Mi riferisco a una lettera dell’intelligente climatologo Luca Mercalli e alla replica della brava economista Mercedes Bresso, candidata felicemente vittoriosa alla carica di presidente (non “governatore”, ha intelligentemente precisato) del Piemonte. E mi riferisco all’uscita dalla scena del tentativo di costituire un’unità dell’arcipelago della “sinistra radicale”, e alla conseguente penalizzazione che quest’ultima (anzi, le sue componenti) ha avuto nel risultato elettorale: fino al limite estremo (nel senso di più basso, infimo) nella baruffa veneziana, dove quella sinistra si è spaccata nelle due entità antagoniste, tra le quali la destra ha avuto buon gioco a scegliere quella a sé più vicina. Fra i due avvenimenti c’è forse un nesso. Ma vorrei soffermarmi soprattutto su quello “minore”.
In una lettera aperta a Bresso, dopo averne richiamato i grandi meriti scientifici (è stata la prima in Italia a proporre una visione ecologica dell’economia) ed amministrativi, Mercalli le rimprovera alcune ambiguità del suo programma elettorale. Da questo “trapelano gli echi delle sirene della crescita continua”, si dichiara di proporsi “uno sviluppo sostenibile per evitare il declino del Piemonte”, ma di fatto ci si riferisce implicitamente a indicatori che misurano il declino in termini non adeguati (PIL, crescita della produzione di automobili, ecc.). Mercalli le rimprovera la scelta di ammettere la realizzazione di nuove infrastrutture, e quindi di non riconoscere “il limite, ormai raggiunto e oltrepassato da tempo, del nostro territorio di sostenere ulteriori interventi di artificializzazione”. La lettera è molto bella, merita di essere letta con attenzione e diffusa. Essa è naturalmente disponibile in questo sito, insieme alla risposta altrettanto pregevole di Bresso.
La candidata (ora felicemente eletta al vertice della Regione Piemonte) risponde molto puntualmente e seriamente al suo interlocutore. Il succo della sua replica è questo: “anch'io, anni fa, pensavo fosse necessario arrivare a una sorta di ‘blocco dello sviluppo’; mi sono resa conto, col tempo, che il blocco puro e semplice non è possibile”. Bresso sostanzialmente condivide l’impostazione data da Mercalli alla questione della crescita, ma indica la decrescita come il risultato di un percorso, culturale e politico, che non può non partire dall’impegno a rendere più innocuo possibile, nei confronti delle risorse della terra, l’aggiunta di nuove trasformazioni a quelle, in larga misura devastanti, già apportate.
Il dialogo mette lucidamente allo scoperto un problema, che a me sembra il nodo politico rilevante della nostra epoca. Da una parte, questa crescita, questo sviluppo, sono condannati all’esaurimento oppure alla distruzione dell’attuale civiltà (come acutamente segnala Ian McEwan nello scritto inserito ieri in Eddyburg). Ma dall’altra parte, interrompere oggi il percorso avviato molti secoli fa non è possibile per alcune buone ragioni: perché non è chiaro quale meccanismo economico può sostituire quello attuale, il quale lega i redditi individuali (quindi la personale capacità di vita) al funzionamento di un sistema compattamente basato sulla crescita indefinita della produzione di merci; perché le forze sociali (nessuna esclusa) non sono disposte a incamminarsi su una strada (quello di uno sviluppo alternativo a quello fin qui praticato) il cui orizzonte è incerto; perché, comunque, non è ripetibile una scelta analoga a quella che fu compiuta quando, nell’URSS, si decise di “costruire il socialismo in un paese solo”.
Occorre allora assistere impotenti alla distruzione delle nostre terre e del nostro pianeta? No certamente. Ma è altrettanto sicuro che il destino della civiltà umana sarà cupo se la politica non si farà carico di quella che con ogni evidenza è la contraddizione di fondo della nostra epoca. Forse la vera differenza tra le politiche progressiste e quelle conservatrici, tra sinistra e destra, sta proprio in questo.
Il massimo che si può chiedere alla destra (a chi è soddisfatto dell’attuale sistema economico-sociale, come a chi non pensa che un altro sia possibile) è di accompagnare il pianeta verso una dignitosa agonia. È evidente che il conglomerato di forze che si aggrega attorno a Berlusconi ci nega perfino questo, e quindi sbarazzare il terreno dall’ingombrante cadavere che ancora occupa il potere è un primo passo essenziale, al quale tutti sono chiamati a concorrere. Ma la sinistra, e soprattutto e in primo luogo la sinistra “radicale”, deve comprendere che può ritrovare un sua consistenza e un suo ruolo storico, che la renda alternativa sia alla destra “sporca” attuale che a una possibile (e auspicabile) destra “pulita”, solo se affonda la sua critica nel vivo della contraddizione sostanziale dell’attuale civiltà: quella contraddizione che ha la sua radice in una concezione oggi rivelatasi errata e mortifera dello sviluppo. Frammenti di una simile critica, barlumi di un possibile percorso alternativo, vagiti di nuove possibilità di relazione tra bisogno dell’uomo e uso delle risorse esistono già, dispersi sulla superficie del mondo. Si tratta solo di comprendere che la questione ambientale è questo, e non si riduce all’abolizione della caccia o all’istituzione di un parco.
E la strenua difesa della democrazia e delle sue ragioni, delle sue radici (domani festeggiamo la Resistenza) e dei suoi istituti (ci prepariamo a contrastare l’abolizione della Costituzione), portano vittorie durevoli se rendono più favorevole il terreno per costruire una società radicalmente diversa da quella attuale, e sorretta da altri valori. Le stesse battaglie per la difesa di quanto resta del patrimonio accumulato da secoli (dalla Laguna di Venezia ai beni culturali dissipati dal tremontismo, dalle coste della Sardegna ai paesaggi della Toscana) hanno un senso se sono vissuti non come estremi sguardi a un passato che va scomparendo, ma come segnali di saggezza e bellezza che dalla storia saluta un futuro possibile.
Ma vorremmo che fosse migliorata: soprattutto per emendare il linguaggio da alcuni residui “lupeschi” (i diritti edificatori, lo sviluppo del territorio), e per introdurre maggiore efficacia ai suoi principi, soprattutto in materia di difesa del suolo e di diritti dei cittadini.
Della tradizione dell’urbanistica italiana, cancellata ope legis o lasciata cadere in desuetudine dalle pratiche di “governo del territorio” la proposta di legge recupera più d’un elemento. Rende esplicito il “principio di pianificazione”, con una formulazione efficace. Ribadisce la non indennizzabilità dei “vincoli ricognitivi”, cioè delle tutele poste per ragioni oggettive su parti del territorio dotate di qualità o soggette a rischi. Recupera gli standard urbanistici, sia pure con formulazioni non sempre convincenti. Ripristina alcuni apporti della Commissione Giannini (DPr 616/1977) caduti in desuetudine, come i “lineamenti fondamentali dell’assetto del territorio nazionale” quale documento territoriale nel quale le competenze dello stato (dalle infrastrutture alle tutele) dovrebbero trovare la loro sintesi.
Molte delle formulazioni, il rilievo dato – almeno sul piano dei principi e degli impegni generali – al contenimento del consumo di suolo, e la riconduzione della “perequazione” sostanzialmente a ciò che era nella “legge ponte” del 1967, rivelano il tentativo, in gran parte riuscito, di costruire una piattaforma che possa comporsi con le proposte formulate da altre forze politiche del centro-sinistra, in particolare con quelle che hanno fatto propria le “legge di eddyburg”. E se il lavoro parlamentare proseguirà tenendo conto prevalentemente delle due proposte che abbiamo finora citato si può dire senz’altro che la fase della “legge Lupi” è dietro le nostre spalle. Ma a un paio di condizioni.
In primo luogo, occorre correggere alcune espressioni linguistiche tipiche dell’impostazione distruttiva prevalsa nel decennio trascorso, e rivelatrici della sua ideologia. Ne segnaliamo in particolare due.
Negli articoli si parla spesso di “sviluppo del territorio” (espressione che appare fin dall’importante articolo 2 dedicato al “principio di pianificazione”). È un’espressione nemmeno ambigua nel suo significato, poiché il suo uso discende dal termine anglosassone “development” e indica la trasformazione del territorio per l’attuazione di un piano di lottizzazione o simile. “Sviluppo del territorio” allude alla Cascinazza di Monza, non all’emersione improvvisa dal mare dell’isola Ferdinandea. È un termine non adoperato dai geologi, ma dai promoters di operazioni immobiliari. In un testo che, nei suoi principi, dichiara sempre la priorità del risparmio delle risorse non rinnovabili, della conservazione della biodiversità e del patrimonio culturale, storico e paesaggistico, ha senso riferirsi di continuo allo “sviluppo del territorio” come un obiettivo di grande rilievo? E ha senso introdurre all’articolo 16 tra gli standard urbanistici (alias “dotazioni territoriali”) “il sostegno all’iniziativa economica”?
Veniamo alla seconda espressione. Opportunamente nella proposta si riconduce la perequazione a strumento attuativo della pianificazione urbanistica, e quindi se ne ripristina il ruolo di compensazione degli interessi immobiliari all’interno degli ambiti attuativi (il collaudato meccanismo dei piani di lottizzazione convenzionata). Ma perché attribuire alle facoltà di edificazione, concesse dai piani, e giustamente destinate alla decadenza ove non utilizzate nei tempi stabiliti, il termine impegnativo di “diritto edificatorio”? Questa espressione non esiste nella legislazione urbanistica. Introdurlo appare una incoerenza, o un residuo di precedenti stesure. Come del resto palesemente contraddittorio è il comma 6 dell’articolo 21 (dedicato appunto alla perequazione e alla disciplina dei diritti urbanistici), nel quale si afferma che “l’utilizzazione dei diritti edificatori deve avvenire a seguito di trasferimento di cubatura”. Da dove a dove, visto che tali “diritti” devono essere perequati all’interno degli ambiti?
La seconda condizione per rendere adeguata la proposta è quella di attribuire efficacia operativa ai principi proclamati. L’abbondanza delle formulazioni di principio e d’intenzioni accattivanti (a volte anche pleonastiche, come il principio di legalità e quello di democrazia e trasparenza) non trova riscontro in formulazioni legislative capaci di agire con immediatezza e chiarezza nelle trasformazioni del territorio. La proposta nata da questo sito (e le formulazioni della proposta dell’on. Migliore e altri) consentono ben diversa, più efficace e più immediata tutela del territorio non urbanizzato (riportiamo qui sotto gli articoli in proposito).
Più in generale, preoccupa molto la delega pressoché totale alle regioni della responsabilità di tradurre i principi stabiliti dalla legge nazionale in precise norme vigenti erga omnes. Così in materia di standard urbanistici, a proposito dei quali occorrerebbe almeno far salvi i “diritti acquisiti” dai cittadini sulla base della legge del 1967 e del decreto del 1968. Ma il caso limite è l’attribuzione alle leggi regionali della “emanazione delle misure di salvaguardia” (articolo 15). Oggi in ogni parte d’Italia tra l’adozione di un piano e la sua approvazione il sindaco non può autorizzare interventi che siano in contrasto con il piano adottato, ma non ancora vigente; ciò per effetto di una legge che vige in tutto il territorio nazionale. Domani non sarà più così? Un comune che avrà deciso con un nuovo piano urbanistico – come molti hanno fatto in questi ultimi decenni – di ridurre le previsioni di espansione, o correggere interventi di trasformazione urbanistica (development) lungo le sponde del fiume o sulle colline, dovrà aspettare una eventuale legge regionale per impedire che questa sua saggia decisione venga rispettata?
Il dibattito parlamentare, che auspichiamo si apra presto e si svolga in modo produttivo, darà risposte a queste e ad altre domande che il testo solleva. La speranza è che le positive intenzioni espresse nella proposta di cui è prima firmataria l’on. Raffaella Mariani, e che sappiamo essere il risultato di un faticoso lavoro di composizione di esigenze, culture ed esperienze diverse, trovino l’approdo in un testo legislativo con esse pienamente coerente.
Una persona soprattutto dobbiamo ringraziare, per ciò che ha fatto molto concretamente: il senatore Sauro Turroni, Verde, eletto nel Collegio di Prato per la lista dell’Ulivo. È stato (a nostra conoscenza) l’unico parlamentare che non abbia ceduto né alla distrazione né alle lusinghe bipartisan, l’unico che abbia dimostrato di possedere una consapevolezza piena della posta in gioco e la capacità di convincere i suoi “compagni di laticlavio” a smorzare gli entusiasmi e rifiutare le accelerazioni. Grazie. Speriamo di rivederlo nel Senato che uscirà dalle elezioni del 9-10 aprile.
Il lavoro da fare sarà molto, e uno spazio grande spetterà al Parlamento. Le idee su cui lavorare per elaborare proposte positive per un rinnovato “governo del territorio” ci sono; molte le abbiamo raccolte in questo sito, rendendo così disponibili contributi provenienti da fonti e voci diverse, ma tutte ispirate ad alcuni principi comuni: alla centralità del territorio come bene pubblico e collettivo e alla conseguente esigenza che il primato delle decisioni in materia di pianificazione urbanistica e territoriale spetti al potere pubblico: a un potere pubblico democratico non solo per le modalità di elezione degli organismi rappresentativi. Voci diverse, ma tutte consapevoli che il maggiore conflitto che avviene sul territorio, e ne decide il destino, è quello tra interessi economici nemici di ogni possibile sviluppo durevole (quali quelli della rendita) ed esigenze di una vita personale, sociale ed economica soddisfacente, in un quadro di vita gradevole e bello, in un’organizzazione territoriale razionale ed efficiente: per le cittadine e i cittadini di oggi, e anche per quelli di domani.
Consideriamoci all’inizio di un lavoro da fare: non per distruggere proposte che sono ormai morte, ma per costruire. Qualche base c’è nei programmi elettorali.
Questi (mi riferisco in particolare a quello presentato da Romano Prodi e dai leader dell’Unione) sembra volto in una direzione giusta. Possono trarsi conseguenze rilevanti e positive dall’affermazione che le politiche saranno “orientate a garantire la qualità ambientale, culturale e paesistica, la biodiversità, il risparmio del suolo, la prevenzione e la riduzione dei rischi”, come dalladichiarazione “che i principi della sostenibilità, della prevenzione e della precauzione debbano improntare tutti i piani e programmi che intervengono sul medesimo territorio, garantendo la massima trasparenza e partecipazione”. L’accento posto al risparmio di suolo suona come una novità nei documenti politici degli ultimi decenni. E così può leggersi una certa contrapposizione tra la manutenzione del territorio, che “è la più importante opera pubblica”, e l’ideologia delle Grandi Opere. (Ma perché due giorni dopo Prodi ha annunciato che la TAC in Val di Susa si farà “senza si e senza ma”?). Insomma, c’è qualche segno di speranza e d’inversione di tendenza, al confronto con l’imperante “lupismo”.
Su un punto mi sembra perciò ragionevole richiamare l’attenzione. A una prima lettura del documento, e in particolare della parte relativa alle politiche territoriali, si ha l’impressione che i diversi provvedimenti necessari al suo governo siano visti con un’ottica settoriale. Anche quando si richiama – opportunamente – la necessità di “realizzare una gestione integrata che tenga conto della biodiversità, della qualità ambientale, culturale e paesistica, del ruolo multifunzionale dell’agricoltura e insieme della qualità sociale e urbana”, si trascura ogni cenno (non vorrei per ignoranza) al fatto che gli strumenti inventati per realizzare una “gestione integrata” delle trasformazioni territoriali e urbane sono quelli della pianificazione: proprio quelli che sono stati smantellati dalle pratiche e dalle teorie del “lupismo” d’ogni colore, non solo nell’ultima stagione berlusconiana. Strumenti che da tempo meritano di essere adeguati, migliorati, perfezionati, resi aderenti alle nuove esigenze e possibilità (come molte regioni e molti enti locali si erano apprestati a fare tra il 1990 e il 2000), ma certo in primo luogo conosciuti e praticati come elementi cardine del governo pubblico del territorio.
Forse c’è un primo passo da fare - al di là delle opportune dichiarazioni di volontà e d’intenti sul terreno dei principi - per avviare una fuoriuscita dalla stagione che si vorrebbe consegnata alla storia,. Partire cioè dalla consapevolezza, e dalla ricognizione, di ciò che nel sistema giuridico italiano si è consolidato, secondo un percorso che è iniziato con Giolitti all’inizio del secolo, si è sviluppato con Bottai e Gorla nel rovinoso e tragico declinare del regime fascista, si è sviluppato (ministri sono stati Sullo, Mancini, Bucalossi, Galasso) nella stagione delle “riforme di struttura” degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta del secolo scorso,.
Innestare insomma il nuovo nel tessuto intrecciato nei decenni in cui la preoccupazione per gli interessi generali e la tutela dei valori comuni erano più vivi e diffusi che negli anni di Berlusconi. E se proprio si vuole che il legislatore non trascuri i prodotti del Parlamento che è stato appena sciolto, invece che dalla Legge Lupi e dalle squallide e approssimative elaborazioni che sono alla sua base, sarebbe meglio, molto meglio, partire da quella diligente ricostruzione delle regole vigenti nell’ordinamento italiano in materia di governo del territorio, contenute nello “schema di decreto legislativo di ricognizione dei principi fondamentali nella materia governo del territorio”, il quale con grande modestia e con grandissima utilità si adopera nell’individuazione “dei principi fondamentali in materia di governo del territorio di cui all’articolo 117, terzo comma della Costituzione, che si desumono dalle leggi vigenti”.
Lo schema di decreto legislativo, sottoposto all’attenzione delle regioni nel gennaio scorso, è stato formato ai sensi della legge 5 giugno 2003, n. 131, articolo 1, comma 4, ed è scaricabile qui.
Anche a destra lo si è capito. L’avevano compreso subito uomini come Giovanni Sartori, Franco Cordero, Oscar Luigi Scalfaro, nessuno dei quali appartiene alla sinistra radicale. Lo hanno compreso altri, dopo il colpo di maggioranza che ha distrutto la Costituzione: Giulio Andreotti, Domenico Fisichella ed Ernesto Galli Della Loggia, per citare i tre che hanno colpito di più l’opinione pubblica.
La sua strategia è chiara, ed è evidente il sistema di valori cui essa si ispira. L’interesse privato come molla esclusiva d’ogni evoluzione sociale, senza temperamenti se non quelli della “carità” (non quella cristiana, quella perbenista). Il ruolo servile dello Stato nei confronti degli interessi privati più forti, e quindi il drenaggio sistematico di risorse dal lavoro alla rendita, dal povero al ricco, dal passato al presente. L’assunzione dell’Azienda come modello di ogni possibile organizzazione, e quindi il primato esclusivo del Padrone e dell’efficienza in termini di massimo sfruttamento di tutte le occasioni e risorse. La rottura di ogni solidarietà che abbia fondamento nella giustizia e non nell’interesse privato. Quindi riduzione d’ogni dimensione al proprio orticello: la miopia trasfigurata da patologia a fisiologia, la patria ridotta al paesello, l’idioma al posto della lingua e l’abbandono d’ogni koinè.
In questo quadro, la democrazia non è più l’attento equilibrio tra i diversi interessi espressi dalle diverse aggregazioni di cittadini, tra le diverse opzioni culturali, ideali, politiche. Non è più la garanzia per tutti che la responsabilità del governo spetta a chi esprime di più, ma la responsabilità altrettanto decisiva del controllo spetta a chi domani potrà sostituirlo. Non è più la ricerca continua di un consenso attraverso la libera espressione di tutte le opzioni presenti. No. Democrazia diventa la conquista, con tutti i mezzi, del consenso: con l’ipnosi dei media, l’acquisto, la menzogna, la corruzione. Di Machiavelli si conosce solo la lettura da Bar dello Sport, “ogni mezzo è lecito per raggiungere qualsivoglia fine”, non quella autentica, “il mezzo sia commisurato al fine”.
Se questi sono i valori, allora diventa evidente la ragione e la logica di tutti i passi compiuti sulla via della distruzione: sono tasselli d’un ordinato mosaico. Che importa se l’economia creativa, le cartolarizzazioni, le una tantum, i condoni rastrellano risorse distruggendo il futuro? Solo il presente, il MIO presente vale. Che importa se i miei ministri (da Lunardi a Moratti, da Matteoli a Urbani) distruggono il paesaggio, dissipano i beni culturali, la nostra eredità, il passato che serve ai posteri? Il passato non serve a ME, il futuro nemmeno. E se l’onorevole Lupi, riesce a imporre la supremazia dell’interesse privato dei potenti perfino nel governo delle città e dei territori, se riesce ad eliminare quei balzelli (spazi pubblici, verde pubblico, scuole pubbliche) che ostacolano la rendita fondiaria, se riesce ad abolire le procedure garantiste degli interessi comuni espresse dal sistema della pianificazione, allora la prossima volta lo faremo dirigente (pardon, ministro).
Ha allora ben ragione Romano Prodi a chiamare al “serrate le file”. Hanno ragione quanti invitano ad assumere la difesa dei valori e della strategia della Costituzione repubblicana e antifascista come l’estrema difesa contro il prevalere definitivo d’un disegno dello stato e della società compatto, coeso, determinato, che ha già mietuto molti successi e sgretolato molte conquiste di civiltà.
C’è un abisso tra i nostri anni e quelli nei quali la Costituzione firmata da Enrico De Nicola, Umberto Terracini e Alcide De Gasperi vide la luce. Allora esisteva un nucleo di valori comuni sui quali costruire le regole d’una dialettica democratica tra posizioni diverse. Oggi il conflitto è tra due sistemi di valori, l’uno irriducibile all’altro e con esso incomponibile.
Lo si fosse compreso prima, non si sarebbero compiuti gli errori (dalla Bicamerale, al conflitto d’interessi, alla revisione del Titolo V della Costituzione…) che hanno portato Silvio Berlusconi al comando dell’Azienda Italia. Ma ancora non è troppo tardi. Dalle prossime elezioni regionali può venire un segnale di speranza, può iniziare un percorso che conduca il Paese fuori dalla spirale di distruzione e degrado nella quale si dibatte.
Ricordiamo gli eventi, sconosciuti a molti. Nel 1967 una legge dello stato, le “legge ponte” urbanistica, decretò che a ogni cittadino deve essere riconosciuto quel diritto con la previsione, nei piani urbanistici, di una determinata quantità di aree per “spazi pubblici e d’uso pubblico”. Un anno dopo un decreto interministeriale precisò tecnicamente quel diritto in un certo numero di metri quadrati ad abitante, al di sotto dei quali le previsioni dei piani non potevano scendere.
Tre circostanze spinsero in quella direzione. Un ruolo svolse certamente la cultura urbanistica, allora attenta ai contenuti sociali della disciplina. Un ruolo altrettanto incisivo svolsero le esperienze di alcuni comuni (in particolare quelli dell’Emilia-Romagna e della volontaria Consulta urbanistica presente in quella regione). Ma il ruolo più rilevante lo giocarono il movimento organizzato delle donne e le alleanze sociali e culturali che si costituì attorno alla sua organizzazione, l’Unione Donne Italiane (UDI).
Alcuni anni prima della legge, nel 1963, l’UDI (un'associazione militante di donne, in prevalenza aderenti ai partiti della sinistra) aveva avviato una iniziativa sociale di massa mossa da una consapevolezza e animata da un obiettivo. La consapevolezza: l’entrata delle donne nel mondo del lavoro socialmente riconosciuto (nella fabbrica e nell’ufficio) aveva reso insopportabile per le donne il peso del lavoro casalingo. L’obiettivo: ottenere che la società si facesse carico del problema, organizzando reti di servizi sociali e altre attrezzature che liberassero le donne di una parte almeno del lavoro casalingo.
Le prime tappe furono individuate nella programmazione e nel finanziamento di una rete di asili nido e nell’obbligo della previsione di spazi necessari per il verde e i servizi collettivi nei piani urbanistici. Nell’ambito di questa azione l’UDI organizzò, nel dicembre 1963, un convegno sul tema “l'obbligatorietà della programmazione dei servizi sociali in un nuovo assetto urbanistico", nel quale tre delle quattro relazioni introduttive furono svolte da qualificati urbanisti: Giovanni Astengo, Edoardo Detti, Alberto Todros. L’iniziativa dava l’avvio alla raccolta di firme per una proposta di legge d'iniziativa popolare, che ne raccolse molte decine di migliaia.
Fu uno dei momenti nei quali gli urbanisti non solo furono in sintonia con la società, ma l’aiutarono ad esprimere le aspirazioni al progresso nel segno dei valori e dei beni comuni. Il decreto sugli standard urbanistici, e la conseguente pratica della previsione di aree in quantità adeguate nei piani, furono i frutti di quell’incontro. (Un altro momento simile fu il movimento sindacale del 1968-69, quando esplose il movimento per “la casa come servizio sociale”, che diede vita alle leggi di riforma del settore degli anni Settanta. E non a caso la proposta legislativa degli amici di eddyburg salda le due questioni, aggiungendovi quella della mobilità)
L’onorevole Lupi, e i suoi numerosi alleati di destra, di centro e di sinistra, volevano gettare tra le ortiche il diritto nazionale agli spazi pubblici e d’uso pubblico. Quella posizione sembra ormai ridotta ai margini delle proposte parlamentari: le leggi per il governo del territorio già presentate, e quelle in corso di presentazione, restituiscono agli standard il loro ruolo. Le regioni, che nelle loro legislazioni più recenti, sembravano aver dimenticato gli standard (e, in generale, il dimensionamento dei piani), sembrano oggi volerli riprendere e sviluppare nei modi in cui da decenni si sa che è necessario: cioè completando la previsione quantitativa nella prescrizione di adeguati requisiti di qualità sia dei servizi che dell’organizzazione della città. Più d’un segno fa quindi sperare che la fase più cupa sia in via di superamento. Terremo informati i nostri frequentatori. Intanto, nel segno di questa speranza salutiamo l’8 marzo.
Quelle tre opere sono simili per alcune ragioni sostanziali: sono di utilità dubbia o nulla; il loro costo è incerto, e comunque enorme; produrranno arricchimento privato e indebitamento pubblico; comportano rischi e danni immediati all’ambiente.
Il Ponte sullo Stretto. Dovrebbe servire allo sviluppo della Sicilia: ma c’è ancora qualche balordo che pensa che basti collegare un’area con una infrastruttura per portarvi duratura ricchezza? Non sembra che la Calabria abbia cambiato faccia quando l’autostrada del sole l’ha collegata al resto dell’Italia, e alle ricche regioni del Nord.
Per affrontare sul serio il problema delle connessioni e del ruolo dell’Isola occorrerebbe lavorare sui collegamenti tra il Continente e le altre sponde del Mediterraneo, quindi sulle “autostrade del mare” e le loro connessioni con la rete delle comunicazioni terrestri. Ma è più facile proporre (quanto a realizzare, è un altro discorso) una grande opera d’ingegneria o d’architettura che lavorare seriamente a un serio programma nazionale dei trasporti.
In compenso, non c’è nessuna garanzia seria sulla sicurezza sismica, c’è la certezza del guasto a un sito che affonda le radici del suo valore nella profondità del mito e offre occasioni eccezionali alla vita della natura e alla ricchezza delle specie. Il suo costo è gigantesco, e altrettanto grandi sono i profitti di chi lo studia, progetta, promuove, realizza; ma non è il mercato che lo misura: il deficit lo paga Pantalone.
Il Treno ad alta velocità in Val di Susa. Anzi, non è più ad alta velocità, ma ad alta capacità: trasporterà le merci, perchè per i passeggeri non conviene. Però il tracciato è rimasto lo stesso: forse un treno che trasporti lentamente grandi quantità di merci richiede le stesse caratteristiche geometriche di una freccia lanciata nello spazio?
Chi ha spiegato a che cosa, a chi, perchè serve un “corridoio intermodale” tra Lisbona e Kiev, quali traffici debba smaltire lungo il suo percorso, come si connetta con il resto della rete delle comunicazioni? Qualcuno (che non sia un ambientalista estremista) ha riflettuto sull’utilità di trasportare patate, bottiglie e automobili da un punto nel quale queste merci vengono prodotte a un altro punto dove le medesime merci sono prodotte (magari dalle stesse holding)? Luciana Castellina ha ricordato di recente che il TIR che s’incendiò nella galleria del Frejus portava carta igienica dalla Francia all’Italia: non sappiamo produrla qui?
In compenso, gli economisti dei trasporti ci dicono che i conti economici sono del tutto inattendibili. Se l’opera si farà, verificheremo una volta ancora che il project financing è uno specchietto per le allodole: alla fine, viva il Mercato, ma il conto lo paga Pantalone. E magari Pantalone pagherà pure agli abitanti della Val di Susa qualcosa per il disturbo; la distruzione del paesaggio, lo sconquasso di un’economia locale, li pagheranno i figli e i nipoti di Pantalone.
Il MoSE nella Laguna di Venezia. Dovrebbe servire a tenere al riparo dalle “acque alte eccezionali” (prodotte delle maree marine e dell’esondazione dei fiumi) la città, che per un millennio è stata salvaguardata da un’intelligente e quotidiana opera di manutenzione del delicatissimo equilibrio ecologico. Lo fa con tecniche ingegneristiche devastanti, divenute rapidamente obsolete, che saranno sicuramente inefficaci se le modifiche planetarie saranno un po’ diverse dalle incerte previsioni.
In compenso, lo studio la progettazione la sperimentazione l’esecuzione sono state affidati da Nicolazzi (lo ricordate? è il primo ministro dei LLPP insignito del premio Attila) a un consorzio di imprese private, lucrosamente remunerate. In compenso, i lavori (che sono iniziati nonostante una relazione d’impatto ambientale negativa) devastano aree di grande pregio sia in sè sia in relazione all’intero ecosistema lagunare. Il costo della realizzazione è enorme, ma quello della gestione (che sarà gigantesco, trattandosi di enormi macchinari sommersi) ancora non è stato valutato, e non si sa neppure chi lo sosterrà. Pantalone sta già pagando, pagheranno figli e nipoti per molte generazioni.
Se mettiamo insieme i tre pannelli di questo trittico comprendiamo la strategia che c’è sotto. SI tratta di immagini potenti (l’ardita opera del genio ingegneristico che scavalca il mare tra Scilla e Cariddi, la grande direttrice dei movimenti delle persone, delle merci, dell’energia che collega l’Atlantico alle soglie dell’Asia, le geniali barriere d’acciaio che si ergono per proteggere la Perla della Laguna dall’irrompere minaccioso dei flutti marini), che trovano in se stesse la loro giustificazione.
Si tratta di mettere in moto grandi affari, rinviando al futuro i costi collettivi: e rinviando al futuro, quando gli improvvidi decisori non ci saranno più, anche la verifica della presunta utilità delle opere.
Si tratta di mobilitare il consenso di chi da opere faraoniche ha comunque da guadagnare: profitto, rendita, salario.
La sostenibilità? Ormai è un termine che ha perso la severità del significato originario: è stato ridotto a sinonimo di sopportabilità. E comunque chi sopporta è Pantalone, e i suoi figli e i figli dei loro figli.
Le 250 pagine del programma dell’Unione dicono qualcosa in proposito? Non sembra. Eppure, l’abrogazione esplicita di questo trittico, quale che sia il prezzo che occorrerò pagare, sarebbe comunque un grande risparmio per il futuro. E il segnale di una diversità dal berlusconismo che darebbe qualche speranza, e qualche ragione per votare non solo contro Berlusconi, ma anche per Prodi.
Da noi, per la verità, l’esempio viene dall’alto; è noto che l’attività dell’attuale presidente del consiglio ha come suo motore essenziale, fin dai tempi della “discesa in campo” del cavalier Berlusconi, la difesa, con gli strumenti dello Stato, di tutti i suoi numerosissimi interessi personali: da quelli finanziari a quelli processuali, da quelli del potere mediatico a quelli edilizi, da quelli dei suoi parenti a quelli dei suoi amici, collaboratori e accoliti. Restando nel palazzo della politica, se parte dell’opposizione tende a mitigare lo scandalo italiano e a smorzare le critiche più sincere (e perciò più aspre), per fortuna il suo leader sembra aver avvertito tutto il peso della “questione morale”, e del ruolo che essa in ha nelle coscienze di una parte non indifferente dell’elettorato. Chi ha sentito l’enfasi con la quale Romano Prodi, nel sostenere le ragioni di una nuova politica, ha sottolineato la necessità di una nuova dimensione etica, ha sentito rinverdire la speranza.
In altri palazzi la “questione morale” non sembra invece essere considerata più di un ferrovecchio. Così in settori importanti della cultura: e proprio di quella cultura urbanistica tradizionalmente legata, in Italia, alla politica democratica e progressista. Come se il clima generale lo giustificasse, anche esponenti della più aggiornata cultura urbanistica considerano così normale che un uomo rinviato in giudizio per favoreggiamento al peggiore nemico dello Stato - la mafia - resti al suo posto di presidente della Regione,che addirittura lo invitano a inaugurare la seduta conclusiva della loro assise.
È ciò che è accaduto nel predisporre e nell’accettare il programma della IX Conferenza della Società italiana degli urbanisti, che si terrà a Palermo il 3-4- marzo prossimi. Essa si svolge in due giornate, entrambe dedicate al tema “Terre d’Europa e fronti Mediterranei, Il ruolo della pianificazione tra conservazione e trasformazione per il miglioramento della qualità della vita”. Vi parlano urbanisti di grande spessore culturale e civile, come Bernardo Secchi e Bruno Gabrielli, vi partecipano numerosi ospiti stranieri, si svolge nell’ambito della prestigiosa Facoltà di architettura palermitana: vi saranno perciò numerosi studenti. Ma alla tavola rotonda conclusiva, “Verso un’urbanistica dell’Europa mediterranea”, le prime parole saranno pronunciate da Salvatore Cuffaro, che la magistratura ha rinviato a giudizio ritenendo che lee prove fossero sufficienti per giudicarlo colpevole di aver venduto (o regalato) informazioni di Stato ai nemici dello Stato.
Sarà interessante conoscere le ragioni per le quali stimati (per la loro capacità e per la loro onestà) professionisti dell’urbanistica e dell’insegnamento non abbiano sentito imbarazzo in una simile, autorevole presenza. Ma ancora di più sarà utile ragionare su quest’episodio. Comprendere se c’è un nesso tra quello che accade alla SIU e quello che è accaduto all’INU, dove l’incontrastato gruppo dirigente ha sostenuto una legge che privatizza la pianificazione urbanistica e cancella le conquista dell’età delle riforme, e ne ha facilitato il cammino “coprendola a sinistra”.
C’è chi sostiene che le ragioni della professione (intesa come strumento di affermazione personale e di accresciuto potere accademico ed economico) hanno prevalso su quelle degli ideali: del servizio civile e della collaborazione alla costruzione di una città e una società migliori. Che questo sia avvenuto in Italia ma stia avvenendo anche altrove, e che sia il prodotto di un clima nel quale le ragioni della comunità sono diventate subalterne di quelle dell’individuo. Non so se sia davvero così, ma varrebbe la pena di ragionarne.
Post Scriptum (1 marzo 2005) - Domenica 27 febbraio, nel “pensiero del giorno”, registravo con amarezza la scelta della SIU di attribuire un ruolo di rilievo a Salvatore Cuffaro, presidente della regione Sicilia rinviato a giudizio per favoreggiamento alla mafia, e ciò nonostante rimasto al suo posto. Lunedì 28 ho commentato, in questo eddytoriale, l’evento. Oggi mi informano che la SIU ha modificato il suo programma riducendo la presenza di Cuffaro a un ruolo marginale. Di questo sono, naturalmente, molto soddisfatto, sia se il cambiamento di programma è stato favorito dalla tempestiva presa di posizione di questo sito, sia (a maggior ragione) se questo è avvenuto per autonoma decisione della SIU.
Il protocollo segna un punto di svolta. Uno dei due ministeri cui la legge affida la collaborazione alle regioni nell’attuazione dei piani paesaggistici sembra condividere l’impostazione che la Toscana ha dato a quella pianificazione, e comunque su questa base ha avviato un percorso di co-pianificazione. Non sappiamo ancora quale sia la posizione dell’altro ministero (quello per l’Ambiente e la tutela del territorio e del mare). Né sappiamo se la Corte costituzionale reitererà la sua dichiarazione d’incostituzionalità sulla procedura di pianificazione deliberata dalla Regione.
Si ricorderà infatti che la Corte aveva ritenuto che l’applicazione del codice del paesaggio comportava la necessità che, entro i termini temporali fissati dalla legge, le regioni dovessero redigere un unico piano paesaggistico esteso all’intero territorio regionale, con i contenuti stabiliti dal codice: quindi l’individuazione degli oggetti territoriali appartenenti alle categorie di beni paesaggistici tutelati ope legis, o per autonoma decisione della pianificazione regionale, nonché delle altre componenti stabilite dalla legge; e quindi la definizione per ciascuna di esse delle specifica disciplina e delle azioni necessarie per tutelare il paesaggio e, dove necessario, ricostituirlo o migliorarlo.
La Toscana ha scelto una soluzione diversa. Non avremo subito, nel giro di un anno o due, un piano analogo a quello che l’Emilia-Romagna, la Liguria, le Marche produssero nel 1986 sulla base della legge Galasso, né quello che la Sardegna sta completando sulla base del Codice. Quel prodotto – cioè un documento che per l’insieme del territorio regionale definisca con precisione le condizioni che l’esigenza di tutelare il paesaggio pone alle trasformazioni – lo avremo solo quando l’ultimo dei comuni avrà adeguato il suo piano comunale agli “indirizzi” nei quali si esaurisce il livello regionale della pianificazione, e se i comuni avranno volenterosamente rispettato quegli indirizzi.
La soluzione toscana suscita in noi profonde perplessità e preoccupazioni. Non perché non sia in sé giusto proporsi di associare profondamente le comunità locali nella tutela del paesaggio. Sappiamo bene che, finché il paesaggio non sarà sentito, vissuto e quindi gestito come un bene dalle comunità locali la sua protezione sarà sempre in pericolo, non sarà mai piena. Né perché ci sfugga che, in particolare in quella regione, la tutela del paesaggio è stata storicamente garantita più dai sindaci che, spesso, dalle stesse soprintendenze. Ma sappiamo anche altre due cose, che l’attuale dirigenza della Regione Toscana sembra ignorare.
1. Oggi la cultura politica è profondamente cambiata, anche a sinistra. Oggi lo “sviluppo economico”, obiettivo d’ogni azione e misura d’ogni successo, è affidato indiscriminatamente a ogni tipo di affare: al profitto e all’accumulazione derivanti dall’innovazione di prodotto e di processo, all’aumento di fatturato derivante dalla produzione e della commercializzazione di merci e di servizi inutili, come all’aumento di valore venale di un terreno per effetto della sua maggiore edificabilità. In questa logica il territorio è sempre più considerato una merce, la cui trasformazione è di per se un vantaggio. Che il Piano d’indirizzo territoriale della Toscana esprima in pieno questa concezione non stupisce, tanto essa è generalizzata.
2. Oggi le condizioni materiali dei comuni sono enormemente peggiori che nel passato. Le finanze comunali sono state strozzate dallo smantellamento del welfare state. Per di più, il rifiuto di distinguere, all’interno delle forme di reddito, quelle da promuovere e quelle da colpire ha portato a non compiere nessuna azione per spostare ricchezza dalla rendita agli impieghi sociali (per esempio adeguando agli incrementi della rendita gli oneri di costruzione e utilizzandoli per rendere vivibili le città). Si è arrivati al paradosso di rendere edificabili aree al di fuori di qualsiasi necessità oggettiva unicamente per rimpinguare le casse comunali.
Ottenere, nella società contemporanea, una effettiva partecipazione delle comunità locali alla tutela del paesaggio è sempre stato il traguardo di un lavoro di lunga lena. Oggi questo è più vero che mai, e il cammino si preannuncia particolarmente arduo perché è controcorrente. E nel frattempo? Continuiamo a lasciar dissipare, oppure giochiamo su tutta la tastiera dei poteri democratici sulla base di una corretta interpretazione del principio di sussidiarietà? Magari rispettando la Costituzione e le leggi ordinarie, e ricordando che la tutela è responsabilità anche delle comunità locali, ma non è una loro esclusiva.
Questa è la ragione di fondo delle perplessità, e delle preoccupazioni, sollevate dalla “via toscana alla tutela”. Gli attuali reggitori dell’ex stato mediceo non le condividono. Poiché sono loro che governano, dobbiamo augurarci che abbiano ragione. Ma poiché siamo anche noi cittadini di quella Repubblica che tutela il paesaggio, e anche componenti di quell’umanità che ha diritto di fruire di beni che non sono patrimonio esclusivo di quanti vi abitano, ci proponiamo di seguire con attenzione il percorso che Ministero e Regione hanno avviato. Chiederemo l’aiuto di chi dispone delle informazioni necessarie per valutare e informare a nostra volta del modo in cui, nella Toscana, Regione, province e comuni costruiranno uno “statuto del territorio” reso concreto da regole certe, chiare, efficaci, valide nei confronti di tutti, e da azioni finalizzate al miglioramento della qualità paesaggistica e ambientale del territorio, e alla sua fruizione da parte di tutti.
Un osservatore estraneo alla formazione diessina e alla sua eredità storica, ma certo benevolo verso il partito di Fassino e D’Alema, Eugenio Scalfari, ha rilevato, a proposito dell’aperta benevolenza espressa dai dirigenti DS nei confronti delle operazioni dell’Unipol, “che un dirigente politico deve osservare un rigoroso silenzio di fronte ad operazioni lanciate sul mercato e regolate da apposite norme, come è il caso di un’Opa. In questi casi la politica deve solo controllare che le norme in vigore siano rispettate e poi, come nelle gare di qualunque tipo, vinca il migliore scelto come tale dal mercato”. Non osservare rigorosamente questo metodo comporta “soltanto confusione e coinvolgimenti che (...) costituiscono inframmettenze e recano danni di sostanza e di immagine. Ciò vale per tutti i politici, per tutti i partiti. Non capisco perché – conclude Scalfari su questo punto - comportamenti così elementari siano troppe volte ignorati e contraddetti”. (la Repubblica, 18 dicembre 2005).
Ho vissuto per mezzo secolo accanto o dentro il PCI (e il suo primo erede, il PDS) con un impegno via via crescente. Forse questo mi dà titolo per azzardare una ipotesi.
Non mi sembra che ci siano stati mutamenti consistenti nella moralità personale dei dirigenti: i loro errori non derivano certo dal venir meno del disinteresse personale; sebbene sui costumi individuali qualche riflesso sia stato provocato da quella trasformazione più generale della concezione del mondo (meglio e più concretamente, della civiltà moderna e della società che è il suo prodotto) che è stato a mio parere il cambiamento più sostanziale.
La “vecchia sinistra” (raggruppo sotto questo termine il PCI e le formazioni socialiste fino alla mutazione craxiana) ha sempre avuto al centro delle sue convinzioni, e della sua politica, la consapevolezza dei limiti invalicabili del sistema capitalistico di produzione. Questo sistema, se da una parte aveva provocato una enorme espansione della produzione di beni materiali e aveva accompagnato una crescente affermazione dei diritti personali, aveva raggiunto questi traguardi pagando alcuni prezzi non sopportabili. Quello sul quale la tradizione marxista poneva soprattutto l’accento era l’alienazione del lavoro: la riduzione della primaria attività sociale dell’uomo ad “altro da sé”, a mero strumento di una produzione orientata a fini che i soggetti della produzione non controllavano. Non solo, ma era portatore d’una crisi interna alla quale non avrebbe potuto sottrarsi.
Alcuni dei limiti del capitalismo individuati dall’analisi marxiana sono stati sterilizzati e allontanati, anche per effetto della dialettica che quella stessa analisi ha alimentato. Ma nuovi limiti sono via via emersi: le crescenti disuguaglianze a scala mondiale, l’impossibile convivenza con i limiti naturali del pianeta Terra, la distruzione dei valori accumulati dalle civiltà non riducibili a merci. Soffermarci su questo ci porterebbe troppo lontano; essi costituiscono del resto materia di molti testi ospitati in questo sito. Il punto che vorrei sottolineare è più semplice.
Mi sembra che il cambiamento che vi è stato nella parte maggioritaria della sinistra (non solo italiana) sia proprio questo: aver perso la consapevolezza che il capitalismo è un sistema i cui limiti sono invalicabili, e che quindi postula necessariamente la capacità di costruire un sistema economico-sociale alternativo. A differenza della “vecchia sinistra”, che praticava le vie tattiche necessarie a rafforzare le proprie posizioni e gli spazi di manovra del suo sistema di alleanze sociali ma manteneva intatta la strategia della ricerca e della paziente costruzione di un diverso sistema economico sociale, praticabile a livello mondiale, la componente maggioritaria della “nuova sinistra” ha smarrito la strategia e si è ridotta a tattica: a gestire nel modo migliore il sistema economico-sociale dato. Si cerca di renderlo “migliore” e “più umano”, si diventa “miglioristi” o “buonisti”, o al massimo “riformisti” (dove le “riforme” sono aggiustamenti funzionali e non modificazioni della struttura economico-sociale), ma si è persa la consapevolezza della necessità di costruire un orizzonte diverso, e quindi anche la capacità di poter additare agli esclusi (in primo luogo ai giovani) un diverso destino. Non si è capaci di immaginare, per l’umanità, destini diversi da quelli disegnati dal sistema dato.
Le grandi questioni della nostra epoca (quelle dei limiti del pianeta, dell’impoverimento della parte maggioritaria dell’umanità, della perdita dei valori d’uso cancellati dai valori di scambio) sono ridotte a slogan da sventolare per catturare qualche porzione dell’elettorato. Non si coglie il fatto che quelle questioni sono il necessario corollario della riduzione di ogni bene (a cominciare dal lavoro) a fungibile merce, e dello sviluppo ad accrescimento parossisticamente continuo della produzione di merci.
Si accetta il sistema economico sociale senza mettere in discussione le sue regole di fondo. Ma lo si conosce meno bene di quanto non sappiano le vecchie volpi del moderatismo, che con il capitalismo hanno imparato a convivere da molti decenni; si sanno praticare perciò con minore accortezza quei comportamenti magari ipocriti (ma l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù) che hanno consentito ai vecchi DC di apparire più distaccati dalle recenti vicende dello squallido capitalismo italiano. Si imparasse almeno a prenderne le distanze in nome della laicità della politica, come suggerisce il vecchio liberale Eugenio Scalfari.
Partiamo dal corno più doloroso. La fabbriche italiane chiudono, gli imprenditori trasferiscono il loro know how (il loro capitale) all’estero. Le fabbriche si smobilitano da noi e si riaprono là dove il mercato offre condizioni più convenienti: sul versante delle domanda di merci, e sul versante dell’offerta di forza lavoro. Che cosa di più naturale e ragionevole, nell’economia capitalistica?
Da noi il mercato è saturo di merci, e la forza lavoro è costosa. Secoli di collaborazione fortemente dialettica tra capitale e lavoro (tra borghesia e proletariato) hanno aumentato il benessere e la democrazia: è cresciuta la capacità di spesa dei lavoratori, e il potere di incidere sulle regole della distribuzione del reddito. Il plusvalore non è andato tutto al profitto, una parte è tornata al salario (una bella quota, in Italia, se l’è presa la rendita, ma su questo tornerò dopo). Intanto, sono entrati nel ciclo della produzione capitalistica altri continenti: i mercati si sono allargati a tutto il mondo.
Che le leggi dell’economia (capitalistica) abbiano lo stesso carattere d’inevitabilità delle leggi fisiche non l’hanno riconosciuto solo i cantori della borghesia (cfr.: G. Stalin, Problemi economici del socialismo in URSS, 1952). Non ha molto senso scontrarsi con quelle leggi, soprattutto per chi accetta il sistema economico vigente come l’unico possibile. Può aver senso, invece, domandarsi se non sia possibile allargare l’orizzonte al di là delle categorie (e delle prassi) elaborate negli ultimi tre secoli.
È possibile pensare a una produzione che non sia solo quella di beni e servizi legati alle esigenze elementari (magari rese via via più complicate, per tentar d’allargare il loro mercato)? È possibile pensare ai “beni”, a oggetti e servizi e luoghi che valgano in sé, e non perché siano riproducibili e fabbricabili in quantità amplissime? Anzi, che abbiano un valore legato alla loro individualità e all’uso irripetibile che l’uomo (non il consumatore) ne può fare? È possibile riportare all’interno dell’economia (magari di una nuova economia, se parlare d’innovazione si può non solo per le tecnologie) “valori” che oggi ne sono esclusi, nel senso di rendere socialmente riconosciuta (e quindi retribuita) la loro produzione e somministrazione?
Se questo è possibile, allora certamente nel nostro paese la risorsa su cui far leva, su cui scommettere per il nostro futuro, non è né il petrolio né il riso, non è la produzione manifatturiera né l’agricoltura meccanizzata, ma è – oltre all’intelligenza e al gusto – il gigantesco, unico, irripetibile patrimonio depositato nel territorio da secoli di lavoro e di cultura: il paesaggio e le sue mille e mille componenti.
Di fronte al declino industriale (e alla crisi di una società che esso lascia intravedere) il Catalogo dei paesaggi italiani, proposto da Piero Bevilacqua e commentato da Carlo Blasi e Antonio di Gennaro al convegno di Italia Nostra, può essere il segno di una speranza di futuro. Realizzarlo significherebbe infatti individuare gli elementi di quella nostra risorsa (del nostro patrimonio comune), comprenderli e farli comprendere nel loro valore, definire le regole della loro conservazione e utilizzazione, mettere in modo i meccanismi per una valorizzazione.
A tre condizioni però. Che al termine valore si dia un significato del tutto diverso da quello attuale, dove valore significa guadagno economico per chi ne è possessore. Che diventasse evidente che questa valorizzazione del patrimonio comune richiede l’intervento massiccio del potere pubblico. Che quindi in primo luogo venisse sbarazzato il terreno da quelle leggi (e da quelle ideologie) che di quel patrimonio comune vogliono promuovere la massima privatizzazione, il massimo uso economico, e in definitiva la massima degradazione. A cominciare dalla legge dell’onorevole Maurizio Lupi e della Commissione da lui presieduta.
L'appello
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1. Perché la questione del condono edilizio ha aperto contraddizioni così clamorose? Le ragioni sono numerose, e sono state poste in evidenza (ora l'una, ora l'altra) dai molti che di quella contraddizione hanno commentato l'episodio più vistoso: la manifestazione - pacifica nella forma, venata di tensioni e slogan eversivi nella sostanza - dei quarantamila abusivi meridionali. Trascorso qualche giorno, diradatosi il polverone della polemica, è utile approfondire il ragionamento e tentar di rispondere a quell'interrogativo cercando di comprendere se, tra le numerose ragioni che hanno provocato e reso potenzialmente esplosiva quella contraddizione, ve ne sia una che prevalga sulle altre: che indichi perciò anche, per converso, il punto su cui è possibile far leva per risolverla.
Certo, le ragioni individuate esistono tutte: l'assenza, in numerosissimi comuni del Mezzogiorno, di strumenti urbanistici; l'assenza, da troppi anni, di una politica statale dell'abitazione; l'incertezza delle prospettive economiche e quindi la persistenza della concezione della casa come «bene rifugio»;l'atteggiamento di palese disprezzo delle leggi sul territorio dimostrato dalle autorità governative; l'abbandono di ogni tensione sui problemi complessivi dell'assetto del territorio (il regime dei suoli, la riforma urbanistica, la programmazione ecc.); l'oggettivo confluire delle tendenze alla deregulation con le tirate d'orecchio al giacobinismo degli urbanisti»; le interne, pesantissime contraddizioni della legge sull'abusivìsmo (viziate nella radice dall'impostazione fiscalistica), e il fatto che per due anni l'attività del Parlamento in materia di territorio si sia impantanata nella discussione delle mille versioni di tale legge.
La mia impressione è però che queste ragioni, sebbene colgano ciascuna un importante aspetto del problema, non siano di per sé in grado di coglierne il centro, il nucleo essenziale. Non a caso, esse non spiegano una questione che è apparsa come fondamentale: perché il Mezzogiorno? E allora, bisogna provare a scavare più a fondo.
2. Perché è nel Mezzogiorno che la contraddizione tra abusivismo e rispetto della legge è esplosa? Perché è nel Mezzogiorno che la «cultura della pianificazione» si è manifestata più debole, e in larghe zone inesistente? Non credo che una risposta adeguata possa emergere dalla considerazione che le leggi urbanistiche sono costruite avendo quale riferimento le regioni più evolute, e precostituirebbero un «modello» non applicabile ad altre regioni. Chi propone questa tesi, non la argomenta: non spiega perché e in che cosa quelle leggi non sarebbero applicabili nel Mezzogiorno. E così, non mi convince la tesi secondo cui l'arretratezza urbanistica del Mezzogiorno deriverebbe, quasi immediatamente, dal colore politico delle maggioranze colà prevalente: questa tesi non spiega perché al Nord siano frequenti casi di «buongoverno urbanistico» anche in amministrazioni tradizionalmente «bianche», né perché la manifestazione dei 40mila abusivi sia stata guidata, fra gli altri, anche da un sindaco comunista.
C'è una considerazione, che a me sembra centrale, che può forse fornire un inizio di risposta più convincente. Ecco il punto. Il metodo capace di assicurare - nella società moderna - una sintesi trauso corretto della risorsa territorio e soddisfacimento dei bisogni sociali che richiedono, per essere soddisfatti, trasformazioni del territorio, è stato individuato, nelle società dell'Occidente europeo, nella pianificazione. Ma la pianificazione non si riduce alla elaborazione, una tantum, di un piano. Essa è un'attività continua, costante, sistematica di governo delle trasformazioni territoriali. Non è un evento straordinario, è un'attività ordinaria della pubblica amministrazione. Non è un'attività separata dalle altre sfere dell'azione pubblica (il bilancio, gli investimenti, i trasporti, il personale, il patrimonio), ma è componente e regola di tutta l'attività amministrativa: soprattutto a livello degli istituti cui la pianificazione è sostanzialmente affidata, gli enti locali.
Ma se è così (e io non ho dubbi su questo punto) allora è evidente che la pianificazione esige, quale sua condizione di fondo, più ancora che nuove leggi, nuovi strumenti, nuovi finanziamenti, la presenza di una efficace ed efficiente amministrazione pubblica, soprattutto a livello degli enti locali. Ed esige - dappertutto, ma soprattutto là dove questa presenza non c'è, o non è adeguata - un massimo di sforzo, di impegno politico, di tensione culturale volti a far sì che questa presenza vi sia, che questa condizione si realizzi.
3. Ebbene, che cosa si è costruito, dal dopoguerra a oggi, in tutto l'arco temporale della Repubblica, perché nel Mezzogiorno questa condizione vi fosse? Il ritardo è davvero gigantesco, ma è essenziale ed urgente colmarlo. E io credo che è a partire da questo punto che si debbano anche valutare alcune iniziative in atto nel Mezzogiorno: non foss'altro perché il giudizio politico sui fatti (e il segno, la direzione di questo giudizio) è ciò che può esprimere nell'immediato una linea politica, una strategia, più generali.
È nella chiave di questa valutazione, ad esempio, che si deve anche giudicare l'iniziativa per il Ponte sullo Stretto. Che è una iniziativa che va combattuta per molte ragioni; ma in primo luogo perché esprime il proseguire, rafforzato, della tendenza a risolvere il problema del Mezzogiorno in termini di interventi straordinari, di gestioni speciali, di opere faraoniche e prestigiose, anziché d'investimenti, magari eccezionali, nella soluzione di problemi ordinari con strumenti anche essi ordinari.
Ed è nella chiave di questa valutazione, per fare un altro esempio, che si è dato e che si deve consolidare un giudizio positivo sull'intervento straordinario per la ricostruzione di Napoli dopo il terremoto (mentre deve essere negativo, per le ragioni simmetriche il giudizio sulla ricostruzione di Pozzuoli). È infatti evidente scelta di atfidare la ricostrtirionc di Napoli alla struttura ordinaria del Comune e ai poteri del sindaco, l'una e l'altro rafforzati nella loro efficacia e nei loro poteri, facendone un momento dell'attuazione di scelte consolidate della politica urbanistica comunale, come il «piano delle periferie» (mentre per Pozzuoli 1'esautoramento del Comune, l'affidamento delle scelte alla Università di Napoli, la negazione di ogni politica urbanistica sono gli elementi a mio parere più criticabíli).
4. Per concludere questo invito a una riflessione collettiva su ciò che sta dietro la manifestazione dei 40mila, credo in sostanza che il punto su cui far leva, su cui quindi impiegare il massimo di risorse politiche, culturali, sociali, sia quello dell'amrnitnistrazione ordinaria della cosa pubblica, e in particolare del goverrno del territorio. Da questa punto di vista, mi sembra che anche all'interno del partito alcune modifiche sostanziali debbano essere introdotte, alcuni ritardi gravi debbano essere superati.
Ad esempio, non è forse indice di una sottovalutazione grave del problema cui ho accennato il fatto che mai, nei dieci anni in cui abbiamo goveato le maggiori città italiane, non vi sia stata una riunione generale di partito nella quale amministratori e dirigenti abbiano discusso sul complesso dei problemi della pianificazione, del governo del territorio, della «amministrazione dell’urbanistica»?
Sono convinto che limitarsí ad affrontare i problemi dell'emergenza , delle «situazioni calde», degli eventi eccezionali, mentre da una parte indebolisce lo sforzo per realizzare le condizioni per un'azione ordinaria (e perciò continua, sistematica, capace di durare e di crescere), dall'altra cornsolida la convinzione diffusa che i problemi più scottanti possono risolversi soltanto sostituendo, con la soluzione eccezionale e straordinaria, magari con la geniale improvvisazione, quell'azione tenace di costruzione di un'azione pubblica capace di affrontare, e di risolvere, tutti i problemi che volta per volta si pongorno. Problemi che - come il caso dell'abtlsivìsmo nel Mezzogiorno dimostra - il più delle volte sono solo il risultato del lungo accumularsi di ritardi, inadempiernze, inefficacíe, pigrizie, nell'affrontare le questioni ordinarie del governo del territorio e dei bisogni che nel territorio devono essere soddisfatti.
Lo testimonia limpidamente la legge per il governo del territorio che la Regione Friuli-Venezia Giulia si appresta ad approvare. Ed è significativo che il segno più evidente del disastro nazionale venga da una regione nella quale plurisecolari tradizioni di saggio governo imperiale sembravano essersi reincarnate in un nuovo tessuto culturale.
La legge della giunta Illy non entrerà probabilmente mai in vigore, tanti sono i motivi di illegittimità costituzionale di cui è intrisa (si veda in proposito l’arduo ma precisissimo documento in proposito di Luigi Scano). Conviene comunque segnalarne alcuni aspetti più gravi perché sono l’espressione estrema, e più scollacciata e rozza, di posizioni e atteggiamenti che sono abbastanza diffusi.
La legge in corso di approvazione dichiara che, per quella regione, sono sullo stesso piano “finalità strategiche” cui viceversa la Costituzione, l’ordinamento giuridico della Repubblica e la coscienza civile attribuiscono ben differenti gerarchie e priorità. Per i governanti del Friuli-Venezia Giulia sono sullo stesso piano (“equiordinate”) “la conservazione e la valorizzazione del territorio regionale, anche valorizzando le relazioni a rete tra i profili naturalistico, ambientale, paesaggistico, culturale e storico, ecc.” e “le migliori condizioni per la crescita economica del Friuli Venezia Giulia e lo sviluppo sostenibile della competitività del sistema regionale”.
In altri termini, l’interesse della tutela di un bosco, di una falda idrica, di un paesaggio agrario, di un corso d’acqua, di un centro storico, di un terreno franoso o carsico, di una zona archeologica è del tutto equivalente all’interesse per la realizzazione di una nuova zona industriale o la costruzione di un’autostrada o l’escavo di un porto o l’edificazione di un villaggio turistico, se questi contribuiscono alla “crescita economica” (per l’amor di Dio “sostenibile”) e della “competitività regionale”.
Questa affermazione di principio trova fedele traduzione in tutto l’impianto della legge: nella definizione dei contenuti della pianificazione ai differenti livelli, nei rapporti tra questi, nelle procedure confuse e opache.
Prime vittime della nascente legge friulano-giuliana il paesaggio e i beni culturali, e l’intera legislazione statale che, dalla legge Galasso al testo unico Melandri al Codice Urbani-Buttiglione, li tutela.
Il contrasto con il Codice spira da ogni articolo del rozzo testo. Come accade anche in altri contesti regionali (ad esempio in Toscana) si capovolge il rapporto tra legge statale e legge regionale.
Così, ad esempio, la legge statale dice che un piano territoriale regionale, per avere valore di piano paesaggistico, deve disciplinare sia gli immobili vincolati o con specifici provvedimenti amministrativi, oppure ope legis, sia ogni altro immobile, compresi quelli ricadenti nelle aree gravemente compromesse o degradate. Precisa che il piano paesaggistico deve riferire le sue regole sia a elementi territoriali, individuati in base ai loro caratteri identitari distintivi (boschi, praterie, spiagge, dune, falesie, alvei fluviali, golene, paludi, ecc. ecc.) che ad ambiti (definiti in relazione ai profili fisiografici, vegetazionali, di sistemazione colturale, di modello insediativo, e simili, valutati anche in relazione alle dinamiche).
Invece di specificare, dettagliare, o almeno riprendere tali formulazioni, la legge regionale si limita a dichiarare che “il PTR esprime altresì la valenza paesaggistica di cui all’articolo 135 del decreto legislativo 42/2004 e successive modifiche, e contiene prescrizioni finalizzate alla tutela delle aree di interesse naturalistico e paesaggistico di cui alle direttive comunitarie e relativi atti di recepimento, nonché alle norme di legge nazionale e regionale”.
Per la Regione Friuli - Venezia Giulia le leggi dello Stato, anche in materie che sono costituzionalmente di competenza e responsabilità del livello più alto della Repubblica, anziché rigorosi argini che fondano l’autonomia e la responsabilità regionali, sono considerate unicamente musica di sottofondo. Così come l’intesa tra Regione e ministeri competenti non è lo svolgimento di un lavoro comune di definizione delle regole e delle attività più idonee a tutelare i valori d’interesse nazionale presenti nel territorio della regione, ma semplicemente l’apposizione di qualche firma rituale su un protocollo generico.
Lo Stato non conta, conta solo la Regione. Analogamente, non conta la Provincia: questa si occupi solo di strategie e quadri conoscitivi, che sono – nella logica friulano-giuliana – argomenti che poco incidono sulle concrete trasformazioni territoriali. Per Illy, il suo team e la sua maggioranza la pianificazione d’area vasta non esiste: non deve esistere. Spazzando via d’un sol colpo decenni di elaborazione e sperimentazione (cui in anni lontanissimi la regione aveva fruttuosamente concorso), dimenticando le mille ragioni che militano a favore della necessità di disporre di un definito livello di pianificazione intermedio tra quello regionale e quello comunale, il legislatore ha infilato una delle sue perle più preziose.
Ha affermato che la pianificazione sovracomunale la possono fare tutti: i comuni capoluoghi (bella, questa, che la pianificazione sovracomunale la fanno i comuni!), le città metropolitane, le comunità montane, le unioni di comuni, le neonascenti “associazioni comunali di pianificazione”. Senza stabilire criteri, procedure, garanzie, contenuti.
Il disegno complessivo è chiarissimo.
Lo stato non esiste, e con esso liquidiamo anche paesaggio e ambiente e teniamoci le mani libere per costruire autostrade, ferrovie, viadotti, tunnel, porticcioli, impianti di degassificazione, villaggi turistici e quant’altro, per ogni dove.
Chi comanda è la regione, che all’interno del suo dominio non vuole concorrenti. Via quindi le province.
Restino solo i comuni: a questi le spoglie succose della gestione dei “diritti edificatori” (un’altra aberrazione giuridica introdotta a piene mani nel testo legislativo), e in cambio ci lascino fare senza proteste (e magari reprimendo gli eventuali protestatari) tutto ciò che discrezionalmente riterremo “di interesse regionale”. Così abbiamo regolato i conti con il sistema dei poteri democratici.
La fortuna è che il testo è così sgrammaticato, confuso, farcito di grossolanità e illegittimità che difficilmente sarà vitale.
La sfortuna è che molte delle posizioni espresse sono condivise in porzioni consistenti del mondo politico: in una logica bipolare, tant’è che Forza Italia ha espresso interesse per il prodotto del team del presidente Illy.
La legge Lupi sta ancora alla Commissione del Senato. Nessun segno d’opposizione. Nei corridoi di Palazzo Madama si dice che tra centrosinistra e centrodestra c’è accordo per farla passare. Il libretto che abbiamo contribuito a pubblicare, nella sua straordinaria modestia, è l’unico segno pubblico di dissenso, oltre a qualche articolo di Liberazione, il manifesto e l’Unità. La politica tace, e chi tace acconsente. C’è da meravigliarsi?
Non sembra. C’è una questione di fondo, della quale ho già parlato: oggi la promozione della rendita immobiliare è un obiettivo largamente condiviso, a destra ma anche al centro e a sinistra. Sembrano passati secoli da quegli anni in cui l’obiettivo della riduzione del peso della rendita immobiliare era condiviso da un arco ampio di forze politiche e sociali, che andava dal PCI alla DC, dai sindacati dei lavoratori a esponenti di spicco del mondo imprenditoriale. Sembrano passati secoli da quando le forze che si battevano, sia pure su fronti diversi, per il progresso del paese si riferivano al salario e al profitto, e trovavano significativi momenti di alleanza nel contrastare la rendita immobiliare. Oggi quell’obiettivo è scomparso su quasi tutti i versanti dello schieramento politico, con l’eccezione di qualche frangia distratta che non riesce a pesare perchè si occupa d’altro.
Un obiettivo condiviso, tra le forze politiche nazionali, al Parlamento, e nel paese. Chi di noi non ha sentito o letto di proposte di urbanizzazione (lottizzazioni turistiche o residenziali, centri commerciali, strade e autostrade, porti e via elencando) promosse indipendentemente da qualsiasi valutazione sulla necessità o meno, sulla dimensione opportuna, sulle soluzioni alternative possibili, sulla priorità rispetto ad altre decisioni? E’ come se, in assenza della capacità di individuare altre fonti di reddito, si pensasse che accrescere il reddito degli operatori connessi alle trasformazioni immobiliari significa favorire lo sviluppo.
Non meraviglia che questa distorta filosofia alberghi nelle menti della destra italiana, che è sempre stata l’espressione della debolezza storica del compromesso tra rendita e profitto che ha contrassegnato l’unità dell’Italia, rappresentandone la parte deteriore. Suscita però sorpresa e amarezza che essa sia fatta propria anche da consistenti porzioni della “sinistra”. E’ segno d’una profonda mutazione genetica che è succeduta alla caduta del muro di Berlino e alla scomparsa del PCI.
Sarebbe facile fare l’elenco degli episodi che illustrano lo sdraiarsi della parte maggioritaria del centrosinistra sull’illusione immobiliarista. Le vicende urbanistiche romane ne sono un campione significativo, ma credo che chiunque sappia leggere con un minimo di consapevolezza le scelte sul territorio che avvengono in questi mesi (dalla Calabria alla Toscana, dall’Emilia Romagna alla Campania) possa raccontare episodi analoghi. Non va del resto in questa stessa direzione la legge urbanistica proposta nella Regione Lazio dai DS? E non è finalizzata esclusivamente a realizzare pesanti infrastrutture e operazioni immobiliari col minimo di controlli la legge urbanistica che la Regione Friuli – Venezia Giulia sta approvando mentre scriviamo?
Poche sono le eccezioni. Renato Soru e la sua giunta in Sardegna, che apriranno a giorni la discussione sul piano paesaggistico regionale, nel quale hanno promesso ddi privilegiare la storia e la bellezza sulla cementificazione. La giunta di Nicki Vendola in Puglia, che sta rilanciando la pianificazione del territorio e la tutela del paesaggio in una regione devastata dalla pessima amministrazione. Ve ne sono molte altre? Segnalatele. Cerchiamo segni di speranza.
Il primo vorremmo vederlo in una decisa, impegnata, conseguente opposizione del centrosinistra – di tutto il centrosinistra – alla legge Lupi.
Qui una cartella dedicata alla Legge Lupi
Per di più, nella disattenzione di un’opinione pubblica cui la grande stampa d’opinione e le poderose batterie della TV fanno credere che le grandi questioni siano i capricci di Mastella, le risse per i “governatori” (ignoto è lo stupido che ha coniato questo termine, ma numerosi gli stupidi che lo seguono), la bontà degli italiani (e di B.) verso i “poveri alluvionati”.
Perchè, in un sito il cui centro è l’urbanistica ( urbs, civitas, polis) tanta attenzione a questo problema? Altre cose stanno distruggendo in Italia, oltre al territorio e alle regole della democrazia.
Le prospettive del lavoro, la sua remunerazione, il suo peso nella società, sempre più colpiti dalle nuove “flessibilità”, dall’incontrollato aumento dei prezzi, dall’assenza di una politica industriale (per la produzione di beni materiali e immateriali), dall’incentivo a tutte le forme di rendita, dallo smantellamento dello stato sociale, dalla privatizzazione (e mercificazione) dei servizi collettivi.
La funzione della scuola, chiusa nella forbice tra il depotenziamento della pubblica istruzione, e comunque la finalizzazione dei processi formativi ufficiali alla fornitura al “mercato” di forza lavoro fidelizzata all’azienda, e il sempre più largo affidamento della funzione formativa a soggetti e strumenti (la pubblicità, la soap-TV, e le altre mille forme della diffusione del “pensiero comune”) strutturati per produrre non il cittadino consapevole, ma l’individuo-consumatore dei miti e dei prodotti artefatti.
Il futuro della ricerca, vero motore di ogni sviluppo possibile, intrinsecamente legato alla formazione superiore e alla sua superiore qualità e libertà, oggi ridotta nelle condizioni da più parti (fino alla suprema autorità dello Stato) denunciate con documentata passione, e testimoniate dall’abbandono del paese da parte di molte intelligenze e dal trasferimento di quote rilevanti di ricerca da quella libera a quella asservita alle finalità e agli interessi delle aziende produttrici di merci.
L’elenco egli argomenti dei quali sarebbe giusto occuparsi non si conclude certamente qui: non ho citato la giustizia, la salute, non ho citato la politica estera e i diritti personali. Ma è altrettanto certo che un sito come Eddyburg non può toccarli tutti. A me sembra però che quello della censura, così come si manifesta oggi in Italia, sia tra quelli sui quali non si possa tacere, perché se si tacesse si renderebbe più difficile affrontare tutti gli altri problemi.
La libertà dell’informazione e della critica è infatti l’unico strumento che può consentire di vedere i problemi, e quindi è il passaggio obbligato per ogni possibile soluzione. Ciò è vero sempre, ma lo è in particolare in una democrazia incompiuta e imperfetta, per di più viziata e dimidiata proprio dal dominio del sistema dell’informazione da parte di un soggetto monopolistico.
Censura, ergo regime. Comincia ad apparire ozioso il dibattito se il regime ci sia o non ci sia, e anche quello, certo più raffinato, se vi si sia già dentro oppure se vi si stia scivolando. Se non abbiamo raggiunto il fondo, ci stiamo avvicinando rapidamente lungo una linea di caduta che sembra inarrestabile, se i casi di censura non hanno suscitato (nel paese, nella stampa, tra le forze politiche) una veemente, immediata protesta. Se, anzi, qualche segno fa temere che all’interno stesso delle forze di opposizione albergano tentazioni censorie.
Oggi si riunisce a Roma la “sinistra radicale”. Mi auguro che l’assemblea sia fruttuosa e aiuti a individuare (se ci sono) le ragioni di un’unità di progetti e d’intenti, una identità comune. E mi auguro che altrettanto avvenga nell’area “riformista”. Mi auguro soprattutto che sappiano entrambe individuare, come loro primo obiettivo, quello di interrompere la caduta verso il regime, verso la fine delle libertà e delle garanzie stabilite dalla Costituzione repubblicana. Quella costituzione che fu scritta, unitariamente, da un insieme di forze che certamente non erano più vicine tra loro di quanto, oggi, non lo siano Bertinotti e Mastella.
Il comunicato della redazione de l'Unità
Commissione Alpi: come si allontana un esperto scomodo
Questa domanda la pone Enrico Falqui, un ambientalista ricco di esperienze politiche, amministrative e universitarie, nelle sua consueta rubrica sul sito Greenplanet (28 aprile). Si riferisce in particolare al fatto che la maggioranza della cultura urbanistica italiana ha trascurato di adeguarsi ai contenuti del “Libro verde sull’ambiente urbano” del 1990 (1). Falqui riprende un analogo problema sollevato da Ugo Baldini, sull’Osservatorio dell’Archivio Osvaldo Piacentini: “l’Urbanistica dei nostri giorni sembra poco orientata alla soluzione dei problemi, poco attenta alla condivisione sociale delle scelte da operare e rischia un’autoreferenzialità che la porta verso una deriva pericolosa. Insensibile e disattenta al clima di diffidenza da parte della società civile che si sta generando, ed alla riduzione della ‘disponibilità a pagare’ che ne consegue”. Proverò a esprimere un’opinione sull’argomento, davvero intrigante, che Falqui e Baldini pongono.
Ma innanzitutto una precisazione. Falqui, citando un mio intervento al Città Territorio Festival di Ferrara, afferma che sosterrei che la pianificazione “deve essere sostituita da meccanismi che consentano a chi vuole operare trasformazioni urbane di intervenire sulla base dei suoi interessi e delle sue disponibilità immediate”. La mia posizione è esattamente opposta. Nel mio intervento ho detto che quella citata da Falqui è la posizione di “alcuni”, tra i quali certamente non mi colloco. Dopo aver affermato, come Falqui ricorda, che la pianificazione “è oggi più che mai necessaria”, ho detto che la posta in gioco oggi è se essa debba essere competenza e responsabilità della mano pubblica, oppure la mera conseguenza di decisioni delle corporations. Ho sostenuto anzi che “scegliere decisamente il carattere pubblicistico della pianificazione” è preliminare a qualsivoglia successivo ragionamento sui caratteri, metodi, strumenti della pianificazione.
Anche a me sconcerta che la cultura urbanistica ufficiale, e anche gran parte degli urbanisti, non si schieri apertamente su questo quesito. E mi sembra che la questione del consumo di suoli – che costituisce il punto di partenza dell’argomentazione di Falqui – sia una significativa testimonianza di un simile atteggiamento. Da quasi vent’anni la politica europea combatte – sia a livello dell’Unione che a livello dei singoli stati – contro il consumo di suolo, considerandolo uno dei rischi più gravi al patrimonio culturale e sociale dell’Europa e dei suoi paesi. Dalla Gran Bretagna alla Francia, dalla Germania ai Paesi Bassi (per non parlare dei paesi scandinavi) si sono attivate politiche volte a contrastare il fenomeno.
Eppure, una parte consistente della cultura urbanistica italiana assume nei confronti del consumo di suolo un atteggiamento molto più vicino all’assecondamento che alla critica. Sia pure con modulazioni e declinazioni differenti, gli stessi autori delle prime e più interessanti analisi della diffusione urbana (Francesco Indovina, Bernardo Secchi, Stefano Boeri) non riescono a passare dall’analisi alla valutazione critica e, quando passano alle proposte, giungono a presentare quel fenomeno come inevitabile: quindi tale da dover essere, oltre che compreso, adoperato per progettare “nuove forme della città” (Secchi). E quand’anche individuino tra le cause dello sprawl la modifica degli stili di vita e l’alto valore degli affitti nelle città (Indovina), non si domandano quali disastri provocherebbe la loro tranquilla perpetuazione, nè si pongono quindi la questione se quelle cause vadano combattute. E neppure sembrano comprendere la differenza che passa tra il voler scoraggiare e contrastare la proliferazione disordinata delle urbanizzazioni, che devasta aree sempre più vaste dell’Italia, e il volerle semplicisticamente cancellare. Qualcuno di loro, particolarmente furbo, è arrivato a dire che chi combatte la dispersione urbana si propone di mandare i B 52 a demolire la “città diffusa”.
Del resto, lo stesso storico istituto nazionale degli urbanisti, l’INU, si è deciso ad avvicinarsi alla critica del consumo di suolo solo recentemente, anni dopo che erano state presentate al Parlamento nazionale proposte legislative, nate proprio da questo sito, che avevano nel contrasto al consumo di suolo il loro asse; ha continuato e continua a predicare e praticare invece proposte fondate sul riconoscimento dei “diritti edificatori” e sulla generalizzazione della “perequazione urbanistica”, quindi provocatrici di ulteriore sregolato consumo di suolo. È da moltissimi anni, del resto, che l’INU aveva abbandonato la posizione critica nei confronti dei poteri extraistituzionali che di fatto governano le trasformazioni territoriali (2)
Sarebbe però ingeneroso nei confronti della cultura urbanistica italiana (o della sua maggioranza) non guardare che cosa c’è dietro l’atteggiamento di assecondamento delle tendenze in atto. C’è qualcosa che permea l’intera società italiana (e non solo italiana), in tutte le sue dimensioni. La radice è ideologica. La caduta delle ideologie novecentesche, che tanti hanno celebrato come il segno di una nuova epoca di libertà, ha coinciso con il trionfo di un’altra ideologia, prossima a diventare egemonica, cioè a conquistare l’intero mondo senza bisogno di adoperare la forza (se non sulle masse dei “diversi”). È quell’ideologia che ha la sua premessa nella dissoluzione dell’indispensabile equilibrio tra la dimensione pubblica e la dimensione privata dell’uomo, e nell’appiattimento di questo sull’individualismo; l’ideologia che celebra come massimi valori il successo individuale, la ricchezza, la rincorsa dell’affermazione personale, che contano più di qualsiasi principio. Mentre parole (e concetti) come Stato, pubblico, collettivo, comune sono diventati sinonimi di peso, obbligazione, vincolo, impaccio.
Il sapere e la coscienza delle persone non vengono più formati dalla famiglia e dalla scuola per tutti, e neppure dalla parrocchia o dalla sezione del partito, ma dallo sterminato potere mediatico. Questo è sempre più finalizzato a promuovere la voglia di spendere per comprare merci sempre più inutilmente nuove, attraverso il cui acquisto si afferma la propria individualità. Lo stesso significato delle parole (questo elementare strumento di comunicazione tra gli uomini) viene via via logorato, s’impoverisce fino a non esprime più lo spessore delle cose, ma il loro fantasma. Ne ha fatta di strada la capacità del potere mediatico di plasmare gli uomini, nel mezzo secolo che ci separa dall’analisi di Vance Packard sulle tecniche dei persuasori occulti!
È in questo quadro che occorre, a mio parere collocare la domanda di Enrico Falqui e quella di Ugo Baldini. Perciò è secondo me necessario – come sostenevo alla fine del mio intervento citato da Falqui, che qui riassumo - condurre in primo luogo una azione per superare il sistema di valori e di pratiche sociali che attualmente sembra prevalere. È un sistema di valori – vorrei ricordare a Baldini - che ha permeato così profondamente l’opinione pubblica che non è sempre facile ottenere, sulle proposte concrete dell’urbanistica seria, la “condivisione sociale delle scelte”, quando queste contrastano interessi individuali diffusi. È per questo che ritengo che oggi occorra lavorare contemporaneamente in due direzioni.
Da una parte, sforzarsi di comprendere come si configura oggi quella “complessità del territorio” cui si riferisce Falqui: una complessità la cui odierna realtà non sfugge solo agli urbanisti, ma anche ai portatori dei saperi meglio attrezzati a comprendere le trasformazioni della vita sociale ed economica, che condiziona la struttura fisica e funzionale della città interagendo con essa. Non solo per comprendere la sua dinamica e le caratteristiche dei suoi dispositivi, ma anche per individuare gli interessi, gli argomenti e le forze su cui si possa far leva per modificarne il cammino: ciò che indubbiamente appartiene al mestiere dell’urbanista, oltre che all’impegno del cittadino che non abbia perso la sua dimensione di uomo pubblico.
Dall’altra parte, lavorare nel concreto delle specifiche realtà territoriali nelle quali l’urbanista è chiamato ad operare, per promuovere e sviluppare tutto quello di pubblico, di sociale, di comune che è stato conquistato nella storia nella città e nel territorio, e che in larga misura costituisce lo specifico campo del lavoro degli urbanisti. Tenendo però fermi alcuni principi: che la città e il territorio costituiscono un bene comune; che nessuno spreco di risorse è tollerabile in un mondo finito; che il patrimonio della civiltà umana va consegnato alle generazioni future; e che, last but not least, l’eguaglianza dei cittadini e dei popoli non è un bene meno prezioso della libertà degli individui.
NOTE
(1) Il rapporto citato da Enrico Falqui è stato pubblicato in La città sostenibile, a cura di E. Salzano, Edizioni delle autonomie, Roma 1992. Il libro contiene il documento europeo e gli atti di un convegno ad esso dedicato a Venezia, nel 1991.
(2) Una interpretazione del punto di svolta e delle sue ragioni è nel mio editoriale di commiato da Urbanistica informazioni.
Per il 2007 eddyburg augura
Una buona legge per il territorio,
- che riduca il suo consumo a ciò che è strettamente necessario,
- che riconosca il valore dei paesaggi senza ridurli a merce,
- che subordini le sue trasformazioni alle esigenze collettive,
- che affidi le decisioni che lo riguardano al potere pubblico democratico.
Una legge che contribuisca
- a rendere le città più belle e funzionali per chi le abita e per chi le frequenta,
- a distrarre risorse dalla rendita per impiegarle nelle attività socialmente utili,
- a garantire ai nostri eredi almeno tante risorse quante ne abbiamo usate noi.
Una legge che aiuti
- partendo dalla piccolissima parte del mondo di cui si occupa
- a rendere il pianeta Terra
- più longevo, più ricco di diversità biologiche e culturali,
- e finalmente equilibrato nel rapporto
tra i bisogni delle persone e dei popoli e il loro appagamento
Nella Val di Susa si è praticata la strada autoritaria. L'impiego dello strumento più classico ma, ahimé, quello che viene usato con sempre maggiore frequenza, ad opera del governo come ad opera di sindaci sceriffi: la forza pubblica. Non dico che questo non sia uno strumento da adoperare: ma si tratta di comprendere a vantaggio di quale ragione, con quali conseguenze, con quali effetti sull’autorità di chi la impugna, con quale ricaduta sul rapporto tra chi esercita il potere e chi ne detiene il diritto. E si tratta di comprendere (poichè è in ogni caso una ferita che si apre) se si è fatto quello che era ragionevole fare prima di arrivare a tanto.
Quello esploso in Val di Susa è un problema che si ripropone ogni volta. Sempre più spesso ci si trova di fronte a conflitti che oppongono popolazioni locali (e interessi locali) a interessi di comunità più vaste. E allora ci si schiera su due versanti opposti: chi difende il piccolo, e chi difende il grande. Non è forse quello di schierarsi apoditticamente un vizio tutto italiano? (sebbene certamente lo condividiamo con altri). In genere la sinistra radicale e l’ambientalismo si schierano per il piccolo, il locale, l’immediatamente “popolare”, la sinistra riformista e il sindacalismo (adopero questi termini con l’accetta) per il grande, lo “strategico”, il produttivo. La destra (quella becera tipicamente italiana) e i grandi interessi stanno a vedere: tanto, potranno guadagnare sia da una parte che dall’altra.
La regolazione di simili conflitti dovrebbe essere parte sostanziale della missione di una democrazia pluralista: di una democrazia nella quale convivano, e debbano convivere perchè ciò è utile a tutti, interessi diversi. Interessi che non siano di per sè conflittuali (non c’è conflitto a priori tra il rafforzamento delle comunicazioni su ferro e la tutela dell’ambiente e della salute degli abitanti) devono poter trovare soddisfazione senza che l’uno calpesti l’altro.
La questione è solo tecnica per un verso, e politica per un altro. Nel caso della ferrovia in Val di Susa alla tecnica appartiene l’individuazione del tracciato e delle modalità che rendano minimi i danni e i modi in cui i danni residui possano essere compensati; alla politica appartiene la scelta del livello di priorità da assegnare alla allocazione delle risorse da impiegare per quel tracciato in relazione a impieghi alternativi (la guerra, il premio alla rendita, la promozione dei consumi superflui ecc.).
Ma nell’un caso e nell’altro tecnica e politica hanno bisogno di impiegare uno strumento specifico, che spesso viene considerato un orpello o un impaccio: qualcosa che appare solo esornativo, o addirittura una procedura che ostacola invece di aiutare. Mi riferisco alla pianificazione del territorio. E naturalmente mi riferisco alla pianificazione democratica, poiché abbiamo scelto la democrazia (e i nostri padri e fratelli più grandi, negli anni tra il 1943 e il 1945, proprio anche nelle montagne della Val di Susa).
Che cosa significa pianificazione democratica? Ricordiamolo a chi sta per stendere il programma di governo dell’Unione.
Significa in primo luogo che le scelte relative all’uso del territorio, e alle sue trasformazioni, si fanno a partire dalla conoscenza approfondita del territorio: della sua struttura, della sua dinamica, della popolazione che lo abita e lo utilizza.
Significa che queste scelte non si fanno separatamente (da un lato le infrastrutture, dal’altro l’ambiente e il paesaggio, dall’altro l’economia e la società, dall’altro le urbanizzazioni), ma nel loro insieme, sinteticamente: perchè la pianificazione è l’arte della sintesi, non la tecnica della giustapposizione.
Significa che di ogni trasformazione si valuta quali saranno i prezzi e i vantaggi, e si individua chi li paga e chi ne beneficia: e le scelte politiche, gli schieramenti veri, si compiono in base alla decisione di come ripartire gli uni e gli altri.
Significa che tutto ciò non si compie nel chiuso dei gabinetti politici e degli studi tecnici, ma coinvolgendo tutte le popolazioni interessate: ricordando che pianificazione e democrazia sono in primo luogo attività formative, bottom-up e top-down.
Hanno seguito questi semplici insegnamenti dell’arte del buon governo in una società complessa quanti hanno concorso alla decisione dell’Alta velocità in Val di Susa? E’ legittimo (dalla lettura delle cronache) dubitarne. Non è legittimo stupirne, se ci si guarda in giro e ci si informa al modo in cui i nostri governanti affrontano le scelte sul territorio.
Non parlo solo dei berlusconiani a pieno titolo. Mi riferisco anche a quelli che indossano casacche di colore diverso, e anzi opposto.
Un esempio. La regione Friuli-Venezia Giulia, amministrata da una maggioranza, una giunta e un presidente di centro.sinistra sta per approvare una legge per la pianificazione del territorio la quale, nonostante i rabberciamenti che si tenta di fare all’ultimo momento per ridurne il devastante impatto culturale e pratico, è costruita per “liberare” la decisione, la progettazione e la realizzazione delle infrastrutture dagli impacci della contemporanea considerazione delle esigenze (ambientali e sociali) del territorio.
Un filo evidente lega questi tre avvenimenti: più precisamente, lega gli effetti dello Tsunami alle grandi questioni del destino del nostro pianeta e dell’incapacità del vigente sistema economico-sociale ad assicurare benessere e sicurezza a tutte le donne e li uomini.
Accettare o meno come inevitabile ed eterno il sistema basato sull’accrescimento sistematico dell’accumulazione capitalistica, sul dominio del mercato su ogni altra regola, sulle procedure e garanzie di libertà inventate ed applicate dalla borghesia? Questo è l’argomento che, alla fine dei conti, segna la differenza tra le sinistre “radicali” e le componenti del “riformismo”.
Il sistema capitalistico-borghese ha indubbiamente portato vantaggi enormi all’umanità: ha sottratto masse sterminate alla povertà, alla malattia, alla morte precoce; ha determinato condizioni e garanzie di libertà e d’uguaglianza in interi continenti, e fomentato in altri tensioni verso i medesimi diritti; ha provocato uno sviluppo tecnologico che ancora stupisce. Ma al tempo stesso ha generato altre povertà, malattie, morti precoci; ha accentuato ingiustizie che urlano ribellione e vendetta; infine, si è rivelato incapace a governare i nuovi squilibri che esso stesso ha provocato allontanandosi (grazie al carattere del suo stesso sviluppo tecnologico) dalla necessaria naturalità della condizione umana.
Non è allora doveroso – più ancora che ragionevole – porre al centro di una riflessione non disarmata la ricerca, e la speranza, della possibilità di inverare un sistema fondato su valori diversi, più ricchi e più lungimiranti, non più appiattiti solo sulla crescita economica e sui diritti individuali? Questo è dunque il tema che occorre affrontare per disegnare un futuro diverso non solo all’Italia, ma all’umanità intera.
Il futuro, però, si prepara anche nel presente: altrimenti, la ricerca verso il domani può diventare una sterile fuga. È allora del tutto ragionevole che la componente “riformista” (che vuole aggiustare il sistema) e quella “radicale” (che vorrebbe cambiarlo) si riuniscano per affrontare i problemi dell’oggi e trovare per essi risposte comuni. Ed è positivo che abbiano trovato (come sembra dalle anticipazioni giornalistiche) un accordo pieno proprio sulle questioni dell’ambiente. La loro potenziale catastroficità è stata squadernata dallo Tsunami, ultimo di una catena di eventi che rivelano come l’arroganza della civiltà contemporanea abbia piedi d’argilla.
Le questioni dell’energia e dell’acqua, delle aree protette e dei rifiuti, della difesa del suolo e dei trasporti, della fiscalità ecologica e dell’agricoltura (riprendo dall’articolo di Giovanni Valentini l’elenco dei temi affrontati dal TAO, il Tavolo Ambiente dell’Opposizione) costituiscono certamente aspetti rilevanti della questione ambientale, ed è significativo che il primo testo base che verrà presentato all’esordio ufficiale del TAO sarà quello sull’energia e i cambiamenti climatici, predisposto dalla commissione di cui è presidente una persona seria e preparata come Paolo degli Espinosa.
C’è un tema però che è strettamente connesso alle questioni che ho finora evocato, e che sembra ignorato dalle agende dei “riformisti” come da quelle dei “radicali”: è la questione del governo del territorio, del sapere che sta alla sua base (l’urbanistica), del principale dei suoi strumenti (la pianificazione). È solo la pianificazione, una pianificazione basata sull’attenta e assidua considerazione dei valori e dei rischi dell’ambiente, che può aiutare a trovare una sintesi tra le diverse esigenze relative all’uso del suolo, a tradurla in regole valide erga omnes, a definire le opere necessarie alla vita degli uomini e allo sviluppo duraturo della società. Ed è solo una pianificazione di cui sia protagonista un’amministrazione pubblica autorevole, efficace, braccio operativo delle istituzioni nei quali si esprime l’attuale democrazia, capace di indicare le direttrici da percorrere e i precetti da rispettare, che può ottenere che l’interesse degli individui e delle aziende non prevalga sull’interesse collettivo, ma ne sia al servizio.
Una pianificazione, e un governo del territorio, molto lontani da quelli – dominati all’asservimento agli interessi privati della proprietà immobiliare – cui spalanca le porte la legge “per il governo del territorio” all’esame della Camera dei deputati. Sarebbe un buon segnale se, dai luoghi dove si discutono le prospettive e i programmi delle diverse e variegate sinistra, venisse un chiaro gesto di rigetto di quella legge e se, nelle agende della riflessione programmatica, il governo del territorio trovasse finalmente il suo ruolo.
Un eddytoriale sulla legge
Una lettera di Giovanni Caudo
E neppure pensavamo che la sinistra scomparisse di nuovo (dopo il ventennio fascista) dal parlamento italiano. Speravamo invece che, nonostante la brusca rottura del centro-sinistra freddamente operata da Veltroni, rimanesse aperto uno spazio per costruire una nuova alleanza capace sconfiggere il berlusconismo e ricostruire un’Italia coerente con i principi della Resistenza e della Costituzione. Così non è avvenuto. L’individuazione delle responsabilità non è difficile, ma ciò che importa adesso è comprendere come si può andare avanti.
Sappiamo che dovremo soffrire molto, giorno per giorno, per le conseguenze della débacle elettorale; ne soffrirà il paese, i gruppi sociali più deboli, il territorio, il futuro di noi tutti. Se guardiamo solo ai prossimi anni non è facile vincere la disperazione: eppure guardare nel presente è necessario, e il profilo dell’Italia di Berlusconi tracciato da Franco Cassano è lì per ricordarci l’essenziale.
Ma se guardiamo al di là dei prossimi anni (ed è lì che bisogna guardare dopo questo risultato) il dato più preoccupante è la scomparsa dal Parlamento di ogni formazione politica che abbia esplicitamente espresso una posizione critica nei confronti dell’attuale sistema economico-sociale: della condizione che questo sistema riserva al lavoro, all’ambiente, alla pace, all’eguaglianza. Non è tale infatti, ovviamente la destra, e neppure la formazione di Casini. Non lo è neppure il nuovo partito di Veltroni, per il quale il neoliberismo (il vero vincitore di queste elezioni) non è un rischio e la lotta di classe semplicemente non esiste.
Mi sembra che in questa situazione i compiti che spettano a chiunque sia scontento (per usare un eufemismo) di questo risultato elettorale siano numerosi. Innanzitutto c’è da lavorare (studiare) per comprendere che cosa è diventata l’Italia. Il mondo è cambiato. Non è migliore di quello di ieri: è diverso, profondamente diverso. Non sono diversi i meccanismi di fondo (l’alienazione del lavoro, la riduzione d’ogni cosa a merce, l’impiego della violenza per risolvere i conflitti, lo sfruttamento miope delle risorse della terra). È diverso il modo in cui si manifestano, in cui incidono nei rapporti sociali e nella percezione di ciò che accade, in cui plasmano le coscienze. Si sa molto di ciò che è cambiato, ma ne manca (salvo eccezioni) una consapevolezza critica. È questa che occorre in primo luogo riacquistare per comprendere come mai l’Italia è diventata “un paese egoista e miope”, fortemente permeato di razzismo, in cui la destra di Berlusconi e Bossi supera di dieci punti il centro e spazza via la sinistra.
Comprendere non per compiacersene, o per giustificare le sconfitte, ma per cambiare. E cambiare si deve, a partire dalle aree di protesta e di rifiuto che esistono, e che non possono non crescere. Se la società che la destra costruisce è una mondo dove l’ingiustizia e la disuguaglianza, la sopraffazione e la violenza diventano pratiche dominanti, dove gli interessi comuni vengono calpestati e dissolte le conquiste raggiunte, per quanto le cortine fumogene del sistema mediatico possano mascherare la realtà questa si rivelerà sulla pelle delle cittadine e dei cittadini. E la sofferenza materiale e morale non mancherà di esprimersi – come già lo sta facendo, in larghe aree del territorio e della società. Si tratta di incanalare il disagio e la rabbia, di indicare le direzioni giuste: quelle che costruiscano una società diversa, o indichino la strada per farlo.
È sul terreno della società che occorre operare, visto che quello della politica è per ora reso particolarmente difficile. Ma senza dimenticare che ogni soluzione dovrà trovare prima o poi (e meglio prima che poi) il suo sbocco negli strumenti della politica e delle istituzioni. Altrimenti, non è garantita la durata dello sforzo che è necessario per sconfiggere davvero i poteri oggi dominanti.
Qui l'articolo di Rossana Rossanda
Il piano paesaggistico della Sardegna, come è noto, è stato redatto in tempi brevissimi dagli uffici della Regione e approvato con tempestività dalla Giunta Soru. La sua premessa è stata un vincolo di salvaguardia temporanea su una fascia molto estesa delle coste, da decenni devastate da furiose iniziative immobiliari. Il tempo stabilito per sostituire al vincolo il piano era brevissimo, ed è stato rispettato, grazie alla dedizione di un numero elevato di tecnici mobilitati dalla Regione (sarebbe utile confrontarlo con il tempo della produzione di piani di analoga complessità di livello locale o d’area vasta). Appena adottato è stato reso noto urbi et orbi con rarissima tempestività.
Le opposizioni generate dal piano dopo la sua approvazione sono di due ordini. Da una parte, quella degli interessi costituiti, politici ed economici. Interessi vasti e diffusi, soprattutto i secondi, ramificati in molti settori potenti della vita nazionale. La loro opposizione non stupisce: era nel novero delle cose attese. L’altro ordine di critiche ha una matrice diversa, che invece induce alla riflessione. Si critica l’invadenza della Regione nei confronti dei poteri locali. I toni della critica non mancano di asprezza, non solo là dove i portatori delle critiche sono sollecitati anche da interessi politici ed economici, ma anche dove si tratta di persone e gruppi che condividono l’impostazione, gli obiettivi, la strategia territoriale della Giunta Soru.
Dalla Sardegna alla Toscana la distanza non è molta. E mentre in Sardegna si critica l’invadenza della Regione, sul versante continentale si protesta per i documentati danni che l’eccessiva compiacenza della Regione verso i comuni provoca: Monticchiello non è che la punta di un iceberg, si dice, la Regione si è legata le mani e i piedi, ha decretato l’autonomia piena dei comuni e così non può intervenire anche quando i municipi promuovono “schifezze” che guastano paesaggi celebrati nel mondo.
Riconosciamolo con franchezza: nelle file sparpagliate dei difensori del paesaggio e dell’ambiente, e nei mondi culturali e politici di cui sono l’espressione, alberga una grande confusione. E proprio su una questione che è fondamentale per la decenza stessa del sistema democratico rappresentativo. Quando le divisioni si manifestano all’interno di un fronte che è minacciato dalla pervasiva potenza degli interessi immobiliari occorre fare il massimo sforzo per superarle. E quando esse derivano dalla confusione, il primo obiettivo è far chiarezza al più presto: pena, la sconfitta dei valori di cui si vuole essere i difensori.
Per fare chiarezza, crediamo che si debbano innanzitutto superare alcuni miti che si sono diffusi negli ultimi anni. Il primo mito è che la cooperazione tra enti diversi (la “copianificazione”, come l’hanno ribattezzata gli urbanisti) sia una panacea, e non una procedura da applicare rispettando un principio essenziale: quando più decisori tentano l’accordo, occorre che sia chiaro chi decide nel caso che l’accordo non si raggiunga entro tempi stabiliti. Il secondo mito è che “piccolo” sia sempre “bello”, che l’istanza della democrazia “più vicina ai cittadini” sia la migliore di tutte per definizione stessa della democrazia (come se non fosse sempre il medesimo popolo a eleggere il governo del comune, della provincia, della regione e dello stato).
Sarebbe forse il caso, sul terreno dei criteri da assumere nelle regole della democrazia, di cominciare di nuovo a riflettere su quel “principio di sussidiarietà” che, nato in Europa per accrescere il potere del governo dell’Unione nei confronti di quelli degli stati nazionali, è stato adoperato in Italia in senso inverso: da alcuni – la destra leghista - come manganello per sconfiggere lo stato, da altri – il centrosinistra - come ripiego strumentale per rendere innocuo il manganello. Sussidiarietà non significa (quante volte lo si è scritto su queste pagine!) che tutto il potere possibile deve essere gestito dal livello più basso, e che solo il residuo merita di essere lasciato alle istanze provinciali, regionali, statali. Significa che di ogni decisione è attribuita a quel livello che meglio degli altri può assumerne la responsabilità, dal punto di vista della scala dell’azione e dei suoi effetti.
E sarebbe poi il caso di ragionare anche, sul terreno crudo dei fatti e delle loro cause, sul perché le popolazioni che più direttamente vivono i paesaggi che formano l’Italia, eredi di quelle stesse che li hanno costruiti nei secoli, ne siano diventati oggi, nella maggioranza dei casi, i più attivi demolitori. Schiave anch’esse dell’aberrazione per cui la felicità delle persone e dei gruppi sociali si raggiunge consumando e dissipando oggi ciò di bello e di utile che nei secoli è stato progressivamente formato, e che nei secoli meriterebbe di vivere: un’aberrazione che è la diretta conseguenza di una concezione dell’economia che vede nella quantità della produzione di merci l’unico parametro del progresso, e di una pratica della politica che di quell'economia la vede serva.
Cominciamo dalla forma, la quale spesso è sostanza. Soprattutto in una legge, che è un insieme di regole che devono essere applicate da qualunque operatore. Sciatteria, confusione, contraddizioni, termini uguali adoperati con significati diversi, espressioni non comprensibili: di ciò pullula la legge, e non l’hanno rilevato solo commentatori ostili al suo contenuto, ma anche personalità del mondo che ha condiviso le “innovazioni” introdotte da Lupi (mi riferisco all’INU).
Veniamo al contenuto. Voglio sottolineare solo un punto. Come tutti i critici hanno osservato, in quella legge l’iniziativa e la decisione nelle scelte di organizzazione del territorio passa dalle mani dell’autorità pubblica a quella degli operatori immobiliari. Con tre conseguenze gravi: sul territorio e sul paesaggio e, di conseguenza, sulla vita delle cittadine e dei cittadini; sul sistema dei poteri democratici; sull’economia e le sue prospettive.
L’interesse degli operatori immobiliari è quello della massima “valorizzazione” della proprietà, ovunque questa sia collocata. Ma è proprio per limitare i fallimenti del mercato e massimizzare il benessere collettivo che è nata, nelle democrazie liberali, l’esigenza di un governo pubblico delle decisioni sul territorio e la pratica della pianificazione urbanistica: un’esigenza vieppiù accresciuta quando si è compreso che non solo l’organizzazione del territorio ma anche la sua forma (il paesaggio) sono interessi comuni da tutelare.
Le nostre città testimoniano con l’evidenza dei fatti che dove la pianificazione è diventata prassi corrente nell’azione amministrativa le città sono abitabili e i paesaggi ancora salvi (le città dell’Emilia Romagna e le campagne della Toscana lo testimoniano, ma non sono le sole in Italia), dove la regola è stata imposta dalla proprietà immobiliare le città sono dei mostri (la Napoli del film “Mani sulla città” di Francesco Rosi ne è l’icona).
Promulgare una legge nella quale si afferma che la pianificazione è esercitata “prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi” (articolo 5, comma 4), e precisare che la negoziazione si svolge con i “soggetti interessati” alle trasformazioni (articolo 8, comma 7), significa tornare - nel mondo - a prima del piano di New York del 1811 e - in Italia - ai tempi denunciati da Francesco Rosi e dalle condizioni di vita in molte nostre città.
L’indebolimento dei poteri pubblici nei confronti degli interessi immobiliari non è espresso solo da quella affermazione generale, ma dal complesso dei meccanismi che la legge vorrebbe porre in essere. Il più smaccato è l’introduzione del silenzio-assenso nella verifica della conformità delle proposte di edificazione con le previsioni urbanistiche, ma anche l’obbligo puntiglioso per i comuni di motivare ogni e qualsiasi proposta di modifica ai piani adottati o di esproprio per pubblica utilità che venga rigettata è (per chi conosca la capacità d’inventiva della proprietà immobiliare nel proporre edificazioni e la debolezza cronica delle pubbliche amministrazioni gravate sempre più di oneri burocratici e private sempre più di risorse) un ignobile invito a lasciar correre e acconsentire tacendo alle proposte immobiliari.
Che dire poi del fatto che lo Stato (con buona pace non della “bossiana” devoluscion e del federalismo, ma dello stesso regionalismo) riprende tra i suoi “compiti e funzioni” nientedimeno che “il rinnovo urbano” (articolo 3, comma 1)? Forse per gli investimenti che si vogliono attribuire alla proprietà immobiliare nei “programmi urbani complessi”? E che dire del silenzio sulle modalità e le procedure con le quali lo Stato eserciterà le decisioni sul territorio per i settori d’intervento di sua competenza?
Pesanti riflessi avrà la legge Lupi (se il Senato non provvederà a fermarla) sul sistema economico. Non solo per la crescente inefficienza che sempre più condizionerà città e territori sottratti alla logica della pianificazione e affidati alla negoziazione, in regime di subalternità del pubblico alla congenita miopia degli interessi immobiliari. Non solo, insomma, per la crescita di tutte le ragioni dei dissesti attuali, ma anche per una ragione pienamente strutturale. La legge, secondo tutti gli osservatori appena smaliziati, è un poderoso incentivo alle rendite immobiliari, e a quelle finanziarie sempre più con esse intrecciate. Ebbene, non è proprio nel prevalere della rendita sul profitto e sul salario, delle attività speculative su quelle produttive, che i più attenti osservatori economici hanno visto una delle cause di fondo del declino economico del nostro Paese?
Battere la legge Lupi significherebbe allora dare un segnale d’inversione di tendenza anche sul terreno sul quale si gioca il futuro del nostro sistema economico, e quindi della nostra società. Ci si potrà poi dividere sul ruolo che i diversi interessi che compongono il mondo della produzione dovranno svolgere, sulla composizione tra i diversi interessi dialetticamente contrapposti, sulle regole e sulla durata dell’auspicato patto tra i produttori. Ma un fatto è certo, sconfiggere l’ulteriore prevalere delle rendite comporta, come primo passo, il profondo ripensamento delle regole di governo del territorio che la Camera dei deputati ha improvvidamente licenziato, e consegnato alla saggezza (speriamo) dei senatori della Repubblica.
Della legge urbanistica del 1942 si poté dire che aveva segnato la sconfitta degli interessi legati alla speculazione immobiliare e la vittoria degli interessi legati ai settori avanzati dell’economia. Della legge Lupi, se diventerà legge dello Stato, si dovrà dire il contrario. Avrà vinto una maggioranza molto più arretrata di quella che, in pieno regime fascista, approvò la legge 1150/1942.
Il testo della Legge Lupi
Un libro: La controriforma urbanistica
Una cartella di testi e documenti
È delle prime due che vogliamo occuparci brevemente oggi, soprattutto per il peso notevole che hanno nei confronti delle trasformazioni di un territorio prezioso e fragile quale quello dell’Italia.
Modernizzazione, innovazione: esprimono il bene, il futuro, la prospettiva verso la quale ineluttabilmente bisogna tendere. Ciò che è oggi e sarà domani, poiché è diverso da ciò che era ieri, è – deve essere – l’obiettivo di ogni azione che voglia essere legittimata dal consenso sociale. Tradizionale, passatista, conservatore diventano i termini che esprimono disvalori: sentimenti e tendenze che devono essere combattuti e sopraffatti. Ai fautori dei dogmi della modernizzazione e dell’innovazione (largamente dominanti nel Palazzo come nell’Accademia), a quanti credono che la Storia vada solo avanti e non conosca regressi il secolo scorso – e la paurosa regressione del nazismo – non ha insegnato nulla. Anzi, per essi la storia non serve: è meglio distruggerla nella memoria che trarre da essa i lineamenti e i principi di un possibile e migliore futuro.
Guardate le tendenza dell’architettura, che sempre più condizionano l’urbanistica (o trovano significativi riscontri culturali con gli urbanisti della modernizzazione). Guardate la fede indiscussa nella tecnologia, maestra d’ogni retorica e serva d’ogni individualistica bizzarria. Sembriamo tornati all’epoca in cui si nutriva illimitata fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” di un’umanità affidata alle mirabolanti capacità delle tecniche dell’acciaio e del cavallo-vapore. Come diceva Marx, la storia si ripete, ma la seconda volta è farsa.
Che cosa vuol dire oggi, per il territorio, questo ritorno all’ideologia progressista dell’Ottocento? In una realtà in cui città e territori sono intrisi di storia e in cui la sedimentazione del passato è la ragione e la matrice della bellezza e della qualità dei luoghi, esso significa devastazione e regresso. Significa trascurare le regole che secoli di cultura e lavoro hanno impresso al modo in cui furono costruite le città, e trasformarle in un’accozzaglia disordinata di oggetti che non celebrano la società ma i loro Autori. Significa violentare i paesaggi rurali e mettere a rischio le risorse della natura costruendo dovunque infrastrutture stradali, spesso immotivata e sempre indifferenti ai contesti che attraversano. Significa seppellire le campagne sotto la coltre di espansioni urbane prodotte più dalla spinta della “valorizzazione immobiliare” (o alle pratiche della “perequazione” e “compensazione”) che da oggettive necessità non risolvibile in altro modo.
A Venezia, per esempio, significa pretendere di risolvere i problemi del degrado della Laguna e del deperimento (otto-novecentesco) della sua funzione regolatrice delle acque mediante le strutture “tecnologicamente avanzate” del MoSE anziché ripristinando gli equilibri ecologici compromessi dalle “modernizzazioni” del secolo scorso (per non parlare dell’inutile ponte di Calatrava e della devastante metropolitana sublagunare) . Tra il Continente e la Sicilia significa affidare l’agevolazione dei traffici alla costruzione di un mirabolante Pontone, capace di figurare nel Guinness dei primati dopo essere apparso nei fumetti di Paperino, invece di riorganizzare seriamente i trasporti via mare e aver adeguato alla normalità la rete ferroviaria interna della Sicilia. A Torino e a Milano significa agevolare gli interessi immobiliari di alcuni operatori privilegiati mortificando gli interessi comuni della cittadinanza e, laddove esiste, la legalità urbanistica, e minacciando il tradizionale paesaggio.
Il fatto è che con questa scelta di Opere, preferibilmente Grandi e perciò appariscenti e costose, si ottengono più risultati, utili sia al Palazzo che all’Accademia. Su un versante si favoriscono gli affari delle grandi holding nelle quali la rendita immobiliare e quella finanziaria si sono saldate (e si scaricano sulle generazioni future i costi dei fallimenti dei project financing e quelli delle manutenzioni e gestione delle opere). Sull’altro versante si appagano le smanie di affermazione personale (e monumentale) delle Grandi Firme dell’Architettura, divenute i massimi esperti della “modernizzazione urbana”, si utilizzano strumentalmente le loro ambizioni di “lasciare il segno sul territorio” per coprire col pennacchio operazioni immobiliari discutibili.
Chissà se un giorno chi decide (e chi sceglie i decisori) comprenderà che la vera modernità, la vera innovazione sono quelle che traggono dalla storia l’insegnamento di un corretto rapporto tra esigenze di trasformazione e natura dei luoghi, tra parsimonioso impiego delle risorse e appagamento delle nuove necessità sociali, tra creatività individuale e maturazione della cultura comune. Una regione del mondo la cui bellezza e la cui civiltà sono così profondamente radicate nella forma del territorio e delle città potrebbe davvero, se praticasse e predicasse un simile insegnamento, contribuire a rendere migliore un pianeta sempre più pervaso dall’anonimia, dall’omologazione, dall’appiattimento, dall’imposizione di modelli nati obsoleti, dalla cancellazione delle diversità culturali che dell’umanità costituiscono la ricchezza.
Qui lo scritto di Gustavo Zagrebelsky su valori e principi.
Ciò nonostante, il più appariscente attore della stagione di Mani pulite, il più acceso paladino della legalità, il ministro Antonio Di Pietro, e con lui il prudente ed equilibrato premier Romano Prodi, hanno imposto al Consiglio dei ministri di blindare ogni decisione e decretare la validità del MoSE. La forzatura (il blitz, lo hanno chiamato i giornali) è avvenuto alla vigilia della riunione del Comitato per la salvaguardia di Venezia e che era stato convocato per esaminare, su richiesta del Comune di Venezia, le ipotesi alternative: più leggere, più economiche, più affidabili, meno rischiose per la vita della Laguna. Nel Comitato, cui sono sottoposte le decisioni sui finanziamenti per la salvaguardia di Venezia e della Laguna, siedono i rappresentanti di quattro ministeri, della Regione, della Provincia, del Comune di Venezia e del rappresentante degli altri comuni lagunari.
Il blitz è avvenuto perché, nonostante l’immane apparato propagandistico del Consorzio Venezia Nuova, alimentato dai soldi dei contribuenti, la verità sugli errori del sistema MoSE si stava facendo luce. La maggioranza del Comitato poteva oscillare. Qualche ministro aveva studiato le carte (che inutilmente erano state da tempo trasmesse a Prodi e a Di Pietro), e il gigantesco apparato messo in piedi dal Consorzio Venezia Nuova poteva vacillare. I danni all’ecosistema lagunare potevano non commuovere troppi, ma il dubbio di gettare soldi in un pozzo senza fondo potendone spendere meno poteva sollecitare qualche attenzione. Meglio non rischiare. Meglio costringere i ministri a indossare l’elmetto e dichiarare “Obbedisco!”. (Lo faranno? Vedremo). Meglio dare uno schiaffo al Sindaco-filosofo di Venezia, e magari fargli minacciare le dimissioni.
L’ignoranza sulla realtà della Laguna e dello Mose, favorita dalla complicità di gran parte della stampa, è enorme. E altrettanto grandi sono gli interessi (privati) coinvolti. Il Consorzio Venezia Nuova è composto dai colossi del settore dell’edilizia, e l’entità della spesa prevista è di 4,5 miliardi di euro: ma tutti sanno che il consuntivo sarà molto più alto. Nessuno sa chi pagherà la gestione (certamente costosissima, data l’entità delle installazioni sotterranee, la struttura metallica delle parti sommerse, la delicatezza degli impianti, la continuità delle operazioni richieste). E nessuno ha avuto la possibilità di sperimentare a fondo le soluzioni alternative, dato il monopolio concesso dallo Stato (per la precisione, dal ministro Franco Nicolazzi, con un altro blitz) al poderoso Consorzio.
Elasticità nel rispetto della legge e subordinazione agli interessi forti sembrano essere gli elementi di continuità tra il vecchio e il nuovo governo. Difficile dire se ciò dipende da una oggettiva confluenza di atteggiamenti oppure – per il governo Prodi – dalla circostanza di affidarsi a consiglieri “amici del giaguaro”.
Moltissimi documenti sulla vicenda sono reperibili nell’apposita cartella dedicata al MoSE. In particolare: sull’obbligo non rispettato di por termine alla “ concessione unica” al CVN, la replica di Luigi Scano alle bugie del Ministro Lunardi; un quadro complessivo, tracciato da Edoardo Sazano, della questione MoSE e Laguna,in una sintesi su Liberazione e in un saggio ampio su Area vasta; sulle proposte alternative “ a gravità” e ARCA; infine, il testo della relazione della Commissione ministeriale per la Valutazione d’impatto ambientale.
Vezio De Lucia
Roma, 8 settembre 2005 - Caro Eddy, non ho creduto ai miei occhi nel leggere le tue osservazioni alla proposta di legge urbanistica siciliana. Salzano che parla bene, o almeno non parla male, di un testo della giunta Cuffaro mi pare inverosimile. Hai scritto che si tratta di una legge “migliore di tante altre che sono state approvate di recente dalle regioni”. Che “prevede un sistema di pianificazione incentrato sulla pianificazione regionale e provinciale (e questo della legge è indubbiamente un merito), alla quale viene attribuito il compito di individuare la struttura delle invarianti territoriali, distinguendo tra aree indisponibili …”, eccetera. La paragoni nientemeno alla legge Galasso. La confronti con le leggi dell’Emilia Romagna e della Toscana. Ma come fai, caro Eddy, a formulare giudizi su una legge astraendoti dal contesto storico e culturale dal quale ha origine? “Sganciare la legge dalla storia può portare a conseguenze aberranti”: lo hai scritto tu, ieri, commentando un articolo di Antonio Cassese: la postilla vale anche per te. Il contesto dal quale ha origine la legge è quello di una regione che ha venduto il suo territorio agli abusivi e alla malavita, che ha mandato in rovina i suoi centri storici, che ha trasformato le coste in una ripugnante periferia, che ha asservito le città alle automobili, e così di seguito. Questa regione, secondo te, dovrebbe adottare la pianificazione come metodo fondamentale per il governo del territorio? Ma quale pianificazione? Credo che in nessuna regione si siano fatti tanti piani come in Sicilia, senza che siano mai diventati efficaci. Esattamente trenta anni fa, nell’estate del 1975, collaborai con Edoardo Detti al corso estivo che teneva a Erice, dove esaminammo per conto della regione decine di piani territoriali (comprensoriali?) poi finiti nel dimenticatoio. Come tante altre esperienze. Dai dati pubblicati dalla Dicoter risulta che in Sicilia non c’è neanche un piano territoriale di coordiamento vigente, né “consolidato”. In cinque province “il processo è maturo” (inedito eufemismo). Che senso ha dire che se i piani ci fossero sarebbero meglio di quelli toscani? In tutta la legge non c’è una riga riguardante scelte ope legis. Non c’è verbo sulla repressione dell’abusivismo. Vi si allude all’art. 26 proponendo piani e procedure che sembrano fatti apposta per un’indiscriminata sanatoria. In Toscana la legge del 1995 (confermata nel 2005) ha prescritto il sostanziale blocco delle espansioni. Non è stata una captatio benevolentiae nei confronti degli ambientalisti. Dieci anni dopo, le previsioni dei piani regolatori erano dimezzate (da 8 a 4 milioni di abitanti). E veniamo ai vincoli. Intanto, come tu riconosci (non senza qualche sorprendente apprezzamento) gli standard sono abrogati, come nella legge Lupi, salvo a recuperarli con la nuova pianificazione. C’è chi ci crede. Lo stesso è per i vincoli di tutela. È vero che sono ripristinati da una norma transitoria, ma intanto sono cancellati, e si sa che le norme transitorie sono le più esposte a successive modifiche.
La verità è che fra le tue virtù, la principale è l’innocenza. Credi nelle conversioni e nei miracoli. Che il cielo ti ascolti. Io, che sono molto meno innocente di te, penso che, in un posto come la Sicilia, una legge autenticamente di riforma dovrebbe, in primo luogo, rafforzare, con norme perentorie, e senza tante raffinatezze, proprio il regime dei vincoli di tutela. Senza di che, come ha scritto Rosanna Piraino non si tratta di riforma ma di controriforma.
Un abbraccio, Vezio
Edoardo Salzano
Caro Vezio, non mi dispiacerebbe se fra le mie virtù la principale fosse l’innocenza, cioè se sapessi guardare e vivere la realtà senza il filtro della malizia. Ma non è così. E’ proprio la malizia, o più precisamente il calcolo politico, ad avermi suggerito di intervenire in quel modo nel dibattito (nella polemica) a proposito del disegno di legge urbanistica della Sicilia. Ho seguito con una certa attenzione il dibattito, ed ho letto la legge. Ciò che mi ha colpito è che nel dibattito le critiche non siano state alla politica urbanistica della Giunta Cuffaro, o all’impostazione della legge, ma si siano concentrate su un fatto specifico: sul fatto che quella legge abolirebbe sic et simpliciter i vincoli sulle coste, sui boschi e sugli altri beni precedentemente tutelati, nonché gli standard urbanistici. Ho verificato: non è così. Quella legge tutela quei medesimi beni, non più con un vincolo geometrico (tot metri) ma con la pianificazione. Come potevo ritenere negativo questo passaggio quando abbiamo celebrato insieme la legge 431/1985 (la legge Galasso) proprio perché ritenevamo giusto e sacrosanto che la tutela passasse (abbiamo scritto allora) “dal vincolo al piano”? E non dicevamo, né pensavamo, che questa regola doveva valere solo per le amministrazioni di sinistra.
A una prima lettura mi aveva preoccupato il fatto che la legge, rinviando le definizione delle tutele a un successivo atto (la pianificazione regionale e provinciale), non aveva però definito il regime delle aree vincolate nel periodo intermedio: poteva succedere carne di porco. Una lettura appena più attenta mi ha fatto scoprire che la legge prescriveva, nel periodo transitorio, la permanenza dei vincoli “vecchi”, e addirittura il loro irrigidimento in caso di ritardi nella pianificazione. Analogo ragionamento sugli standard, non soppressi ma trasferiti da una norma meramente quantitativa fissata per legge (regionale) ad uno specifico atto amministrativo (regionale). Non è così che fece la legge 765 del 1967? E non è così che hanno fatto successivamente molte regioni?
Non voglio però ripetere gli argomenti che ho sollevato nel mio articolo. Voglio dire soltanto che basare le critiche su un racconto della realtà non vero è un errore politico che favorisce l’avversario. Non è una critica efficace dell’avversario quella che si basa su un travisamento della verità dei fatti. Un’opposizione che si basa su valutazioni false è un’opposizione che ha perso una battaglia, e che ha rafforzato l’avversario. A me sembra che gli atti devono essere valutati anche in sé; e se in un contesto negativo si produce un atto che negativo non è, occorre domandarsi il perché, ma non aiuta a comprendere esprimere una valutazione pregiudizialmente negativa, o rifiutarsi di conoscere l’atto in se. Del resto, la storia che conosciamo e abbiamo studiato testimonia che in contesti molto negativi sono nati atti positivi (hai sostenuto da tempo che la legge urbanistica del 1942, in regime fascista, era una buona legge).
Hai ragione su un punto: ho sbagliato a non ricordare, nel mio articolo, il contesto, ma sono stato travolto dall’irritazione per una opposizione che, se si affida alle deformazioni della realtà, ha perso in partenza. Sono certo che, a partire da questa nostra discussione, si aprirà un dibattito più ampio che potrà servire a illuminare, oltre l’oggetto, anche la cornice.