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XV legislatura. Disegno di legge Ronchi e altri (DS, DL, Gruppo Per le Autonomie)
8 Settembre 2007
Urbanistica, proposte
Senato della Repubblica, N. 1691, Disegno di legge d'iniziativa dei senatori Ronchi e altri: “Norme per la tutela ed il governo del territorio ecc.”. Comunicato alla Presidenza il 5 luglio 2007 (d.v.)

Di seguito la relazione, con link al documento ufficiale, completo dell'articolato, in formato .pdf

Norme per la tutela ed il governo del territorio e deleghe al Governo in materia di fiscalità urbanistica e immobiliare e per il riordino e il coordinamento della legislazione vigente

Relazione

Onorevoli Senatori. – Il territorio italiano è investito da profonde trasformazioni che sollecitano un nuovo quadro normativo per governarle, o, almeno, indirizzarle in una direzione di sostenibilità.

Il territorio rurale, in contrasto deciso con la sua immagine tradizionale, si sta avviando a ospitare gran parte dei processi trasformativi.

Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) (1997), in tutti i paesi industrializzati maturi lo spazio rurale è destinato ad essere coinvolto sempre di più nei sistemi di relazioni economiche e sociali che interessano i sistemi urbani e ad essere sempre meno legato all’attività agricola, aumentando progressivamente i propri caratteri multifunzionali. Nei prossimi anni, secondo lo «Schema di sviluppo dello spazio europeo», dal 30 all’80 per cento delle aree agricole potrebbe essere abbandonato.

È un’indicazione di tutto rilievo, se si considera che attualmente più del 50 per cento del territorio europeo è dedicato all’agricoltura. Nonostante l’apparente esiguità del ruolo strettamente economico del reddito agricolo, gran parte della biodiversità europea ricade in paesaggi coltivati e la sua salute dipende dal modo in cui l’agricoltura è condotta. Lo sviluppo degli spazi rurali, sulla base di un’economia diversificata e multifunzionale (che include ad esempio il turismo e l’industria culturale, insieme a produzioni agricole di qualità), è quindi decisivo per il mantenimento o l’arricchimento della diversità biologica e paesistica del territorio. L’abbandono, con il conseguente depauperamento di vasti territori, provoca una spirale complessa di cambiamenti destinati a destabilizzare i preesistenti equilibri. L’interruzione, spesso repentina, delle cure manutentive con cui l’uomo aveva nei secoli adattato gli spazi naturali alle proprie esigenze produttive e abitative, l’abbandono dei versanti terrazzati, delle cure forestali e dei reticoli di drenaggio superficiale hanno in alcune circostanze accentuato i rischi idrogeologici e aggravato i rischi alluvionali (riduzione delle capacità di ritenzione idrica dei suoli con aumento del deflussi superficiali, innalzamento dei picchi di piena nei canali ricettori, innesco di frane e dissesti, sovraccarico della copertura boschiva su suoli instabili, ostruzione di alvei e formazione di sezioni critiche per mancata pulizia a monte e così via).

Inoltre i processi di abbandono pregiudicano, spesso in modo irreversibile, la conservazione del patrimonio storico edilizio, urbanistico e infrastrutturale nei territori rurali, soprattutto collinari e montani, accelerandone il degrado fino al cedimento, alla trasformazione in rudere e alla definitiva scomparsa. L’interruzione delle attività agricole è da tempo alla base dei processi di abbandono della montagna e dell’accresciuta spinta a dare un diverso valore ai terreni non più coltivati, trasformandoli in aree edificate ed edificabili.

Nei territori rurali si registrano però anche nuove tendenze positive: come il ritorno di giovani a produzioni agricole biologiche e di qualità, molto aumentate in questi anni, come il forte sviluppo dell’agriturismo e l’avvio di alcune esperienze (in particolare nelle zone limitrofe ai Parchi) di un tipo di agricoltura multifunzionale, impegnata anche in interventi di manutenzione del territorio e di recupero ambientale. Questo cambiamento di tendenza, che andrebbe comunque sostenuto con convinzione e risorse, non ha però ancora il peso sufficiente a invertire la tendenza generale – e consolidata da molti anni – all’abbandono delle attività agricole.

I processi di abbandono delle attività agricole hanno assunto da tempo un’estrema rilevanza nelle aree montane, vale a dire in gran parte del territorio nazionale (54 per cento). Le modificazioni conseguenti all’abbandono originano sintomi di collasso degli apparati tradizionali di difesa e di sistemazione del suolo, di desertificazione e destabilizzazione ecosistemica, di infragilimento o di scomparsa dei sistemi economici locali e delle culture tradizionali, con gravi ripercussioni anche sulle aree di pianura.

A fronte di tali fenomeni, che si associano ai costi sociali ed economici determinati dal rapido depauperamento delle risorse umane e dalla crisi degli antichi tessuti comunitari, l’operatore pubblico – dalle comunità montane e dalle regioni direttamente interessate fino al livello europeo – ha avvertito da tempo la necessità di frenare i processi di abbandono con politiche di sostegno, incentivazione e assistenza. Sono interventi spesso molto onerosi ma largamente insufficienti e di scarsa efficacia, nonostante abbiano contribuito al ripensamento delle strategie riguardanti il mondo agricolo e spostato progressivamente l’attenzione sulle funzioni ambientali dell’agricoltura.

Due dei grandi sistemi territoriali, che il CIPE già nel 1999 ha considerato in sede di programmazione dei fondi strutturali, sono proprio i due maggiori sistemi montuosi del nostro paese: le Alpi e gli Appennini. Entrambi i sistemi sono anche oggetto di due dei più importanti «progetti» di valorizzazione territoriale di interesse europeo: la Convenzione delle Alpi, ratificata ai sensi della legge 14 ottobre 1999, n. 403, e il Progetto Appennino Parco d’Europa (APE).

Sebbene per ambedue i progetti le iniziative, le proposte e gli accordi istituzionali procedano a rilento e diano l’impressione di essere ancora lontani dal generare azioni concrete ed efficaci, il ricco dibattito politico e culturale che attorno ad essi si è sviluppato negli ultimi anni dimostra che, in entrambi i casi, si è riconosciuto che si tratta di territori strategici di straordinaria importanza ecologica e culturale per l’intero continente, esposti a rischi e minacce di crescente gravità. In entrambi i casi, pur in presenza di una ricchissima diversificazione ambientale, paesistica e culturale, si ha a che fare con sistemi territoriali dotati di una riconoscibile identità e coerenza, caratterizzati da un’immagine unitaria e da un gran numero di problemi comuni.

I processi di abbandono hanno un peso rilevante, ma non sono i soli problemi della montagna. Alcune zone soffrono per le pressioni e le trasformazioni derivanti dal turismo, dagli sconfinamenti delle aree urbane in espansione, dallo sviluppo delle reti infrastrutturali: pressioni e trasformazioni che producono impatti locali rilevanti.

Il declino della presenza e delle attività antropiche porta però con sé, oltre ai rischi citati, anche nuove possibilità di rinaturalizzazione e di riequilibrio ecologico. Il ritorno del bosco, se opportunamente assecondato, può in molti casi ripristinare antichi equilibri, ponendo termine ad anni di eccessiva domesticazione degli spazi e delle risorse naturali.

Occorre comunque considerare che un tale ritorno comporta anche difficili problemi di gestione attiva di stadi successionali non stabili, perché siamo ormai in presenza di una frammentazione non naturale del territorio; né va dimenticato che, per far restare i giovani e richiamare in montagna nuovi montanari, indispensabili per mantenere in vita quei territori, occorre realizzare le condizioni per una buona qualità della vita in quei territori, diversa dal modello di benessere e di consumismo urbano, sostenendo tecnologia e formazione attraverso incentivi e promuovendo lo sviluppo di attività (agricole, artigianali, di turismo culturale e così via) sostenibili per il territorio montano.

Se la sindrome dell’abbandono caratterizza in modo emblematico i territori di montagna, una situazione ben diversa caratterizza invece i territori di pianura e delle coste, assaliti dall’espansione edilizia e dalla proliferazione di insediamenti.

Nella storia della città europea e italiana si è prodotto negli ultimi decenni un cambiamento epocale. Da forme insediative concentrate si è passati, in modi evidenti e dilaganti, a forme insediative sempre più disperse; tale dispersione è avvenuta con estensioni eccessive di nuove edificazioni, con costruzioni di scarsa qualità e spesso mal inserite nel territorio e nel paesaggio.

Intere regioni del paese sono state investite da massicci fenomeni di proliferazione degli insediamenti: nel Nord dalla Lombardia al Friuli; lungo la costa adriatica dalla Romagna alla Puglia; in Toscana da Firenze a Prato e Pistoia o lungo la direttrice di Empoli; e poi in Lazio, in Campania e in Sicilia. Ovunque sono state toccate in modo particolare le coste, ma anche le pianure interne, le aree turistiche ma anche quelle in corrispondenza dello sviluppo di nuovi distretti produttivi o del loro potenziamento.

La proliferazione insediativa non è sempre l’esito di un movimento centrifugo della città verso la campagna né sempre si manifesta in un processo di urbanizzazione della campagna. In molti casi è l’esito di una progressiva densificazione di insediamenti dispersi che hanno – come nel caso del Veneto, delle Marche, dell’Umbria o della Puglia – una lunga storia alle spalle: storia di crescita di piccole frazioni o attorno a piccoli nuclei abitati, connessa o meno all’abbandono dell’agricoltura. La città diffusa, che ha alimentato una tale proliferazione di insediamenti, è al contempo il risultato di fenomeni di dispersione, densificazione, riuso, modifica e trasformazione della città esistente.

All’origine di questi fenomeni ci sono cause molteplici e tra loro differenti: la predilezione per la casa unifamiliare, isolata, con giardino; la forte domanda di seconde e terze case; l’allontanamento dalla città, dove la casa è diventata troppo cara e dove con il reddito disponibile si spende di più e si vive male in una casa piccola; la scelta di costruire case per valorizzare terreni che non conviene più coltivare.

Una parte consistente di questa proliferazione insediativa di bassa qualità è la conseguenza di un diffuso abusivismo edilizio, soprattutto in alcune regioni. L’abusivismo ha invaso aree prossime alle città e aree costiere e di notevole pregio ambientale e paesistico. Il danno prodotto da questo fenomeno all’ambiente e al paesaggio è, in alcune regioni, di estrema gravità, per di più accentuata dai condoni che hanno alimentato aspettative di impunità.

La mancata comprensione dei processi in atto sul territorio ha portato spesso la politica delle infrastrutture a commettere errori gravi e a fissare le priorità in modo profondamente errato, alimentando il traffico stradale e incentivando l’uso dell’automobile nei territori della dispersione e proliferazione insediativi.

Anche per questo fenomeno le preoccupazioni sono in aumento e l’attenzione è viva da tempo. In alcune regioni e in alcune province sono stati elaborati piani per contenerlo, con nuove politiche di governo del territorio. Ma siamo ancora ben lontani dalla definizione di strategie adeguate, in grado di incidere efficacemente: la proliferazione insediativa infatti continua con modalità insostenibili e senza adeguati interventi regolativi in grado di tutelare i valori naturali e ambientali del territorio.

La collaudata resilienza degli ecosistemi del paese ha da tempo un potente alleato nell’ampia fungibilità del patrimonio storico insediativo e infrastrutturale: entrambi hanno dimostrato nel corso dei secoli di poter accogliere cambiamenti e innovazioni, di potersi arricchire reagendo positivamente alle spinte trasformatrici.

Come nell’800, sotto l’impulso delle riforme teresiane, la lenta evoluzione dei paesaggi agrari descritti dal Sereni diede spazio all’innovativa edificazione della campagna lombarda, così le fitte maglie urbanizzative storicamente consolidate dell’Italia centrale o delle fasce prealpine hanno rappresentato e rappresentano una risorsa di eccezionale valore per incanalare e radicare nel territorio le spinte diffusive, resistendo alle tendenze omologatrici.

Persino nelle anonime periferie urbane e metropolitane, per poco che si scavi sotto la coltre uniforme degli sviluppi recenti, riaffiorano con inaspettata densità i segni superstiti degli antichi palinsesti, le trame delle precedenti organizzazioni territoriali, segni in grado di restituire loro identità e riconoscibilità, di sconfiggere l’idea che possa trattarsi di aree vuote, giacimenti immobiliari cui attingere in modo indiscriminato per le nuove edificazioni: la periferia italiana ha probabilmente più possibilità di quella di altri paesi di uscire dalla condizione di marginalità e di dequalificazione. I principali processi di transizione in atto nello spazio rurale, nei territori montani e in quelli sottoposti alla proliferazione insediativa (e a volte anche infrastrutturale) comportano rilevanti problemi e rischi di degrado, che tuttavia possono essere fronteggiati in un territorio che dispone ancora di grandi risorse e di straordinarie potenzialità.

L’enfasi recentemente accordata da molte pubbliche amministrazioni (comuni, province, regioni, autorità di gestione delle aree protette, autorità di bacino) alla pianificazione strategica e ai problemi di governance territoriale – anche se rappresenta un positivo indicatore di una nuova e vigile attenzione – non sempre riflette piena consapevolezza delle sfide che l’azione pubblica deve fronteggiare.

La messa in campo di strategie appropriate si scontra infatti con dinamiche di cambiamento sempre più complesse e imprevedibili (basti pensare agli effetti del cambiamento climatico), con l’intreccio a volte inestricabile dei problemi che si pongono alle diverse scale (locali, regionali, interregionali e sempre più globali), con la necessità di cooperazione tra diverse istituzioni di governo (spesso assai gelose delle proprie autonomie), e naturalmente ancor di più con la difficile coniugazione tra istanze conservative e di tutela e istanze innovative e di sviluppo.

Tali difficoltà non sembrano affrontabili solo con i tradizionali meccanismi autorizzativi del tipo comando-controllo, ma richiedono anche – e soprattutto – strumenti di indirizzo, promozione e condivisione, che scontano il pluralismo dei processi decisionali, la relativa reversibilità delle scelte, l’incertezza dei quadri di riferimento.

Le attività di visioning, di costruzione di immagini e di progetti-guida, possono svolgere un ruolo rilevante nella formazione del consenso sulle strategie. In questo senso le azioni di governo effettivamente esercitabili dalle istituzioni nell’ambito della propria sfera di competenza vanno viste nel quadro di processi assai più articolati e complessi di governance territoriale. I soggetti coinvolti a vario titolo nei processi di trasformazione ambientale-territoriale devono interagire ma, prima di ogni altra cosa, devono riuscire a «dialogare». In questo quadro va certamente potenziato il ruolo degli attori locali e va allargata la possibilità di partecipazione e partenariato in vista di comuni obiettivi di sviluppo sostenibile.

Ma questo allargamento e questa riarticolazione dell’azione pubblica non possono in alcun modo confondersi con l’indebolimento o la rinuncia a un’efficace regolazione dei processi. Le sfide ambientali sempre più complesse e la stessa crescita di domande sociali (di qualità ambientale, di sicurezza, di accesso alle risorse, di natura e di paesaggio) richiedono al contrario un rafforzamento dell’azione pubblica regolatrice.

Tuttavia il necessario spostamento verso l’alto dei sistemi di controllo, l’urgenza di avviare una «regolazione preventiva» dei processi di cambiamento, la salvaguardia del patrimonio naturale-culturale e la difesa dei valori di identità richiedono forme di regolazione assai più sofisticate e complesse delle «gabbie di vincoli» cui si è spesso ridotta la funzione della pianificazione.

Lungimiranza delle strategie ed efficacia della regolazione devono coabitare sempre più nella nuova cultura del governo del territorio, così come occorre promuovere un’efficace integrazione della valutazione (della conoscenza, del monitoraggio) dei valori naturali e ambientali e dei potenziali impatti sul territorio nei processi di governance e di pianificazione.

A tal fine pare necessario partire con la definizione, sia pure in forma sintetica e generale, le linee fondamentali per l’assetto del territorio italiano con riferimento ai valori naturali e ambientali (articolo 2): una visione d’insieme, delle priorità nazionali, una griglia di indirizzo omogenea per il territorio nazionale.

Vengono inoltre definiti (articolo 3) i princìpi generali del governo del territorio quale riferimento per le funzioni legislative concorrenti e amministrative attribuite alle regioni ed agli enti locali. Solo alcuni aspetti di competenza dello Stato hanno richiesto norme di dettaglio: si tratta delle dotazioni territoriali per la garanzia dei livelli minimi essenziali, del diritto di proprietà, della parità nel processo di pianificazione e di attuazione fra diritti pubblici e diritti privati, della fiscalità urbanistica.

Il primo, il principio di pianificazione, espresso in relazione ai diversi livelli istituzionali, deve garantire la funzione pubblica di tale attività, salvaguardando i beni comuni e contrastando il consumo di nuovo suolo non urbanizzato e consentendo, altresì, l’uguaglianza dei diritti e dei doveri all’uso e al godimento degli stessi beni.

Gli atti di governo del territorio dovranno fondare le proprie previsioni sul principio di sostenibilità, sulla necessità di preservare le risorse naturali e ambientali, limitando in particolare il consumo di suolo non urbanizzato, favorendo il recupero delle risorse degradate e garantendo una efficace tutela e valorizzazione del patrimonio paesaggistico, storico e culturale, nonché la riduzione dei consumi e l’incremento dell’efficienza energetica.

Altro principio fondamentale è rappresentato dalla tutela delle risorse non rinnovabili ed essenziali e dalla sicurezza dai rischi, da perseguire con misure di prevenzione e di riduzione dei danni per il territorio e per l’ambiente derivanti da forme di inquinamento di qualunque natura, di prevenzione dei rischi e di mitigazione delle calamità naturali e degli eventi incidentali determinati dall’attività antropica, ispirandosi al principio comunitario della precauzione.

Il principio di sussidiarietà dovrà creare il processo virtuoso della «filiera istituzionale», ispirando la ripartizione dei poteri e delle competenze fra i diversi soggetti istituzionali, nonché i rapporti tra questi e i cittadini secondo i criteri della tutela, dell’affidamento, della responsabilità e della concorsualità. Secondo il criterio di differenziazione e adeguatezza, le istituzioni dovranno agire mediante intese e accordi procedimentali in sedi stabili di concertazione per perseguire il coordinamento, l’armonizzazione, la coerenza e la riduzione dei tempi delle procedure di pianificazione del territorio.

Anche per questo, è importante assumere come principio la trasparenza e la democrazia nei processi di scelta e di decisione con il massimo coinvolgimento dei cittadini nella fase di predisposizione e di approvazione degli strumenti di pianificazione.

Il principio di equità consente di offrire a tutti i soggetti la possibilità di accedere con le stesse opportunità ai diritti e ai vantaggi offerti dalle trasformazioni del territorio in termini di residenza, accessibilità, mobilità, servizi collettivi, qualità dell’ambiente urbano e migliore qualità della vita.

Perché tali princìpi possano tradursi in linee guida e concrete azioni attuative è fondamentale declinare le competenze dei soggetti istituzionali, ma è anche necessario che la riforma nazionale preveda il coordinamento con le materie non ricomprese nel «governo del territorio», bensì strettamente connesse alla pianificazione e alla programmazione del medesimo: infrastrutture della mobilità e dell’energia, tutela e valorizzazione dell’ambiente, tutela e valorizzazione del paesaggio e dei beni culturali (articoli 6-7-8).

I soggetti titolari delle funzioni amministrative dovrebbero agire in un sistema unico e coordinato per la programmazione, la pianificazione, l’attuazione, il monitoraggio e la verifica delle trasformazioni del territorio, partecipando a tale attività in conformità ai princìpi di leale collaborazione e di responsabilità amministrativa.

L’altro elemento di particolare rilevanza è costituito dalla stretta connessione tra la programmazione economica, quella infrastrutturale e per la mobilità, con la pianificazione del territorio.

La modernizzazione del sistema infrastrutturale, della mobilità, della logistica, ma anche del sistema energetico, deve essere strettamente connessa, da una parte, all’allocazione certa dei finanziamenti e, dall’altra, essere affidata a un sistema decisionale istituzionale basato sulla leale collaborazione e sulla sussidiarietà, tale da consentire di effettuare le scelte e, poi, di garantirne la realizzazione.

Una buona programmazione e la certezza di attuazione sono possibili solo se pensiamo a un sistema rinnovato e a una «cassetta di attrezzi» adeguata alle esigenze attuali.

Le regioni hanno predisposto strumenti, regole e modalità di attuazione e, nell’ambito della loro potestà regolamentare, hanno definito i contenuti e l’attuazione dell’attività di pianificazione di area vasta e di quella comunale.

È ormai consolidata l’esigenza di assegnare agli strumenti di pianificazione un doppio livello, con un piano di governo del territorio strategico strutturale, non conformativo della proprietà, e l’altro operativo, che invece conforma il regime dei suoli e dà attuazione alle previsioni. A questi sarà necessario affiancare strumenti regolamentari che le regioni hanno già individuato con varie rubriche e che rappresentano l’attuazione della disciplina di trasformazione urbanistica ed edilizia degli insediamenti esistenti.

Occorre una differenziazione dei livelli da utilizzare, senza generalizzare, ma tenendo conto delle effettive esigenze delle realtà amministrative e delle condizioni territoriali.

Alla base di un buon piano non può che esserci una adeguata e significativa conoscenza del territorio. È per questo che si prevedono modalità di acquisizione, valutazione e validazione dei dati territoriali, costituiti dai vincoli, dall’uso del suolo, dalle invarianti ambientali e territoriali, dalle condizioni di vulnerabilità e di rischio del territorio. La sinergia – quindi la rete – tra sistemi di informazione e di conoscenza tra regioni ed enti statali preposti dovrà essere stringente. Banche dati e sistemi informativi territoriali dovranno «parlare la stessa lingua» ed essere a disposizione degli enti territoriali e dei cittadini in maniera automatica e trasparente (articolo 11).

Questa è un’innovazione necessaria per l’azione amministrativa e comporterebbe anche una sensibile riduzione della spesa pubblica. Disporre di uno strumento unico sul quale verificare la conformità alle invarianti territoriali e ambientali consentirebbe uno snellimento significativo nella fase di predisposizione, di attuazione e di verifica dei processi di trasformazione urbanistica ed edilizia.

La conoscenza del territorio consente anche una più efficace azione di tutela e di prevenzione soprattutto per il territorio non urbanizzato. La riforma proposta, inoltre, enuncia il principio fondamentale che il territorio rurale è un patrimonio di identità, di biodiversità, di pratiche agronomiche e forestali da preservare. Sarà necessario perseguire gli obiettivi di qualità e di sostenibilità nella pianificazione delle aree agricole anche al fine di consolidare il ruolo multifunzionale dell’impresa agricola e di contrastare il consumo di suolo non urbanizzato. Dovrà essere tutelato e valorizzato lo straordinario patrimonio costituito dai nostri paesaggi agrari e montani, dalle risorse non rinnovabili, a partire soprattutto dall’acqua e dal suolo, oltre che valorizzato il patrimonio dell’architettura rurale (articolo 12).

La riforma affronta altresì il complesso del sistema città: uno straordinario crocevia di opportunità ma, anche, di forti contraddizioni ambientali e sociali (articolo 13), delineando gli obiettivi della tutela dei centri storici, della promozione della qualità urbana e architettonica, ma soprattutto della riduzione dei livelli di inquinamento, promuovendo un nuovo processo di riqualificazione delle aree degradate integrando le politiche di recupero edilizio e urbanistico con politiche sociali e assistenziali che possano consentire un maggior grado di coesione sociale e di solidarietà.

Insomma, una vera e propria «politica per le città», che utilizzi gli strumenti ordinari ma anche la leva della fiscalità e degli incentivi, che faccia del recupero e della sostituzione edilizi una grande occasione di rigenerazione dei tessuti urbani e del contenimento dei consumi, essendo le città sistemi altamente «energivori», una priorità della politica energetica nazionale.

Sulle dotazioni territoriali minime – i vecchi standard urbanistici – non è sufficiente definire un livello quantitativo minimo, ma occorre creare i presupposti di tipo qualitativo affinché attraverso le dotazioni territoriali sia possibile garantire l’effettività dei servizi ai cittadini. Quelli statali non possono che essere considerati requisiti minimi per garantire i livelli essenziali sul territorio nazionale, come previsto costituzionalmente; così anche per l’edilizia residenziale pubblica per l’affitto sociale, che dovrà essere una dotazione di risposta al fabbisogno locale.

Le regioni, nella loro piena autonomia, dovranno verificare i fabbisogni pregressi e futuri e determinare le modalità, i criteri e i parametri tecnici ed economici dei servizi da fornire ai cittadini.

Molti sono gli obiettivi da raggiungere e importanti sono i diritti di cittadinanza da garantire. Pertanto è necessario che la legge statale offra strumenti innovativi per l’attuazione e per la stabilizzazione di alcune pratiche operative che gli enti locali adottano per garantire la realizzazione degli interventi. Quindi è importante definire le regole per la collaborazione tra il pubblico e i soggetti privati, prevedendo il partenariato pubblico-privato per l’attuazione degli interventi, in un quadro di riferimento strategico a regìa pubblica definita dal piano del governo del territorio, con modalità che tutelino la concorrenza, la trasparenza dei procedimenti e la partecipazione dei soggetti privati ai quali affidare, anche per la capacità imprenditoriale e per l’efficienza, il miglioramento e l’innovazione nei processi di trasformazione urbanistica ed edilizia.

Anche sulla definizione dei contenuti minimi della proprietà e dell’equa attribuzione dei diritti edificatori è importante che la legge statale, data la competenza esclusiva nella materia, offra un quadro di riferimento chiaro e articolato per le amministrazioni locali le quali, tenendo conto delle ristrettezze di bilancio, potranno dare attuazione alle previsioni e garantire le necessarie dotazioni territoriali con interventi diretti, modalità espropriative, perequative e compensative.

L’amministrazione potrà acquisire gli immobili con la perequazione urbanistica (articolo 15) e con gli obiettivi individuati dagli strumenti urbanistici; in alternativa si prevede che si possa ricorrere all’esproprio.

La modalità operativa della perequazione potrà essere attuata negli ambiti di trasformazione urbanistica individuati dal piano del governo del territorio e riguardanti gli ambiti territoriali da trasformare, escludendo le aree agricole, i tessuti storici e consolidati, le aree non soggette a trasformazione urbanistica. Il piano di governo del territorio dovrà inoltre stabilire: l’edificabilità territoriale attribuita agli ambiti di trasformazione perequativa, l’obbligo di cessione di beni immobili al comune per la realizzazione delle dotazioni territoriali o comunque per spazi pubblici, di pubblica utilità, di interesse generale e collettivo, nonché le modalità di progettazione unitaria dell’ambito di trasformazione.

Uno dei punti di particolare delicatezza è quello della decadenza del diritto di edificazione che si propone possa essere limitato a cinque anni o comunque non superiore alla durata del piano operativo, riallineando le previsioni di trasformazione pubblica e privata.

Altro tema essenziale per l’attuazione delle previsioni di sviluppo del territorio è quello della fiscalità urbanistica e immobiliare (articolo 16). Si tratta di una questione molto complessa che deve essere affrontata con alcuni indirizzi di base.

In primo luogo, sottraendo gli enti locali dalla necessità di coprire una parte cospicua del bilancio con le entrate derivanti dall’imposta comunale sugli immobili (ICI) e dagli oneri concessori, si potrà consentire agli stessi enti di favorire una politica di recupero e di riutilizzazione di immobili esistenti con la conseguente riduzione del consumo del suolo e con la riduzione della dispersione urbana. Inoltre, si dovranno rimodulare e riorganizzare le diverse imposte relative ai trasferimenti immobiliari per favorire e orientare la trasformazione urbanistica ed edilizia verso la riqualificazione urbana e del territorio, con forme di incentivazione e di premialità fiscali. Infine, attraverso l’armonizzazione e la stabilizzazione delle misure per l’incentivazione delle opere di recupero e la loro specializzazione per alcuni settori (efficienza energetica, sicurezza statica e tecnologica degli edifici, accessibilità e così via) si potrà avere, a regime, una massa critica di investimenti finalizzati al miglioramento sostanziale della qualità urbana.

Occorre tenere conto che la riforma del governo del territorio si inserisce in un complesso di normative esistenti, in particolare urbanistiche ed edilizie, di livello sia nazionale che regionale. A tale proposito, nel testo del disegno di legge, è previsto (articolo 18) l’adeguamento della legislazione regionale e è delegato il Governo al riordino ed al coordinamento della legislazione vigente (articolo 19).

Infine (articolo 20) è prevista una relazione al Parlamento sulla attuazione delle presenti norme.

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