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La Città: bene comune.
6 Novembre 2011
Urbanistica, proposte
Pubblichiamo il documento “Verso una carta per la città possibile, redatto dai membri della a Libera Università di donne e uomini "Ipazia" a Firenze, nel giugno 2006

La Libera Università di donne e uomini si richiama ad Ipazia protagonista di quella rivoluzione scientifica e filosofica che, iniziata nel 200 a.C., ad Alessandria, viene cancellata, con il suo assassinio, dalla violenza del potere nel 415 d.C. La Libera Università intende intrecciare generi e generazioni, culture e saperi in modalità relazionali per dare spazio al dialogo, al confronto, in uno scambio dei ruoli, così da rendere pratica effettiva l'essere-insieme. Si vuole in tal modo creare uno spazio d'incontri, per contrastare la desertificazione culturale e cognitiva dei luoghi tradizionali di trasmissione delle conoscenza, per favorire attivi filoni di ricerca, e contrastare, in generale, quei processi sociali, politici e culturali disgregativi che fanno riemergere la violenza in tutte le sue forme.

Grazie a tutti/e quelli/e che hanno partecipato, in qualsiasi forma, alle giornate sulla "Città reale /Città possibile", tenute al Giardino dei Ciliegi nell'inverno del 2005, contribuendo così, direttamente e indirettamente, a questa carta dei desideri. Un particolare grazie ai colori e ai sogni delle alunne e degli alunni della seconda Media Scuola Città pestalozzi per il loro viaggio nella città di oggi e in quella di domani, che vorremmo all'altezza dei loro sorrisi.

Desideriamo anche esprimere il nostro debito alle/ai molte/i, le cui idee e il cui ricordo – dalla letteratura alla politica, dall'urbanistica alle arti - sono la trama e l'ordito di questo nostro tentativo, anche se le nostre lacune non sono certo a loro imputabili.

Premessa

Oggi, all'inizio del nuovo secolo, la città del welfare, incarnazione di un ideale di governo e progettazione dello spazio urbano volto a produrre integrazione sociale e a scongiurare gli effetti negativi prodotti dalle leggi di mercato, è in crisi. E' stata travolta dalla delocalizzazione, dal ridimensionamento produttivo, dall'evaporarsi delle politiche pubbliche e dalla corsa alle privatizzazioni. Si hanno così diverse conseguenze, fra cui un’accelerata mutazione dell’organizzazione spaziale della città, dove siti industriali e commerciali si svuotano ma sono consegnati nuovamente alla speculazione immobiliare. Le relazioni umane, sociali e culturali si lacerano, mentre sulla base di posizioni ispirate dalla mondializzazione, le città tendono a rap¬portarsi fra loro come imprese private in con¬correnza, favorendo di conseguenza quella politica che considera il progetto, urbano o territoriale che sia, un ostacolo alle op¬portunità da cogliere, e l'edificazione un'esclusiva questione pri¬vata. Tale affermazione in realtà può essere rovesciata: costruire è sempre un atto pubblico, perciò inevitabilmente politico. Proprio per questo la crisi della città – cui le forze del mercato (immobiliare ma non solo) rispondono con nuove cementificazioni, con nuovi insediamenti spesso blindati, sprechi di risorse naturali e soffocamento urbano – può essere affrontata solo a condizione che il potere decisionale torni in mano pubblica.

La crisi della città

La struttura urbanistica delle città italiane arriva al 1860 quasi immutata rispetto alla loro fisionomia rinascimentale e barocca: dopo l’Unità, protagonista d'ogni ampliamento e d'ogni trasformazione è la rendita fondiaria urbana, vale a dire la differenza tra il valore agricolo iniziale e quello assunto dal terreno una volta reso edificabile dal Comune e dotato d'infrastrutture. Da allora la rendita fondiaria è strumento insostituibile di ogni avvenimento urbano, e addirittura ragione d’essere del sorgere di nuovi quartieri, di nuove case. La città realizzata sotto il dominio della rendita, diventa così elemento portante di una sintesi politica, capace di condizionare l'economia, la correttezza amministrativa, il rapporto fra i poteri, l'esercizio effettivo della sovranità popolare.

Infatti, molte delle patologie, di cui soffrono le nostre città, sono dovute alla pressoché perenne e devastante vendita all'incanto dei suoli che ha segnato l'assetto urbano e territoriale del nostro Paese fin dai primi anni dell'Unità politica, dove i pubblici poteri hanno semplicemente accompagnato qualsiasi modernizzazione, rendendo tutto vendibile, prostituendo il territorio e l'ambiente, i luoghi pubblici e le istituzioni (Franco Cassano).

A questa lunga tradizione va aggiunta oggi l'esplosione della crisi ambientale. Le modifiche climatiche, l’effetto serra, il buco dell’ozono, segnalano che la questione è ormai ineludibile poiché il sistema natura mostra evidenti limiti d’autoregolazione a livello globale e locale, con rischio per la salute del singolo e per la stessa sopravvivenza della specie umana. Il nesso tra “stato sociale” e “stato ecologico” dovrebbe risultare ovvio poiché il cittadino/la cittadina in quanto soggetti di diritto alla salute devono poter godere un’aria e un'acqua che non inquinino, mangiare cibi che non avvelenino, avere un lavoro che non faccia morire di cancro. Il diritto alla salute non comporta solo assistenza e terapia, come è noto, ma anche prevenzione e la prima prevenzione è salvaguardare l'ambiente.

Lo sfruttamento dell’uomo sulla natura è un aspetto del più generale sfruttamento dell’uomo sull’uomo e della conseguente ricerca di una diversa ragione dello sviluppo. Un discorso ecologico cioè non può essere disgiunto da un discorso sociale , e viceversa. Perciò l’innovazione delle procedure urbanistiche va considerata, valutata e giudicata all’interno di un programma sociale centrato su nuove regole di convivenza.

I tessuti urbani del nostro presente globalizzato sono alterati dal declino della grande fabbrica, dalla riduzione sia degli impianti produttivi sia dei lavoratori, e dall'apertura di fabbriche in paesi dal costo del lavoro e protezione sindacale più bassi (delocalizzazione). Come conseguenza, anche per la voluta assenza di politiche pubbliche, si determina una profonda mutazione della città: siti industriali e commerciali si svuotano senza essere tuttavia consegnati nelle mani dei cittadini per diventare luoghi di sviluppo diversi all'interno delle città, accogliendo funzioni di interesse culturale o di altro genere, e supplendo anche alla carenza di edilizia residenziale di tipo popolare, che non necessariamente deve essere rappresentata da casermoni. Sono invece nuovamente ceduti alla sistematica edificazione poiché la crescita economica per molti oggi passa necessariamente attraverso l'apertura della città all'impresa globale.

Essendo la mentalità dominata dalla logica d'impresa, emergono anche nei centri minori sia le regole di gestione ricalcate sul modello aziendale, sia il mito immorale della competizione: le città conducono, infatti, una politica economica senza esclusione di colpi l’una nei confronti dell’altra, offrendo il possibile e l'impossibile alla transnazionale o all'immobiliare di turno, rap¬portandosi così fra loro come aziende private in con¬correnza. In questa realtà fatta di integrale ade¬sione agli interessi economici finanziari e speculativi, l'Ente locale, mentre diventa sempre più liberista sul ter¬reno sociale, è fervente interventista sul piano dell’economia e dei mercati, anche attraverso nuovi Piani regolatori e Piani strutturali, vere e proprie "offerte" al mercato di aree edificabili.

Eppure la città non è solo lo spazio della rappresentazione del denaro, poiché non ospita solo attività economiche ma ben più vaste costellazioni umane. Nella dimensione spazio-temporale le città non sono solo vetro, mattoni e cemento ma carne, sangue, grumi di esistenza, memorie, labirinti di strade e corpi: sono storia. Appena si varca la soglia di casa, andando per la città, in quello spazio sostanzialmente plasmato dal potere e dalla speculazione, s'incontrano corpi ed esistenze, desideri e bisogni che considerano l'economia un semplice mezzo della vita umana e non il suo fine ultimo.

E tuttavia la città è stata sempre piegata alla speculazione edilizia e alla rendita fondiaria; l'urbanistica contrattata favorisce le cordate economico-finanziarie e i condoni; l'espansione della rendita viene sempre pagata dai ceti sociali più sfavoriti e sottrae risorse per impieghi produttivi; i piani per l'edilizia economica e popolare sono ormai archeologia e gli Istituti delle case popolari non sono più titolari di politiche e di finanziamenti ad hoc. Inoltre alla “rendita assoluta” della fase espansiva a macchia d’olio si è aggiunta la “rendita differenziale” (o "relativa") che agisce su ogni singolo terreno o unità immobiliare, secondo l'ubicazione e/o in base al prestigio percepito. Infine va considerato che la valorizzazione fondiaria viene determinata dallo sviluppo generale della città ed è quindi una ricchezza collettiva di cui s'impossessa il solo proprietario.

Per tutte queste ragioni riteniamo che la generalizzata domanda di servizi collettivi e di trasformazioni ambientali, sia riassumibile nella più generale questione della qualità della vita, dove il problema ambientale confluisce. Se lo spreco di energia è grave, lo spreco di spazio lo è altrettanto in quanto la quantità di territorio disponibile è un bene limitato e irriproducibile. Dobbiamo convincerci che la rigorosa tutela della natura è garanzia di progresso sociale ed economico; che i vincoli sono un essenziale servizio pubblico; che la salvaguardia dei valori paesistici, culturali e l’uso parsimonioso del territorio, sono una priorità assoluta, alla quale va subordinata qualsiasi ipotesi di trasformazione.

Pianificare per ricostruire società

In Italia il dominio della rendita fondiaria ha comportato la rinuncia da parte di molti ceti politici agli obiettivi di pianificazione democratica. Questo dipende dal fatto che un piano vieta, almeno in linea di principio, mediazioni, eccezioni, modifiche continue fino allo stravolgimento, appoggi clientelari, deroghe, abusivismi . Se poi il Piano, oltre che avere una sua correttezza tecnico-scientifica, fosse anche aperto alla corresponsabilità attuativa e gestionale delle/dei cittadine/i, difficilmente si potrebbe attuare uno sfruttamento personale su quel bene collettivo che è una città. Si comprende facilmente, allora perché i piani siano stati visti da un lato come il "libro dei sogni", e, dall'altro come siano stati bruciati a favore della contrattazione caso per caso.

La ragione dello scadimento culturale e politico della materia urbanistica e architettonica sta essenzialmente nel fatto che, anche dentro la sinistra, neoliberismo, deregolamentazione e privatizzazione ad oltranza hanno messo radici. L'urbanistica guidata dal piano regolatore, nonostante la complessità delle sue regole, fornisce un sistema di garanzie, ma è stata progressivamente sostituita dalla discrezionalità cioè dalla contrattazione con la proprietà immobiliare che fa evaporare la pianificazione territoriale. Capofila di questa tendenza è il Comune di Milano dove, al di là della terminologia tecnico-giuridica adottata, i progetti e i programmi pubblici e privati non sono tenuti ad uniformarsi alle prescrizioni del piano regolatore, ma, al contrario, è il piano regolatore che si deve adeguare ai progetti, trasformandosi in una specie di ufficio del catasto che registra le trasformazioni edilizie contrattate e concordate (Vezio De Lucia).

Sostenuta in particolare dal mondo accademico, questa modalità si è affermata in larga parte d'Italia. Senza voler assumere l'ordinamento urbanistico tradizionale come se fosse un valore in sé, poiché il PRG è uno strumento molto spesso utilizzato con procedure oggettivamente indifendibili e presenta delle indubbie rigidità, tuttavia va evidenziato come l'urbanistica contrattata faccia prevalere l'interesse privato su quello pubblico. Questa si manifesta ogni volta che l'iniziativa sull'assetto del territorio è presa per la pressione diretta o con il decisivo condizionamento di chi detiene il possesso dei beni immobiliari, quando insomma comanda la proprietà e non il Comune (Salzano).

Il piano regolatore è stato fino ad ora uno strumento di tutela ma anche, come si è accennato, uno strumento rigido ed immobile. In particolare non rispecchia le caratteristiche dinamiche del territorio, se con questa parola non intendiamo solo un'unità spaziale ma un risultato complesso di fattori culturali, sociali ed economici; tutti fattori dipendenti in sostanza dalla popolazione che lo abita, la quale si modifica nel tempo, non solo in termini numerici, ma soprattutto in termini di distribuzione qualitativa. Inoltre è uno strumento di contrattazione individuale che prevede solo le "osservazioni", per di più a posteriori: il Comune apre di fatto una "trattativa privata" che mette il cittadino di fronte alla possibilità di contrattare unicamente sul singolo appezzamento o su ciò che lo riguarda molto da vicino. Questo fa sì che emergano solo interessi particolari e bisogni individuali (dei piccoli proprietari come dei grandi) ai quali l'amministrazione pubblica, al massimo, può contrapporre od imporre delle motivazioni di "utilità collettiva". Ma la verità è che, non presentando alcuna fase procedurale durante la quale chiamare i singoli a ragionare come comunità sullo sviluppo complessivo del loro territori, non permette agli interessi individuali di maturare, attraverso il confronto, il dialogo, l'informazione e di comporsi in un disegno comune che arriverebbe così a rispecchiare, senza doverlo imporre, una "Città come Bene Comune". Infine è uno strumento non in grado di correggersi per come è stato concepito. E' così in contrasto con il concetto stesso di sviluppo sostenibile, che prevede sì che le scelte iniziali debbano essere chiare, i principi condivisi e gli obiettivi rispettati, ma anche che i processi debbano essere flessibili ed in grado di assorbire nuove informazioni man mano che la situazione si sviluppa: è il concetto di feedback, particolarmente interessante nei processi di progettazione urbana sostenibile, perché prende atto del fatto che le condizioni possano variare in corso di realizzazione, e che vadano continuamente monitorate per trovare soluzioni senza però compromettere scelte, principi, obiettivi.

Nonostante questi limiti del Piano Regolatore, non ci separiamo dall'idea della centralità della pianificazione territoriale che possiamo ben dire decisiva affinché il "fare città" sia nelle mani dei/delle cittadini/e.

Di fronte alle idee dominanti dello sfruttamento (territorio come serbatoio di risorse) e della competitività (territorio come merce), la pianificazione del territorio perciò deve tornare ad incidere nella riproduzione dei cosiddetti «valori d'uso», per avviare forme e pratiche di «fare società» e riportare il confronto politico al centro di una necessaria ricomposizione di un collettivo sociale. Occorre dunque pensare ad un "processo di pianificazione ambientale" che "per la sue caratteristiche di continuità, autocorrezione, e adattabilità, diventi una funzione permanente del territorio. Si va progressivamente affermando il piano-processo, che trova la sua forza nella capacità di adattamento ai mutamenti continui di una realtà complessa ed in continua evoluzione» (Fernando Clemente). Di fronte al caos della città contemporanea - che non è una fatalità naturale, ma l'effetto di politiche diverse, tutte comunque indirizzate verso una identica azione di utilizzo dello spazio urbano – occorre parlare di urbanizzazione capitalistica. Non significa voler apporre un'etichetta per dar vita ad un affresco immobile e astratto, anzi è voler fare emergere dal territorio analizzato – al quale non si può guardare come fosse una cartolina - relazioni sociali e rapporti di produzione, perché il territorio stesso è soggetto e prodotto del processo di produzione: un processo costituito da divisione sociale del lavoro, da accumulazioni, da rapporti e, soprattutto, da «risorse» o meglio da «valori d'uso», che sono allo stesso tempo «oggetti materiali» e fattori della produzione di città (trasporti, spazi pubblici, scuole, strade, rete idrica, gas, elettricità, telecomunicazioni, servizi e attrezzature in genere, ecc. ).

Appare pertanto ancora oggi un valido punto di partenza considerare l'urbanizzazione capitalistica come una «molteplicità di processi capitalistici privati, di appropriazione dello spazio, dove ciascuno di tali processi è determinato dai singoli rapporti di produzione, cioè dalle regole di valorizzazione di ciascun capitale o frazione di capitale» (Edmond Préteceille). All'interno di questo processo la proprietà fondiaria e immobiliare è riuscita a superare il problema dell'appropriazione dello spazio, andando, tra l'altro, ad intervenire pesantemente proprio sulla natura della pianificazione urbana, svilendone i presupposti e depotenziandone le capacità, per avere più facile gioco nel controllo della produzione di quei «valori d'uso» necessari all'appropriazione dello spazio, e alla destinazione dei suoli.

Essendo la città uno spazio dove i problemi privati si connettono a quelli pubblici, riteniamo che nella pianificazione della città e del territorio debba prevalere una visione non tecnocratica ma attenta alle differenze qualitative dei luoghi e dei soggetti, a partire da quelli meno tutelati nelle loro concrete esigenze. Aprire il piano regolatore all'immenso arcipelago complesso dei corpi che abitano lo spazio, vuol dire intrecciare il Piano urbanistico con quello che Silvia Macchi chiama "un piano regolatore sociale", per poter pensare la città insieme ai soggetti reali che la vivono. Per tornare a vedere la policromia umana, è tuttavia preliminare prendere le distanze da qualsiasi automatismo tra crescita economica e qualità della vita, rovesciando la priorità delle leggi economiche in priorità delle persone e dell'ambiente. Per queste ragioni la pianificazione non può esprimersi nell'unica forma del piano urbanistico, ma deve tenere conto della necessità di una interazione tra tutti i soggetti sociali, e della pluralità di esigenze, obiettivi, percorsi e sbocchi. In questo senso il governo locale deve operare per una connessione tra pianificazione urbana e dinamiche sociali e politiche più complessive.

Questo approccio relazionale alla pianificazione, crea le condizioni – in un confronto fra tutti gli attori sociali – per riappropriarsi del territorio, attraverso la pianificazione come processo finalizzato al «fare società», il contrario dell'urbanistica contrattata. Il progetto, infatti, come scrive Dematteis, è una sfera spazio-temporale che mette in relazione i soggetti nelle più diverse accezioni: la razionalità, i desideri, i sentimenti, le passioni, le abilità, la memoria, la creatività. Il progetto della città e del territorio è un progetto collettivo, ossia è un processo di interazione sociale, è una emergenza dell'essere-insieme, è un progetto di società, un progetto politico e culturale.

Il concetto di territorio non serve solo per circoscrivere un'area più o meno omogenea con al centro la città, ma rappresenta la materialità dei 'luoghi' attraverso cui passa la costruzione di una società: rapporti, relazioni, rappresentazioni. Ecco perché un progetto di città è un progetto di territorio e viceversa; ecco perché gli esiti dell'interazione progettuale non riguardano solo le modalità di sviluppo e di organizzazione del territorio, ma le prospettive di costruzione e di 'fare società'. Il territorio infatti è una rete di soggetti politici e sociali, ossia di soggetti progettuali. Il progetto della città è un processo creativo che richiama l'attenzione sull'articolazione e sulla ricchezza della realtà, dello spazio, delle relazioni sociali: esperienze, memorie, emozioni che costruiscono una 'identità relazionale', mutante, plurale in continuo confronto/conflitto con ogni altra identità. Vedere la struttura sociale come sistema stratificato e intrecciato di relazioni è il punto di partenza e di arrivo per una pianificazione come funzione permanente del territorio e come interazione sociale fra tutti i soggetti che vi agiscono. Con questa diversa prospettiva il territorio può tornare ad essere il 'luogo' della ricostituzione del tessuto sociale.

Pertanto il piano deve riportare alla luce quella incorporazione sociale e culturale propria del territorio. Ma per poter fare questo occorre prima di tutto svelare il gigantesco processo di funzionalizzazione del territorio alla competizione globale. Il sistema produttivo è passato da una strutturazione centrata sulla fabbrica, luogo unico della produzione, alla sua dilatazione nel territorio, al punto che l'intero complesso territoriale è diventato luogo di produzione. Perciò Bonomi parla di "territorio come fabbrica" in quanto si è affermata la competizione tra sistemi territoriali, e le nuove configurazioni del territorio sono dettate dai sistemi di scambi produttivi. Ecco perché il territorio è diventato una merce e perché all'interno di questa logica, sul territorio finiscono per prevalere in maniera esclusiva le reti dei soggetti e dei luoghi funzionali alla produzione. Lo scollamento tra il territorio con una sua consistenza fisica, ambientale, culturale, storica, e il territorio come sola rete dei luoghi della produzione competitiva, è a questo punto completo.

Un diverso modo di pensare e vivere lo spazio urbano, rispetto a quello della città come mercato e del territorio come merce, dipende da tutti coloro che abitano, utilizzano e percorrono la città stabilmente e occasionalmente. I tempi e gli spazi della città influiscono sulla vita di tutti, sulla quotidianità e sulla materialità ed ecco perché devono essere i cittadini nel loro complesso i soggetti della pianificazione: una pianificazione plurale e diffusa nel senso della interazione fra diversità. In altri termini la pianificazione è necessaria perché deve regolare ed esaltare le diversità esistenti, non annullarle in un indistinto partecipato (come nel mercato), bensì dare forma ad una eguale partecipazione per costruire un progetto di società da rinnovare continuamente nella sua attuazione. L'obiettivo finale dell'interazione progettuale non è così né un compromesso, né una combinazione di interessi, ma una riflessione critica in divenire, un'attività elaborativa di riflessione sul modello di sviluppo, sui mutamenti in corso, sulle dinamiche sociali e culturali e sui «futuri della città».

Il piano diventa così il prodotto di una pianificazione capace progressivamente di ripensare se stessa perché non causa ed effetto di una proceduralizzazione amministrativa (il piano come regolazione e mediazione tra poteri e interessi), bensì capace di spostare l'attenzione sul carattere dei processi e sui soggetti che vi partecipano. Ecco che allora il piano diventa l'occasione per ricostruire un tessuto sociale attraverso l'interazione di tutti i soggetti, insieme alle istituzioni, recuperando il significato perduto della politica come relazione, confronto, conflitto. Così facendo il piano diventa un momento della pianificazione stessa come interazione sociale di tutti i soggetti che agiscono sul territorio e non solo del tecnico, dell'amministratore e dell'immobiliarista: al centro non vi sono più solo gli strumenti, ma le problematiche dello sviluppo e dell'ambiente, l'azione e le politiche dei soggetti coinvolti.

In questa prospettiva non è più il piano in sé ad essere oggetto di elaborazione, ma è il territorio stesso tramite e attraverso i soggetti che vi abitano e interagiscono. Il piano diviene così un momento del complessivo processo di pianificazione, un momento di formalizzazione del processo (progressivo e continuo) di riappropriazione culturale del territorio.

E' questo il tratto distintivo dello «sviluppo locale», che attiva un processo di responsabilizzazione collettiva del proprio patrimonio a sostegno della qualità del vivere (presente e futura), autodeterminazione del proprio modello di sviluppo, costruzione di reti sociali e produttive in grado di organizzarsi e relazionarsi criticamente e in autonomia con le reti globali.

I concetti di qualità urbana, di sviluppo sostenibile, di ecologia della vita quotidiana sono ovunque sempre più annunciati ma raramente tradotti in coerente azione pubblica. La qualità urbana è qualità d'insieme e non la si raggiunge se non si tenta di governare insieme le diverse parti che compongono la città e i suoi diversi aspetti: da quelli formali a quelli funzionali. E' per questo che la qualità è raggiungibile solo mediante la tecnica della pianificazione urbanistica: una tecnica, un metodo, una procedura che considerando il territorio urbanizzato come un sistema, vuole governare le trasformazioni valutando gli effetti che ogni intervento esercita sull'insieme. Perciò l'urbanistica contrattata è l'elusione della pianificazione. Se gli amministratori cercano oggi la scorciatoia dell'intesa con la proprietà è spesso perché non prendono in considerazione la possibilità di regole nuove e più efficaci anche perché l'impegno rigoroso e costante, necessario per costruire una politica della pianificazione, paga meno e meno rapidamente dell'accordo raggiunto con un potentato economico. Si tratta comunque di un atteggiamento che non solo rende gli amministratori esposti al sospetto e al rischio della corruzione ma li rende rinunciatari rispetto ai reali interessi collettivi di qualità e funzionalità urbana.

Non basta però limitarsi a denunciare un simile atteggiamento. Occorre invece riflettere sulle sue cause. E allora appare evidente che esso è in primo luogo l'effetto di quella decennale deregolamentazione urbanistica promossa dallo schieramento moderato ma tollerata dalla sinistra che ha contrassegnato il decennio trascorso: una campagna che mentre screditava la pianificazione alla quale si arrivava ad imputare anche l'abusivismo edilizio ("abusivismo di necessità"), tendeva a spegnere ogni tensione per una riforma legislativa. E' un atteggiamento che oggi può essere superato solo con un costante impegno politico e culturale che sappia intrecciare la ripresa dell'iniziativa legislativa con le concrete vertenze ed esperienze locali. Sul primo terreno d'impegno, la sinistra può essere determinante per sbloccare finalmente la decennale vicenda degli espropri e dei vincoli urbanistici e per dare all'Italia una legge moderna sul regime delle aree e degli edifici; sul secondo terreno delle mille realtà locali, si misura la capacità della sinistra di fornire risposte adeguate alla crisi delle città, una crisi che è il prodotto di errori culturali e politici, di pigre miopie e di fughe dalla corposità degli interessi (Salsano).

Nelle decine di documenti che formano il nuovo strumento urbanistico di Roma e di Firenze, ad esempio, non c'è nessuna traccia di elaborazione sul consumo del suolo e sui metodi per fermarlo. Anzi è la stessa logica del piano che alimenta il consumo di suolo, poiché il meccanismo di produzione dei beni pubblici (verde, scuole, parcheggi, attrezzature) dipende dall'edificazione privata. Ed è anche evidente l'assenza di indirizzi in materia di politica abitativa, in particolare rispetto alla "domanda povera" (sfrattati, immigrati, senza fissa dimora, nomadi, ecc.) e di quella in ogni caso non opulenta. Un PRG non può certo risolvere tutti i problemi. Infatti se da oltre un decennio assistiamo alla cancellazione del concetto stesso di edilizia pubblica, non è certo l'urbanistica che può invertire questa deriva. Per questo servirebbe una politica che abbia a cuore il destino di tutti coloro che non hanno la capacità di accedere al mitico mercato.

A Firenze e a Roma, mancando questa impostazione, la cosiddetta crescita economica si traduce ineluttabilmente in crescita edilizia e le nuove cubature diventano merce di scambio tra operatori economici e amministrazione cittadina, ma nessuna "compensazione" potrà mai restituire gli spazi aperti e gli orizzonti liberi cancellati dall'edificazione. La mancanza di risorse fornisce il pretesto per ulteriori anche se inedite agevolazioni agli operatori immobiliari e alla speculazione fondiaria: il Comune rende edificabile un suolo, l'immobiliarista cede qualche alloggio per l'emergenza abitativa, non importa dove, non importa come.

L'impegno dev’essere dunque quello di dotare finalmente l’Italia della fondamentale legge che consenta di sottrarre alla taglia della rendita fondiaria terreni e immobili, separando il diritto di proprietà da quello di costruzione e la riaffermazione della politica di piano. Del resto il recupero della pianificazione dovrebbe essere il fulcro di una nuova politica amministrativa, per due ragioni: a) restituire certezza di diritto a tutti gli operatori, indipendentemente dai legami che si costruiscono, di volta in volta, con gli amministratori; b)avere lo strumento indispensabile per governare il territorio anche con risorse scarse.

Proposte

PRIMA PROPOSTA: IL PIANO METROPOLITANO?

Mentre bisognerebbe ripristinare e ampliare l'indipendenza dei comuni minori per valorizzare pienamente la loro specificità collettiva, si tratta di dare alle grandi città l'assetto metropolitano richiesto da quella macchia edificata continua, chiamata "città dispersa". Ciò non attraverso una procedura unificata ma secondo modelli istituzionali pensati a misura di ciascuna area, poiché ogni città è un caso a sé. Il Piano della città metropolitana sarebbe necessario non solo per ragioni di unitarietà del sistema ecologico e ambientale, ma principalmente perché tende a consolidarsi un vasto bacino di pendolarità determinato dal trasferimento di nuclei familiari, da trasformazioni dei modi di produrre e da processi di terziarizzazione, che superano i cristallizzati confini comunali.

Nel 2005, per la prima volta nella storia del pianeta, gli abitanti delle città hanno superato quelli delle campagne (dati ONU), causa ed effetto di quella uscita da un sistema produttivo manifatturiero e della maturazione del processo di mondializzazione economica secondo regole capitalistiche neoliberiste, che produce il proprio territorio e ambiente, e costruisce le proprie forme di territorialità, producendo un modello di città del tutto inedito.

La globalizzazione economica neoliberista ha fatto saltare i confini, facendo perdere di senso qualunque divisione amministrativa. La delocalizzazione dei comparti produttivi e la deterritorializzazione delle categorie di spazio e tempo sono le pesanti ricadute sulle città, poiché segnano il passaggio da una spazialità organizzata sulla centralità del 'luogo', ad una spazialità «di flusso» in cui lo spazio è oggetto continuamente ridefinito (Manuel Castells).

Il nuovo assetto urbano si sta caratterizzando per un accresciuta valenza delle grandi città e delle aree regionali, e per l'apertura di una fase di competizione diretta tra sistemi urbani. L'idea di innescare una competitività fra aree urbane mentre non ha sortito effetto alcuno sul miglioramento della qualità della vita e della qualità ambientale, è stata semmai funzionale a modellare la distribuzione della popolazione e delle attività economiche, sulla base di cointeressi (cordate, gruppi, centri) prevalentemente economici e di potere, che hanno piegato e cooptato la struttura istituzionale locale per intensificare lo sfruttamento del territorio e perseguire i propri interessi. Dunque i processi, le trasformazioni del capitalismo su scala mondiale non riguardano esclusivamente la sfera dell'economia, ma hanno pesanti ricadute sulla forma fisica, sulla struttura sociale delle città e sugli aspetti sociali del vivere quotidiano. Occorre pertanto partire dal riconoscere che i collegamenti tra la deriva mondiale dell'economia e i cambiamenti della struttura sociale e dei sistemi urbani sono il fenomeno centrale dell'epoca contemporanea.

La prima e più evidente trasformazione è la formazione e la crescita di strutture urbane metropolitane, che non possono più essere definite da rigidi confini amministrativi o da omogeneità morfologiche, in quanto emergono nuove categorie a stabilire le grandi conurbazioni contemporanee. (ad esempio la mobilità, la capacità di consumo, ecc.). Alla città tradizionale si sta sovrapponendo - ma non sostituendo - una nuova morfologia dettata dalle ragioni del consumo, dalla flessibilità e precarietà del lavoro, da una diversa organizzazione spazio-temporale del quotidiano. Comuni, Provincie e Regioni invece sono unità territoriali costruite per un sistema territoriale completamente diverso dai processi in atto. Inoltre, di fronte a tali cambiamenti, anche l'apparato concettuale e conoscitivo è divenuto ormai inadatto, e deve essere rimodellato e sottoposto a profonda revisione sulla base delle nuove mappe sociali che si stanno configurando.

La legge 142/90 Riforma dell'ordinamento degli enti locali - che ha riorganizzato amministrativamente il territorio - ha tentato di introdurre il concetto di «città metropolitana». Tale legge, pur presentando al suo interno contraddizioni e incertezze, e nonostante sia rimasta praticamente inapplicata, andava a cogliere uno degli elementi centrali di questa profonda trasformazione della forma urbana, che per intensità e diffusione ricorda il passaggio dalla città medievale a quella industriale del Settecento.

Il nuovo «sistema urbano policentrico», o «città a rete» - per riportare due tra le più diffuse espressioni - crea una complessità morfologica, normativa e analitica, ossia la convivenza di sistemi urbani crea problemi di certezza amministrativa e di rappresentanza politica affrontabili solo nell'ambito di una pianificazione che, partendo dalle dinamiche sul territorio, dia senso e voce al territorio stesso.

Oggi la città diventata metropoli, non è più il luogo della produzione, ma quello della distribuzione e del consumo di merci e servizi: magazzino di attività amministrative e di cultura mercificata. Il territorio perde così ogni possibile significato autonomo e diviene anch'esso merce a disposizione della metropoli. In una struttura sociale urbana basata sul profitto e sul consumo a dimensione globale, non si può non partire che dal mettere in discussione tale modo di sviluppo e cominciare ad intervenire nella società, per ricreare luoghi e tempi delle relazioni; e l'unica strada percorribile è la via della pianificazione, della progettazione plurale e collettiva per una riappropriazione del tessuto urbano da parte dei/delle cittadini/e. Una pianificazione che non può che essere a scala metropolitana, aperta e multidimensionale, nel senso che riesca a cogliere e tenere insieme le correlazioni, le interazioni di tutti i soggetti attivi nel territorio (Carlo Doglio). Programmare pluralmente il futuro della città significa programmare il futuro dell'intera comunità che in essa vive, lavora e si riproduce; e regolare la città come luogo di queste relazioni significa irrompere nei tessuti urbani del nostro presente globalizzato. Qui sta la dimensione plurale e metropolitana di un ripensare criticamente e continuamente i confini codificati, per la costruzione di nuove forme di territorialità.

SECONDA PROPOSTA: SEPARARE IL PROFITTO EDILIZIO DALLA RENDITA SUL SUOLO ATTRAVERSO L'ACQUISTO PUBBLICO TEMPORANEO DELLE AREE DA TRASFORMARE.

C'è un modo tradizionale che assegna all'amministrazione pubblica il compito di stabilire le regole per gli interventi altrui, e di gestire in proprio una parte minore del suolo, come le vie di comunicazione e gli impianti necessari a disimpegnare i terreni privati. I difetti di questo metodo – lo squilibrio finanziario derivante dalle spese pubbliche a fondo perduto che valorizzano i terreni privati – emergono già a cavallo dell'800/900, e conducono a un secondo metodo, che assegna all'amministrazione pubblica il compito di acquisire temporaneamente i terreni da trasformare, corredarli delle opere pubbliche e rivenderli in pareggio economico ai vari operatori pubblici e privati.

Olanda, Paesi Scandinavi, Gran Bretagna hanno applicato su larga scala questo secondo metodo, soprattutto nel secondo dopoguerra, per eliminare il sovrapprezzo speculativo sulla casa e rendere progettabile il nuovo paesaggio costruito. Si è cioè compresa la necessità di accompagnare il piano regolatore con strumenti che rendono possibile una politica non soggetta al ricatto della proprietà fondiaria e quindi finalizzata all'acquisizione preventiva delle aree da urbanizzare (Salzano). In Italia invece non si è riconosciuto il ruolo dell'intervento fondiario pubblico al fine di separare il profitto edilizio dalla rendita sul suolo e si è accantonato definitivamente ogni idea di riforma organica della legge urbanistica del 1942. Pertanto nel nostro paese il saggio della rendita ricavata dalla compravendita delle aree può crescere indefinitamente, incidendo sul prezzo dell'alloggio in misura del 50%, 100%, il 200% e anche più. Questa tacita decisione ha escluso ogni ipotesi di acquisto pubblico preventivo dei terreni; ha lasciato crescere il prezzo delle case in vendita e in affitto; ha lasciato divergere domanda e offerta per cui oggi abbiamo una percentuale eccessiva di alloggi vuoti e contemporaneamente l'emergenza sfratti; ha determinato la costruzione di immense periferie disordinate; la cementificazione delle coste, la distruzione del paesaggio; ha consolidato l'ingerenza degli interessi fondiari nella formazione delle regole urbanistiche; ha reso difficilissima e persino impraticabile la formazione dei PRG lasciando quasi tutte le città italiane fino agli anni '60 senza piani aggiornati.

Qual è il problema? Non osando agire sulla causa si hanno alcuni esiti micidiali: l'Italia, pur avendo un patrimonio edilizio di stanze per abitante fra i più alti del mondo è in continua emergenza sfratti; gli affitti (mercato quasi interamente privato e anche quando è pubblico osserva le stesse regole) e i prezzi delle abitazioni sono tali che non solo la casa è fuori dalla portata di vaste masse di cittadini ormai sulla soglia della povertà, ma si è avuto un generale pesante aggravio per i bilanci familiari: mentre nel 1980 la spesa per l’abitazione non superava il 10% del reddito familiare, nel 1998 incideva per il 25%. Infine si è costruito un patrimonio di case pagate col denaro pubblico che, pur essendo quantitativamente insufficiente (sotto il 10%), viene oggi donato agli immobiliaristi. A ciò va aggiunta la decisione rovinosa della legge del dicembre del 1993 che, nella logica delle privatizzazioni, prescrive agli enti pubblici di vendere la metà delle case in loro proprietà. Si tratta quindi di una strategia in difesa del mercato immobiliare che spiega anche i continui conflitti fra politica edilizia e urbanistica.

Per impostare la politica nazionale delle aree fabbricabili basterebbe l'acquisto dei terreni da trasformare da parte delle amministrazioni comunali, e da inserire nel ciclo dell'urbanizzazione pubblica preventiva in pareggio economico (Benevolo). Per questo ciclo non occorrono finanziamenti ma anticipi di cassa, che i Comuni, le Regioni, lo Stato possono erogare per le vie consuete.

Le esigenze pubbliche chiedono che i nuovi quartieri nascano armoniosi, che si raggiunga un equilibrio tra la superficie destinata agli spazi liberi e quella per le costruzioni; tra la superficie destinata ai parchi ed ai giardini pubblici e quella per le strade e le piazze; tra l'edilizia popolare e quella di lusso. Le esigenze private si possono invece sintetizzare nella corsa di ogni proprietario di suolo a guadagnare il massimo di soldi dalla utilizzazione intensiva del proprio terreno, e nella tendenza delle società immobiliari a sostituirsi ai primitivi proprietari ponendo in essere tutti i possibili accorgimenti pur di valorizzare i metri quadrati posseduti.

Soltanto una legge che preveda l'acquisto obbligatorio e totale delle aree e delle zone di espansione a favore del Comune, come fase intermedia che precede l'urbanizzazione delle zone stesse, e che prelude alla cessione di un'aliquota delle aree ai cittadini per l'edilizia privata, può impedire che si perpetui la gara di corruzione e di favoritismi che accompagna fatalmente la redazione, l'adozione, l'approvazione e persino la pubblicazione e l'esecuzione dei piani regolatori. Questa pratica porrebbe tutti i proprietari in condizione di uguaglianza poiché i proprietari il cui suolo sarà destinato alla costruzione di una strada o di una scuola saranno trattati, quanto ad indennizzo, allo stesso modo.

Collocando l'intervento pubblico nel campo della manovra fondiaria – il che costituirebbe un ribaltamento della situazione - attraverso la fornitura di aree fabbricabili pubbliche in pareggio economico, si avrebbe il controllo della produzione edilizia; si libererebbe il mercato edilizio dalla speculazione fondiaria; si consentirebbe un controllo generale sull'assetto del territorio da parte delle comunità locali. Inoltre l'uguaglianza effettiva tra i proprietari renderebbe possibile l'attuazione più veloce dei piani regolatori, poiché verrebbero meno le lotte di interessi che si scatenano in regime privatistico di utilizzazione di aree fabbricabili. Sarebbe inoltre più facile anteporre agli interessi dei singoli gli interessi generali della città, in quanto la pianificazione urbanistica diventa pressoché impossibile quando chi dovrebbe pianificare deve lottare con centinaia di piccoli, medi e grandi proprietari terrieri che desiderano lo sfruttamento dei terreni e si pongono in netto antagonismo con i cittadini desiderosi di maggiori spazi con riduzione al massimo della densità fabbricativa. Lo scopo non è di punire o sanzionare i proprietari terrieri, quanto di impedire che l'ansia di speculare sulle aree fabbricabili condizioni l'evoluzione delle città.

Il secondo problema è come smaltire gli effetti di 50 anni di malaurbanistica. Dal dopoguerra si sono costruiti sui suoli privati, solo nell'edilizia residenziale, circa 10 miliardi di metri cubi (calcoli 1995), che al costo del 1995 di 400.000 lire al metro cubo sono costati circa 4 milioni di miliardi e hanno fatto lievitare il valore dei terreni urbanizzati fino a una cifra pressappoco equivalente. Questa somma, prelevata agli acquirenti delle case, è stata incamerata dai mercanti di aree. E' mancato invece il finanziamento delle opere pubbliche, dei servizi e degli standard urbanistici (al contempo una conquista epocale e un diritto alla vivibilità garantito a tutti i cittadini indipendentemente dal tipo di casa che si potevano comprare o abitare), che sono rimasti in buona parte ineseguiti.

Gli standard minimi obbligatori sono stati introdotti per la prima volta nel nostro Paese con la legge 765/1967 al fine di rispondere alle esigenze dei cittadini non solo in materia di abitazione, ma anche di qualità della vita. In molti paesi europei non si è verificata tale necessità poiché è inconcepibile edificare in una città senza pensare prima agli spazi pubblici e ai servizi. In Italia invece la costruzione del progetto di una città parte dagli spazi da destinare all’edilizia privata, lasciando quelli residui alle funzioni pubbliche. E' significativo che alcune città arrivano a far rientrare all’interno del computo per gli spazi pubblici le rotonde e gli sparti traffico. Da questa cattiva gestione dello spazio pubblico (non solo piazze e parchi, ma anche ospedali, centri sociali, asili, scuole, ecc.) deriva l’idea che le esigenze dei cittadini si risolvano attraverso una semplice operazione matematica mq/abitante, senza considerare la reale qualità di questi metri quadri (quasi sempre il minimo previsto dalla legge) e la relativa accessibilità e fruibilità. Il posizionamento di queste attrezzature deve avvenire infatti in un modo funzionale, e cioè in un modo che ne garantisca il reale utilizzo. E' quindi necessaria una riflessione sugli standard urbanistici, non per annullarli ma per renderli strumenti efficaci nella pianificazione, facendo coesistere qualità, quantità ed accessibilità reale nella loro progettazione.

Gli ambienti urbani indicano un cronicizzarsi di una condizione segnata da una crescente divisione sociale e dalla povertà . Il nodo della questione risiede nei processi economici generali che producono disuguaglianza, disoccupazione e precarizzazione del lavoro, in un quadro generale reso ancora più aspro dalla crescente discriminazione etnica e socio-spaziale, per cui nuove frontiere interne si creano nelle città: barriere non solo urbanistiche, ma anche psicologiche e culturali

Esistono quindi nelle diverse e disastrate periferie, condizioni di vita pessima e sacche di degrado e infelicità, un enorme arretrato di infrastrutture e servizi che dovrebbe essere colmato. Nei quartieri periferici per aprire una piazza, un centro culturale, un teatro ci vogliono anni e anni di battaglie, e altrettanti ce ne vogliono per trovare le risorse e superare le resistenze mascherate da burocrazia.

Mentre i fatti dicono inequivocabilmente che per le periferie non c'è mai una lira, occorre al contrario riportare l'ambiente residenziale a forma insediativa e qualità architettonica accettabili, mettendo in atto un intervento straordinario delle Regioni e dello Stato. Si potrebbe pensare a un piano pluriennale finalizzato all'adeguamento dei servizi e alla ricostruzione di reti di protezione sociale rispondendo così ad una fortissima domanda popolare al di fuori della retorica dell'ideologia della sicurezza. Infatti, le periferie disordinate e ossessive, realizzate nel corso di 50 anni, sono il luogo di residenza ormai consolidato della maggior parte della popolazione italiana, e proprio per questo devono essere migliorate nell'unico modo possibile: completando o ricreando e curando la rete dei servizi e degli spazi liberi, collettivi e pubblici.

Occorre evitare in futuro l'arretrato di infrastrutture e servizi derivante dalla non acquisizione pubblica delle aree. Infatti:

- Non è più ammissibile spendere risorse per rimediare a carenze che non hanno mai fine, poiché si perpetuano i meccanismi che producono all'infinito queste stesse carenze.

- Non è più accettabile finanziare a fondo perduto le opere di urbanizzazione primaria e secondaria – strade, impianti, scuole, biblioteche, mercati, giardini, impianti sportivi – il cui corrispettivo arriva ai proprietari dei terreni circostanti sotto forme di valorizzazione delle aree e degli immobili. Le opere pubbliche di interesse locale devono essere prodotte gratuitamente dal ciclo dell'urbanizzazione pubblica, quindi essere incluse nel prezzo di costo dei terreni e pagate dagli operatori prima degli interventi. Dunque l'amministrazione interverrebbe direttamente nel processo di trasformazione, riservandosi il passaggio essenziale: la fornitura delle aree fabbricabili ai vari operatori.

- Tuttavia le grandi quantità di nuove aree fabbricabili sono del passato. Oggi il problema più rilevante è dato – in particolare - delle aree industriali dismesse, ma nessuna amministrazione è stata finora capace di applicare a queste aree l'acquisto pubblico preventivo, per ricondurle a un disegno generale. In tale contesto hanno trovato terreno propizio i "piani di terza generazione" basati sulla contrattazione con la proprietà fondiaria: nascono tante trattative isolate dove l'esigenza di collocare per ogni terreno, opportunità pubbliche e contropartite private annulla la possibilità di qualsiasi manovra unitaria.

TERZA PROPOSTA: TRASFORMAZIONE ECOLOGICA DELLA CITTÀ.

Impegnarsi per la trasformazione ecologica della città e dell'economia, significa impegnarsi nella produzione della città della qualità della vita; determina vantaggi territoriali, produttivi ed occupazionali sia nella fase di costruzione della qualità (ambientale, sociale, culturale), sia nelle diverse fasi della sua realizzazione. La costruzione della qualità come “ambiente globale” è un progetto complesso di riqualificazione dell’intera città come sistema per vivere. La questione ambientale non è una moda, ma fa parte di un progetto politico e culturale nella consapevolezza che non si può salvare l’ambiente senza mettere in discussione gli assetti economici e di potere che lo hanno distrutto.

Se si facesse un sondaggio, i cittadini risponderebbero che il problema più grave è il traffico. Ed in effetti il traffico rende la città particolarmente invivibile. Tuttavia questo è anche un problema che, se si avesse coraggio, si potrebbe risolvere più facilmente di come in generale si pensa. Perciò questo non è il problema più grave. Quello più grave perché di natura strutturale è il problema del verde .

L'operazione più significativa, come critica diretta alle ragioni dell'economia vigente e all'impianto concettuale che vi presiede, può essere la messa in campo di una diversa pianificazione urbanistica, sociale e culturale del territorio, affinché si cominci ad agire sulle cause e non sugli effetti dei vari degradi. La nuova stagione dei diritti deve comprendere il diritto alla città per tutti i cittadini, vecchi e nuovi, nativi e migranti, sulla base del concetto della Città come bene comune.

Occorre che l’Ente locale – affinché non sia semplice accompagnatore politico-istituzionale degli interessi economici – rivoluzioni le priorità di bilancio, prendendo atto della spirale d'impoverimento e di esclusione, e intervenga con una nuova politica degli investimenti, una politica per la riqualificazione e ristrutturazione urbana contro la periferizzazione sociale e culturale, distribuendo sul territorio qualità sociale.

Un'opportunità in questo senso sembrava fornita dalla svolta per cui le città stavano disarmando sia per quantità di popolazione sia perché restano liberi ampi spazi dismessi, costituiti da fabbriche, officine, magazzini, negozi, ecc. frutto dei nuovi modi del produrre, del lavorare, del vivere. Gli spazi abbandonati avrebbero potuto assurgere a risorsa primaria per la collettività e non sono mancate formali dichiarazioni in proposito. Tuttavia nulla di tutto questo è accaduto e si è continuato a coltivare lo spazio urbano a cemento.

Non vi sarà nessuna nuova qualità del vivere se non si esce dalle logiche capitalistico-speculative ed è vano pretendere di avere ragione dei vari inquinamenti (dall'inquinamento dell'aria a quello estetico) se non se ne combatte la causa prima, e cioè l'uso distorto che da decenni tante amministrazioni vanno facendo del territorio. I vari “dismessi” possono ancora essere un'occasione a condizione che si pensi all’aumento degli spazi aperti nella città, a ridurre le densità edificabili, controllare le destinazioni, pensare anche a demolizioni per risarcire precedenti devastazioni, e ad un recupero a cubatura zero, vuoti strategici, sottratti alle logiche di mercato, per restituire il verde al paesaggio urbano e reintrodurre la natura nella città.

Come deve essere pensata la città in questa prospettiva? A questa domanda non si può dare risposta restando all’interno di una pianificazione urbana tradizionale, ma implica mutamenti profondi in molti settori dell’organizzazione sociale. Dalla critica dell’economia della crescita quantitativa, dalla compatibilità tra economia dell’uomo ed economia della natura, conflitto fra indicatori della crescita e del benessere, ai vincoli posti all’economia dai limiti biofisici (effetto serra, buco dell’ozono, piogge acide), ai limiti economici (disoccupazione strutturale) e ai limiti sociali (nuovi bisogni e nuovi valori). Le regole del nuovo progetto di città si esprimono in nuovi concetti transdisciplinari che producono nuovi indicatori sociali (benessere sociale contro crescita quantitativa) e nuovi standard qualitativi che interpretano le funzioni biologiche ed ecologiche del mondo vivente: regole legate alla capacità dei sistemi di assorbire inquinamento, rumori, variazioni climatiche, ecc.

Al di là delle grandi catastrofi (Chernobyl, Bhopal, Seveso), con i fenomeni macrobiologici, i mutamenti climatici, la crescente desertificazione, la riduzione della fascia di ozono, è la stessa vita quotidiana ad essere soggetta a un progressivo deterioramento direttamente legato al degrado dell'ecosfera. Questo si configura come un “secondo sfruttamento” dei cittadini, poiché come abbiamo una natura depredata, spogliata, inquinata così abbiamo uomini e donne depredati, spogliati, inquinati. Il sistema economico attuale è distruttivo ecologicamente e socialmente. Sopravvivenza sociale e sopravvivenza biologica sono strettamente legate.

All’attuale città che produce rifiuti, inquinamento, dissipazione di risorse, distruzione di ambiente naturale, occorre sostituire una città del riuso, del recupero, ossia una città caratterizzata per la quota sempre più bassa di materia ed energia destinata al proprio mantenimento. Al modello aziendalistico dell’Ente Locale che si manifesta nella pratica della concertazione che esalta solo la logica degli affari, va contrapposta l’idea della città come soggetto vivente. La questione ambientale impone la fine dei consumi di suolo e l’abbandono della concezione riduttiva del verde urbano, inteso come occasionale e inutile arredo urbano, per passare alle acquisizioni della biologia dei sistemi viventi che indicano come il verde assolva funzioni vitali per la produzione di ossigeno, per assorbire l’inquinamento acustico, per abbattere le polveri, per temperare il micro clima .

Mettere al centro la città a misura di vita, significa tradurre in politica la riconversione ecologica della città che investe non solo i modi di vivere e consumare ma anche le modalità dell’edificare e/o ristrutturare gli edifici pubblici e privati secondo i criteri dell’edilizia bio-compatibile, tenendo presente come gli elementi della natura siano potenti alleati contro inquinamento atmosferico e acustico e contro lo spreco di energia. Una strategia dunque che va oltre i metri cubi di cemento e dove i valori ambientali, diffusori di qualità, possono liberare le/i cittadine/i e le stesse attività economiche dalla rendita fondiaria che li soffoca. Tutto questo ha nel verde il suo asse primario.

Le ragioni per procedere in questo modo stanno nella crisi ambientale e climatica, che mette a rischio migliaia di esseri umani, non sono solo una questione estiva riguardante gli anziani (del resto invisibili per il resto dell’anno) cui si offrono le risibili soluzioni dei supermercati e delle caserme dei Vigili del fuoco. Il riscaldamento locale è dovuto all’urbanizzazione intensa e continua. Rinfrescare le città è il problema poiché sulle aree coperte da cemento e asfalto si forma la cosiddetta “isola di calore”, che surriscalda l’aria rispetto alla campagna circostante. Uno studio scientifico (2002) dell’Agenzia federale per l’ambiente Usa, dimostra che piantare 10 milioni di alberi a Los Angeles, permetterebbe di ridurre la temperatura estiva di 4 gradi. Le strategie di riforestazione urbana sono le prime da mettere in atto per produrre brezza termica anche in assenza di vento. Nelle conoscenze dell’ambientalismo scientifico vi sono dunque gli elementi per dei veri e propri piani per la riduzione del caldo in città.

Una città dopo l’automobile significa non la fine del trasporto privato individuale ma il suo contenimento e la sua subordinazione alle esigenze del trasporto pubblico di massa, della salute e del benessere collettivi, oltre che rappresentare quella struttura qualitativa benefica anche alla stessa produzione di merci. Ecco perché più che il potenziamento del sistema viario è importante la sua classificazione funzionale e una rigorosa politica dei parcheggi rimuovendo gli errori gravissimi che si stanno compiendo in materia. Ma soprattutto è centrale che la politica della mobilità sia integrata a quella del verde e della qualità ambientale.

Una volta si parlava di isola pedonale per il Centro, oggi non basta più dal momento che in tutta la città sono superate le soglie a rischio di inquinamento. Ci vuole un arcipelago pedonale e una rete mista di itinerari pedonali e ciclabili che unifichino tutti gli spazi verdi della città e della conurbazione, diventando una struttura portante del disegno urbano metropolitano.

Proviamo immaginare, diceva Walter Tocci per Roma, che nel deserto fatto di lamiere di automobili, di ingorgo e aria irrespirabile possano sorgere delle oasi, dei luoghi dove si possa passeggiare, giocare, respirare e chiacchierare. Allora l’idea è creare tanti e tanti spazi completamente liberati dalle automobili e restituiti alle forme di vita più semplici, separando finalmente il traffico veicolare da quello pedonale.

Non si tratta di fare grandi opere ma di curare la manutenzione del tessuto urbano: rifare la pavimentazione a misura dei pedoni, togliendo marciapiedi e asfalto; ecc. Da queste nuove piazze potrebbe partire almeno una strada interamente riservata ai mezzi pubblici (elettrici) tale da consentire un collegamento facile con altre piazze simili rendendo quindi fattibile la limitazione al traffico ben al di là della singola isola pedonale. Nelle piazze così rinnovate possono essere accessibili tutti i moderni mezzi di relazione, che potrebbero consentire di fruire collettivamente di spettacoli, performance e manifestazioni di vario tipo, o di seguire in diretta alcuni eventi comprese alcune sedute del consiglio di Quartiere e/ del Consiglio Comunale: una sorta di "agorà" anche in talune modalità elettroniche, fra generazioni, fra culture ed esperienze diverse, per esperire insieme modelli comunicativi e spettacolari non mercificati, contribuendo così a cercare forme di vivere quotidiano fuori dal coma ipermediatico.

Cominciamo dal proprio quartiere, e dalle aree dismesse a costruire una città nuova.

QUARTA PROPOSTA: ELOGIO DEI MARGINI PER UNA CITTÀ PLURALE

Nel suo libro La città imprevista, Paolo Cottino racconta alcune pratiche di dissenso rispetto all’utilizzo convenzionale di svariati spazi urbani milanesi: occupazioni di edifici abbandonati, mercatini autogestiti e vendita in strada, orti cittadini sono alcune delle esperienze che immigrati, pensionati, disoccupati sperimentano a partire dai loro desideri e bisogni, dalla loro quotidianità e posizione subalterna. La descrizione di queste pratiche di riutilizzo e trasformazione degli spazi urbani – luoghi solitamente marginali, oppure centrali ma ‘problematici’ secondo le accezioni del senso comune come stazioni, parchi e marciapiedi riconvertiti alla socialità – rimanda ad una proposta politica: l’abbandono di una visione organica, unitaria e tecnicistica del territorio e delle sue funzioni a favore di una nuova centralità dei soggetti e delle loro pratiche, soggetti sempre più plurali, diversi, differenziati sia dal punto di vista delle origini e delle culture sia in termini di generazione, genere, classe, stili di vita, tempi, accesso alle risorse e gestione del potere.

La retorica della città ‘multiculturale’ imperversa quasi ovunque, alternando spesso la descrizione di scenari catastrofici con appelli paternalistici in difesa di diversità congelate, stereotipate. Un’idea altra di città – la città bene comune - colloca invece al centro i soggetti con le loro molteplici determinazioni; e guarda ai luoghi e alle pratiche ‘marginali’ come possibilità di riappropriarsi e di trasformare l’imperativo oggi dominante della legge e dell’ordine, a servizio di un altro imperativo con cui si modella la vita urbana contemporanea, ‘consumare e produrre’. Diversi soggetti collettivi, i/le migranti in primo luogo, stanno già rinegoziando l’utilizzo e il significato dello spazio urbano imposto dalla norma e dal senso comune predominante; pratiche di utilizzo e riappropriazione materiale e simbolica che sono quotidianamente davanti ai nostri occhi, dall’occupazione di spazi abitativi ai ritrovi in luoghi pubblici riconvertiti dal desiderio di socialità. Invece del ritorno alla normalità, chiediamo che questi soggetti, le loro pratiche e i loro modelli, siano inclusi in quel processo incessante di negoziazione che dovrebbe essere alla base della costruzione della territorialità e dei legami sociali che la definiscono. Dai margini e attraverso i margini ci arrivano molteplici pratiche di disobbedienza urbana e autorganizzazione che contribuiscono ad aprire spiragli per l’immaginazione di città diverse, plurali: "le variegate domande di fruizione degli spazi urbani, i conflitti attorno ai suoi molteplici possibili usi, sono dunque buoni indicatori del cambiamento sociale in corso e rimandano all’insieme dei nuovi significati che le nostre città oggi sono chiamate ad accogliere" (Paolo Cottino).

Perché ciò avvenga sono indispensabili spostamenti che coinvolgono processi materiali e simbolici, al centro dei quali vi è la necessità di riconoscere nell’altro/a – nelle sue variegate articolazioni – un soggetto che attivamente partecipa dal basso alla ridefinizione delle regole, dei significati e delle politiche del vivere cittadino. Tradotto in ambito urbano implica di favorire l’organizzazione della diversità piuttosto che l’estensione dell’uniformità; il valore della pluralità piuttosto che la sintesi uniformante; il riconoscimento dell’irreversibilità dei processi di complessificazione della società e delle città non in termini di frammentazione ma di riconoscimento che include conflitti, tensioni e cambiamenti.

QUINTA PROPOSTA: LA CITTÀ ACCESSIBILE.

Le città ,"in cui quasi tutti sono venuti da un altro luogo" (Anne Michaels ), devono offrire luoghi di incontro e socialità per nuovi modi di vivere. Se si guarda al fenomeno della trasformazione della città dal punto di vista dell’insediamento, si pone la questione della definizione dei modi stessi dell’abitare delle comunità accolte, questione affrontata fino ad ora costruendo recinti reali e simbolici di emarginazione e sofferenza.

Eppure è esistita un'architettura moderna che ha elaborato il tema dell’abitare di massa, dando consistenza a programmi urbanistici, sorretti da strategie politiche, che propugnavano l’inserimento delle classi considerate subalterne nel corpo delle città, come ad esempio la Garbatella romana degli anni Venti, costruita da Innocenzo Sabbatini e altri, e l'intervento di edilizia sovvenzionata destinato a ceti popolari, come il Tiburtino III, che Mario Ridolfi e Ludovico Quaroni costruirono in anni di attuazione del Piano Fanfani attraverso lo strumento dell’INA Casa. Oggi si tratta di comprendere che la modalità dell’accoglienza di popoli altri – fuori dell'emergenza - obbliga a pensare nuovi modi di vita collettiva: nuova tipologia dell’abitazione, nuovi disegni di impianto per le aree di risanamento, nuovo rapporto tra alloggi e servizi.

La storia della città si è depositata nella sua forma: i rapporti - con il potere di turno, e tra poteri - sono più o meno leggibili dietro l'insieme delle costruzioni, così come gli obiettivi sociali. In questa scena ogni abitante è molto simile ad uno spettatore inserito in uno spazio esistente (strade, piazze, palazzi, case, ecc.) che stimola l'interazione, la riflessione, la conoscenza, in una pluralità di forme e modalità di cui non possiamo predeterminare gli effetti. La città è così – di per sé - uno spazio pubblico, interpretato attraverso il vissuto di chi lo abita. Ma lo spazio pubblico – che non nasce mai come condiviso, spartito, comune - è continuamente attraversato da confini, conflitti e dialettiche più o meno asfittiche. Dunque la città c'invita a riflettere non per definire in senso astratto lo spazio pubblico, ma per vederlo costruito relazionalmente nella situazione concreta in cui, di volta in volta, si dà. Dunque la città come spazio pubblico è uno spazio eminentemente esposto, donato, inassimilabile alle logiche proprietarie, eppure mai definitivamente salvo come mostrano la storia e la cronaca dei nostri tempi

Al di là di come gli individui siano posizionati nello spazio della città, la periferia può essere ovunque, legata com'è alla distribuzione disuguale delle risorse fisiche, sociali, economiche, culturali e ambientali: periferia come rappresentazione di un vivere dimezzato simile allo stare in una riserva come versione più discreta di un vecchio ghetto.

In questo senso la città è un organismo vivente, è un'unità ricca e complessa e l'altrove (classi, generi, culture) comincia qui. Di fronte all'altrove sentito come pericolo, si possono creare "città fortezza", oppure delineare città accessibili. Rendere accessibile la città significa, nel suo significato più profondo, il prevalere di una centralità per le persone di ogni età: si riconoscono così i corpi, le specificità dell'appartenere a generi e generazioni differenti, le diversità dei percorsi e scelte di vita, le culture di origine di chi viene da fuori, la creatività e l'immaginario individuale e collettivo.

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