari ed anche di preservarne valori paesaggistici che sono intrinsecamente connessi. Ai proprietari del suolo non edificato, secondo la giurisprudenza vigente nulla è dovuto in termini d’indennizzo per la sua mancata urbanizzazione, ci ricordano Edoardo Salzano e Vincenzo Cerulli Irelli. (Cfr. E. Salzano, Forse che il diritto impone di compensare i vincoli sul territorio? e E’ confermato: non esistono “diritti edificatori” né “vocazioni edificatorie” di suoli non ancora edificati, oltre al parere di V. Cerulli Irelli ).

Il problema però si pone quando la non edificabilità di un suolo è determinata dalla sua destinazione ad una funzione di pubblico interesse, come ospitare una scuola, un parco, o un campo sportivo. Ed è qui che s’insinua il dispositivo pensato per aggirare l’ostacolo più grosso fino ad oggi incontrato dall’attuazione delle previsioni urbanistiche: il dover procedere all’esproprio delle aree vincolate per la realizzazione di servizi pubblici indennizzandole a prezzi di mercato. La distanza tra la città pubblica pensata dalla pianificazione urbanistica e quella realizzata dalle scelte della rendita immobiliare è incolmabile: tanto vale venire a patti con chi non si può battere per manifesta superiorità. E’ dalla presa d’atto della sostanziale impossibilità di regolare il mercato che si fanno avanti proposte tese, appunto, ad utilizzarne gli strumenti.

Perequazione

Se si devono realizzare quelle dotazioni di attrezzature collettive delle quali le città italiane sono cronicamente sottodotate, in confronto a quanto avviene nel resto del mondo sviluppato, meglio quindi mettersi d’accordo con la rendita immobiliare, invece di contrastarla a colpi di vincoli sui quali si blocca l’attuazione delle previsioni di piano. Se gli indennizzi non si vogliono pagare a prezzi di mercato e se si vogliono evitare i conteziosi che spesso accompagnano la cancellazione di previsioni edificatorie, se non si vuole premiare i pochi fortunati che possiedono un terreno già edificato o di confermata edificabilità, si può tentare di distribuire equamente i vantaggi economici connessi ai cambi di destinazione d’uso. Poco e a tutti è in teoria concesso di edificare, salvo poi mettersi d’accordo sul dove e sul che cosa. E’ il principio del pianificar facendo assunto dal PRG di Roma come prassi consolidata, dopo anni di programmazione negoziata che ha consentito agli operatori di avere ampi margini di trattativa con l’amministrazione comunale.

Il maggiore problema della Capitale sono le estese periferie prive di qualità urbana e mal servite dal trasporto pubblico; da lì discende l’idea del piano approvato nel 2003 della creazione di 18 nuove centralità nei settori del vastissimo territorio comunale urbanizzati senza un disegno urbanistico. Lì si concentreranno, attraverso il meccanismo della compensazione perequativa, i diritti edificatori ereditati dalle previsioni non realizzate dal PGR del 1962, equivalenti ad un indennizzo per la parziale riconferma delle precedenti previsioni edificatorie. Si costruisce meno di quanto avrebbe consentito il vecchio piano, si salva quello che resta dell’Agro Romano e si concentrano i nuovi volumi nei settori urbani cresciuti senza servizi e, questi ultimi, saranno realizzati proprio in virtù della cessione gratuita di aree a fronte della possibilità di edificare lasciata ai privati.

Il limite di questa che sembra la soluzione di tutti i mali della pianificazione urbanistica è che la strategia si consuma solo all’interno dei confini comunali, come se lì si esaurisse la capacità degli operatori di trovare condizioni migliori per fare il loro mestiere. Non è affatto detto che del tal servizio, ceduto in cambio di una certa quantità di volumi costruiti, potrà finalmente beneficiare il tal quartiere periferico se appena più in là, nel comune limitrofo, lo strumento urbanistico consente di fare affari migliori. In sostanza il meccanismo della compensazione perequativa subordina i bisogni dei cittadini alle convenienze degli operatori immobiliari, liberi di investire dove le condizioni sono per loro più vantaggiose. Se il dimensionamento delle previsioni di piano non è fatto alla scala dell’area metropolitana, che ha assorbito negli ultimi decenni parte della popolazione precedentemente insediata dentro i confini amministrativi della città, e se ad esso non sono collegate precise strategie che riguardano la mobilità, visto che coloro che oggi vivono nei comuni limitrofi continuano in grandissima parte ad entrare in città per lavorare, studiare, fare acquisti, ecc., si rischia di regalare alla rendita immobiliare diritti edificatori in cambio di nulla.

Questi sono gli argomenti utilizzati da Vezio De Lucia e Paolo Berdini contro le strategie messe a punto dal piano di Roma ed introiettate dalla prassi urbanistica corrente. (Cfr. V. De Lucia, Il nuovo piano regolatore di Roma e la dissipazione del paesaggio romano, e P. Berdini, I numeri, i diritti acquisiti e la compensazione, e Roma. Definitivamente approvato il PRG della rendita immobiliare).
Anche le strategie del Piano di Governo del Territorio di Milano, vuoi per la natura dello strumento urbanistico, vuoi per una precisa scelta dell’amministrazione comunale, sono pensate per esaurirsi dentro i confini comunali. Il piano adottato nel 2010 è il punto di arrivo di un percorso di ridisegno della ex Capitale morale iniziato nel 2002 con il Documento di inquadramento delle politiche urbanistiche comunali intitolato Costruire la grande Milano, funzionale alla gestione delle trasformazioni della città per parti, in deroga al piano generale e secondo la nuova versione della programmazione negoziata introdotta con i Programmi Integrati d’Intervento.
L’impostazione del documento, che subordina le strategie del piano alle iniziative del mercato, da una parte - sostiene Edoardo Salzano – ricostruisce correttamente la necessità di modificare la legislazione urbanistica in relazione ai cambiamenti avvenuti, dall’altra però apre la strada all’idea che interesse pubblico ed iniziativa privata siano sullo stesso piano, idea poi effettivamente assunta dalla riforma della legge urbanistica della Lombardia. (Cfr. E. Salzano Il modello flessibile a Milano).
Nel piano del 2010 la grande Milano avrebbe dovuto riguadagnare gli oltre 250.000 abitanti persi nei precedenti 30 anni e, appunto, acquisiti dall’area metropolitana, ma il meccanismo flessibile con il quale si sarebbe dovuto incentivare l’iniziativa privata, cioè la possibilità di utilizzare i diritti edificatori su tutto il territorio comunale, avrebbe determinato la possibilità di incrementare la popolazione per quasi il 50% di quella insediata attualmente (circa 1.300.000 abitanti).
Tutta la superficie comunale, anche i parchi pubblici ed i servizi come gli ospedali, secondo il PGT di Milano approvato dalla giunta Moratti, generano diritti edificatori da utilizzarsi all’interno degli ambiti di trasformazione urbana. Il meccanismo viene regolato dall’istituzione di una “borsa” che consente il loro scambio tra detentori ed acquirenti. Questo meccanismo di valorizzazione immobiliare si sarebbe applicato anche ai suoli agricoli che a sud ancora cingono Milano, secondo quella proposta di piano sulla quale si sono concentrate le critiche di Giuseppe Boatti, Fabrizio Bottini e Maria Cristina Gibelli. (Cfr. G. Boatti, Milano PGT: Privati Gestiscono Tutto, F. Bottini, M.C. Gibelli, Milano: rilanciare la metropoli è possibile!).

Il piano di Milano tuttavia non ha abbandonato, anche dopo la revisione voluta dalla giunta Pisapia, lo strumento della perequazione come via maestra della sua attuazione, così come non è riuscito ad introiettare la visione dell’area metropolitana come riferimento delle scelte insediative. Sono queste le criticità del piano adottato nel 2012 sottolineate da Boatti e Gibelli. (Cfr. G. Boatti, PGT: il piano che non serve a Milano, e M.C. Gibelli, Ma Pisapia si sta (pre)occupando dell’urbanistica milanese?, e PGT di Milano: manca il coraggio o manca la sinistra?).

La dimensione dell’area vasta e le sue relazioni con le strategie per la mobilità, ampiamente sottovalutate dal piano milanese, sono gli aspetti verso i quali si indirizzano le critiche di Giorgio Goggi, il quale sottolinea inoltre come il PGT dimentichi la tradizione milanese nel campo dell’edilizia sociale, che ha supportato la crescita demografica della città costruendone interi settori, e rinunci alla previsione chiara del sistema dei servizi proprio in nome di quella flessibilità dell’attuazione del piano determinata dai meccanismi scarsamente controllabili dello scambio dei diritti volumetrici e della loro distribuzione perequativa. (Cfr. G. Goggi, Criticità del PGT 2012: mobilità, edilizia sociale, regole e servizi).

Nel pubblicare la sintesi del rapporto "Benessere eco-sostenibile" dell'Istat abbiamo invitato i collaboratori e i frequentatori di eddyburg di esprimere il loro parere. Risponde Giovanna Ricoveri, autrice, tra l'altro, di "Beni comuni non merci".

Caro Eddyburg,
ho visto il rapporto Istat-Cnel sul Benessere Equo e Sostenibile: è una raccolta di dati statistici già noti, ma il limite principale non è questo visto che la statistica è comunque una cosa seria. Quel che mi lascia perplessa è che questo rapporto parla di "benessere" oggi in Italia nonostante certifichi esso stesso le condizioni del profondo malessere in tutti i settori della vita sociale.
Mi pare un controsenso, un ossimoro, anche perché si colloca dentro il paradigma maintream, senza domandarsi il perché dei disastri che denuncia. Sono infatti d'accordo con quel che dici nella tua lettera, di fermarsi a riflettere perché "le nostre azioni sono state il proseguimento dei paradigmi che hanno costituito il nostro retroterra: a partire dalle speranze degli anni Sessanta del secolo scorso".
Io sono su questa lunghezza d'onda, e credo che il cambiamento sarà complicato, nonlineare né indolore: richiederà molte pause di riflessione, senza fughe in avanti. Pertanto solidarizzo con la tua decisione di fermarti per un pò, anche perché eddyburg resta vivo - almeno così a me è sembrato dalla ultima verifica fatta ieri.Del resto ha un ricco retroterra, che gli permette di restare vivo anche se in forma ridotta.
Io sto completando il mio libro inglese sui beni comuni, che sotto la consulenza degli inglesi (Pluto Press) è diventato un'altra cosa: più ricco e più preciso nell'analisi e nelle proposte. Si chiama "Nature for Sale" e uscirà nel prossimo giugno.
Goditi la città dalle mille colline, e cari saluti, Giovanna

In questi giorni sta circolando sui mezzi d’informazione di massa un’interpretazione del voto lombardo che attribuisce agli elettori delle aree urbane una propensione per lo schieramento di centro sinistra, contrariamente a quelli delle zone rurali che avrebbero determinato la vittoria del centro destra. Il dualismo dipende dal fatto che in 11 città capoluogo su 12 (unica eccezione Varese dove è nato e vive Maroni) ha prevalso la coalizione guidata da Umberto Ambrosoli, mentre nel resto della regione ha ottenuto più voti lo schieramento capeggiato da Roberto Maroni. Lo schema interpretativo si è presto diffuso e vi è stato chi, come Aldo Bonomi, ha addirittura parlato di città contrapposta al contado, luogo delle libertà civiche il primo e della servitù della gleba il secondo. La formula e le sue pittoresche varianti, a furia di ripetizioni stanno diventando senso comune. Tuttavia il territorio lombardo, anche solo in relazione ai risultati elettorali, è molto più complesso di come lo si vuole dipingere.

La prima considerazione riguarda l’utilizzo di due concetti dati per scontati. C’è la presunzione di credere che tutti sappiano riconoscere il confine tra città e campagna. A ciò si aggiunge il lasciar passare sotto traccia un giudizio sul grado di sviluppo civile di chi sta dentro o fuori le immaginarie mura che separano l’una dall’altra. Da una parte sta chi desidera il cambiamento, gli innovativi, coloro che hanno capito che la più grande e sviluppata regione d’Italia non può continuare ad essere governata da personaggi politici ampiamente coinvolti in scandali e propensi a lasciarsi tentare dal malaffare. Dall’altra ci sono i conservatori dello status quo, quelli che ritengono immutabili sia la classe politica che i suoi naturali comportamenti, quindi meglio tenersi coloro che già si conoscono.

Chi propone lo schema poi non sembra accorgersi del fatto che il territorio regionale sia tra i più urbanizzati d’Europa. E’ difficile uscire dalle aree urbane se si percorrono i 250 chilometri lungo i quali sono distribuite le province di Varese, Como, Lecco, Bergamo e Brescia, con i loro 4,2 milioni di abitanti. E, appena sotto la diagonale disegnata da questo itinerario, altri 4 milioni vivono nell’area metropolitana milanese, le cui propaggini si estendono fino alle province di Pavia, Lodi e Cremona. Tenuto conto di questi numeri, ed al netto dei centri urbani delle province della pianura e della alpina Sondrio, è assai probabile che gli oltre 2,4 milioni di elettori che hanno fatto vincere la coalizione di centro destra non siano necessariamente confinati in qualcosa di identificabile come campagna. Se sicuramente il voto leghista e di destra ha prevalso nelle poco abitate valli alpine e prealpine, non bisogna però dare per scontato che il fenomeno riguardi solo marginalmente la città metropolitana milanese o l’estesa rete di aree urbane di cui essa è il centro.

Lungi dal voler proporre uno schema interpretativo in antitesi a quello città/campagna, si può comunque cercare di capire qualcosa di più sul voto lombardo mappandone la distribuzione territoriale. Le due province dove ha prevalso la coalizione di centro sinistra, cioè Milano e Mantova, con le loro profonde diversità, sono state a questo riguardo analizzate. La domanda alla quale s’intende rispondere è se la presunta polarizzazione del voto tra aree urbane di centro sinistra e zone rurali di centro destra abbia qualche ragion d’essere in questi due casi, malgrado le differenti caratteristiche insediative.

Iniziamo dalla provincia di Mantova dove l’unica area urbana di dimensioni significative, dentro la quale si concentra buona parte l’elettorato di centro sinistra, è quella dove si trova la città capoluogo. Nel Mantovano tuttavia la polarizzazione territoriale del voto ha una precisa connotazione geografica che non passa dall’immaginario confine città/campagna. Il nord-ovest della provincia è quasi interamente di centro destra, mentre della zona centrale e sudorientale, prevale il voto al centro sinistra. L’area demograficamente più forte, cioè la conurbazione di Mantova, da sola non sarebbe stata in grado di determinare il risultato complessivo provinciale se non si fosse aggiunto il vasto settore ad alta vocazione agricola che dal capoluogo si estende verso i confini con l’Emilia Romagna e con la provincia di Rovigo. E’ qui che si trova Pegognaga, dove si produce il latte per il Parmigiano Reggiano, i bovini sono una volta e mezza gli umani, e la coalizione di centro sinistra ha raggiunto il 60% dei consensi.

Anche nel caso della provincia di Milano, che dal 1 gennaio 2014 diventerà Città Metropolitana insieme a quella di Monza e Brianza, il voto si distribuisce tra i due schieramenti seguendo un criterio geografico. Nel settore occidentale, che ha come confine il corso del Ticino, prevale il voto al centro destra, mentre quello orientale, con in mezzo il capoluogo, vota in maggioranza per il centro sinistra. Se si analizza il risultato elettorale dentro i confini del futuro ente territoriale si scopre che a favore del centro destra sono tutti i comuni brianzoli a nord del capoluogo. Si tratta del territorio metropolitano più intensamente urbanizzato, con punte di 84% di suolo utilizzato per attività antropiche. Al contrario ad est di Milano, nel Vimercatese e nella zona del Naviglio Martesana, dove gli ambienti e le produzioni agricole hanno ancora spazio, prevale il voto di centro sinistra.

Che relazione c’è dunque tra le caratteristiche territoriali e la distribuzione del voto nelle due province lombarde esaminate? Perché, rimanendo in ambito metropolitano, i comuni uniti a Milano dalla strada del Sempione e tra loro dalle stesse caratteristiche insediative, si scoprono divisi riguardo al voto? Cosa determina i confini tra una parte e l’altra dello schieramento elettorale negli apparentemente sconfinati territori della Pianura Padana?

E’ probabile che per comprendere la propensione di un comune o di un ambito geografico a votare in un modo piuttosto che in un altro si debbano utilizzare termini come radicamento e continuità amministrativa, che forse da molte parti valgono di più di qualsiasi altro aspetto utile ad interpretare il risultato elettorale. Vi sono poi considerazioni di carattere socio-economico che hanno a che fare con i sistemi insediativi, con la diffusione della attività produttive e di servizio, con la presenza di infrastrutture per il trasporto, di istituzioni formative e culturali, di attrezzature per lo sport, di cinema, teatri e luoghi d’incontro. Insomma con gli aspetti che in generale determinano la ricchezza dei territori in termini di opportunità per chi li abita.

In ogni caso la risposta andrebbe preceduta da un’analisi seria che eviti le semplificazioni fatte a colpi di concetti difficilmente applicabili. A giudicare da questa parziale mappatura forse si potrebbero utilizzare termini come centro e periferia per provare ad interpretare la distribuzione del voto. Ha senso pensare che in Lombardia là dove sulla città prevale la dispersione insediativa, dove lo sviluppo economico si è quantitativamente diffuso ma mai qualitativamente connotato, i cittadini diano di se, tramite il voto conservatore, una rappresentazione periferica, marginale, arretrata rispetto al procedere del cambiamento,? E dall’altra parte, si può ipotizzare che là dove si sta cominciando a discutere di qualità dello sviluppo, dove si sta tentando di associare il concetto di sostenibilità al governo del territorio, dove esiste una qualche strategia per il futuro a vantaggio di tutti, sia prevalsa la volontà di cambiare perché già ci si sente al centro del cambiamento?

Berlusconi infatti ripete candidamente che l'Italia ha – sì – un alto debito pubblico, ma anche un basso debito e alti patrimoni privati, e che occorre tener conto della somma dei due per parlare dell'indebitamento di un paese.

I dati dei due debiti sono esatti, ma questa idea implica che, all'occorrenza e in caso di difficoltà dello Stato, i suoi debiti si possano pagare con patrimoni privati. Implica, cioè, che il debito dello Stato e il debito e patrimoni privati, siano vasi perfettamente comunicanti.

Non è così: le cose sono un pelo più complicate, ma in generale se lo Stato non può pagare il suo debito, non è scontato che i privati e le famiglie si sostituiscano ad onorarlo. Proprio come quando il tuo vicino di casa non può pagare la rata del mutuo, non è scontato che gliela paghi tu. Può succedere, occorre intraprendere alcune azioni, ma non è scontato.

Se Berlusconi continua a raccontare questa storia dei due debiti, evidentemente ha in mente – cos'altro mai, se no, potrebbe avere in mente? – un meccanismo di travaso dei patrimoni privati nelle casse dello Stato, è questo sul pianeta da dove vengo io ha un nome: la patrimoniale.

Berlusconi dovrebbe essere consequenziale con ciò che dice e raccogliere il coraggio di proporla. Farebbe bene: assieme alle sue proposte sulla politica monetaria ed economica europea, avrebbe il programma di politica economica più a sinistra di tutte le altre coalizioni in questa tornata elettorale.

Se questo è quel che significa ciò che dice il personaggio, e se ciò che dice potesse mai essere preso al valor facciale, gli elettori di sinistra avrebbero motivi di prendere in considerazione di votarlo.

Eddyburg in occasione del giorno della memoria, e inviato il 28 gennaio 2013

Il numero delle vittime, la volontà di eliminare un intero popolo e interi popoli, la potenza di contagio di ideologie genocide, la coscienza su sin dove può arrivare la mente umana, farebbero dell'Olocausto una delle più grandi tragedie della storia.

Ma ciò che lo rende diverso, una singolarità, un punto assoluto della storia, è la sua modernità.

Ci sono stati – prima e poi – ideologie genocide, follie collettive e immensi stermini, ma mai un tale disegno è stato perseguito con tali strumenti della modernità: pianificazione funzionale, ordinati apparati burocratici dello Stato approntati secondo criteri dell'efficienza, razionalità procedurale, le scienze sociali moderne e la potenza della tecnica al servizio dell'industrializzazione dei processi di sterminio – la soluzione finale come una vasta ingegneria di problem-solving.

Non sono l'irrazionalità, i profondi istinti sempre in agguato e le tenebre della follia umana, ciò che rende l'Olocausto l'abisso dell'umanità, ma al contrario, l'universale della modernità europea che lo ha reso possibile: razionalità, tecnica, organizzazione funzionale dello Stato, efficienza ingegneristica, che hanno viepiù reso possibile che diventi "banale".

Non già la bestialità, ma al contrario tale sua "superumanità" fanno di esso la secolare caduta dell'uomo, Menschendämmerung.

Una singolarità storica su cui incardinare nuovi calendari, per segnare un avanti e un dopo.

Ricordare non basterà, la memoria non ci assolve – nulla può.

L’Edddytoriale n.155 mette in luce senza reticenze la crisi che anche le amministrazioni di sinistra (variamente connotata) più volenterose incontrano quando si accingono a varare un progetto urbanistico davvero nuovo. Si è costretti a constatare che le critiche e i propositi che si esprimono dall’opposizione una volta al governo non trovano, o trovano in maniera estremamente asfittica, le parole per dar vita a progetti che si fondano su presupposti diversi, che riconoscano le priorità trascurate, le politiche innovative e i soggetti in grado di far rivivere le città.Eddyburg ci invita a riflettere su quali siano oggi i poteri che determinano le scelte urbanistiche e, al loro interno, quale sia lo spazio per le scelte di un potere democratico pubblico compreso quello ben disposto a lavorare per una nuova pianificazione e governo del territorio.

Capire meglio come contrastare la rendita.

Se conveniamo che l’elemento che imprime il suo segno alla produzione della città e dei fatti urbani più in generale è ancora la rendita urbana, appare logico che occorra uno sforzo per capire meglio cosa significhi oggi “contrastare la rendita”. Ormai possiamo attingere ad una copiosa letteratura su questo argomento che illustra i cambiamenti delle modalità con cui la rendita urbana si costituisce. In sostanza si è passati dal plusvalore generato da una pura speculazione fondiaria sulle aree nella quale assumeva un ruolo preponderante, se non esclusivo, la pubblica amministrazione ad un ciclo di formazione più complesso in cui la componente essenziale è quella finanziaria e nel quale la pubblica amministrazione riveste un ruolo utile ma non determinante.

Se posso semplificare per tentare di mettere ordine al puzzle che stiamo componendo, siamo passati da:
1 - Rendita = pressioni/connivenze con la P.A. per orientare le scelte urbanistiche vs destinazioni più vantaggiose dei suoli edificati a:
2- Rendita = ricerca di opportunità di investimento per l’impiego di capitali costituiti da prodotti finanziari “senza patria”.

Nel primo caso il ciclo si svolge in ambito prevalentemente locale nel quale la P.A. ha ancora un ruolo centrale. Nel secondo, invece, i movimenti finanziari sono opachi, poco o nulla identificabili e la P.A. rappresenta solo un segmento di una filiera più vasta, spesso transnazionale.
A questa difficoltà oggettiva nel trattare le cause strutturali dei cambiamenti in corso si aggiunge la debolezza degli strumenti a disposizione.

Alla progressiva delegittimazione dei pilastri faticosamente costruiti in anni di lotte per la buona urbanistica ha contribuito certamente il “tradimento dei chierici” evocato dall’editoriale. Ma forse le responsabilità dei singoli, che pure c’è, va ricondotta ad un clima culturale che si è sviluppato a partire dagli anni ’80 del secolo scorso nel quale si è determinato un rovesciamento dell’egemonia culturale – in senso gramsciano- che aveva nutrito l’avanzamento delle conquiste degli anni ’60 e ’70. Un rovesciamento che è stato perseguito sistematicamente con iniziative organiche e ben condotte su molti piani e, forse, è stato visto con ritardo da chi lo doveva osteggiare. Quando, ormai, il cambiamento di senso comune era penetrato in profondità nella società e nelle arti e mestieri- compreso quello dei tecnici della città. Il cambiamento è stato, quindi, un prodotto collettivo impresso da molti fattori concomitanti anche se la responsabilità dei singoli non viene meno.
Le condizioni per cambiare le regole
Provo adesso a dire quali, a parer mio, potrebbero esser le condizioni per riprendere l’iniziativa facendo leva, laddove è possibile, sulle nuove amministrazioni locali che hanno professato, almeno nelle intenzioni, la volontà di cambiare le regole con le quali si governa la cittàLa constatazione che i programmi e le iniziative delle amministrazioni pubbliche che godono di maggior credito siano al di sotto delle aspettative (per tutti i recenti articoli di Gibelli e Boatti su Milano) porta a indagare le possibili cause del “male oscuro” che impedisce di esprimere compiutamente le premesse che avevano alimentato molte speranze. Possiamo metter in fila alcune possibili interrogativi:
1- inadeguatezza culturale? L’apparato del quale dispongono i pianificatori non riesce a intervenire efficacemente sulle pratiche in vigore, eccesso di astrattismo e accademismo negli obiettivi che si aggiunge ad una certa inerzia che si protrae nelle pratiche della pubblica amministrazione.
2- limiti del quadro legislativo? Il sistema normativo in cui ci si muove, a tutti i livelli, e l’apparato giuridico che lo informa non aiutano l’introduzione di cambiamenti significativi.
3- resistenza opposta dal meccanismo di formazione della rendita (la triade mattone-banche-grandi media evocata da Salzano)? Il potere di condizionamento delle scelte operata dal “blocco edilizio” esercita una forza ancor più pervasiva nella sua attuale composizione prevalentemente finanziaria rispetto alla fase precedente anche per il forte condizionamento che esercita sulla struttura della finanza locale.
4- scarsa comprensione dell’importanza strategica del “diritto alla città”? non è ancora patrimonio diffuso la consapevolezza della centralità della organizzazione urbana per la costruzione di un progetto politico realmente innovativo.
Forse tutte e quattro le ragioni, con pesi e misura variabili, contribuiscono all’insoddisfacente esito delle prove fornite dalle pubbliche amministrazioni volenterose.

Qualche proposta

Quale considerazioni si possono trarre in questo panorama? Provo a esporre qualche deduzione e proposta.

A- Aiuta a capire le difficoltà di affrontare il rinnovamento delle politiche per la città il contributo di W. Tocci, uno tra i più attenti alle trasformazioni in atto, in “l’economia delle città” (pubblicato in eddyburg). Dopo aver messo in evidenza lucidamente il fenomeno economico-finanziario che genera il degrado e l’invivibilità urbana e giunto alle possibili vie d’uscita non trova di meglio che auspicare una “rimodulazione dell’elenco delle opere nella Legge Obiettivo”. Se ne trae la sensazione che le compatibilità con lo schieramento politico cui l’autore appartiene impediscono di trarre la conclusione che sono proprio le ‘Grandi Opere’ la madre di molte delle disgrazie che si abbattono sui nostri territori e che questo ostacolo pesa sulla coerenza del rapporto analisi-iniziativa. Il legame con scelte disastrose del passato recente deve essere reciso con chiarezza per poter dare basi serie alla revisione della costruzione di programmi territoriali credibili.

B- E’ necessaria una legge urbanistica nuova. Sappiamo che è una chimera inseguita da troppo tempo e ci si potrebbe chiedere perché mai proprio ora dovremmo ottenere quello che sfugge da sempre. Ancor più quando nessuno dei programmi elettorali finora conosciuti ne fa il minimo cenno in una sorta di “conventio ad excludendum”Eppure le forze sociali più impegnate su questo fronte hanno la responsabilità di porre con decisione l’esigenza nel confronto elettorale. Il gruppo di eddyburg aveva già elaborato, qualche anno fa, una proposta che aveva trovato sostenitori disposti a presentarla in Parlamento anche se poi l’interruzione della legislatura ha impedito di proseguirne l’esame. L’iniziativa era, però, giusta e utile e da lì si potrebbe ripartire, magari aggiornando il testo e chiedendo a chi si candida nello schieramento di sinistra e centro-sinistra di impegnarsi a discuterla pubblicamente e sostenerne il percorso parlamentare.

C- Se nella fase economica recessiva che stiamo attraversando la rendita ha perso dinamismo ma non rinuncia al suo ruolo centrale nella produzione della città e ostacola altre possibili iniziative programmatiche quali possibili azioni possono essere adottate dalla pubblica amministrazione?
Ad esempio, che fare dell’enorme stock edilizio di recente costruzione che giace invenduto e inutilizzato? Si potrebbero aprire vertenze territoriali che mettono in discussione la separazione del momento autorizzativo della costruzione da quello del suo utilizzo bloccando, ad esempio, il rilascio di nuovi permessi di costruire fino a quando lo stock edilizio non utilizzato non scenderà sotto una soglia fisiologica predeterminata variabile a seconda delle caratteristiche socio-economiche della città (nel caso del comune che conosco il 5%). Si possono, inoltre, condizionare l’attuazione delle nuove aree di trasformazione, se già previste dal piano, alla preventiva saturazione delle potenzialità offerte all’interno del tessuto edificato (sia di completamento che di riconversione). In tutti e due i casi si tratta azioni possibili anche nell’attuale quadro legislativo utilizzando atti di programmazione che recuperino in parte le finalità di controllo della produzione edilizia che presiedeva ai vecchi piani pluriennali di attuazione, naturalmente rivisti e corretti.
D- Informazione e formazione continua del pubblico che sappia fondarsi sulla diffusa mobilitazione già in atto nei territori e ricomponga le domande che i cittadini esprimono localmente in un disegno generale.Eddy Salzano chiudendo l’ultimo incontro della scuola di eddyburg ha chiesto: come restituire lo scettro al popolo (senza essere populisti)? Che equivale a chiedere come coltivare i germi di una controgemonia? La ricca rete di attivismo che si impegna con passione e intelligenza nelle lotte territoriali è il punto di partenza ma deve riuscire a far passare i propri contenuti nel collo di bottiglia delle istanze istituzionali ad ogni livello. Qui in Lombardia, ad esempio, deve essere accantonata la pessima legge regionale sulla governo del territorio, non emendata, proprio rifatta da cima a fondo. Su questo chi si candida al governo regionale deve essere chiaro.

La disciplina urbanistica deve a sua volta rinnovarsi e aprirsi a contributi nuovi. Penso alla imprescindibilità delle analisi di economia urbana per controllare e indirizzare la creazione di valore del capitale fisso territoriale come elemento costitutivo sia dei piani che delle politiche di bilancio pubbliche. Qui si potrebbe offrire ai “chierici traditori” un’occasione di riscatto. Abbiamo bisogno di molto studio e molto lavoro per rivendicare il diritto alla città. Ma siamo in buona e numerosa compagnia.

(Laveno Mombello 14.1.2013)


L’anno 2012 si è concluso con due importanti risultati a favore del paesaggio agrario trevigiano e dell’agricoltura: il primo relativo al progetto per un insediamento “agroindustriale” nel territorio di Barcon di Vedelago in cui era previsto l’insediamento di un grande macello e di un edificio per la lavorazione finale della carta (igienica e/o per consumo domestico) su una superficie di 970.000 mq con escavo di oltre 2 milioni di mc di ghiaia (denunciati) su un area coltivata dell’alta pianura. Il progetto prevedeva, tra l’altro, la edificazione di un fabbricato emergente per oltre 60 metri dal livello di campagna, ben emergente sullo sfondo della vicina Villa Emo, progettata da Antonio Palladio e sito UNESCO; l’area vasta è definita dal vigente Piano Territoriale Provinciale di Coordinamento “a vocazione agricola” ed è già, purtroppo, in parte compromessa da profonde escavazioni di ghiaia. Sollevazione popolare, manifestazioni, raccolta di oltre 3.000 firme contrarie, impegno delle Associazioni, Italia Nostra capofila, hanno portato alla bocciatura del progetto in Consiglio Comunale con conseguente rottura delle alleanze partitiche, dimissione della maggioranza dei consiglieri e quindi del Sindaco che si era ferocemente battuto per la realizzazione del progetto. Vedelago andrà a nuove elezioni in primavera e sicuramente avrà una diversa direzione ed un diverso atteggiamento verso la tutela del suo territorio.

Il secondo, ma non per importanza perché riguarda un’area posta all’interno del Parco Regionale del fiume Sile, è una storia esemplare di mancanza di tutela ambientale da parte degli Enti (Comune ed Ente Parco) che dovrebbero esserne i primi tutori. L’Amministrazione Comunale di Morgano, (il Comune gode del bellissimo insediamento della piazza settecentesca di Badoere) decide che la frazione che ne dà il nome ha bisogno di un nuovo insediamento residenziale; la frazione è posta tra due rami del fiume Sile, quasi una isola, è interamente all’interno del Parco Regionale del Sile ed ha, e continua ad avere, una lottizzazione in cui sono già state realizzate le opere di urbanizzazione primaria ma non gli edifici poiché di questi non c’è richiesta. Questo non interessa all’Amministrazione: si dispone una Variante al Piano Regolatore vigente e si convince l’Ente Parco a predisporre una Variante specifica al Piano Ambientale, che viene regolarmente adottata, pubblicata, osservata e, alla fine, inviata alla Regione per la definitiva approvazione. L’ampliamento residenziale è previsto su un’area agricola in parte occupata da un piccolo bosco di piante indigene, ben curato e aperto al pubblico a cura dei proprietari, attiguo a un vivaio specializzato di specie autoctone lasciate a crescita spontanea; il resto ospita una coltura orticola di pregio (radicchio rosso di Treviso). L’area ha tre proprietari, in parti praticamente eguali, di questi uno non è stato informato, forse per sua disattenzione, della Variante proposta ed un secondo (bosco e vivaio) in quel periodo aveva altre gravi preoccupazioni: una malattia incurabile che ha colpito la moglie causandone la morte.

Nel frattempo l’iter della Variante prosegue: l’istruttoria regionale l’approva con prescrizioni e viene sottoposta al parere della Commissione Consigliare competente. Informata del problema Italia Nostra chiede di essere ammessa alla discussione, informa che l’area è riconosciuta come Sito di Importanza Comunitaria (SIC) e ottiene la sospensione della seduta e l’impegno ad eseguire un sopralluogo da parte dei Consiglieri Regionali, ben consapevole della difficoltà di bloccare la pratica ormai giunta alla conclusione. Interventi sulla stampa anche a diffusione nazionale, sulle televisioni (RAI1 e RAI3 oltre alle locali), ordini del Giorno del Consiglio Provinciale, deliberazioni delle associazioni dei coltivatori, altri tre sopralluoghi, hanno infine permesso di giungere al voto finale del Consiglio Regionale: 25 contrari, 4 astenuti ,1 favorevole.
Quel pezzo di terra è salvo e resterà destinato all’agricoltura.

Fra le più diffuse perplessità non epidermiche o ideologiche, sulla candidatura di Matteo Renzi a presidente del consiglio in un ipotetico governo di centrosinistra, c’è quella del suo rappresentare o meno il nuovo che avanza. E soprattutto di che razza di nuovo si tratti, perché la sostanza in queste cose conta parecchio.
Solo una verniciatina luccicante sulla vecchia muffa democristiana, giusto malamente aggiornata con qualche sbandata liberista, dicono i cattivi. No, osservano i più favorevoli, quello del sindaco di Firenze è lo spirito giusto, certo non privo di contraddizioni (chi non ne ha?) per interpretare la domanda di cambiamento che emerge dal paese, cambiamento non solo generazionale, del tipo che in modo assai più perverso e misterioso sta prendendo la via del grillismo. Meglio accoglierlo con spirito aperto, innovando in tante cose che a volte possono apparire ostiche, ma così deve andare il mondo.

Forse un buon momento di verifica di questa capacità di interpretare il nuovo, audacemente ma senza eccessi di sbandamento o sparate a vanvera, può essere l’emergenza di Firenze sotto le piogge invernali. Come noto (Genova insegna) quello del rapporto fra territorio ed emergenze è un ambito scivoloso, che può costare la carriera ai sindaci. Ma Renzi sindaco è, e qualcosa dovrà pur dire, o fare, con la sua città a mollo, anche indipendentemente da responsabilità pregresse specifiche su urbanistica o gestione ambientale.

E si tratta, guarda l’occasione, della settimana fra il primo turno e il ballottaggio delle primarie. Pensiamo a Barack Obama, alla sua (strumentale o meno non importa, qui) grande visibilità e interventismo quando di fronte all’emergenza dell’uragano Sandy ha mollato immediatamente i comizi della campagna elettorale per andare a stringere la mano a governatori e sindaci Repubblicani, da cui ha praticamente ricevuto una bella spinta a vincere la contesa con Mitt Romney. L’ha fatto appunto per quello? Non si sa, ma di sicuro il posto di un Presidente, nel momento del bisogno, è là dove questo bisogno si manifesta con più urgenza. La stessa cosa vale, forse anche di più, per un sindaco.

E invece basta scorrere i giornali per leggere di una situazione quasi surreale: titoloni nelle pagine di politica con Renzi che tuona contro le regole elettorali; e titoloni in quelle di cronaca con “bombe d’acqua su Firenze”. Qualcosa ovviamente non torna: dove sta il Sindaco, quando la sua città, il posto dove l’hanno messo nella posizione di più alta responsabilità pubblica, è in quella situazione? Il sindaco, a leggere i titoli della stampa, sta altrove e se ne frega, preso dai fatti suoi di carriera. E sorge spontanea la domanda: farà così anche da presidente del consiglio? Oppure teme un effetto simile a quello di Alemanno sotto la neve? In un caso o nell’altro, non sta facendo bene il suo mestiere: né di comunicatore, né di sindaco, né di candidato alla massima carica politica, che certe cose le dovrebbe capire al volo.

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Sentir parlare di Piano Fanfani, ai più, evoca una cosa grossa, anzi da un certo punto di vista la più grossa di tutte se si parla di città moderne italiane, quella che le ha rese direttamente o indirettamente quel che sono oggi. Che a partire da una intuizione socioeconomica giovanile, sviluppata teoricamente per quasi vent’anni, l’allora ministro del Lavoro seppe a modo suo trasformare in un coinvolgimento collettivo di impressionante efficacia, sul versante del consenso (elettorale e non), dello stimolo a studi e riflessioni, di modernizzazione nazionale nel senso migliore della parola. Ben oltre le intenzioni e la consapevolezza del ministro naturalmente, ma i ministri del giorno d’oggi che evocano quel programma per l’occupazione e lo sviluppo costruendo quartieri urbani potrebbero almeno evitare di semplificare oltre il dovuto la faccenda. In fondo non ci vuole tanto, avendo a disposizione ottimi uffici stampa in grado di elaborare eleganti comunicati ricchi di particolari e articolazioni tali da accontentare tutti.

Invece anche qui pare imperversare l’arroganza contabile che è il marchio di fabbrica dell’azione sedicente tecnica, in realtà roboticamente politica, dell’attuale governo non eletto. Lo si capisce leggendo la brevissima cronaca dell’incontro coi costruttori alla Triennale (la riporto di seguito) che ci dà l’interessato Sole 24 Ore. La città e il territorio, secondo questo approccio, sono contenitori di quattrini e si pensano e valutano in quanto tali: più ne producono, fanno circolare eccetera, meglio è, il resto conta quanto il due di picche. Ho già provato a commentare altrove in senso ampio questo atteggiamento, ma la specifica domanda che pongo qui è: possibile che la cultura delle città complessivamente intesa non insorga, almeno a parole, per classificare come meritano queste sciocchezze da ragioniere?

È pur vero che senza gli investimenti, gli strumenti per gestirli, non si muove nulla, ma qualunque movimento si intende di qualcosa in una certa direzione, e dunque: cosa vogliamo muovere e verso dove? Boh! Un po’ come con la TAV, l’importante sono i cantieri, i bilanci, i conti, il resto si vedrà. A cavallo fra gli anni ’50 e tutti i ’70, accanto e a volte oltre queste faccende contabili, il piano per il lavoro e la casa di Fanfani si è invece sostanziato in un vasto movimento di studiosi, progettisti, gruppi sociali e culturali, che ha cambiato l’idea di città e quartiere nel nostro paese. Al centro architetti e urbanisti, che ne hanno riempito i vuoti e aggiustato gli obiettivi col migliore portato della cultura internazionale, anche a costo di certe innovazioni un po’ ridicole che parevano atterrate direttamente da Marte. Come certi villini in stile britannico adatti alla famiglia ex contadina italiana quanto la guida a destra, o le planimetrie razionaliste stranianti a cui ci siamo abituati con tanta fatica, noi che non le consideravamo da un tavolo da disegno.

Generazioni di comitati cresciuti plasmando una nuova idea di comunità e magari di conflitto dentro i “centri sociali” a metà della famosa “piastra dei servizi” affacciata sullo stradone detto con iniziatica metafora scacchistica “asse di arroccamento” perché non portava da nessuna parte se non alla scuola, dove le auto, per chi le aveva, invertivano la rotta. Tutte cose quasi inedite, nelle nostre città ancora fatte quasi solo di centro storico, quartiere ottocentesco verso la stazione, e qualche intimidente palazzo pubblico di epoca fascista. Ben oltre le note piastrelline colorate col “logo” INA-Casa sulle facciate, questi quartieri hanno insomma marchiato e condizionato una lunga epoca, catalizzatori di sviluppo che non si calcola certo con gli investimenti e i loro meccanismi. E neppure si riduce (qui Ciaccia è forse consapevolmente fazioso) a un meccanismo di finanziamento pubblico del mercato privato attraverso il riscatto: buona parte delle realizzazioni era pensata per il godimento in affitto, grazie all’opposizione di sinistra, e il tipo di quartieri ne ha risentito. Ma, senza farla troppo lunga: nessuno ha qualcosa da dire? Tutti tengono famiglia e non si vogliono sbilanciare? La vera qualità, la marcia in più per cui il piano INA-Casa ancora oggi è circondato da una specie di alone leggendario, non sono certo le improbabili villette da suburbio londinese ricopiate da qualche manuale internazionale. E neppure il grande coinvolgimento del professionismo nazionale, che insieme agli altri settori del mondo del lavoro contribuì in modo determinante alla riuscita. È stata invece la capacità di entrare in risonanza con lo spirito diffuso, e di superare così gli steccati di settore, corporazione, interesse. Tutto quanto manca, al 100% all’approccio contabile di Ciaccia e della maggior parte dei suoi colleghi tecnocrati.

Giorgio Santilli, Ciaccia lancia il nuovo «piano Fanfani» per la casa, Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2012 (per un impietoso confronto sul respiro sociale, economico, politico, chi non l'ha ancora fatto si legga l'idea di "new deal territoriale" di Luciano Gallino)

Ciaccia lancia il nuovo "piano Fanfani" per la casa con Cdp, banche, fondazioni e costruttori.
Serve un vero e proprio piano casa
Il viceministro alle Infrastrutture, Mario Ciaccia, rompe gli indugi e dice quello che nessuno nel Governo aveva ancora detto: i progetti di housing sociale, per quanto importanti e innovativi, non bastano e serve invece un vero e proprio "piano casa" sul modello, adattato ai tempi, del "piano Fanfani" della fine degli anni 50. Ciaccia lo ha detto intervenendo stamattina alla Triennale, al convegno Ance «Cosa succede in città».

Ciaccia: e non basterà
A dire la verità, Ciaccia ha ammesso che non basterà neanche il piano città, con i 420 progetti presentati per un importo di quasi 12 miliardi, a soddisfare il fabbisogno abitativo e di infrastrutture metropolitane. «Il piano Fanfani - dice Ciaccia - prevedeva in origine il patto di futura vendita, trasformato successivamente in piano di riscatto, con ipoteca sull'immobile da estinguere all'avvenuto pagamento delle rate previste. Oggi - ha continuato Ciaccia - esistono tutti gli strumenti operativi per adattare con successo il Piano all'attuale quadro istituzionale: una grande alleanza, un grande patto tra cittadini, Cassa Depositi e Prestiti, sistema bancario, Fondazioni, Mondo delle costruzioni».

Cartelle fondiarie con la collaborazione di Cdp
L'ipotesi avanzata da Ciaccia prevede che «la Cassa Depositi e Prestiti e anche la Bei potrebbero acquistare i titoli emessi dalle banche per finanziare i mutui residenziali, con una forte riduzione del costo della raccolta. In altri termini: cartelle fondiarie con la collaborazione di Cdp e, meglio ancora, cartolarizzazione di mutui già in corso concessi dalle banche. Tra gli strumenti operativi, inoltre, gli ex Iacp potrebbero essere i gestori del patrimonio realizzato per il periodo di locazione previsto».

Allentare i vincoli del patto di stabilità
C'è un solo problema: per varare un piano casa, o anche qualunque altra ipotesi di politica abitativa, è necessario subito un allentamento dei vincoli del patto di stabilità sui comuni, con una deroga più ampia di quella che si sta immaginando di introdurre nella legge di stabilità (al Senato) per il piano contro il dissesto idrogeologico. Se il "piano Clini" si potrebbe applicare, infatti, solo ai comuni in ordine con i bilanci e con il patto di stabilità interno, per la casa andrebbe prevista una deroga anche per i comuni inadempienti. Ciaccia è pronto a battersi per questa nuova politica. Ma a Via Venti Settembre ci sentono da questo lato?

La proposta della giunta regionale sulla ricostruzione post sisma sopprime i vincoli di tutela all’ edilizia storica più danneggiata. Scritto per eddyburg, 21 novembre 2012 (m.p.g.) Tra ministero delle infrastrutture e dei trasporti e ministero dell’ambiente si sono venute dissolvendo le strutturate competenze nella “materia” dell’“urbanistica”che costituivano un solidissimo servizio del ministero per i lavori pubblici fino alla attuazione dell’ordinamento regionale. Non può dunque stupire la inerzia del governo e dei suoi ministeri che hanno totalmente ignorato la produzione legislativa delle regioni nella materia di urbanistica, omettendo di verificare se essa fosse rispettosa dei principi fondamentali espressi nella legislazione statale (e ben guardandosi dal sollevare, come sarebbe stato doveroso, l’immanente conflitto). Quando ben si può dire che le mutevoli leggi regionali da quei principi si siano venute via via allontanando, fino a dar corpo a un vero e proprio sistema radicalmente alternativo. E paradossalmente le proposte di legge avanzate in parlamento (che fortunosamente non avrà tempo neppure di prenderle in discussione in questa legislatura) per la determinazione esplicita dei principi fondamentali (rimessa alla potestà legislativa dello stato), si propongono di ricavarli, e così sanzionarli, dalle trasgressive leggi regionali.

Premessa troppo lunga, questa (ma infine si riconoscerà pertinente), a un rilievo di palese legittimità costituzionale della proposta di legge recentemente deliberata dalla giunta della regione Emilia – Romagna che detta norme per la ricostruzione dei territori colpiti dal terremoto del maggio scorso. Certamente un principio fondamentalissimo, se si potesse dire, si deve cogliere nell’articolo 7 della gloriosa legge 1150 del 1942, come fu modificato dalla legge 1187 del 1968 (di temporaneità dei vincoli allora si trattava) sul “contenuto del piano generale” che segna una vera e propria conquista dell’urbanistica, con il riconoscimento che compito essenziale della pianificazione territoriale è la tutela dei valori di cultura espressi nei luoghi di vita, attraverso “vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale, paesistico”. Vincoli forti, questi, non soggetti a decadenza, concorrenti con quelli delle leggi di settore affidati alla gestione del ministero per i beni culturali, e rispetto ad essi (puntuali e selettivi che isolano il bene protetto dal suo contesto) perfino più efficaci. Una potestà autonoma dalla legge statale affidata al comune, primario titolare della potestà di governo (oggi diciamo) del proprio territorio. Una attribuzione incomprimibile e una legge regionale che sopprima le tutele poste dal comune nell’esercizio della sua autonomia viola un principio fondamentale che limita la potestà legislativa delle regioni, dunque trasgredisce una regola costituzionale .

In Emilia - Romagna quella attribuzione è stata generalmente esercitata dai comuni con convinzione, attraverso la introduzione di vincoli conservativi estesi agli interi tessuti edilizi autentici dei centri storici, scrupolosamente normati (spesso perfino più rigorosamente rispetto alla libera incontrollabile discrezione delle soprintendenze) anche con la prescrizione di fedeli ricostruzioni nei casi di eventuali demolizioni, fortuite o intenzionali che fossero. Ebbene, la proposta legge regionale sopprime i vincoli di tutela posti dai piani regolatori dei comuni terremotati (nell’esercizio di quella autonoma potestà) sugli edifici riconosciuti “di interesse storico-architettonico, culturale e testimoniale” se essi siano “interamente crollati a causa del sisma ovvero siano gravemente danneggiati e non recuperabili se non attraverso demolizione e ricostruzione”. “La disciplina di tutela stabilita dalla pianificazione urbanistica” in questi casi “si intende decaduta”. Dunque libera sarà la ricostruzione, o secondo parametri planovolumetrici determinati per nuova convenzione. E come apprendiamo con preoccupazione dalle dichiarazioni impegnative di chi spende nei luoghi del terremoto la responsabilità del ministero dei beni culturali, si vogliono introdurre non poche eccezioni al principio della ricostruzione degli edifici formalmente tutelati, se siano stati gravemente danneggiati dal sisma. Di edifici religiosi “crollati”, prevalentemente si parla, per il cui destino si ipotizzano estrose manipolazioni, affidate magari a concorsi internazionali. Ma l’attuazione di un simile proposito trova un ostacolo nella vigente disciplina dei piani regolatori, sicché l’amministrazione dei beni culturali paradossalmente ha bisogno di una legge regionale che sciolga dalla prescrizione conservativa, in una perversa alleanza contro il principio fondamentale di una urbanistica che aveva saputo rivendicare il compito irrinunciabile di tutelare la storia delle nostre città.

C’è dunque da temere che gli assopiti controlli governativi sulla legittimità costituzionale delle leggi urbanistiche regionali non troverebbero ragione di destarsi, se questa proposta della giunta trovasse il consenso dell’assemblea della regione Emilia Romagna.

Il testo rappresenta l’intervento letto in occasione del convegno ferrarese di Italia Nostra “Limiti e risorse dell’edilizia storica nel caso di eventi sismici”, Ferrara, 17 novembre 2012.

Non ci è stato dunque dato di avere Paolo Ravenna osservatore attento (pur se non necessariamente qui presente di persona) a quanto andrà a discutere questo nostro incontro di oggi. Ci mancherà il suo sicuro giudizio (sul quale facevamo affidamento) sul modo in cui Italia Nostra deve sapere esercitare la sua responsabilità di libera associazione di fronte ai complessi problemi che le distruzioni del sisma e la ricostruzione pongono alle istituzioni pubbliche e innanzitutto pongono alle amministrazioni delle comunità colpite e agli uffici della tutela del patrimonio culturale. E questa dolorosa assenza ci stimola a riflettere sul rapporto consolidato negli anni tra Paolo Ravenna e Italia Nostra che sarebbe semplicistico considerare di ideale immedesimazione e risolvere nella ricognizione delle esemplari iniziative che Ravenna ha saputo concepire e voluto perseguire nei modi che son propri di questa nostra associazione. Da lui intesa, ne abbiamo sempre avuto la consapevolezza, come il più adeguato strumento per l’esercizio dell’impegno civile cui il cittadino responsabile è chiamato in un ambito di autonomia estraneo a quello nel quale si confrontano i partiti: e l’associazione così intesa è fattore di arricchimento della complessiva vita politica. Un impegno rivolto innanzitutto al più prossimo ambiente di vita e cultura e proiettato dentro l’orizzonte dell’intero paese (travolta l’antitesi locale – nazionale) per una responsabilità assunta verso la comunità nazionale. Italia Nostra lo ricordava, fu voluta, e nel suo più di mezzo secolo di vita è stata, unitaria e nazionale.

Ma se certo la personalità di Paolo Ravenna non si risolve ed esaurisce (non vogliamo, complessa come è, risolverla ed esaurirla) nella sua appassionata (ma sempre lucida) partecipazione alla vita della associazione, non possiamo qui sottrarci a quell’essenziale repertorio delle sue idee, forti ben può dirsi, che son divenute iniziative di Italia Nostra e spesso, misura del loro illuminato realismo, opere per tutti. Fu sua la prima concretamente concepita ipotesi di un parco, dovuto per la salvaguardia dei territori ferraresi del Delta e delle residue valli minacciate da una definitiva artificializzazione; sua la indicazione della più appropriata conversione d’uso dei complessi exconventuali ferraresi idonei ad assicurare l’insediamento degli istituti universitari in sviluppo, integrati nel tessuto vivo del centro storico e ricordiamo l’esemplare convegno di promozione di quella ambiziosa operazione; sua la fortunata campagna per il recupero - restauro delle mura, metafora della difesa attuale dell’idea di città che con gli Este fu la prima città moderna d’Europa (intangibili rimangano e son rimasti gli spazi verdi di sottomura) e la mostra promosse questa idea della “moderna” Ferrara anche oltre oceano; sua la intuizione che ben può dirsi geniale, su questa stessa linea di proiezione nella modernità, della “addizione verde”nel preservato Barco, che ricongiunge la città al suo fiume, e ha già trovato una prima attuazione nel parco dedicato a Giorgio Bassani; sua la ben fondata e vincente rivendicazione per Ferrara dell’atteso museo della cultura e presenza ebraica in Italia, che Ravenna avrebbe visto insediato nel Barco con una nuova architettura di assoluta qualità (di cui, se avesse realizzato il giovanile sogno di farsi architetto, lui sarebbe stato capace) o forse avrebbe preferito il museo opportunamente articolato dentro il vasto quartiere urbano del Ghetto con le sue sinagoghe (che ha buon titolo per accoglierlo), piuttosto di un solenne memoriale della shoah dentro il recuperato e severo edificio ex carcerario.

Si è detto di questa appassionata cittadinanza ferrarese esercitata assiduamente da Ravenna e se ne può parlare a condizione di vederla espressione di una lucida, originale nel senso di non comune, intelligenza della città e dentro l’ampia rete di relazioni ideali che vanno oltre i confini stessi del paese, aperte dalla appartenenza, cui da laico era rimasto fedele, alla cultura delle comunità israelitiche.

E questa appassionata e lucida cittadinanza ha animato negli anni Italia Nostra a Ferrara e ha dato vita a un modello alto, esemplare, di condotta della associazione, che qui ha esercitato (come forse in nessun altro luogo del paese) un ruolo incisivo e talvolta perfino determinante nella vita civile della città, con un equilibrio che pur nella fermezza delle posizioni ha evitato l’asprezza degli scontri, sapendo con tenacia conquistare decisivi consensi e meritando insomma il generale riconoscimento in considerazione e stima, come abbiamo visto in questi giorni testimoniato dal corale saluto riconoscente e affettuoso che Ferrara ha voluto dare a Paolo Ravenna. E per Italia Nostra rimane motivo di orgoglio che un uomo come Paolo Ravenna abbia riconosciuto nell’associazione i modi a lui più congeniali per l’esercizio dell’impegno civile.

"Le lauree in beni culturali e in archeologia aprono sbocchi nella ricerca, valorizzazione e tutela presso Enti di ricerca, istituzioni pubbliche e private (enti locali, soprintendenze, musei, biblioteche, archivi, ecc.) nonché presso aziende ed imprese operanti nel settore ...".

Queste parole potrebbero essere prese dal sito di un qualunque ateneo italiano, sezione corsi di laurea, paragrafo sbocchi professionali.

E suonano come una crudele presa in giro. Credo infatti che sia ormai evidente a tutti (e non da poco tempo) che nessun ente di ricerca e nessuna istituzione pubblica potrà mai assumere le migliaia di laureati in beni culturali sfornati annualmente dalle Università italiane; non parliamo nemmeno di aziende e imprese, che non hanno molto interesse a investire in un settore che non promette grandi prospettive di business e in cui la litigiosità fra gli attori è spesso paralizzante.

Eppure ci si continua a meravigliare della contrazione del numero degli iscritti nei corsi universitari, chiamando in causa di volta in volta declinazioni bizzarre e pericolanti del più classico degli o tempora o mores:

"colpa delle giovani generazioni, sono ignoranti", "in Italia non c'è interesse per la cultura", "viviamo un momento di imbarbarimento dei tempi".

Spesso avallate da un forte sentimento antimodernista e antitecnologico: "ormai non legge più nessuno", "i ragazzi giocano sempre con il telefonino", ecc. ecc.

Al di là di questi facili pretesti, buoni solo ad autoconvincersi dell’imminente fine del mondo, esistono in realtà cause ben più serie che minano alla radice un possibile, vero sviluppo del settore dei beni culturali.

Fra queste va sicuramente additato il disinteresse della formazione universitaria umanistica verso il mondo del lavoro.

Che lo sbocco professionale dei propri laureati non sia esattamente il primo pensiero delle facoltà umanistiche è cosa nota. La situazione negli ultimi dieci anni si è ulteriormente aggravata con l'istituzione dei corsi di laurea in beni culturali e affini, che, ben più della contemporanea e famigerata riforma del 3+2, hanno costituito un'occasione persa.

Quel che ha reso disastrosa questa prospettiva, che pure si presentava potenzialmente molto positiva è stata la mancanza di una riforma contestuale del mercato del lavoro e di un impulso deciso verso la creazione di nuove professioni, considerato che veniva meno anche la 'comoda' rete di protezione dell'insegnamento scolastico che storicamente assorbiva (o perlomeno ci provava) i laureati in Lettere che non riuscivano a trovare una occupazione più in linea con i propri studi (archeologi, storici dell'arte, ecc.).

Si sarebbero potute fare cose straordinarie in questi dieci anni, ma non si è nemmeno riusciti ad aggiornare i siti web. Tutti eravamo impegnati in battaglie di civiltà e a difendere il diritto allo studio, e abbiamo colpevolmente trascurato il dovere di pensare al lavoro.

Oggi che vengono al pettine questi nodi atavici (e gordiani!) ci lamentiamo del precariato che uccide la passione, e dei tanti giovani che non ottengono un riconoscimento professionale consono con i loro studi. Ma trascuriamo di indagare più nel profondo, chiedendoci, ad esempio, quanto le nostre ricerche e i nostri insegnamenti siano professionalizzanti e quanto invece siano frutto della totale autoreferenzialità del mondo accademico.

- Siamo infatti noi ricercatori a decidere che ricerche fare e come usare le risorse; poi, se nessuno ci vuole finanziare, è perché il mondo è cattivo e nessuno capisce nulla (all’infuori di noi ...).

- Siamo sempre noi a decidere, di conseguenza, che cosa insegnare, e se gli studenti non capiscono l'importanza dei nostri corsi ... (vedi punto precedente)

- Di conseguenza se i nostri studenti sono bravissimi ma imparano cose che non serviranno mai, questo è colpa del mondo che, ancora una volta è cattivo, e pieno di gente che non capisce nulla, ecc. ecc.

- Idem se i nostri collaboratori se ne vanno a tentare mestieri altrove;

- E lo stesso se nessuno si iscrive più ai corsi di studio;

- E ancora lo stesso motivo se non esistono programmi di finanziamento in cui è possibile candidare una nostra ricerca.

Per un istante proviamo anche noi, ricercatori e docenti, a pensare alle nostre responsabilità e alle colpe di una formazione che non porta all’acquisizione di competenze spendibili sul mercato del lavoro ma solo ad una specializzazione estrema nella ricerca.

Specializzazione che non ha alcun esito se non quello di proporre una perpetuazione infinita di un meccanismo insostenibile di creazione di nuova ricerca (a sua volta fine a se stessa ...)

Sarebbe ora di smetterla con l'autocelebrazione della ricerca 
e con la conseguente immancabile commiserazione del volontariato e del precariato, termini di una triste liturgia che noi stessi abbiamo contribuito a costruire e imporre, 
con la didattica inutile
 e con la ricerca inutile, ma soprattutto rifugiandoci nella aulica impenetrabilità del nostro mondo.

Sarebbe di contro molto utile pensare al placement dei nostri laureati, e iniziare a lavorare per proporre una visione dei beni culturali che non sia più solo protezionistica ed erudita.

Nessun governo infatti darà mai le risorse per assumere diecimila ricercatori o cinquemila archivisti o mille ispettori di soprintendenza. Perché nessuno avrà mai le risorse per pagare un costo così alto.

Oggi infatti i beni culturali sono solo un costo. Dalla formazione al (poco) lavoro è un settore che produce, per la collettività, solo ed esclusivamente oneri, e, ed è la cosa più grave, non è in grado di immaginare un futuro diverso.

E' evidente invece la necessità di una mentalità nuova, e di un nuovo modello per l’utilizzo delle risorse (compreso il tempo) di tutti ed in particolare dei ricercatori e dei docenti universitari, che partecipano da protagonisti alla fase delicata di creazione (e demolizione) di prospettive e speranze.

Il ritardo è enorme. Senza indugio si deve costruire una nuova formazione nel settore, immaginare e realizzare scenari nuovi di impiego delle competenze dei nostri laureati, che non siano quelli, avvilenti, che tutti conosciamo. Prospettive nuove che diano finalmente impulso a un'industria: innovativa, creativa, tecnologicamente avanzata, che assorba e richieda lavoro competente e specializzato (che non è certo la sorveglianza archeologica ...).

Che spinga i nostri laureati a diventare dei professionisti, come fanno i loro colleghi, avvocati, ingegneri, architetti, medici e anche, più recentemente, insegnanti e professori di scuola ...

Il testo costituisce una rielaborazione di un post presente su Passato e futuro (www.passatoefuturo.com), un blog nato nell’ottobre 2012 per iniziativa di Giuliano De Felice, ricercatore in archeologia presso l’Università degli Studi di Foggia. I temi che affronta sono legati alla convinzione che uno sviluppo nel settore dei Beni Culturali in Italia sarà possibile solo all’interno di uno scenario completamente nuovo, in cui tutti gli attori imparino a ragionare in maniera condivisa e costruttiva, contribuendo ad una crescita che risulti sostenibile e misurabile in termini di ricchezza e occupazione. In Passato e Futuro riflessioni, proposte e denunce... e un pizzico di ironia.

Qualche anno fa, quando dedicavo alle mie piccole inchieste territoriali per eddyburg più tempo di quanto non accada ora, mi è capitato di frugare parecchio qui e là alla ricerca di materiali informativi sul mega progetto di fusione tra gli aeroporti di Montichiari e Ghedi, spinto dalla locomotiva a tutto vapore della Lega bresciana, in evidente contrasto con le argomentazioni dell’altro braccio leghista gallaratese tutto proteso verso il gigante Malpensa. Per non farla tanto lunga rinvio a quel vecchio articolo, Hub? Burp!, limitandomi qui a ricordare un aspetto piuttosto paradossale: il documento territoriale del relativo Piano d’Area era una frazione minima di quello socioeconomico. Ovvero, semplicemente accostando i fascicoli uno di fianco all’altro era possibile intuire, o quantomeno sospettare con parecchio fondamento, quali fossero i criteri che ispiravano l’idea e sbilanciavano tutte le decisioni in un senso preciso. Da un lato uno spazio intercomunale piuttosto ampio, che scendeva dal pedemonte del capoluogo alla pianura agricola, interessato dalle trasformazioni fisiche e dagli impatti ambientali del nuovo grande hub internazionale centro padano. Dall’altro i vantaggi economici ed occupazionali delle medesime trasformazioni. Bastava appunto misurare lo spessore dei fascicoli per avere un’idea di quanto pesassero sulle decisioni.

Poi, poi, si poteva anche entrare in tutti i possibili e legittimi dettagli: gli impatti ambientali della trasformazione sono davvero così limitati, oppure territorio e salute collettiva ne risentono molto di più? I luminosi futuri di prosperità per l’area vasta sono reali, e valgono davvero lo scambio con il consumo di suolo agricolo, l’investimento nelle infrastrutture dedicate invece che altrove, e via dicendo? Dettagli, appunto, per quanto sterminati, davanti alla quasi evidenza dei due fascicoli: quello territoriale sottile, quello socioeconomico grasso e spesso. Si potrebbe anche proseguire ricordando che, come hanno raccontato le cronache, la cosiddetta Valutazione Ambientale Strategica, per la sua parte di discussione pubblica, è avvenuta nello spazio di pochi minuti, in un’assemblea convocata in fretta e furia, suggerendo che probabilmente quello dello spessore dei fascicoli era davvero un ottimo criterio di giudizio preliminare sul metodo. Ma veniamo al dunque: il caso della condanna inflitta dal tribunale dell’Aquila alla commissione scientifica incaricata di esprimersi sui rischi del terremoto, ha l’indubbio merito di chiarire in modo brutale i termini della questione, e al tempo stesso rilanciare il tema della decisione informata in generale.

Come si decide? Quanto pesano le varie considerazioni su quella decisione? Chi ha la parola finale e quale discrezionalità è ammessa? Sta tutto qui, reso brutale e impattante dal caso specifico: avete rassicurato la popolazione, esponendola a un rischio per informazioni sbagliate o carenza di informazioni. Almeno così recita più o meno l’accusa, accolta dagli organi competenti evidentemente dopo aver valutato i termini dell’incarico scientifico. Stare in casa mentre la casa ti crolla sulla testa è una cosa assai più semplice del vivere un’intera esistenza abitando e lavorando in un territorio che in pratica ti crolla addosso, ma ripaga te (in quanto collettività, anche se con ovvi squilibri) con una crescita di ricchezza e consumi? A Brescia con l’aeroporto, o a Taranto con le acciaierie, o in tantissimi altri casi, chi ha deciso, e come, sulla base di quali competenze e discrezionalità?

Non pare per niente un dibattito teorico sul massimi sistemi, e appunto per restare con le radici ben piantate nel territorio, e anche ai temi trattati da questo sito, che dire di prestigiosi oncologi che promuovono per anni progetti di trasformazione che fanno evidentemente male alla salute? Faranno benissimo alla scienza, chissà, o alla competitività metropolitana, anche: ma quanto sono spessi i due fascicoli? E chi li valuta alla fine? O quei sociologi senza neppure uno straccio di laurea, che validano schemi di trasformazione territoriale, produttiva, autostradale non capendone assolutamente nulla, interessati al massimo ai meccanismi decisionali discrezionali della politica? Degni di rispetto anche loro, certo, ma poi tutti rispondono di quanto ricade sulla pelle di altri? Ecco, con le case crollate nonostante le rassicurazioni su base scientifica dell’Aquila si richiamano un sacco di altri problemi, meglio se prima che arrivi la magistratura, e invece di evocare le forche, o l’anima del compianto Galileo, che magari dal punto di vista scientifico-teologico aveva pure torto.

Non so se Michael Halpern, che si occupa da tempo delle interferenze della politica sulla scienza, quale esponente dell’americana Union of Concerned Scientists sia stato il primo -e poco conta- a proporre il confronto: la condanna della Commissione grandi rischi “è avvenuta nel paese natale di Galileo. Certe cose non cambiano mai”. Sta di fatto che in molti hanno sposato la tesi del “processo alla scienza”. Il mondo della ricerca e l’accademia hanno così mostrato solidarietà per i sette condannati; addirittura qualche ministro e molti giornali nostrani -quelli che hanno nel mirino la magistratura per motivi molto diversi- non hanno saputo resistere alla tentazione di scomodare il Galilei. Così il Pubblico ministero Picuti assume le sembianze del commissario dell’Inquisizione frate domenicano Vincenzo Maculano, ed il Tribunale prefabbricato nell’area industriale di Bazzano, nella piana aquilana, diviene il Sant’Uffizio. Amen.
La suggestione del “processo alla scienza” era già stata prospettata quando partirono gli avvisi di garanzia. Quattromila ricercatori e scienziati sottoscrissero un documento con il quale si diceva che i “terremoti non si possono prevedere” e che quindi gli scienziati non potevano essere sottoposti a giudizio. Più o meno la stessa cosa avvenne quando gli avvisi di garanzia si trasformarono in rinvii a giudizio per l’intera Commissione riunitasi il 31 marzo del 2009. C’era quindi da attendersi che il tema si riproponesse, anche con maggior vigore, dopo la sentenza. E così è stato: tutto il mondo sta gridando che i terremoti non si possono prevedere e che quindi non si possono condannare degli scienziati per non averlo fatto. Peccato che il tema non sia questo. Nonostante in molti, magistrati ed avvocati ed anche autorevoli commentatori, abbiano richiamato l’attenzione su un’impostazione processuale obiettivamente tutta diversa: il Pubblico ministero ha voluto verificare quanto espresso dalla Commissione in termini di valutazione del rischio, corretta informazione, diligenza, prudenza, perizia, osservanza di leggi e regolamenti, ordini e discipline. Niente da fare, forse senza leggersi le carte, il mondo della ricerca mantiene la barra dritta sul suggestivo paragone con le disgrazie di Galileo.
Dopo le tante cose che in questi giorni sono state dette e scritte sulla sentenza del giudice Billi, anche senza ancora conoscerne le motivazioni, può essere interessante considerare la questione da un diverso punto di vista: le sopraggiunte dimissioni dell’intera Commissione grandi rischi ora in carica e presieduta dal fisico Luciano Maiani. Le motivazioni sono espresse nei seguenti termini: "…la situazione creatasi a seguito della sentenza sui fatti dell'Aquila sia incompatibile con un sereno ed efficace svolgimento dei compiti della commissione e con il suo ruolo di alta consulenza nei confronti degli organi dello Stato". Così altri grandi titoli sui giornali che dipingono una Protezione civile allo sbando, in crisi profonda.
Procedendo in modo, diciamo così, deduttivo, si può osservare che se l’attuale Commissione si dimette perché teme che ciò che è capitato a “quell’altra” Commissione possa ripetersi, togliendo così serenità di giudizio, significa che lo svolgimento dei fatti per cui vi è stata causa a L’Aquila, e le relative condizioni al contorno, si possano considerare “normali”. Si tratterebbe cioè di un termine di paragone plausibile rispetto a quanto potrebbe riproporsi in futuro, tanto da impensierire i componenti l’attuale consesso scientifico. Insomma: così non si può lavorare! Come se la modalità con cui a L’Aquila la Commissione grandi rischi si espresse possa essere considerata davvero scevra da omissioni, carenze, ingerenze. Insomma, il normale procedere della sua attività. Se così fosse, non si potrebbe non condividere l’apprensione degli scienziati che offrono la loro competenza alla Protezione civile.
Ma la questione è che le cose non stanno proprio così; la vicenda non si è sviluppata proprio nel modo che è descritto da chi a Galileo, ed al suo processo, oggi si vuol forzatamente riferire.
Intanto è utile porre l’attenzione sul fatto che non vi è nulla di più incongruente con le “regole” che sostengono la vita della Commissione, di quanto successe nei giorni che precedettero il terremoto del 6 aprile 2009. Convocazione, formulazione del quesito, numero legale, espressione e formalizzazione del giudizio, svolgimento della riunione, sottoscrizione del verbale. Nulla, assolutamente nulla, si è svolto secondo quanto il decreto che regola il funzionamento di quell’organo consultivo prevedeva. Ma, si potrebbe dire, questa è una visione burocratica della questione. Non è vero. Se ci si appella alla necessaria serenità per svolgere una funzione assai delicata, perché attiene alla sicurezza dei cittadini di questo paese, in cosa si deve far assolutamente affidamento se non alle regole che presiedono al suo funzionamento? E dunque di procedure si deve parlare. Ma è noto: quelli erano anni in cui si andava sviluppando un’epidemica avversione alle regole. Una volta si diceva che in certi contesti la forma assume il valore di sostanza. In questo caso la sostanza sono le regole di funzionamento di una Commissione a elevato tasso di responsabilità; esse costituiscono il sistema di garanzie per chi partecipa alle sue riunioni. E l’Amministrazione, di tale sistema, deve essere pienamente responsabile. Di tutto ciò, in quanto avvenuto a L’Aquila non c’è traccia.
Ma la questione non si risolve tutta qui. Non si tratta solo del non aver rispettato procedure, si tratta anche di esser stata, quella Commissione, usata in modo improprio rispetto al proprio mandato.
Il Pubblico ministero, nell’atto di imputazione dei sette componenti la Commissione, dopo aver chiarito che il problema non è la previsione del terremoto, notoriamente impossibile- fa riferimento al fatto di non esser stata trattata la questione del livello di rischio incombente su quel territorio. E sul rischio sismico, il famigerato verbale -quello sottoposto alla firma dei componenti la Commissione solo il giorno dopo, sulle macerie del terremoto- dice davvero poco e quel poco è davvero non convincente. Certo, si può sostenere che il quesito posto a quel consesso riguardava soprattutto la prevedibilità del terremoto. D'altronde pochi dubbi ormai sussistono sulle ragioni della convocazione del 31 marzo 2009. Il giorno prima una scossa di magnitudo 4.0 aveva ridato fiato alle previsioni di quel Giuliani che, misurando il gas radon, prevedeva i terremoti.
Nonostante il Capo della Protezione civile l’avesse denunciato qualche giorno prima alla Procura della Repubblica per procurato allarme, quella ennesima scossa, ancora più forte delle tante che l’avevano preceduta, fece decidere per una irrituale convocazione della Commissione con l’intenzione dichiarata di ottenere un pronunciamento in termini di “situazione normale, sono fenomeni che si verificano…meglio così che ci siano 100 scosse di 4 scala Richter, piuttosto che il silenzio perché 100 scosse servono a liberare energia e non ci sarà la scossa quella che fa male”. Cose che poi la Commissione, nel corso della riunione davvero non disse, limitandosi a dichiarare la imprevedibilità dei terremoti. Ma insomma, il “fattore Giuliani” si doveva depotenziare con la voce della scienza.

La valutazione del rischio
Il tema del rischio di quella parte di Abruzzo, invece, era davvero necessario affrontarlo. E sul rischio sismico è necessario sottolineare come non vi fosse altro luogo nel paese che potesse esprimere strumenti di valutazione superiori a quelli disponibili presso il Dipartimento di Protezione civile. Da tempo, in adempimento del proprio compito istituzionale, era in possesso di conoscenze scientifiche e capacità di elaborazione in grado di disegnare scenari di evento molto attendibili, proiezioni di impatto di eventi che già si erano verificati nel passato. Insomma, le dimensioni di ciò che sarebbe potuto accadere a L’Aquila, e quindi il livello di rischio a cui la popolazione era esposta, risultava essere un dato sicuramente e da molto tempo nella disponibilità della Protezione civile. In proposito sarebbe stato comunque importante sentire anche la Commissione grandi rischi. Anzi, sarebbe stato utile convocarla molto prima; quando il ripetersi prolungato di scosse aveva fatto perdere la tranquillità alla popolazione.
Davvero una Commissione, di composizione diversa (perché parlare di previsione non è la stessa cosa che trattare il tema della prevenzione e della comunicazione in emergenza) da quella interrogata invece il 31 marzo sulla possibilità di prevedere i terremoti, avrebbe potuto consigliare la Protezione civile sul da farsi. Certo non una generale evacuazione, ma piuttosto come muoversi per fare prevenzione a breve (edifici strategici, edifici pubblici, sgombero di edifici a maggiore vulnerabilità, assistenza alla popolazione) e, soprattutto, una corretta comunicazione alla popolazione.
Un problema di comunicazione
Ecco questo ultimo è forse l’aspetto più importante di tutta questa vicenda, su cui molti attenti commentatori hanno ripetutamente appuntato l’attenzione. Questo paese, come al solito in ritardo nei confronti di quanto accadeva in altri paesi, si è dotato solo nel 2000 di una legge, la numero 150, intitolata “Disciplina delle attività di informazione e comunicazione delle pubbliche amministrazioni” che regola l’attività finalizzata a promuovere, tra l’altro, conoscenza su “temi di rilevante interesse pubblico e sociale”. In attuazione di tale norma la Protezione civile ha determinato il funzionamento dell’Ufficio stampa del Capo Dipartimento; tra i suoi compiti vi è quello di curare i rapporti con gli organi d’informazione, predisporre i comunicati stampa, monitorare le agenzie di stampa, gestire la comunicazione alla popolazione attraverso gli organi d’informazione, elaborare strategie per la comunicazione istituzionale. Incredibilmente di tutte queste corpose e delicate competenze nulla venne attivato dopo la sciagurata riunione del 31 marzo del 2009. Nemmeno un comunicato stampa per spiegare le determinazioni raggiunte dalla Commissione, nemmeno un’azione di verifica di quanto, nelle ore successive, passava su radio, televisione e compariva sui giornali.
Se quanto veniva proposto svolgeva una deleteria azione tranquillizzante nei confronti della popolazione, come il processo ha riconosciuto, perché chi ne aveva la competenza non ha ritenuto di dover intervenire per spiegare, integrare, correggere? Tutto fu affidato ad una estemporanea conferenza stampa a cui si presentò il Presidente vicario della Commissione Franco Barberi, il Vice capo della Protezione civile De Bernardinis e il sindaco Cialente. Di essa non è disponibile una registrazione, solo alcune dichiarazioni dei partecipanti rese alla stampa prima di lasciare la sala. Su concetti espressi in pochi secondi di interviste si è fondato il delicatissimo percorso di comunicazione istituzionale sul tema. Null’altro fino alla tragica notte del 6 aprile 2009.
E dunque, davvero la Commissione grandi rischi si dimette oggi perché prevede che macroscopici scostamenti dalle regole del suo funzionamento, si possano riproporre? Davvero può ancora succedere che ci si dimentichi di essere, la Commissione, organo consultivo esclusivo del Dipartimento al cui Capo è tenuta a riferire dei risultati delle riunioni, e che poi questi ricondurrà al livello politico ogni decisione sul da farsi? Davvero si può pensare che di nuovo, qualche suo componente, si renda incautamente disponibile per supplire alle funzioni delicatissime di front end della comunicazione in emergenza attribuite al Dipartimento?
Non sembra davvero che le condizioni che determinarono quel pasticcio della Commissione riunitasi il 6 aprile 2009, e che oggi è stata così severamente sanzionata, possano riproporsi. Per due ragioni fondamentali: perché quanto successo rappresenta certamente un monito per il futuro e perché obbiettivamente sono pochissime le possibilità che quelle sciagurate condizioni al contorno davvero si ripetano. Condizioni delle quali alcuni brandelli (leggi registrazioni telefoniche) stanno incredibilmente emergendo ancora in questi giorni, dopo che il processo si è concluso.
Per questo è opportuno lasciare in pace Galileo con il quale, forse, l’unico termine di confronto possibile sembra essere proprio la singolarità dei diversi, ma comunque particolari, contesti in cui i fatti si svolsero. Allora c’era l’Inquisizione.

Ho avuto il privilegio di lavorare con Giuseppe Grandori, scienziato illustre dell’Ingegneria Sismica. Ruoli di primo piano fin dalla prima Protezione Civile di Giuseppe Zamberletti. Grandori si è messo da parte ed è stato lasciato da parte, man mano che la Protezione civile perdeva la sua essenziale connotazione (ricordata da Zamberletti su l’Unità del 24 ottobre), di luogo esecutivo nutrito da un virtuoso convergere di scienza, politica, amministrazioni locali, cittadinanza, convergenza la cui mancanza è, non solo a mio parere, non ultima causa delle attuali nostre difficoltà nell’attuare programmi di prevenzione.

Intervengo, potrei dire, anche a nome di Grandori, recentemente scomparso, riassumendo l’argomento sostanziale delle nostre ricerche sugli aspetti decisionali in condizioni di incertezza, con la speranza che ciò aiuti a riattivare quel lontano virtuoso circuito. E a disincagliarci da pessime posizioni di accusa o di difesa degli scienziati o dei magistrati.

Da molti anni noi ci siamo dedicati allo studio dei terremoti, costruendo le probabilità del loro accadimento a valle dei cosiddetti precursori, perché ciò è base indispensabile per cercare criteri decisionali che possano suggerire se dare oppure no l’allerta nell’ intricata situazione sismica, caratterizzata da piccole probabilità e gravissimi possibili danni. Per criteri decisionali si intende in letteratura la determinazione i livelli di rischio accettabile, i sistemi di fattori e informazioni (di varia provenienza e non solo tecniche) in base ai quali decidere di dare diversi livelli di allarme, e valutare i costi di mancato allarme e di falso allarme.

L’argomento non ha avuto in generale seguito di interesse nella comunità scientifica. Anzi, anche al suo interno ha attecchito la sterile polemica se i terremoti siano prevedibili o no (è chiaro infatti che in senso deterministico non è prevedibile né che avvengano né che non avvengano, ma la probabilità del loro accadimento è una base necessaria, ancorchè non sufficiente, per le nostre decisioni). Eppure noi continuiamo a credere indispensabile l’argomento, almeno finchè il nostro patrimonio edilizio non sarà messo in sicurezza. Dobbiamo essere preparati affinchè non si debbano improvvisare i criteri di intervento sotto pressione dell’evento.

Cosicchè occorrono studi volti a cercare criteri decisionali basati (come fra l’altro anche le indicazioni legislative nazionali e internazionali richiedono) sulla probabilità di accadimento del terremoto e sulla valutazione del possibile danno. A ciò Grandori ha dedicato anche i suoi ultimi sforzi, chiarendo in particolare la differenza tra seguire procedure corrette di decisione e giudicare col ‘senno di poi’ a seconda dell’accadimento effettivo di un terremoto.

Scriveva Grandori, in un articolo divulgativo (ora anche on line): “Contrariamente a quanto accadeva fino a pochi decenni orsono, i cittadini non si accontentano più delle approssimative conoscenze popolari e chiedono alla comunità scientifica informazioni più specifiche e anche suggerimenti sui possibili provvedimenti di prevenzione. Una informazione importante è il valore dell’aumento temporaneo del rischio sismico. Questo valore può essere stimato con ragionevole approssimazione se si dispone di un catalogo degli eventi della zona sufficientemente lungo. Altrimenti, accettando una più incerta approssimazione, è possibile affidarsi ai dati riguardanti zone sismogeneticamente simili.

I possibili provvedimenti di prevenzione vanno dalla diffusione di semplici regole comportamentali in caso di emergenza, alla selezione dei luoghi di raccolta, dalla organizzazione dell’evacuazione degli ospedali e del trasporto delle persone disabili al raduno di mezzi di soccorso provenienti da zone non esposte, all’evacuazione di edifici eventualmente già danneggiati, all’evacuazione di tutti gli edifici non antisismici (massimo allarme).

Che fare? Va da sé che prima di decidere se e quali provvedimenti adottare dovranno essere considerati tutti gli altri elementi a favore e contro ciascuna delle decisioni possibili. Ma una volta completata l’analisi, va bene affidare solo all’esperto (o gruppo di esperti) la responsabilità della decisione finale?

Autorevoli studiosi di psicologia sociale sostengono in generale che anche i cittadini non specialisti dovrebbero essere coinvolti nel processo decisionale. A loro dovrebbe essere fornita l’informazione scientifica disponibile discutendo i possibili provvedimenti di prevenzione. Nel caso delle scosse premonitrici, in particolare, il contributo dei cittadini può essere determinante sotto molti aspetti. Nessuno meglio di loro, ad esempio, è in grado di valutare il costo sociale di un eventuale falso allarme.

Si dovrebbe in sostanza tendere ad un iter decisionale compreso da tutti e il più possibile condiviso. E’ importante infine osservare che tutto l’iter decisionale (dalle premesse scientifiche agli sviluppi dell’analisi ) è aperto alla critica metodologica; mentre non ha senso, a posteriori, e cioè a seconda che il terremoto poi si verifichi oppure no, dire che gli avvenimenti reali dimostrano che la decisione presa era quella “giusta” ( o quella “sbagliata” ). Infatti in una impostazione probabilistica, il risultato di un singolo esperimento non può validare alcunché. La critica metodologica è utile per migliorare le modalità di formazione della decisione.

In conclusione: le scosse premonitrici hanno in passato salvato molte vite umane grazie ad una tramandata conoscenza popolare e ad una intuitiva analisi costi-benefici. La comunità scientifica è chiamata a suggerire sempre migliori metodi di interpretazione di questo provvidenziale precursore, così da salvare, statisticamente parlando, un sempre maggior numero di vite umane.”

Ho letto con qualche giorno di ritardo l’intervento su l’Unità di Federico Oliva, Giuseppe Campos Venuti e Carlo Gasparrini del 18 scorso (riportato di seguito n.d.r.) che contestano la critica di Vittorio Emiliani alle proposte dell’università di Groningen per il centro storico dell’Aquila. Essendo stato, mi pare, il primo – in una conferenza stampa dell’associazione Bianchi Bandinelli, poi in un intervento su eddyburg e altrove – a denunciare le stoltezze dell’università di Groningen mi sento in obbligo di riprendere quanto avevo a suo tempo sostenuto. Mi riferisco al documento Rendere le Regioni più forti in seguito a un disastro naturale. Abruzzo verso il 2030: sulle ali dell’Aquila. Si intitola così il documento dell’OCSE e dell’università di Groningen per il Forum dell’Aquila del 17 marzo 2012, se Oliva e gli altri non lo conoscono, e si riferiscono ad altro, sarebbe bene che lo leggessero. Nello studio, finanziato dal ministero dello Sviluppo economico (Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica) e da CGIL, CISL, UIL, si leggono cose inverosimili. Non riesco a credere che sia stato scritto da istituzioni autorevoli come l’Ocse, l’università di Groningen, il ministero dello Sviluppo e le confederazioni sindacali. Mi riferisco alla parte seconda del documento, in particolare al paragrafo 2.4 L’aquila: concorso internazionale di architettura e candidatura al titolo di Capitale europea della cultura. Molto in sintesi, eliminando preamboli e preliminari, si propone di “utilizzare moderne soluzioni architettoniche e ingegneristiche per modificare gli interni degli edifici con lo scopo di creare luoghi moderni destinati alla vita quotidiana, al lavoro e al tempo libero, conservando e migliorando allo stesso tempo le facciate storiche degli edifici. I requisiti architettonici possono essere incentrati sulla celebrazione del passato, vista come mezzo di costruire un futuro nuovo e sostenibile” (pag. 11).

Sta scritto proprio così. E non è finita. Per realizzare lo scempio si dovrebbe organizzare un concorso internazionale di architettura consentendo “che venga modificata la destinazione d’uso” degli edifici, permettendo altresì ai proprietari di “modificare la struttura interna delle loro proprietà (in parte o in totalità)”. Alla giuria del concorso dovrebbero partecipare “architetti di fama mondiale e di livello internazionale” e per pubblicizzare l’iniziativa al concorso “verrebbero affiancati un documentario televisivo e altre operazioni di comunicazione che valorizzino la natura della sfida.” Aiuto!

Non mi risulta che il citato documento sia mai stato smentito dal ministro Barca o da altre autorità nazionali e locali. Mi compiaccio sinceramente che Oliva, Campos e Gasparrini condividano la Carta di Gubbio e le posizioni di Antonio Cederna, ma come fanno a conciliarle con le stupidità dell’Ocse e dell’università di Groningen?

L’Aquila, salvaguardiadel centro storico

Federico Oliva, Carlo Gasparrini, Giuseppe Campos Venuti - L’Unità, 18 ottobre 2012

All’esposizione di Vittorio Emiliani degli errori compiuti nella ricostruzione de L’Aquila nei primi tre anni (L’Unità di venerdì 12 ottobre), manca un tassello fondamentale per valutare lo stato attuale della vicenda e, soprattutto, l’entità e la qualità della svolta impressa dal ministro Barca, nominato dal governo inviato speciale per la ricostruzione. L’esortazione di Napolitano all’inaugurazione dell’Auditorium di Renzo Piano, è in sostanza la presa d’atto di un cambiamento sostanziale dell’azione pubblica relativa alla ricostruzione impressa dal ministro; tradotta nei rapporti predisposti dalle tre commissioni di esperti dal ministro nominate, che hanno lavorato a titolo assolutamente gratuito.

In particolare la commissione presieduta dal presidente dell’Inu Federico Oliva e composta anche da Carlo Gasparrini e Giuseppe Campos Venuti, ha ampiamente argomentato sulle ragioni per le quali bisognava cambiare rapidamente e radicalmente pagina rispetto alla politica emergenziale voluta dal governo precedente che aveva privilegiato la logica delle new town e bloccato di fatto, attraverso la filiera straordinaria, il recupero del centro storico de L’Aquila su cui si sofferma anche Emiliani. La commissione ha proposto inoltre di partire proprio dal centro storico per immaginare il futuro di tutta la città, con una strategia capace di coniugare la conservazione fisica dei luoghi della memoria più profonda, con la contestuale attivazione di un percorso virtuoso di rilancio economico, sociale e identitario compatibile con questa conservazione. Il futuro del centro storico è, infatti, parte integrante di un’idea di futuro dell’intera città esistente, dell’identità e del ruolo che si riconosce a tutte le sue parti e alle loro reciproche relazioni e interdipendenze.

Dal punto di vista delle metodologie del recupero del centro storico de L’Aquila, il documento della commissione urbanistica individua con chiarezza la necessità di una salvaguardia dei tessuti originari della città di antico impianto, attraverso «la conservazione della loro struttura morfogenetica, architettonica e costruttiva». È una linea di pensiero e azione che si inserisce pienamente nel solco delle riflessioni e delle esperienze pluridecennali sul recupero dei centri storici in Italia, dalla Carta di Gubbio ad oggi.

La posizione espressa dall’Oecd e dall’università di Gronigen - che non fa affatto cenno ai concetti di distinzione tra «monumento» ed «edilizia minore» e di sola «conservazione delle facciate» paventati da Emiliani - è stata citata nel documento della commissione urbanistica, esclusivamente per condividere la necessità di alcune operazioni concorsuali in campo architettonico. Egli uomini dell’Inu, che insieme all’Associazione dei centri storici ha lavorato a L’Aquila negli anni 2009 e 2010 contro la linea del governo di destra, hanno ancora una volta confermato la linea di Gubbio e di Cederna, che Campos Venuti applicò a Bologna come assessore comunale all’Urbanistica negli anni Sessanta.

Non mi pare che si possa parlare, per l’intero territorio italiano, di riscoperta della vecchia tradizione ciclistica urbana e rurale, o comunque di grosse novità nell’impiego del silenzioso mezzo a due ruote”.

Così Lodo Meneghetti nella sua ultima Opinione. Parole sacrosante, verrebbe da dire: è proprio vero che né in Italia né altrove si stiano massicciamente riscoprendo tradizioni ciclistiche. Ma la grossa novità c’è eccome. Salvo che sta altrove. Ne ho scritto su Mall un mese fa, in un articolo intitolato Demotorizzazione.

E proprio oggi il sito The Atlantic Cities pubblica un post intitolato Fine dell’automobile in proprietà, e dall’altra parte del globo leggiamo dello stato di avanzata sperimentazione nella città di Toyota del modello a qualità totale e pervasiva Toyota Motor Company, cioè una rete locale di car-sharing gestita direttamente da chi le vetture le produce, insieme ai sistemi di ricarica, all’energia da fonti rinnovabili, ai modelli amministrativi, di manutenzione, di marketing …

Ovvero, anche una eventuale localista “riscoperta della vecchia tradizione ciclistica urbana e rurale”, del genere che piace alle associazioni di tutela dell’ambiente e del paesaggio non va letta in quanto tale, ma nel filone di un più vasto movimento che ci allontana dal modello auto centrico novecentesco, e magari auspicabilmente anche dal modello territoriale che si porta appresso. La cosa a suo modo divertente è che a trascinare tutto sia il mercato: non quello mitico e sacrale davanti alle cui arcane terminologie si inginocchiano politici e pure scienziati, ma quello terra terra della domanda e dell’offerta. Come quando a furia di studiare le propensioni di consumo dei giovani le case automobilistiche si sono accorte che di avere una bella tonnellata di lamiera attorno ai ragazzi non frega quasi nulla. Per adesso si consolano vendendo ad esempio i SUV a personaggi come “er Batman”, ma i suoi figli probabilmente per fare i bulletti con le pupe preferiscono lo smartphone modello 5 alle quattro ruote rostrate. Muoversi ci si muove ancora, e parecchio, ma via via vengono meno tutti gli altri presupposti canonici della civiltà auto centrica.

Piccoli spunti direttamente urbanistici: parcheggi densità e verde. Se cambia anche solo esclusivamente il modello di proprietà della vettura, l’enorme superficie che sinora è stata dedicata dal mercato e dai piani pubblici alle auto in sosta diventa automaticamente obsoleta e pronta a nuovi usi. Superficie enorme, se pensiamo che mediamente, al contrario di quanto sarebbe intuitivo, un’auto sta ferma per quasi tutta la sua esistenza (su base quotidiana, oltre 23 ore) ma lo vuole fare in posti diversi moltiplicando virtualmente la piazzola dal garage di casa, all’angolo della via, all’autosilo del centro commerciale al posto coperto davanti all’ufficio. Per funzionare bene i modelli di condivisione dei mezzi, e le relative reti di rifornimento e assistenza, hanno bisogno di densità media di tipo urbano, di quartieri permeabili con sistema stradale a griglia, magari gerarchizzato tra arterie di attraversamento e raccordo, arroccamento, sistema pedonale e ciclabile di corrispondenza. La domanda di mobilità complessa chiama automaticamente una migliore fruibilità e distribuzione di verde e spazi pubblici sicuri e sani di elevata qualità.

Tutto questo non è un progetto, un auspicio, un programma politico, ma solo una specie di osservazione “fantascientifica” di futuro probabile. Di cui le statistiche sul sorpasso della bici sull’auto (in salita, in discesa, qui non conta molto) sono solo una fettina, come una fettina è anche la passionaccia dei giovani per l’ultimo forse rinunciabile prodotto della Apple, che però contestualizzato può aiutare tantissimo ad esempio nel gestire tariffe e informazioni sulla mobilità integrata. Resta sicuramente il problema delle nostre città, che si chiamino Parma o Ferrara ed evochino centro storici e scampanellio di biciclette, o Milano e Napoli col classico ingorgo che crea un’atmosfera … irrespirabile. Ma come ci dicono altri signori e per tutt’altri motivi, certi aspetti delle crisi contengono non solo la soluzione, ma speranze di un futuro migliore. Certo c’è da lavorare, per chi il lavoro ce l’ha. Per gli altri al massimo pedalare.

E per concludere,che i rapporti fra mobilità e metropoli si stiano pian piano sciogliendo nell'aria, come tutto quanto pare solido, lo conferma in piccolo anche la recente ecatombe di una giornata milanese.

Riferimenti:

l’Opinione di Lodo Meneghetti citata in apertura e che ha dato lo spunto a questo contributo;

l’articolo “Fine dell’auto in proprietà” su The Atlantic Cities;

il comunicato di avanzamento della rete locale Toyota Car Sharing;

il mio pezzo (pure nato da un articolo su la Repubblica) dedicato alla Demotorizzazione

Il ministro Ornaghi fa sul serio: ha impugnato il Piano casa del Lazio davanti alla Corte costituzionale, e la stessa sorte toccherà al sedicente disegno di legge della Campania sul paesaggio, lì dove venisse approvato.

In effetti, il principale risultato dell’iniziativa congiunta dell’ambientalismo storico e di Eddyburg con l’appello “Salviamo la penisola sorrentina-amalfitana”, oltre alle prestigiose adesioni, al battage che si è scatenato in rete, alla presa di distanza di ben due ministri (Catania e Passera), è stato l’irrituale pronunciamento preventivo della Direzione regionale del paesaggio della Campania – del Ministero quindi – che ha diramato sull’argomento una nota ufficiale.

In essa si afferma seccamente che il disegno di legge presenta, come a suo tempo evidenziato dalle associazioni, molteplici punti di incostituzionalità (a partire dal titolo della legge, che assegnerebbe alla regione nientedimeno che i compiti di tutela del paesaggio), escludendo ogni responsabilità nella elaborazione del testo, che pure la regione affermava essere stato scritto di concerto con il ministero.

Ciò nonostante la Campania va avanti: dopo il flop in consiglio regionale del 18 settembre scorso, quando era mancato il numero legale, il disegno di legge è stato rimesso all’ordine del giorno, e verrà esaminato in una delle prossime sedute.

Tanta ostinazione aiuta una volta di più a comprendere le reali finalità del provvedimento, che con l’alibi del paesaggio porta avanti il lavoro di delegificazione urbanistica iniziato in Campania tre anni fa, con il primo sciagurato piano casa del centrosinistra, e proseguito poi con tre successivi provvedimenti legislativi, contenenti circa 100 abrogazioni puntuali e modifiche sostanziali, che di fatto azzerano i due principali strumenti di governo del territorio, la legge 16/2004 e la legge 13/2008.

Il risultato è un singolare esperimento di “legiferar facendo”, con lo strumento legislativo impiegato non già per definire una volta per tutte le regole del gioco, ma per rincorrere l’esigenza particolare del momento, che nello specifico è quella di sottrarre alle tutele vigenti due territori strategici – la fascia pedemontana della Penisola sorrentino-amalfitana, e i comuni della zona rossa del Vesuvio – restituendoli alla disponibilità dei piani casa di iniziativa comunale.

Un’iniziativa improvvida, che apre la strada ad un ulteriore incremento dei valori esposti, in termini di vite umano e di capitale infrastrutturale e urbano, in aree fragilissime, contribuendo così ad innalzare ulteriormente il debito pubblico territoriale nazionale, non meno rilevante di quello finanziario.

A queste osservazioni la regione risponde asserendo che queste aree non sono soggette a tutela paesistica, e che pertanto essa può disporne a piacimento, e qui si apre una discussione di cruciale importanza per la pianificazione paesaggistica in Italia.

Con il disegno di legge vengono infatti scorporati dal Piano urbanistico territoriale della Penisola Sorrentina-Amalfitana i quattro comuni pedemontani non interessati da decreti ministeriali di tutela (S. Maria la Carità, Angri, Nocera Superiore,Nocera Inferiore): come se il PUT potesse non essere considerato uno strumento di tutela paesaggistica di valenza unitaria, con la possibilità di smembrarlo in parti che tale valenza hanno, ed in altre aventi mero carattere urbanistico, nelle quali la potestà regionale sarebbe dunque piena.

La realtà, come ben raccontato da Francesco Erbani nel suo articolo su Repubblica.it, è diversa: aveva ragione da vendere Piccinato a disegnare in questo modo il PUT, cogliendo magistralmente l’unità paesaggistica, ecologica e morfologica della Penisola con i territori pedemontani che la raccordano alla Piana campana, riconoscendo in essi la prima essenziale fascia di protezione. Senza dimenticare che il territorio di alcuni di questi comuni (le due Nocere,ad esempio) si spinge sino al crinale dei Monti Lattari, ad oltre 1.000 metri di quota, nel cuore dunque dell’ecosistema Penisola.

Una tale logica dissettoria la nuova legislazione “in progress” della Campania la applica anche al territorio rurale, ispirandosi così al funesto disegno di legge Lupi sul governo del territorio. Nel momento in cui il ministro Catania propone il primo rivoluzionario disegno di legge nazionale sul consumo di suolo, si ripropone in Campania la funesta suddivisione delle aree agricole in “ordinarie” e “strategiche”, che è poi la maniera migliore per giustificare a priori ogni loro ulteriore dissipazione.

A fronte di simili approcci, il punto qualificante del disegno di legge sarebbe l’introduzione di non ben specificati strumenti di compensazione ambientale (l’eco-conto), ispirati ad approcci messi a punto in tutt’altri contesti (i tecno-paesaggi minerari della Ruhr), evidentemente poco idonei ad essere applicati alla complessità dei nostri mosaici rurali storici.

Insomma, proprio un bel pasticcio. La cooperazione istituzionale stato-regioni, essenziale per una effettiva applicazione del Codice del paesaggio, segna il passo tra forzature e furberie. In questa storia complicata l’esperienza della Campania non rappresenta al momento la pagina migliore.

L'appello aggiornato al 30 settembre 2012

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