loader
menu
© 2024 Eddyburg
«È chiaro che siamo di fronte alla liqui­da­zione del diritto del lavoro – alla sua equi­pa­ra­zione nel migliore dei casi al diritto com­mer­ciale – e dei diritti dei lavo­ra­tori, con­si­de­rati sia sin­go­lar­mente che col­let­ti­va­mente».

Il manifesto, 7 ottobre 2015

Era già nell’aria. Ma ora la minac­cia si fa con­creta e immi­nente. Il governo Renzi si appre­sta a rifi­lare un uno-due al movi­mento sin­da­cale ita­liano, tale, per dirla con l’efficacia di Umberto Roma­gnoli, da farlo scom­pa­rire senza nep­pure darsi la pena di abrogarlo.

Da un lato il governo lavora per sna­tu­rare e limi­tare il diritto di scio­pero. Esso, con­tra­ria­mente alla nostra Costi­tu­zione, non sarebbe più un diritto in capo al lavo­ra­tore, ma un atto con­sen­tito solo a sin­da­cati aventi un certo livello di rap­pre­sen­tanza e di con­senso tra i dipen­denti. Si parla del 20–30 per cento in luogo del 50 voluto da Ichino. Ma la sostanza non cam­bie­rebbe. Il gri­mal­dello sarebbe la que­stione della «rap­pre­sen­tanza», vec­chio nodo irri­solto. Solo che qui si parla di una rap­pre­sen­tanza rove­sciata. Non quella rispetto ai lavo­ra­tori, in base alla quale si dovrebbe giun­gere all’ovvia con­clu­sione che almeno gli accordi per avere vali­dità erga omnes dovreb­bero essere appro­vati da un voto refe­ren­da­rio di tutti i lavo­ra­tori cui si rife­ri­scono. E magari boc­ciati, come è suc­cesso recen­te­mente alla Fca di Mar­chionne negli Usa. Ma quella rispetto ai datori di lavoro, ovvero la garan­zia che ciò che le sigle sin­da­cali fir­mano diventi per ciò stesso norma impo­sta a tutti, senza altri fastidi. Dall’altro lato il governo Renzi vuole scri­vere di pro­prio pugno le regole della contrattazione.

Senza nep­pure il parere delle orga­niz­za­zioni sin­da­cali e della Con­fin­du­stria, che comun­que con Squinzi si alli­nea pre­ven­ti­va­mente. L’occasione sarebbe for­nita da uno dei decreti dele­gati del Jobs Act. Qui il piede di porco sarebbe dato dalla intro­du­zione del sala­rio minimo legale, essendo l’Italia uno dei pochi paesi a non averlo nella Ue. Gra­zie a que­sto si can­cel­le­rebbe la con­trat­ta­zione sala­riale nazio­nale e quindi si toglie­rebbe linfa vitale al con­tratto col­let­tivo nazio­nale di lavoro, men­tre l’incremento sala­riale sarebbe abban­do­nato alla con­trat­ta­zione azien­dale – per chi se la può per­met­tere -, ma vin­co­lato agli aumenti di pro­dut­ti­vità.

Met­tendo insieme i due ele­menti qui descritti è chiaro che siamo di fronte alla liqui­da­zione del diritto del lavoro – alla sua equi­pa­ra­zione nel migliore dei casi al diritto com­mer­ciale – e dei diritti dei lavo­ra­tori, con­si­de­rati sia sin­go­lar­mente che col­let­ti­va­mente. Al più grande e orga­nico attacco al movi­mento ope­raio mai por­tato nel nostro paese. Non solo. Tutto ciò si accom­pa­gne­rebbe alla azien­da­liz­za­zione del wel­fare state, poi­ché alla con­trat­ta­zione azien­dale ver­rebbe affi­data anche quella per la sanità e gli altri isti­tuti di wel­fare integrativi.

Inten­dia­moci, non è il sala­rio minimo ora­rio ad essere di per sé il respon­sa­bile di que­sta per­fida costru­zione. La sua intro­du­zione in tutt’altro qua­dro sarebbe posi­tiva. Anche fatta per legge, dal momento che, per para­fra­sare i giu­ri­sti, avver­rebbe con quel «velo di igno­ranza» verso la strut­tura con­trat­tuale, non diven­tando così il pre­te­sto per sman­tel­larla. In effetti al gio­vane, o meno gio­vane o all’immigrato, che non è pro­tetto da un con­tratto col­let­tivo nazio­nale, sapere che almeno sotto un certo livello di paga non è legale scen­dere è un ele­mento di difesa. Con il pre­gio della uni­ver­sa­lità. Su que­sta base si potrebbe imma­gi­nare una riforma della con­trat­ta­zione tale da ridurre gli attuali 380 con­tratti col­let­tivi nazio­nali a quei 5 o 6 in set­tori fon­da­men­tali entro i quali con­cen­trare le forza per otte­nere dal punto di vista retri­bu­tivo e nor­ma­tivo misure accre­sci­tive, da miglio­rare poi in un even­tuale con­trat­ta­zione di secondo livello.

Di que­sto si parla da tempo nelle orga­niz­za­zioni sin­da­cali. In par­ti­co­lare per merito della Fiom. Se non se ne è venuto a capo le respon­sa­bi­lità, è inu­tile nascon­der­selo, sono anche interne al movi­mento sin­da­cale, sia per quanto riguarda l’aspetto della rap­pre­sen­tanza, ove il sin­da­cato degli iscritti modello Cisl si è scon­trato con il sin­da­cato di tutti i lavo­ra­tori mutuato dai momenti migliori della sto­ria del movi­mento sin­da­cale; sia per quanto riguarda il tema del sala­rio minimo, ove la paura di per­dere ruolo ha para­liz­zato ogni proposta.

Il governo ne appro­fitta per cer­care di can­cel­lare del tutto con­trat­ta­zione e sin­da­cato. Rea­gire con uno scio­pero gene­rale sarebbe necessario.

Le ragioni dell'urgenza di uscire dalla "crisi della sinistra e della necessaria centralità della questione del lavoro. Ma è sufficiente oggi ragionare dall'interno della logica del capitalismo e della sua concezione del lavoro?

Il manifesto, 21 agosto 2015

La sini­stra è in una crisi sto­rica e, direi, mon­diale. Su que­sto tema è in corso sul mani­fe­sto (che si defi­ni­sce ancora “quo­ti­diano comu­ni­sta”) un’utile ricerca, «C’è vita a sini­stra ?», avviata in luglio e che dovrebbe por­tarci almeno all’abbozzo di una con­clu­sione sulla base degli inter­venti pub­bli­cati e in arrivo.

Sap­piamo bene che da una crisi, spe­cie se grande e pesante, non se ne esce restando come prima e i rischi di andare al peg­gio sono forti. Già con Renzi pre­vale la poli­tica di destra: la pro­spet­tiva è che o resi­ste accre­scendo il suo potere per­so­nale o sarà sca­val­cato da un’avanzata delle forze dichia­ra­ta­mente di destra. Le crisi sono una cosa seria.

Non si ricorda mai abba­stanza che dopo la rivo­lu­zione russa del 1917 e le grandi lotte ope­raie in tutta Europa, ci fu una rispo­sta rea­zio­na­ria con il fasci­smo e il nazi­smo che acqui­sta­rono forza con la crisi del l929 e matu­ra­rono le con­di­zioni per la Seconda Guerra Mondiale.

Nel secondo dopo­guerra ci fu un grande svi­luppo eco­no­mico anche in Ita­lia ( il famoso mira­colo ita­liano) accom­pa­gnato da un’avanzata della sini­stra. Ma durò poco. Già con gli anni ’80 comin­cia a matu­rare l’attuale gra­vis­sima crisi nella quale siamo oggi: dell’economia della poli­tica, e, direi anche della cultura.

Per ten­tare una ripresa della sini­stra, ci vuole una buona ana­lisi dell’attuale crisi; senza una seria dia­gnosi non si cura una malat­tia. E biso­gna anche chie­dersi per­ché con la forte disoc­cu­pa­zione, soprat­tutto gio­va­nile, non ci siano lotte e pro­te­ste, i sin­da­cati sono inde­bo­liti e anche la buona ini­zia­tiva di Lan­dini fa fatica a decol­lare. Senza con­tare che oggi, il ruolo ammor­tiz­za­tore delle fami­glie si sta esaurendo.

L’attuale pesan­tis­sima crisi ha cause strut­tu­rali da ricer­care, come sosten­gono impor­tanti eco­no­mi­sti, nella glo­ba­liz­za­zione e nel pro­gresso tec­nico. La glo­ba­liz­za­zione, con la rapida cre­scita della comu­ni­ca­zione com­porta l’ingresso sul mer­cato di indu­strie di paesi a bassi salari come la Cina che con la recente sva­lu­ta­zione riduce i prezzi del suo pro­dotto, attira gli inve­sti­menti dei paesi indu­stria­liz­zati (da leg­gere un altro edi­to­riale di Romano Prodi sul Mes­sag­gero del 15 ago­sto). Il pro­gresso tec­nico – e non da oggi - riduce l’importanza del lavoro vivo e pro­duce disoc­cu­pa­zione.

Due effetti assai forti che col­pi­scono soprat­tutto il lavoro vivo e, quindi, anche la sog­get­ti­vità stessa dei lavo­ra­tori, e che met­tono in evi­denza come il pro­gresso tec­nico che in regime socia­li­sta (o non capi­ta­li­sta) miglio­re­rebbe le con­di­zioni di tutti, in regime capi­ta­li­stico pro­voca disoc­cu­pa­zione, mar­gi­na­liz­za­zione e mise­ria da una parte e con­cen­tra­zione del potere e della ric­chezza in un ristretto e potente gruppo di capi­ta­li­sti finan­ziari dall’altra.

Que­sta del pro­gresso tec­no­lo­gico nemico strut­tu­rale del lavoro vivo è sto­ria antica e non pos­siamo dimen­ti­care che l’avvio dell’industrializzazione capi­ta­li­stica in Inghil­terra diede vita al movi­mento lud­di­sta che con­te­stava l’introduzione delle mac­chine. Allora il lud­di­smo fu tra­volto dallo svi­luppo e dalla cre­scita della pro­dut­ti­vità. Ma fu bat­tuto anche dalle lotte ope­raie per il miglio­ra­mento delle con­di­zioni di lavoro e, soprat­tutto, dalle pro­gres­sive ridu­zioni dell’orario (va ricor­data la con­qui­sta delle dieci ore e poi delle attuali otto ore mai più ridotte da quasi un secolo).

Oggi di fronte alla attuale gra­vis­sima crisi e alla disoc­cu­pa­zione in cre­scita, biso­gna rimet­tere al primo posto ( ma per alcuni è un con­tro­senso) la ridu­zione dell’orario, anche se il lavoro nei paesi che entrano oggi sul mer­cato glo­bale è sot­to­pa­gato, con orari otto­cen­te­schi e con­tra­sta con que­sta riven­di­ca­zione. Si tratta ora di rove­sciare l’uso che il capi­ta­li­smo fa del pro­gresso tec­nico ma ricor­dare anche che le pro­gres­sive ridu­zioni dell’orario hanno con­tri­buito alla cre­scita dei con­sumi e dello stesso mer­cato. Oggi una ridu­zione dell’orario di lavoro penso che gio­ve­rebbe anche ai capi­ta­li­sti che con la finanza si arric­chi­scono, ma rischiano di affogarvi.

La ridu­zione del tempo impe­gnato nel lavoro dipen­dente accre­sce­rebbe il cosid­detto “tempo libero”, che oltre a miglio­rare le con­di­zioni di vita darebbe spa­zio a nuovi con­sumi, a nuove spese diven­tando così anche un fat­tore di cre­scita del mer­cato e della società. Anche i capi­ta­li­sti dovreb­bero aver capito che se il popolo sta meglio i loro affari miglio­re­ranno. Ma i capi­ta­li­sti temono da sem­pre che la cre­scita della libertà del mondo del lavoro riduca, quasi auto­ma­ti­ca­mente il pro­prio potere poli­tico ed economico.

Ma vogliamo aspet­tare che siano i capi­ta­li­sti a pro­porre la ridu­zione dell’orario di lavoro? Oggi, anche per­ché la disoc­cu­pa­zione cre­sce e nel mondo del lavoro cre­sce non solo la domanda di sala­rio, ma anche quella di libertà e di cul­tura, la ridu­zione dell’orario di lavoro, e la gestione del “tempo libero”, que­sto immenso spa­zio da con­qui­stare e orga­niz­zare, dovrebbe diven­tare l’obiettivo sto­rico della classe ope­raia, dei suoi sin­da­cati e delle forze che dicono di volerla rappresentare.

Quindi una strategia unitaria non è affatto impossibile se si mette al centro il lavoro e se si fanno ruotare attorno ad esso gli altri strumenti configurando, così, un lavoro di cittadinanza, un diritto -dovere, che connette esercizio della cittadinanza attiva e reddito di cittadinanza». Il manifesto, 14 agosto 2015 (m.p.r.)

Il decalogo del manifesto suggerendo alcuni nodi che impediscono il decollo di una nuova sinistra ci chiama ad intervenire dove ci sono carenze di analisi da colmare o punti di vista diversi da avvicinare. Al punto 6 tre domande da brivido: Chi sono oggi i lavoratori? Cosa è il lavoro? Come e quanto viene riconosciuto? Il solo fatto di porle significa riconoscere che la crisi investe le ragioni fondative del nostro essere. Ed infatti è cambiato tutto.

È cambiato il lavoro in sé, è cambiata la sua composizione interna. Si è ridotto il lavoro prevalentemente agro-industriale, concentrato in aggregati fisicamente riconoscibili. Si è dilatato enormemente quello nei servizi più disparati, alle persone, alle comunità, alle imprese, in piccola parte concentrato, in gran parte sparpagliato. Sono diminuiti i lavori manuali e pesanti e si sono moltiplicati lavori "leggeri", alcuni intellettuali e professionalizzati, molti altri fortemente banalizzati. È cambiata la distribuzione geografica del lavoro. Attività prima tipiche del mondo industrializzato si sono spostate nei paesi emergenti e si è prodotto uno straordinario rimescolamento per cui nei paesi arretrati emergenti, accanto a forme arretrate di agricoltura e di industria pesante, si sviluppano forme produttive tecnologicamente tra le più avanzate al mondo. Questo mentre nei paesi avanzati si ripresentano forme di schiavismo. Nei primi si avanza conquistando faticosamente nuovi diritti, nei secondi si arretra faticando a difendere quelli esistenti.
Sono venuti meno anche aspetti formali e contenutistici che prima definivano ed identificavano la prestazione lavorativa: lavoro materiale e lavoro immateriale, lavoro per dovere e lavoro per piacere, lavoro autonomo e lavoro dipendente, tempo di lavoro e tempo di vita, lavoro per il mercato per creare valori di scambio e lavoro per creare valori d’uso, oggi, si toccano, si contagiano, si mescolano confondendo identità, soggettività, appartenenze. In molti casi identità diverse si confondono e miscelano in una stessa persona. Ma c’è un cambiamento ancora più rilevante che riguarda il rapporto tra lavoro e non lavoro: se prima il non lavoro costituiva l’anticamera del lavoro, oggi, le società più avanzate alle quali apparteniamo, si qualificano sempre di più come jobless society, società senza lavoro o con lavoro decrescente e le stesse analisi teoriche prevedono una stagnazione secolare.
Non è un caso che i diversamente disoccupati, attivamente in cerca di lavoro e scoraggiati, toccano i dieci milioni in Italia e che la disoccupazione è a livelli record in tutta Europa. Questo introduce nello scenario descritto ulteriori cambiamenti e fa nascere altre domande: è possibile ipotizzare da sinistra una ripresa economica che ambisca ad una piena e buona occupazione? E, mentre si lotta per questo, quale risposta dare a chi sta fuori dal lavoro? Si può ricorrere a strumenti, temporanei o strutturali, come la redistribuzione del lavoro o il reddito di cittadinanza? Nella mutazione in corso, si è rotto anche quel matrimonio che sembrava indissolubile tra lavoro e reddito: non c’era lavoro senza reddito, non c’era reddito senza lavoro. Oggi da un lato lavorare non è più condizione sufficiente per avere un reddito (proliferano tante forme di lavoro gratuito sulle quali il manifesto si è soffermato) e dall’altro si diffonde la convinzione che il reddito è un diritto a prescindere dal lavoro, un diritto di cittadinanza.
Tra queste due posizioni estremizzate, lavoro senza reddito e reddito senza lavoro, si collocano a sinistra posizioni ed orientamenti diversi che attraversano partiti, sindacato, economisti di sinistra. Insomma questo è uno dei nodi che ostacolano il decollo di una nuova sinistra. L’idea di un reddito di cittadinanza si è concretizzata in una convergenza parlamentare tra parti del Pd, Sel e M5S, ma esistono differenze non di poco conto con le posizioni del movimento sindacale presenti nel Piano del Lavoro della Cgil e ribadite da Laura Pennacchi anche nel suo ultimo libro Il soggetto dell’economia. In questo testo si afferma che il neoliberismo va verso la disoccupazione di massa e si vede nelle proposte di reddito di cittadinanza un rischio di abdicazione e rinuncia, di accontentarsi di un risarcimento di un lavoro che non c’è o addirittura di introdurre un Welfare per la non piena occupazione.
Siamo in presenza, perciò, a sinistra, di posizioni diverse che riflettono evidentemente diverse visioni dello sviluppo e del futuro e scale di priorità differenti. Si possono far incontrare queste posizioni per delineare un disegno organico, una strategia credibile della sinistra? Penso che sia possibile se da ciascuna posizione si estrae il meglio senza forzarla per confermare la propria. Ad esempio le proposte di reddito di cittadinanza collegano la percezione del reddito alla disponibilità ad accettare offerte di lavoro che dovrebbero essere proposte dagli uffici del lavoro. Non sono, quindi proposte puramente assistenziali. E così la proposta di dare priorità e centralità a Piani del lavoro non esclude forme di sostegno economico alle situazioni più disagiate senza lavoro né scarta riduzioni di orari di lavoro che possono intervenire in seguito a contratti di solidarietà, aziendali o territoriali.
Quindi una strategia unitaria non è affatto impossibile se si mette al centro il lavoro e se si fanno ruotare attorno ad esso gli altri strumenti configurando, così, un lavoro di cittadinanza, un diritto -dovere, che connette esercizio della cittadinanza attiva e reddito di cittadinanza. Speriamo che il dibattito aperto dal manifesto spinga i diversi protagonisti ad intervenire ed a ricercare insieme quella sintesi unitaria che è sempre più urgente. Anche perché, nel frattempo, il governo spreca una diecina di miliardi per agevolazioni a pioggia sul lavoro che producono una bolla mediatica che dura due mesi e poi si sgonfia con la stessa velocità con cui era nata. Aggiungendo al danno la beffa: una piccola parte dei giovani crede alla promessa, esce dal mondo degli scoraggiati e si affaccia al mercato del lavoro, ma il lavoro non lo trova e finisce per ingrossare le file di disoccupati che, come è noto, si calcolano sulle forze di lavoro. Così invece di creare nuova occupazione si creano nuove disillusioni e la strada per una nuova sinistra diventa sempre più in salita.
Recensione preziosa, libro da leggere: perché nel pieno della crisi del finanzcapitalismo non emerge la prospettiva del superamento di quel devastante “modello di sviluppo”? Una nuova idea del lavoro come questione essenziale da affrontare.

Il manifesto, 30 luglio2015

Nel suo ultimo libro Il soggetto dell’economia, pubblicato da Ediesse, l’autrice Laura Pennacchi sventaglia le motivazioni per cui il neoliberismo, fallimentare già da tempo, ha resistito e troneggia in Europa come unica forma di governo possibile.

C’è una domanda cruciale che si aggira negli ambiti di quella che possiamo chiamare – senza per ora migliore specificazione — la sinistra di alternativa in Europa e nel nostro paese. Laura Pennacchi la pone nelle prime pagine del suo ultimo lavoro (Il soggetto dell’economia. Dalla crisi a un nuovo modello di sviluppo, Ediesse, Roma 2015, pp. 318, euro 16,00) con queste parole: «perché il neoliberismo – di cui gli eventi del 2007/2008 avevano sancito il fallimento sul piano teorico – si è mostrato così resiliente nel tempo, continuando imperterrito a informare di sé le politiche e le scelte pratiche?».

Rispondere non è facile, eppure bisogna riconoscere che qui sta, non la, ma certamente una delle chiavi – anche perché le porte da aprire non sono poche – che permettono di comprendere le ragioni profonde della crisi della società contemporanea e della sinistra in particolare.

Non c’è dubbio che perderemmo tempo se enumerassimo le dichiarazioni, le dimostrazioni, persino le auto confessioni che forniscono le prove di quel fallimento. Valga una per tutti. Wolfgang Munchau, in una intervista a un giornale italiano di qualche tempo fa, si dimostrava allibito che «un economista del calibro di Mario Monti abbia potuto firmare un trattato (quello sul Fiscal Compact) che, se applicato alla lettera, porterà l’Italia al fallimento: ridurre al 60% il debito in venti anni significa andare incontro a una recessione che sottrarrebbe il 30–40% del Pil nello stesso periodo. Un disastro, e la fine dell’euro».

Altro che «stagnazione secolare», di cui si parla con maggiore insistenza nel dibattito economico! Si potrebbe dire – come ha scritto altrove Fausto Bertinotti – che il re è nudo, ma è ancora stabilmente sul trono e continua a comandare. Almeno qui, in Europa, dove non a caso la crisi economica e sociale è più grave e non se ne vede via d’uscita.

Crepe nella Troika

La vicenda greca costituisce il disvelamento più clamoroso e recente, ma non l’unico, di questa realtà. Che la condizione del paese e del popolo greci siano peggiorate, da ogni punto di vista, ivi compreso quello della quantità del debito, è questione che nessuno discute. Eppure l’accordo imposto a Tsipras ribadisce, in parte anche peggiorandole e indurendole, le stesse ricette. Ciò che non ha funzionato prima, può farlo ora in condizioni peggiori? Evidentemente no, basta una logica elementare ad escluderlo.

Perfino il Fondo monetario internazionale lo ribadisce, aprendo così una crepa nel monolite della Troika (risultato non trascurabile della tenacia con cui il governo greco ha affrontato la lunga trattativa), quando afferma che senza il taglio del debito non c’è salvezza, perché la situazione debitoria della Grecia è destinata a riproporsi e in modo aggravato. Eppure vi è addirittura, e non solo a destra, chi esalta la lungimiranza presunta di Schäuble perché ha posto la Grecia di fronte all’aut aut: o fuori dall’euro (per un po’, ma preferibilmente per sempre) o accetti queste condizioni. Lo stesso documento dei cinque presidenti reso noto a fine giugno, firmato da Djisselblöm, da Draghi, da Juncker, da Tusk, da Schulz e giudicato irritante persino da un uomo come Fabrizio Saccomanni ex ministro ed ex direttore generale di Bankitalia, ribadisce una linea di galleggiamento della Ue che sconta l’abbandono possibile dei paesi in difficoltà, pur di non rimuovere le politiche neoliberiste del rigore.

Come si vede, sempre in questa vicenda, grandi sono le responsabilità della socialdemocrazia europea – anche se per fortuna non vi è un comportamento omogeneo in tutti i paesi — quella tedesca in prima fila. Il paragone con il voto dei crediti di guerra è certamente forzato, come lo sono tutti i parallelismi storici, ma è quello che più si avvicina per gravità all’attuale comportamento socialdemocratico impegnato a sostenere la politica del rigore, a volte scavalcando a destra i suoi propugnatori come ha fatto Gabriel nei confronti della stessa Merkel.

Eppure non si potrebbe rispondere alla domanda di cui sopra, e infatti l’autrice non lo fa, semplicemente sostenendo che il neoliberismo ha trovato solidi alleati da un lato e il ventre ancora troppo molle della sinistra antagonista dall’altro e che ciò sarebbe sufficiente per spiegare la sua buona salute e la sua sopravvivenza ai propri disastri economici e politici.

Il concorso delle discipline

Laura Pennacchi tenta con questo suo più recente lavoro un percorso ambizioso. Considerando troppo angusti i confini della «scienza triste» per spiegare la situazione e tracciare delle nuove terapie, vuole mettere in campo una affascinante multidisciplinarietà per aggredire e destrutturare le basi della dottrina economica dominante. Ecco quindi che la ricerca non si limita al campo delle teorie economiche, ma attraversa anche quelli della filosofia, dell’antropologia, della sociologia. Questo rappresenta una nuova sfida per l’autrice, un elemento di novità rilevante, perlomeno in queste dimensioni, rispetto a precedenti lavori e certamente un fattore di particolare godimento intellettuale per il lettore. Infatti sta qui forse il maggiore valore del libro.

Cercare di riunificare mentalmente e metodologicamente le settorialità e le specializzazioni del sapere è una precondizione indispensabile per stroncare il pensiero unico, per ricostruire una critica dell’economia politica all’altezza dei tempi, per fare rinascere una cultura di sinistra. Ne nasce un percorso di scrittura nel quale l’erudizione e la formidabile ampiezza dei puntuali riferimenti ad altre autrici e autori non sono mai ostentati – come purtroppo spesso capita ad altri — ma funzionali alla costruzione di un discorso.
Non tutti i giudizi che l’autrice dà sulle opere altrui sono perfettamente condivisibili. Alcuni sembrano un po’ troppo tranchant. Per esempio sui lavori di Dardot e Laval che meriterebbero una più accurata disamina e non sono accostabili in tutto e per tutto a certe semplificazioni che circolano abbondantemente sul tema del «comune». Questo percorso, partendo dalla analisi delle principali componenti del neoliberismo, individuate nella finanziarizzazione, nella mercificazione (anche se l’autrice preferisce il termine inglese commodification), nella denormativizzazione, ci conduce fino alla proposta di un nuovo modello di sviluppo fondato su un neoumanesimo che sconfigge la dimensione mutilata e alienata dell’homo oeconomicus.

Su tutti questi tre lati gli argomenti portati sollecitano riflessioni importanti. In particolare, meriterebbe un approfondimento il tema della «denomormativizzazione», su cui del resto i giuristi sono da tempo impegnati. In realtà non siamo solo di fronte ad un abbattimento di regole e norme appartenenti alla seconda metà dello scorso secolo, ma anche — e soprattutto nell’ultima fase — ad una pericolosa «rinormativizzazione» secondo i principi della più pura a-democrazia. Nel caso europeo questo è molto evidente.

La politica insidiosa

Da diverso tempo a questa parte la Ue si è data, attraverso un percorso produttivo di nuove norme e trattati, come il già citato fiscal compact, un robusto e complesso sistema di governance. Questo sistema detta nuove norme agli stati membri, fino a modificare le loro Costituzioni in punti rilevanti. Come nel caso italiano ove la modifica dell’articolo 81 ha introdotto il pareggio di bilancio in Costituzione. Dire oggi, come purtroppo non è infrequente udire anche in discorsi altolocati quanto vuoti, che all’Europa mancherebbe un governo, è una pura sciocchezza. Come anche dire che l’Europa è governata solo dalle leggi dell’economia e che la politica è fuori dalla porta.

La politica democratica certamente, ma non la politica tout court. Mario Draghi, in un discorso tenuto all’Università di Helsinki, nel novembre del 2014, affermava che: «una diffusa erronea concezione sull’Unione Europea – e la zona euro – è che esse siano unioni economiche senza una sottostante unione politica. Ciò riflette un profondo equivoco di cosa significhi unione economica: essa è per sua natura politica». Egli ci ricorda una verità sostanziale, curvandola però al suo punto di vista: che il capitalismo, anche nella sua versione più dichiaratamente liberista, non esiste – e non è mai esistito aggiungono gli storici dell’economia come Marc Bloch — senza il supporto dello Stato. Il percorso fin qui fatto dall’Europa è stato solo apparentemente puramente economico. È vero che si è cominciato dal carbone e dall’acciaio. Ma, appunto, quella era economia reale, da cui muoveva un certo tipo di governance politica. Ora siamo dentro un’economia dominata dalla finanza e la sua governance politica è imperscrutabile e impermeabile al volere popolare quanto lo sono le sue istituzioni economiche. Ma non per questo non esiste. Un mondo di interessi

Le cose non vanno meglio se si esce dal nostro continente. Grazie all’apporto dei voti socialdemocratici ha fatto altri passi in avanti il famigerato Ttip, l’accordo «commerciale» tra Usa e Ue. Al suo interno è prevista la possibilità che le multinazionali facciano ricorso contro stati o enti locali se questi attuano provvedimenti che possono limitare la vendita dei loro prodotti o essere considerati lesivi della loro libertà commerciale. La questione non verrebbe risolta nei tribunali ma in sede extragiudiziale, tramite una cupola di superesperti chiamati a dirimere il contenzioso.

Si deregolamenta e si annichilisce il ruolo della giustizia e delle sue proprie sedi da un lato; dall’altro si costruisce un’impalcatura totalmente estranea alle logiche democratiche e coerente con la supremazia degli interessi dell’impresa identificati come interesse generale non della nazione ma di un intero continente e sistema mondo.

Per questa ragione la risposta non può che essere politica, ma non politicista. Deve contenere una proposta di nuovo modello di sviluppo e una nuova e coerente idea di democrazia, di società, di persona.

È vero, la terminologia – nuovo modello di sviluppo — qui usata è un po’ d’antan. Le parole sono consumate, come i sassi di Gino Paoli, dal tempo e soprattutto dal pessimo uso fattone. Ma non vi è altro termine più preciso, perlomeno non ancora, per indicare che non solo di distribuzione della ricchezza esistente bisogna occuparsi, anche se con criteri innovativi e trasformativi degli attuali assetti, come nel caso del basic income, ma soprattutto di radicale modificazione degli oggetti, delle finalità e delle modalità della produzione.

Dalla crisi più lunga di sempre non si esce rilanciando vecchi modelli produttivi, ma con una rivoluzione strutturale che indirizzi la produzione verso la soddisfazione dei bisogni basici e maturi delle popolazioni. Con un ruolo fondamentale del pubblico. Se alcuni prevedono una ripresa senza lavoro, la nuova sinistra non può accettare l’idea di una jobless society.

Il tema della ricerca della piena e buona occupazione va quindi ripensato, ma non espunto. La risoggettivizzazione dell’agente economico — per usare le parole di Laura Pennacchi -, la ricostruzione del nuovo soggetto dell’economia non possono avvenire senza una rivalorizzazione del lavoro in tutte le sue antiche e più moderne forme. Il capitalismo ha mostrato nella sua lunga storia di avere diverse facce. È dunque «riformabile», ma all’interno del suoi confini e ai suoi fini riproduttivi. Il suo superamento, la trasformazione, non può avvenire senza soggetti forti, resistenti a

Riferimenti

Sulla questione del lavoro vi sono su eddyburg numerosi scritti. Un primo tentativo di compilare una "visita guidata" sul tema è nel testo "il lavoro su eddyburg", del 2012. In attesa di un aggiornamento e completamento numerosi altri articolo sull'argomento sono raggiungibili nelle cartelle Temi e principi/Lavoro e "Il capitalismo d'oggi"

Luciano Gallino, Piero Bevilacqua, Alfonso Gianni,Tonino Perna, Guido Viale. E, dietro di loro le grandi ombre di Franklin Delano Roosvelt, John Maynsrd Keynes e, qui in Italia, Giuseppe Di Vittorio. Ancora troppo pochi per far prevalere un'idea giusta?

Il manifesto, 23 luglio 2015

È in corso in Europa una con­ver­genza mici­diale: una spinta nazio­na­li­stica e iden­ti­ta­ria ali­men­tata dalla crisi dell’euro e dal rigetto della buro­cra­zia delle sue strut­ture; l’insofferenza verso i pro­fu­ghi, in fuga dalla guerra, ma sem­pre più dif­fi­cili da distin­guere dai pro­fu­ghi ambien­tali o dai “migranti eco­no­mici”; il cini­smo con cui governi e auto­rità dell’Unione hanno fatto qua­drato con­tro il ten­ta­tivo del governo greco di cam­biare le regole dell’austerity, equi­pa­ran­done l’operato a una colpa o a mani­fe­sta inferiorità.

C’è molto raz­zi­smo in tutti e tre que­sti pro­cessi: il gior­nale filo­go­ver­na­tivo tede­sco Die Welt ha giu­sti­fi­cato le sue accuse con­tro i greci soste­nendo che non sono i veri discen­denti degli anti­chi abi­tanti dell’Ellade, ma un miscu­glio di altre “razze”: tur­chi, alba­nesi, bul­gari. Tutte degne, ovvia­mente, di disprezzo.

Que­sta miscela esplo­siva è il frutto avve­le­nato delle poli­ti­che dell’Unione, ridotte a un feroce con­trollo ragio­nie­ri­stico dei conti degli Stati mem­bri. Sono scom­parse dal suo oriz­zonte tutte le grandi que­stioni: la lotta ai cam­bia­menti cli­ma­tici (unica strada, anche, per rilan­ciare occu­pa­zione e soste­ni­bi­lità eco­no­mica); le guerre, dall’Ucraina al Medio­riente; la dis­so­lu­zione sociale dell’Africa; i milioni di pro­fu­ghi pro­dotti da que­ste vicende.

Nes­suna delle idee o delle azioni messe in campo ha la capa­cità o l’intento di con­tra­stare quella mici­diale con­ver­genza di spinte auto­ri­ta­rie, iden­ti­ta­rie e raz­zi­ste. Ma tra tutte, cen­trale è ormai il pro­blema dei pro­fu­ghi. Se la rispo­sta ai ten­ta­tivi di Syriza ha unito nella comune fero­cia Stati e Governi, a spin­gere invece cia­scuno per la pro­pria strada, fatta di divieti, respin­gi­menti, bar­riere fisi­che e appelli iden­ti­tari, sono i profughi.

In quell’allontanamento reci­proco, tra governi comun­que d’accordo, c’è però una vit­tima sacri­fi­cale. Anzi due: Gre­cia e Ita­lia. Se non ver­ranno espulse dal club dell’euro, come certo vor­reb­bero Schäu­ble e i suoi tanti seguaci, a met­terle ai mar­gini dell’Unione sarà la scelta di con­dan­narle a essere pla­ghe su cui sca­ri­care il “peso” dei pro­fu­ghi che gli altri paesi non vogliono. Una nave inglese rac­co­glie nel Medi­ter­ra­neo cen­ti­naia di nau­fra­ghi e li sbarca in Ita­lia: «sono roba vostra». E’ la strada da seguire: la Fran­cia lo fa a Ven­ti­mi­glia; l’Austria al Bren­nero.

In que­ste con­di­zioni interne e inter­na­zio­nali non si può più pen­sare di trat­tare quei pro­fu­ghi come un’emergenza tem­po­ra­nea, mesco­lando improv­vi­sa­zione e sfrut­ta­mento delle cir­co­stanze nel modo più bieco (non solo con Buzzi e la sua rete, per­ché a fare le stesse cose è tutto l’establishment della cosid­detta acco­glienza in mano alle clien­tele del mini­stro degli interni). Il tutto a spese sia di pro­fu­ghi e migranti, sia di ter­ri­tori e comu­nità cui viene impo­sto senza pre­av­visi e pre­pa­ra­zione l’onere di una ospi­ta­lità mal­vi­sta e, nel migliore dei casi, mal sop­por­tata; ali­men­tando così rivolte in cui sguaz­zano le truppe fasci­ste e gli appelli vele­nosi per met­terle a pro­fitto elettorale.

Nes­suno ne vuol pren­dere atto, ma le guerre ai con­fini dell’Europa e la massa di pro­fu­ghi (oltre sei milioni) che preme su di essi ci dicono che il tempo della nor­ma­lità, quello a cui tutti vor­reb­bero tor­nare e che i poli­tici con­ti­nuano a pro­met­tere, è finito per sem­pre. Vanno messe all’ordine del giorno, pro­prio a par­tire dalla que­stione dei pro­fu­ghi, revi­sioni radi­cali a tutte le poli­ti­che: in campo eco­no­mico, ambien­tale, sociale, inter­na­zio­nale.

Per­ché i pro­fu­ghi e i migranti ambien­tali o eco­no­mici che sbar­cano in Ita­lia sono desti­nati ad aumen­tare, e molto, per quanto dure e spie­tate pos­sano essere le poli­ti­che di respin­gi­mento adot­tate. Che fare? Gestire la loro pre­senza in modo diverso è ine­lu­di­bile: non si dovrà più con­cen­trarli in grandi gruppi e imporne la pre­senza a comu­nità impre­pa­rate ad acco­glierli. Ci vogliono pro­getti mirati per distri­buirli su tutto il ter­ri­to­rio nazio­nale: con­di­zione irri­nun­cia­bile se non di inte­gra­zione, per lo meno di tol­le­ranza nei loro confronti.

Non si potrà più tenerli per mesi o per anni a far niente, accu­diti mala­mente, o in modo bru­tale, dal per­so­nale di coo­pe­ra­tive e società a scopo di lucro lar­ga­mente ina­de­guate: è degra­dante per la loro dignità, ma è anche uno schiaffo a chi vive accanto lavo­rando per cam­pare, o senza alcun sus­si­dio, se inoc­cu­pato. Per que­sto dovreb­bero poter auto­ge­stire la pro­pria per­ma­nenza e i rela­tivi fondi (i fami­ge­rati 35 euro al giorno); impe­gnarsi nella puli­zia, nella manu­ten­zione o nella ristrut­tu­ra­zione dei locali dove vivono, negli acqui­sti e nella pre­pa­ra­zione dei loro pasti, affi­dando a per­so­nale ita­liano, ade­gua­ta­mente pre­pa­rato, solo com­piti di soste­gno e con­trollo. E se la scuola si è rive­lata un potente mezzo di cono­scenza e tol­le­ranza reci­proca tra nativi e migranti, lavo­rare insieme avrebbe un’efficacia anche mag­giore. Per que­sto dovreb­bero poter lavo­rare in forme legali e retri­buite (il loro impe­gno nel volon­ta­riato, pro­mosso da alcuni sin­daci, è sì meri­to­rio; ma scon­fina con lo schia­vi­smo; o rischia di con­so­li­dare un mer­cato del lavoro parallelo).

Certo, anche solo pro­porre una poli­tica del genere in un paese con tre milioni di disoc­cu­pati uffi­ciali e nove effet­tivi sem­bra ere­sia; ma potrebbe rive­larsi un’opportunità straor­di­na­ria. Si potreb­bero costi­tuire coo­pe­ra­tive e imprese miste di migranti e disoc­cu­pati nativi (soprat­tutto gio­vani) per impe­gnarle nella rivi­ta­liz­za­zione di bor­ghi e ter­reni agri­coli mon­tani abban­do­nati, secondo una pro­po­sta già avan­zata da Alfonso Gianni e Tonino Perna svi­lup­pando idee di Piero Bevi­lac­qua; ma anche in tante atti­vità eco­lo­gi­ca­mente neces­sa­rie come la pro­te­zione dei suoli dal dis­se­sto, la ristrut­tu­ra­zione di edi­fici dismessi o non a norma, la puli­zia e la rina­tu­ra­liz­za­zione di spiagge e greti di fiumi, ecc. O coin­vol­gerli in atti­vità di assi­stenza a per­sone anziane o disa­bili, di istru­zione e adde­stra­mento (molti tra loro hanno pro­fes­sioni, mestieri e com­pe­tenze alta­mente qua­li­fi­cate) e in altri campi.

Ma chi paghe­rebbe? E’ lo stesso pro­blema che pon­gono i nove milioni di disoc­cu­pati e inoc­cu­pati ita­liani: non si può aspet­tare che ven­gano assor­biti da una ripresa fan­ta­sma e da imprese che, anche quando pro­spe­rano, con­ti­nuano ad “alleg­ge­rirsi” del loro carico di mano­do­pera. Ci vuole un piano gene­rale del lavoro come quello più volte pro­spet­tato da Luciano Gal­lino. Che col­lide fron­tal­mente con le poli­ti­che di auste­rity e di disarmo eco­no­mico impo­ste dall’Unione euro­pea; ma la pre­senza di tanti pro­fu­ghi e migranti è una ragione in più, e delle più serie, per pro­porsi di rove­sciarle, quelle poli­ti­che, azze­rando così anche tanti motivi di com­pe­ti­zione e ran­core verso gli “stra­nieri”.

Un piano del lavoro del genere non può essere gestito dall’alto: ha biso­gno di un’articolazione capil­lare e auto­noma sul ter­ri­to­rio; ma soprat­tutto di attori in grado di assu­merne la gestione e di per­so­nale for­mato per avviarlo e per assi­sterlo sia in campo tec­nico che organizzativo.

Dove tro­varli? E’ que­sto un ter­reno deci­sivo di for­ma­zione e di sele­zione di una classe diri­gente com­ple­ta­mente nuova: quella di cui c’è biso­gno. Il terzo set­tore – che non è solo Buzzi e Co — potrebbe for­nire una prima base per met­tere in piedi ini­zia­tive spe­ri­men­tali in que­sta dire­zione; ma la sele­zione dei pro­getti e del per­so­nale dovrebbe essere affi­data non alle clien­tele di mini­steri, pre­fetti e giunte locali, bensì ad asso­cia­zioni nazio­nali e locali di cui siano già state veri­fi­cati com­pe­tenze e rigore nella gestione di atti­vità ana­lo­ghe, come quella dei beni seque­strati alla mafia.

Tutto ciò sarebbe molto faci­li­tato soste­nen­done l’aggregazione in asso­cia­zioni delle varie nazio­na­lità. Chi sfugge a guerre e mise­ria è mes­sag­gero di pace, pronto a impe­gnarsi per­ché nel suo paese si ricreino le con­di­zioni del pro­prio ritorno, e ad atti­vare in tal senso anche i resi­dui legami che man­tiene con la pro­pria comu­nità rima­sta nei ter­ri­tori da cui è fug­gito. Per que­sto asso­cia­zioni di pro­fu­ghi e migranti potreb­bero fun­zio­nare molto meglio di tanti governi fan­toc­cio in esi­lio nel pro­muo­vere e orien­tare nego­ziati per ripor­tare pace e demo­cra­zia nei loro paesi di ori­gine.

Un pezzo impor­tante, il migliore, di Africa e di Medio­riente si ritro­ve­rebbe così a ope­rare nel cuore stesso dell’Europa, tra­sfor­man­done radi­cal­mente i con­no­tati: esten­den­done i con­fini ideali e la capa­cità di ope­rare con­cre­ta­mente nel tes­suto sociale dei paesi dove ora domi­nano guerre, mise­ria e dit­ta­ture. E ren­dendo ogni giorno evi­dente, con la sua stessa pre­senza, che la mis­sione dell’Unione euro­pea, quella che la può sal­vare dallo sfa­celo verso cui sta cor­rendo, è pro­prio l’inclusione e la valo­riz­za­zione di chi ha rag­giunto il suo suolo, con grande rischio, alla ricerca di pace, sicu­rezza, libertà.

Riferimenti
L'icona rappresenta un ritratto di Giuseppe Di Vittorio dipinto da Carlo Levi. Su Di Vittorio e il suo Piano del lavoro vedi qui su eddyburg, nonchè gli articoli linkati in quel testo. Articoli degli altri autori citati nell'articolo lsi trovano facilmente su eddyburg utilizzando il "cerca" in cma a ogni pagina

Peccato che Renzi non sappia scrivere e sappia solo twittare. Ci piacerebbe alimentare il nostro "stupidario" con i suoi testi. Questo cinguettio roco sul "reddito di cittadinanza" è veramente esemplare. Il manifesto, 7 giugno 2015 (m.p.r.)

«Il red­dito di cit­ta­di­nanza? È la cosa meno di sini­stra che esi­sta», «signi­fica negare il prin­ci­pio che l’Italia non è paese dei furbi ma chi lavora duro ce la può fare». Addi­rit­tura: «È inco­sti­tu­zio­nale». Renzi boc­cia il soste­gno al red­dito, nono­stante qual­cosa del genere esi­sta in 24 paesi euro­pei e anzi l’europarlamento da anni inviti i paesi a tro­vare forme di red­dito «in grado di sot­trarre ogni bam­bino, adulto e anziano alla povertà e garan­tire loro il diritto a una vita digni­tosa» (riso­lu­zione del 20 otto­bre 2010). Renzi, che parla da Genova dov’è ospite del palco della festa di Repub­blica inter­vi­stato dal diret­tore Ezio Mauro, forse ce l’ha con il Movi­mento 5 stelle, fan della pro­po­sta. Ma con tiro fa strike: pro­prio ieri in 200 città — Genova com­presa — l’associazione Libera di don Luigi Ciotti rac­co­glieva le firme per l’istituzione di «un red­dito minimo o di cit­ta­di­nanza» nell’ambito della (for­tu­nata) cam­pa­gna «Mise­ria Ladra». Cui ha ade­rito, oltre a tutti i par­la­men­tari del M5S e di Sel, anche la sini­stra del suo par­tito, almeno quella parte di Area Rifor­mi­sta rap­pre­sen­tata da Roberto Spe­ranza che il 22 mag­gio ha fir­mato la peti­zione di Libera e auspi­cato «un pro­getto di legge con­di­viso da tutti». In par­la­mento una mag­gio­ranza ci sarebbe. Ma da ieri sap­piamo che il parere del governo, fin qui sfu­mato e pos­si­bi­li­sta, è con­tra­rio. E per que­stioni alla sua maniera ideo­lo­gi­che («non è di sini­stra»), nean­che per più dige­ri­bili obie­zioni di cassa.

Messo a posto il Movi­mento 5 stelle, con il quale in que­sti giorni il Pd incro­cia i ferri (sulle liste degli «impre­sen­ta­bili» e sul caso Bindi, sulla giunta Marino e sull’inchiesta Mafia Capi­tale e infine sul ’caso Orfini’, attac­cato a testa bassa dallo stesso Grillo), Renzi si applica alla sua mino­ranza interna. Anche qui con parole ruvide. Siamo nel capo­luogo della regione che il Pd ha perso rovi­no­sa­mente. Set­tan­ta­tre­mila voti in meno rispetto alle regio­nali del 2010, 140mila in meno rispetto alle euro­pee dell’anno scorso e del 41,7 per cento (ora crol­lato al 27,8). Renzi ammette che si tratta di «un cam­pa­nello d’allarme», poi recita la con­su­mata sto­ria di quelli che se per­dono non hanno «diritto di spac­care tutto». Ma archi­viata la pole­mica con Pastorino&Cofferati è alla mino­ranza ancora nel Pd che invia un avviso di garan­zia: «Basta spac­ca­ture tutto. Se fai così, è finita la sto­ria del Pd». Domani sera alla dire­zione del par­tito ci sarà la resa dei conti: «Le molte mail che ricevo dicono ’vai alla dire­zione non solo con la mime­tica ma con i reparti spe­ciali’», assi­cura. Lui pro­mette «un dibat­tito vero» ma chie­derà «lealtà nei com­por­ta­menti per­ché ser­vono delle regole di con­dotta», «altri­menti stai in un par­tito anar­chico» (copy­right Mat­teo Orfini).

Dal Pd ren­ziano da giorni si mol­ti­pli­cano i boa­tos di «nuove regole». Ma è dif­fi­cile che la discus­sione interna prenda la curva disci­pli­nare, quella imboc­cata senza com­plessi dai 5 stelle. Non ora che al senato i numeri della mag­gio­ranza sono incerti e che una ven­tina di demo­cra­tici sono pronti a dare bat­ta­glia sul ddl scuola. Al loro indi­rizzo infatti Renzi sag­gia­mente invia un mes­sag­gio di pace: «Siamo pronti a ragio­nare e cer­che­remo di coin­vol­gere più persone».

Il fronte sini­stro del Pd si pre­para al con­fronto in ordine rigo­ro­sa­mente sparso. Un pre­sepe di posi­zioni diverse, da quelle in uscita dal Pd a quelle in entrata nella mag­gio­ranza ren­ziana. Dall’account uffi­ciale di Area rifor­mi­sta su twit­ter parte un «#Scuola #Senato #Par­tito fac­ciamo fatica ad andare avanti così. Ci stiamo pre­pa­rando alla sfida con­gres­suale». Replica Mat­teo Mauri, area ’dia­lo­gante’: «Chi con­ti­nua a con­cen­trarsi su una bat­ta­glia tutta interna al Pd, pen­sando ora al con­gresso del 2017 fa un danno al Pd, al paese e anche alla sini­stra del Pd». E Davide Zog­gia, altro ber­sa­niano: «Pro­por­remo un patto sul merito dei prov­ve­di­menti, così da arri­vare al 2018, dando all’Italia le rispo­ste di cui ha biso­gno». Per Gianni Cuperlo le mino­ranze non vogliono «una resa dei conti», ma «è bene discu­tere di cosa inten­diamo per par­tito della nazione», visto che le urne non hanno pre­miato il par­tito che si allon­tana dalla sini­stra «per sfon­dare nell’altro campo».

E qui il discorso di fa inte­res­sante per­ché si tratta della stessa argo­men­ta­zione svolta, all’indomani del voto, dal mini­stro della giu­sti­zia Andrea Orlando. Che è nella mag­gio­ranza ren­ziana, ma su posi­zioni ’tur­che’. E che ha dichia­rato «il par­tito della nazione» un’idea supe­rata, anzi «ambi­gua, a peri­co­losa». E che sulla scon­fitta ligure si è cavato un sasso dalla scarpa rive­lando di aver cer­cato «di dare qual­che indi­ca­zione, molto fel­pata», ma di essersi sen­tito rispon­dere «fatti i fatti tuoi».

Un tema finalmente all'ordine del giorno. Mentre il premier mostra di credere giusto un mondo in cui qualche persona non abbia un reddito, il dibattito oscilla tra lotta alla povertà e nuova concezione del lavoro.

La Repubblica, 15 maggio 2015

«IL reddito di cittadinanza nel senso che tutti i cittadini da Agnelli in giù hanno un reddito è una follia. L’idea di una misura contro la povertà è una cosa su cui stiamo lavorando e siamo disponibili a parlare con i 5Stelle e con gli altri, ovviamente compatibilmente con i vincoli di bilancio». Così ha dichiarato Renzi nella conversazione con Repubblica . Ma ciò che propongono i Cinquestelle è esattamente questo, una misura contro la povertà. Sbagliano a chiamarla reddito di cittadinanza, perché questo termine evoca altre proposte che circolano a livello internazionale e sono sostenute da studiosi di tutto rispetto, come Atkinson e Van Parijs, e da un network internazionale, che auspicano, appunto, un reddito di base per tutti. Ma la proposta dei Cinquestelle si riferisce a chi si trova in povertà, come quelle della Alleanza contro la povertà con il Reis (Reddito di inclusione sociale), della commissione Guerra con il Sia (Sostegno di inclusione attiva), di una proposta di legge di iniziativa popolare avanzata dal Bin (Basic Income Network) Italia, e prima ancora del lontano reddito minimo di inserimento sperimentato alla fine degli anni Novanta.

Non mancano, infatti, le proposte e neppure le sperimentazioni, anche se Maroni, che oggi a sorpresa annuncia di voler sperimentare il “reddito di cittadinanza” in Lombardia sembra aver dimenticato di aver affossato il reddito minimo di inserimento appena diventato ministro del welfare, chiudendo la sperimentazione e dichiarandola fallita, senza spiegazioni né discussioni.

Al di là dei nomi, ciò di cui si parla, e che esiste già nella stragrande maggioranza dei Paesi dell’Unione Europea, in molti Paesi Ocse e in diversi Paesi dell’America Latina, è una misura universalistica, non categoriale (cioè non limitata a una o un’altra categoria di poveri) di sostegno al reddito per chi si trova in povertà, solitamente accompagnata dalla richiesta di disponibilità ad accettare richieste di lavoro per chi ne ha la capacità, o a partecipare a corsi di formazione per chi ne ha necessità, di fare in modo che i figli (per chi ne ha) frequentino regolarmente la scuola e abbiano le cure mediche necessarie e così via. Il termine “di cittadinanza” (anche se io non lo userei proprio perché si presta ad equivoci) si riferisce al diritto di ricevere sostegno se si è in condizione di bisogno (così come si ha diritto di ricevere una istruzione di base, o cure mediche quando si è malati), a prescindere dalla appartenenza ad una o un’altra categoria.

Si può discutere dell’importo base di questa misura, di come debbano essere definiti i diritti e i doveri di chi la riceve e dei doveri di chi deve fare funzionare le attività integrative e di accompagnamento (dalla scuola ai servizi per l’impiego), su come e con quale periodicità si devono effettuare i controlli. E si deve, ovviamente, ragionare su come finanziarla (senza tuttavia metterla sempre in coda rispetto ad altre priorità non adeguatamente discusse). Ma, ripeto, si tratta di misure che già esistono in altri Paesi (incluso il Portogallo, molto più povero dell’Italia) da diversi decenni. Sono state sperimentate anche in Italia e alcuni comuni hanno da tempo qualche cosa di simile. La provincia di Trento ha messo a regime il proprio reddito minimo da oltre due anni. Sono esperienze da cui si può imparare senza iniziare ennesime sperimentazioni che servono solo per rimandare la questione creando ulteriori disparità tra chi è coinvolto nella sperimentazione e chi no: una disparità che può essere accettabile una volta, ma che non può essere sistematicamente ripetuta, senza che si vada mai a regime.

Nei dibattiti di questi giorni, incluso “Ballarò” e “Di martedì” scorsi, si sono sentiti pareri, commenti, fondati su una intollerabile ignoranza da parte anche di illustri commentatori e commentatrici. Peraltro, nessuno sembra abbia pensato di sentire, oltre ai Cinquestelle, chi di queste cose si occupa da anni e ha fatto proposte argomentate (ad esempio l’Alleanza contro la povertà). Il dibattito sembra limitato a politici (inclusi quelli del Pd) e giornalisti apparentemente scelti tra chi ne sa meno ed ha meno memoria storica. Con il risultato di aumentare la confusione, delegittimando in partenza ogni proposta, lasciando aperto il campo ad ennesime sperimentazioni più o meno idiosincrasiche, o all’invenzione di qualche ennesima misura categoriale con cui vengono disperse risorse già scarse.

Una recensione di due testi di Stefano Massini ( "Sette minuti" e "Lehman Trilogy") sul dramma del lavoro nel capitalismo.

L'Indice dei libri, aprile 2015

I grandi momenti dell’economia politica non sono quelli dei modelli matematici raffinati, magari premiati con un Nobel, ma quelli che ci spiegano i grandi paradossi economici con i quali siamo costretti a vivere. Nella crescita economica i ricchi diventano sempre più ricchi e - per legge economica che oggi detta più legge di qualsiasi altra - i poveri non riescono nemmeno a tenere il passo. What’ s wrong? Altri paradossi riguardano il lavoro: Il fatto che si debba lavorare meno mentre la produzione aumenta, finisce per essere una pessima notizia. Gli “esuberi” perdono il loro reddito. Per gli occupati rimanenti spesso l’ orario di lavoro viene addirittura prolungato. La scoperta di paradossi di questo tipo gettò gli economisti classici (Townsend, Malthus, Ricardo) in un profondo pessimismo. Anche la letteratura reagì trattando stimoli e idee da questi nuovi misteri (Swift e Defoe con un certo sarcasmo). I romanzieri dell’ 800, Austen, Balzac e altri (come ha raccontato recentemente Piketty) fecero con grande precisione i conti in tasca ai loro eroi per poter serbarli dal destino del lavoro salariato, mentre nasceva tutta una letteratura di ispirazione sociale che rimpianse i poveri. Oggi i paradossi assurdi del nostro sistema economico vengono accettati come “naturali”, una normalità che fa piangere (perfino un ministro), ma non desta nessuna meraviglia.

Con “7 minuti” Stefano Massini è riuscito a portare in teatro un fatto normale facendoci meravigliare. Undici operaie tessili di un consiglio di fabbrica intorno a un contratto da rinnovare. L’ azienda va bene, è stata venduta, la nuova proprietà in cambio di una garanzia dell’ occupazione e dello stipendio propone alle maestranze di rinunciare a 7 minuti “dell’ intervallo pattuito in sede di contratto premiando lo sforzo della proprietà di venirvi incontro in questo delicato passaggio storico”. La prima reazione delle donne è un grande sollievo. Perfino un sentimento di gratitudine. Questa garanzia, la tranquillità di un lavoro e di uno stipendio, valgono il sacrificio di 7 minuti al giorno. Altre fabbriche chiudono, ma qui si continua a lavorare. L’ offerta va accettata subito. Solo Blanche, trent’ anni al telaio, ha una strana „sensazione alla bocca dello stomaco“. Vuole discutere, vuole vedere chiaro. “Perché ho sempre la sensazione che noi dobbiamo ringraziare? Non è uno scambio alla pari?”.

Non lo è. Tutte le donne lo sanno, anche se non hanno studiato l’ asimmetria di potere inerente al mercato del lavoro. Sentono il ricatto che su ciascuna pesa in modo diverso. Chi ha figli, chi un marito disoccupato, chi è giovane, chi immigrata. Tutte, meno Blanche, sono decise a firmare. “Ma se il lavoro lo perdessimo proprio votando sì?”. Il calcolo è presto fatto. Sette minuti di lavoro in più al giorno per 200 operaie vuol dire 600 ore di lavoro al mese. “E’ come se entrassero altre operaie” non pagate. Poi a qualcuno potrebbe anche venire l’ idea che così si crei un “esubero”. Le donne discutono malvolentieri, soprattutto perché hanno la sensazione che comunque non possono fare niente. Per ognuna la perdita di 7 minuti al giorno è accettabile ed è sempre meglio della perdita del posto di lavoro.
Ma dalla discussione reticente emergono una dopo l’ altra le domande. “Noi ci teniamo il posto, va bene, loro si prendono sette minuti: fine della storia?” Quale sarà il prossimo sacrificio da fare? Che effetto avrà questo “sì” su altre fabbriche e altri contratti? Dopo anni di sacrifici non sarebbe meglio rischiare una volta un “no”? Fosse solo per dignità? “Loro non mi regalano niente, perché dobbiamo fargli regali noi?”. La risposta a ognuna di queste domande può costare l’ esistenza. Alle operaie, non ai manager, non alle “cravatte”. Il consiglio si spacca e probabilmente anche il pubblico si dividerà. Che cosa vogliamo di più da un testo teatrale?

Massini ci porta fino alle soglie del mistero economico. Andare oltre è il compito del lettore o dello spettatore che legge/vede cose che forse già sa, ma delle quali difficilmente si rende conto: Il lavoratore salariato appartiene non al singolo capitalista, ma al capitale, perché le sue condizioni di vita dipendono dai movimenti e dalle esigenze del capitale che la nostra società considera essere oggettive. La dipendenza può assumere forme attenuate da diritti conquistati, può diventare sopportabile e perfino confortevole. Ma periodicamente la legge del profitto si affaccia con la sua maschera ferrea e richiede, come gli dei degli aztechi, i suoi sacrifici umani. Infatti, il capitalismo può essere considerato ormai una delle grandi religioni. E’ il dio denaro che dà senso alle nostre azioni, regola la nostra vita, i nostri sentimenti e i nostri sogni. Nella sua “” Massini racconta attraverso le vicende di una dinastia di banchieri e finanzieri, che sono i sacerdoti di questa religione, i suoi fasti e la sua gloria fin dalla sua incarnazione nel mito americano. La forza che dà fiato al suo canto epico scaturisce da una catastrofe: Il 15 settembre 2008 crolla la Lehman Brothers provocando il fallimento più grande nella storia delle bancarotte mondiali. La banca era considerata too big to fail. Eppure questa volta il sistema bancario e lo stesso governo americano hanno voluto statuire un esempio facendo squillare le trombe del giudizio universale. Un epoca è finita. Ma che cosa significa questa affermazione e che tipo di Requiem stiamo cantando?

La Lehman Trilogy ci illumina sui passaggi cruciali da un capitalismo arcaico della “roba” a quello trascendentale della finanza. I Lehman, ebrei poveri immigrati dalla Germania, vendono attrezzi agricoli, passano alla compra-vendita di cotone, si trasferiscono dopo la guerra civile dall’ Alabama a New York dove figurano tra i fondatori della Borsa di Cotone, lontani da attrezzi, campi e carri. Capiscono il bisogno di nuovi mezzi di trasporto, investono in ferrovie e petrolio, in aerei e armi di guerra, si sposano bene, rimangono attaccati alla religione dei padri e conducono una vita da capitalisti “protestanti”, direbbe Max Weber. Sono tra gli artefici dell’ industrializzazione di un continente, creatori, come scriveva Marx, di “meraviglie ben diverse dalle piramidi egizie, dagli acquedotti romani e dalle cattedrali gotiche”.

Ma nelle ultime pagine della terza parte della trilogia tutto cambia. Il cuore degli affari del gruppo è diventato la compravendita di denaro nelle sue forme molteplici chiamate “prodotti finanziari”. Queste forme di denaro si staccano dal mondo dei beni reali e dagli investimenti per produrli e conducono una propria vita irreale in altre sfere. Entriamo nei regni dei miliardi, bilioni, trilioni di dollari dove ci si orienta in modo diverso dal mondo degli ottanta Euro concessi ai lavoratori dipendenti e assimilati. L’ origine dell’ alto tasso di rendimento delle nuove forme di denaro rimane nascosta e nessuno la vuole conoscere. Nessuno poteva nemmeno aspettarsi questi frutti sopranaturali. Eppure il terreno è stato a lungo preparato. “L’ America, guardiano del pianeta, armato fino ai denti”. Riempire il mondo di merci, di mezzi di comunicazione, di computer, di programmi. Il computer non significa solo calcolo, ma anche linguaggio “per non far crollare la torre di Babele”. I have a dream di Martin Luther King trasformata in una formula per vendere vendere vendere in modo che il mondo possa redimersi nel comprare comprare comprare. Metamorfosi infernali del denaro. E tutti ballano, banchieri e operai, tutta l’ America. Crisi. Il dio denaro sacrifica la Lehman Brothers, il suo figlio primogenito. Fine dell'Antico Testamento.

Sembra che il reddito di cittadinanza, sinora teorizzato da isolate avanguardie, abbia fatto finalmente il suo ingresso nel cuore del Palazzo. Non ci sono solo i parlamentari di Sel e del movimento 5 Stelle, ma anche uomini del PD, il partito al governo, a premere per una sua realizzazione, che potrebbe trovare una strada praticabile nelle aule del Senato. E bisogna riconoscere che ancora una volta è stato Grillo e il suo movimento a imprimere una accelerazione di interesse politico sul tema.

Trasformare la tradizionale sfilata Perugia Assisi, la marcia della pace, in un percorso rivendicativo del reddito di cittadinanza, è una trovata di non comune intelligenza politica. Ci si appropria di una iniziativa altamente simbolica, un itinerario di San Francesco, una delle più nobili manifestazioni pacifiste del mondo, per dare anche alla battaglia per il reddito la colorazione solidale e il timbro di fratellanza che essa contiene. Duole dirlo, ma la nostra sinistra (quella alla quale io appartengo) non appare altrettanto capace di determinazione nel perseguire un singolo, ma grande obiettivo e non sa inventarsi forme di lotta diverse dalle vecchie sfilate a Piazza del Popolo o a San Giovanni.

Non sono così ingenuo da non sapere che la scarsa determinazione nel perseguire tale obiettivo non è solo dovuta a inerzia politico-organizzativa. A sinistra e soprattutto all'interno del sindacato, covano riserve tenaci nei confronti di questa misura assistenziale. Si teme la creazione di sacche di parassitismo, soprattutto fra la gioventù. E' la vecchia etica del lavoro, così radicata nel mondo comunista. L'etica del lavoro, introiettata da secoli di ideologia capitalistica, è stata certo trasformata col tempo dalle lotte del movimento operaio in fierezza di classe, un nuovo ethos civile che ha fatto delle classe operaia l'avanguardia sociale del Novecento.

Ma oggi che tipo di capitalismo abbiamo di fronte? In questa fase il sindacato e la sinistra tradizionale sembrano interpretare la società industriale come un nastro, una pellicola che si riavvolge dopo uno strappo. Pensano che dopo la crisi gli anni venturi replicheranno le sequenze già viste. E non vedono la gigantesca metamorfosi che ha cambiato la natura del capitalismo contemporaneo. Un modo di produzione che da tempo ha sparigliato le carte, imposto un nuovo gioco. E il cuore del nuovo gioco è la scomparsa della piena occupazione, obiettivo keynesiano messo da parte come un ferrovecchio da un ceto politico- oggi il PD di Renzi – che ha capito quali servigi chiede il capitalismo finanziario per elargire i suoi favori. Ma, insieme alla scomparsa della piena occupazione, quale orizzonte di una politica possibile, si è schiusa un'altra dirompente novità.
Per paradossale che possa sembrare, oggi la fasce d'età della vita lavorativa, si vanno visibilmente restringendo. Si entra sempre più tardi nel mondo del lavoro. Spesso i giovani sono spinti a continuare gli studi perché non trovano occupazione e continuano a gravare sui redditi familiari, anche quando aspirerebbero a formarsi una vita autonoma. Al tempo stesso, si esce dal lavoro molto prima di un tempo. E' vero che le riforma Fornero e le altre riforme pensionistiche in Europa tendono ad allungare la permanenza nel lavoro, ma gli imprenditori hanno altre vedute. Essi premono per espellere le maestranze anziane, perché incapaci di gestire le innovazioni tecnologiche che entrano continuamente nelle attività produttive.
Oggi un ingegnere meccanico che lavori in una fabbrica automobilistica vede le sue competenze rese obsolete nel giro di un decennio. Come possono reggere i tecnici generici, i semplici operai? Gli imprenditori vogliono in fabbrica giovani pescecani dai denti affilati, che “reggano la competizione”, preferibilmente minacciabili di licenziamento, se non tengono il ritmo giusto o se non raggiungono gli obiettivi richiesti. A meno che non si tratti di grandi manager, naturalmente. Quelli si premiano sempre, con altissimi compensi, per dare il buon esempio.

Questo restringimento dell'età lavorativa in Italia ha almeno due gravi esiti. I giovani (almeno la maggioranza più fortunata) cercano protezione nel guscio della famiglia, rattrappendo aspirazioni e prospettive. Coloro che non ce l'hanno o non si accontentano, si rivolgono al welfare criminale. Spacciare droga non è un lavoro tranquillo, né eticamente apprezzabile, ma toglie tanti giovani dalla disperazione. E' dunque auspicabile che sia lo Stato a fornir loro un reddito, guastando l'etica capitalistica del lavoro, o preferiamo - come sempre più per tutto il resto, la scuola, la sanità, i trasporti - affidarci al mercato? Un mercato criminale, naturalmente, fra i più efficienti della Penisola. Ma naturalmente la questione giovanile riguarda, più gravemente, l'avvenire del nostro Paese. Stiamo perdendo le migliori intelligenze della presente generazione, che scappano nei grandi centri d'Europa e degli USA mentre il presidente del Consiglio e il suo governo ingannano gli italiani con le fumisterie della cosiddetta “buona scuola”.

Ma la condizione degli anziani che perdono il lavoro e non hanno ancora la pensione è tragica. Queste figure, esistenti da tempo in Italia, che la riforma Fornero ha fatto ingigantire, facendone le vittime sacrificali di una riforma ispirata dal panico e da una cultura produttivistica, non hanno nessuna famiglia a cui appoggiarsi. Quella famiglia in genere debbono reggerla loro, coi loro magri redditi. E spesso non pochi di loro si trovano in situazioni che nessuno potrebbe immaginare all'interno di una società opulenta come la nostra. Non solo devono provvedere spesso a mogli e figli disoccupati, ma talora hanno a carico anche qualche genitore anziano, tenuto in vita da una delle tante sontuose pensioni che allietano gli ultimi anni dei nostri vecchi.

Ci auguriamo che ne tengano conto i nostri parlamentari. Il reddito minimo toglierebbe dalla disperazione tante persone che hanno decenni di fatiche alle spalle e un futuro di incertezza. Aumenterebbe la domanda interna, di cui l'economia italiana ha un evidente bisogno. Costituirebbe la strada per ridurre le disuguaglianze sociali, offrirebbe a tanti nostri giovani un punto di partenza per intraprendere, studiare, continuare ricerche avviate. I giovani non si assopirebbero per un modesto reddito, vivendo da parassiti: si tranquillizzino sindacalisti e vetero comunisti. Questo lo credono coloro che dei giovani hanno solo sentito parlare.

Un reddito minimo potrebbe creare quel margine di sicurezza in grado di spingere tanti nostri ragazzi a fare volontariato: volontariato di assistenza alle persone, di cura del decoro urbano, di difesa dell'ambiente e del paesaggio, di assistenza ai bambini e ai ragazzi che abbandonano la scuola. Tutto dipende dal clima che si respira nel paese, se è di lealtà tra governanti e governati, di esaltazione e difesa del bene comune. Tutto dipende dalla creatività della politica, che deve uscire dalla routine impiegatizia che l'affligge, e deve saper suscitare le energie latenti della nostra società, in attesa di un messaggio di verità e di prospettiva.

Una versione ridotta dell'articolo è stato pubblicato su il manifesto

La rilettura. Stralcio di un libro che dopo 20 anni è ancora di bruciante attualità. Almeno per chi vuole uscire dalla crisi: "L’età dello spreco. Disoccupazione e bisogni sociali".

Il manifesto, 30 aprile 2015, con postilla

Giorgio Lunghini, i. Bollati Boringhieri, 1995

In una con­fe­renza sulle “Pro­spet­tive eco­no­mi­che per i nostri nipoti”, tenuta a Madrid nel 1930, negli anni dell’ansia, John May­nard Key­nes affer­mava che (…) nell’arco di cent’anni l’umanità avrebbe risolto il suo pro­blema eco­no­mico (…). Nei ses­san­ta­cin­que anni pas­sati da allora l’umanità non si è mossa nella dire­zione della libertà dal biso­gno, della libe­ra­zione dalla neces­sità di ven­dersi in cam­bio dei mezzi di vita. Dall’età dell’ansia che Key­nes ha cer­cato di scio­gliere siamo pas­sati all’età dello spreco, non a quella della libertà e della sobrietà. L’atroce ano­ma­lia della disoc­cu­pa­zione in un mondo pieno di biso­gni è oggi ancora più grave di allora (…). Alla pro­li­fe­ra­zione immane delle merci e alla cre­scita della disoc­cu­pa­zione si accom­pa­gnano vec­chie e nuove povertà, guerre fra poveri e un gene­rale imbar­ba­ri­mento dei rap­porti mate­riali dell’esistenza. La teo­ria eco­no­mica e l’arte del governo non sanno spie­gare né vogliono risol­vere il pro­blema economico-politico più grave: troppe merci, poco lavoro (…). La mia tesi è che la disoc­cu­pa­zione ha oggi carat­tere strut­tu­rale, ha ori­gine nelle forme attuali del cam­bia­mento tec­no­lo­gico e orga­niz­za­tivo, ed è ten­den­zial­mente irre­ver­si­bile. Nel ragio­na­mento seguente sostengo che la fama­co­pea orto­dossa non ha medi­ca­menti che pos­sano risol­vere o almeno lenire la nuova forma della malat­tia cro­nica del capi­tale, la con­trad­di­zione tra spreco e penu­ria. Occorre cer­care anche altrove, fuori da una logica esclu­si­va­mente mer­can­tile. Occorre met­tere in moto lavori con­creti, essen­zial­mente lavori di cura delle per­sone, delle città e delle campagne. (stralci dalle pagine 7-9)

postilla

Lunghini pone il tema della finalizzazione del lavoro. Il lavoro è uno strumento per la produzione di merci destinate a loro volta a essere vendute a un prezzo superiore al loro costo di produzione, oppure un'attività mediante la quale l'uomo (e l'umanità) raggiunge i fini che volta a volta si pone in relazione ai suoi obiettivi? Nel primo caso il lavoro (anzi la "forza lavoro", cioè la capacità degli uomini di lavorare) è anch'esso una merce, che al proprietario e gestore dei mezzi di produzione conviene pagare il meno possibile; il reddito del lavoratore sarà il prezzo che egli riuscirà ad ottenere da compra la sua forza-lavoro. Tutt'altro è invece è il ruolo e il destino sociale del lavoro se, come Claudio Napoleoni, lo si concepisca come «lo strumento, peculiarmente umano, col quale l’uomo consegue i suoi fini; ed è strumento universale, nel senso che esso è a disposizione dell’uomo per ogni possibile suo fine» (vedi in proposito alcuni dei testi di Marx, di Robbins e di Napoleoni indicati nella nota Il lavoro su eddyburg . Se si sviluppasse il ragionamento a partire da queste premesse la questione del New Deal per l'Europa, posto da Guido Viale e da altri autori in occasione della vicenda della lista "l'Altra Europa con Tsipras" e il dibattito sul "reddito di cittadinanza" acquisterebbero un carattere più concreto, perché più solidamente fondato in una visione dell'uomo e dello sviluppo.

«Reddito di base. La vera sfida al tempo della disoccupazione strutturale, del lavoro precario, flessibile, delocalizzato, immateriale è conservare il legame tra occupazione ed emancipazione».

Il manifesto, 15 aprile 2015, con postilla

Lo ius exi­sten­tiae si pone alla base del con­tratto sociale. Sin dal ‘600 la cop­pia obbedienza-protezione s’è impo­sta come la fonte ultima di legit­ti­ma­zione del potere costi­tuito. Spetta al “sovrano” difen­dere la vita dei con­so­ciati (Hob­bes), ma anche i beni essen­ziali ad essa col­le­gati (Locke). Se il potere costi­tuito non è in grado di garan­tire le con­di­zioni di “esi­stenza”, il popolo non è più tenuto a rispet­tare il pac­tum con­so­cia­tio­nis: il diritto di resi­stenza può essere esercitato.

Nella sto­ria della moder­nità si è rite­nuto che allo Stato dovesse spet­tare il com­pito di assi­cu­rare la pace (interna ed esterna), men­tre il lavoro dovesse costi­tuire il mezzo attra­verso cui assi­cu­rare la “soprav­vi­venza” degli indi­vi­dui. La fine della civiltà del lavoro ha cam­biato le carte in tavola. Oggi non basta più la volontà di lavo­rare, né quella di emi­grare per poter soprav­vi­vere. Come può lo Stato pre­ser­vare il diritto all’esistenza?

In via di prin­ci­pio due sono le strade per­cor­ri­bili (tra loro non neces­sa­ria­mente alter­na­tive): lo Stato potrebbe assi­cu­rare comun­que un diritto al lavoro, ampliando arti­fi­cial­mente l’offerta, incen­ti­vando – ad esem­pio – i lavori social­mente utili, anche se eco­no­mi­ca­mente non neces­sari. L’altra via è quella di assi­cu­rare comun­que un red­dito di cit­ta­di­nanza anche a chi — in assenza delle con­di­zioni sociali che lo ren­dono pos­si­bile — non può lavorare.

In par­ti­co­lare, la pro­spet­tiva del red­dito di cit­ta­di­nanza ha un solido fon­da­mento costi­tu­zio­nale. Essa ruota attorno a quat­tro prin­cipi che val­gono a carat­te­riz­zare il nostro “patto sociale”: il prin­ci­pio di dignità, con il col­le­gato dovere di soli­da­rietà; il prin­ci­pio d’eguaglianza, inteso come moda­lità di rea­liz­za­zione di una società di liberi ed eguali; il prin­ci­pio di cit­ta­di­nanza, nella sua dimen­sione par­te­ci­pa­tiva e di garan­zia di appar­te­nenza ad una comu­nità; il prin­ci­pio del lavoro, assunto nella sua reale dimen­sione di vita, com­pren­sivo del dramma del non lavoro.

È nel col­le­ga­mento tra que­sti prin­cipi che si rin­viene il diritto costi­tu­zio­nale ad un red­dito di cit­ta­di­nanza. L’errore cui si è spesso incorsi è stato quello di tenerli invece sepa­rati. Eppure nella nostra costi­tu­zione – più avan­zata dei suoi inter­preti – appare evi­dente l’intreccio. Si pensi al rap­porto com­plesso che sus­si­ste tra dignità e lavoro. Al lavoro è legata la dignità (il lavo­ra­tore ha, infatti, diritto ad una retri­bu­zione «in ogni caso suf­fi­ciente ad assi­cu­rare a sé e alla fami­glia un’esistenza libera e digni­tosa»), ma è anche evi­dente come la “dignità” rap­pre­senta un valore da assi­cu­rare in ogni caso, ponen­dosi (la “dignità umana”) come limite alla libertà di ini­zia­tiva eco­no­mica pri­vata, con­for­man­dosi come “dignità sociale” nel rap­porto tra tutti i cit­ta­dini eguali davanti alla legge (nel com­bi­nato dispo­sto tra gli arti­coli 36, 41 e 3).

Vero è che i nostri costi­tuenti per­se­gui­vano l’obiettivo della piena occu­pa­zione, tant’è che alla Repub­blica veniva asse­gnato il com­pito di «pro­muo­vere le con­di­zioni» per ren­dere effet­tivo il diritto al lavoro. Dun­que era que­sta la via mae­stra per dare dignità sociale ai cit­ta­dini. Se oggi però con­si­de­riamo non più per­se­gui­bile la pro­spet­tiva della piena occu­pa­zione l’unica alter­na­tiva per rima­nere entro i con­fini trac­ciati dal costi­tuente è quella di assi­cu­rare la dignità anche a chi non può lavo­rare. Non pos­siamo ras­se­gnarci alle dise­gua­glianze di una società in cui sem­pre più ampie parti della popo­la­zione vivono in grave disa­gio, non pos­siamo evi­tare di occu­parci dei gruppi sociali in stato di emar­gi­na­zione, non pos­siamo lasciare il mondo sem­pre più esteso dei non occu­pati senza spe­ranza, pri­van­doli di ogni dignità e oppor­tu­nità di riscatto.

La let­tura siste­ma­tica del testo costi­tu­zio­nale evi­den­zia anche un secondo dato, che a me sem­bra deci­sivo, ma che è invece assai sot­to­va­lu­tato nel dibat­tito attuale sul red­dito di cittadinanza.

Detto in breve: nella nostra costi­tu­zione il diritto fon­da­men­tale alla soprav­vi­venza, i diritti alla vita digni­tosa e all’assistenza come obbligo dello Stato, la lotta all’emarginazione sociale, non ven­gono assunti in sé, ma sono sem­pre col­le­gati al neces­sa­rio svol­gi­mento della per­so­na­lità, non­ché defi­niti al fine di con­cor­rere al «pro­gresso spi­ri­tuale e mate­riale della società» (come si esprime l’art. 4 in rap­porto con il diritto al lavoro). Espli­cito e diretto è poi il legame tra diritti fon­da­men­tali e doveri inde­ro­ga­bili (art. 2). Così come l’obbligazione gene­rale di rimo­zione degli osta­coli d’ordine eco­no­mico e sociale nei con­fronti dei cit­ta­dini è asso­ciato alla par­te­ci­pa­zione all’organizzazione poli­tica, eco­no­mica e sociale del paese (art. 3).

È in que­sto com­plesso intrec­cio che deve tro­vare una sua spe­ci­fica qua­li­fi­ca­zione anche il red­dito di cit­ta­di­nanza, che dovrebbe essere inteso come red­dito di par­te­ci­pa­zione. Se si vuole cioè evi­tare che la sov­ven­zione ai non occu­pati si tra­sformi in un mero sus­si­dio di povertà, cari­ta­te­vol­mente con­cesso ad un sog­getto iso­lato, lasciato nel suo iso­la­mento, e senza pos­si­bi­lità di riscatto, v’è una sola strada da per­se­guire: legare il red­dito alla cit­ta­di­nanza attiva. La vera sfida, al tempo della disoc­cu­pa­zione strut­tu­rale, ma anche del lavoro pre­ca­rio, fles­si­bile, insta­bile, delo­ca­liz­zato, imma­te­riale, è quella di con­ser­vare quell’orizzonte eman­ci­pa­to­rio, tanto indi­vi­duale quanto sociale, che sin qui – nello schema for­di­sta — era stato assi­cu­rato prin­ci­pal­mente dal lavoro sta­bile entro una comu­nità solidale.

Ma come può legarsi il red­dito alle atti­vità sociali? E poi cosa si intende per cit­ta­di­nanza attiva? Anche in que­sto caso si può comin­ciare a riflet­tere par­tendo dalla costi­tu­zione, la quale imputa a tutti i cit­ta­dini il dovere di svol­gere un’attività o una fun­zioni che con­corra «al pro­gresso mate­riale o spi­ri­tuale della società». Il rife­ri­mento è al lavoro tra­di­zio­nal­mente inteso, ma deve ricom­pren­dere anche tutte quelle atti­vità o fun­zioni che si svol­gono “oltre il lavoro for­male”. Il volon­ta­riato, l’assistenza ai figli o ai geni­tori, le atti­vità cul­tu­rali, quelle di natura imma­te­riale, la cura dei beni comuni. Tutto ciò che – oltre la dimen­sione eco­no­mica e imme­dia­ta­mente pro­dut­tiva — per­mette agli indi­vi­dui di svi­lup­pare la pro­pria per­so­na­lità e con­cor­rere al pro­gresso sociale.

Tutto ciò come si può rea­liz­zare in con­creto? Se si guarda alle diverse forme di red­dito pro­po­ste (uni­ver­sale, minimo, di disoc­cu­pa­zione) mi sem­bra che il più con­forme al modello defi­nito sia quello che asse­gna a tutti i biso­gnosi un red­dito minimo, non tanto con­di­zio­nato dalle logi­che di work­fare (che impone al tito­lare del red­dito di accet­tare qua­lun­que lavoro, anche il più degra­dante o incoe­rente con la pro­pria for­ma­zione a pena della per­dita di ogni con­tri­buto), quando costi­tuito da due diverse fonti “red­di­tuali”: una in denaro, l’altra defi­nita da forme di soste­gno indi­rette. In que­sto secondo caso il red­dito con­si­ste in garan­zie di accesso gra­tuito ai ser­vizi (scuole, uni­ver­sità, con­sumi cul­tu­rali, tra­sporti), ovvero al sup­porto al volon­ta­riato o all’associazionismo, ovvero ancora all’affidamento ai cit­ta­dini di strut­ture inu­ti­liz­zate (dai tea­tri, alle fab­bri­che, ai cen­tri sociali) per la gestione dei beni comuni. In que­sto caso il red­dito di cit­ta­di­nanza (inteso come ser­vizi, age­vo­la­zioni e gestione degli spazi pub­blici) potrebbe per­sino favo­rire la pro­du­zione di red­dito da lavoro o con­fi­gu­rare un’altra economia.

È que­sta una pro­spet­tiva che stenta a farsi strada e che pure non è assente in alcuni tra i pro­getti sul red­dito (la pro­po­sta ela­bo­rata dal Basic Income Net­work, ripresa in sede par­la­men­tare, alcune leggi regio­nali), per­sino in una riso­lu­zione del Par­la­mento euro­peo del 2010. Per una volta pos­siamo dire: «ce lo chiede l’Europa».

postilla

L'autore scrive: «Due sono le strade per­cor­ri­bili: lo Stato potrebbe assi­cu­rare comun­que un diritto al lavoro, ampliando arti­fi­cial­mente l’offerta, incen­ti­vando - ad esem­pio - i lavori social­mente utili, anche se eco­no­mi­ca­mente non neces­sari. L’altra via è quella di assi­cu­rare comun­que un red­dito di cit­ta­di­nanza anche a chi -e in assenza delle con­di­zioni sociali che lo ren­dono pos­si­bile - non può lavorare». Esiste anche un'altra via: quella cui allude Azzariti quando scrive che pe misure che propone possono addirittura servire a «con­fi­gu­rare un’altra economi
a».
In sostanza, si tratta a mio parere di modificare alle radici l'attuale concezione (e pratica) dell'economia e rendere anche "economicamente" rilevante ciò che lo è "socialmente".
Bisognerebbe "cercare ancora" sulla strada indicata da Claudio Napoleoni. Chi voglia approfondire l'argomento può leggere in eddyburg il testo di Napoleoni, Scienza economica e lavoro dell’uomo nella definizione di Lionel Robbins, e la sintetica ricostruzione del suo pensiero in proposito che ho steso in un capitolo del mio Memorie di un urbanista e ripreso nella relazione introduttiva alla sesta edizione (2009) della Scuola di eddyburg. (e.s.)

l manifesto, 22 marzo 2015

La crisi dei sin­da­cati, e l’indebolimento del potere con­trat­tuale dei lavo­ra­tori, sono le cause prin­ci­pali delle dise­gua­glianze eco­no­mi­che e della mani­po­la­zione del sistema poli­tico ed eco­no­mico da parte di chi pos­siede una quota mag­giore di capi­tali. È quanto emerge da uno stu­dio in via di pub­bli­ca­zione sulla rivi­sta «Finance & Deve­lo­p­ment» delle eco­no­mi­ste del Fondo mone­ta­rio Inter­na­zio­nale Flo­rence Jau­motte e Caro­lina Oso­rio Buitron.

La ricerca, inti­to­lata «Power from the peo­ple» e ispi­rata alla can­zone di John Len­non «Power to the peo­ple», esa­mina diverse misure dell’iniquità (dalla quota di red­dito del 10% più ricco della popo­la­zione all’indice di Gini) per i paesi ad eco­no­mia avan­zata dal 1980 al 2010. La tesi, ispi­rata agli studi del pre­mio Nobel per l’economia Joseph Sti­glitz, sostiene che «l’indebolimento dei sin­da­cati riduce il potere con­trat­tuale dei lavo­ra­tori rispetto a quello pos­ses­sori di capi­tale, e aumenta la remu­ne­ra­zione del capi­tale rispetto a quella del lavoro».

Una crisi, quella dei sin­da­cati, che si riflette anche nel calo degli iscritti, pari al 50% nel lungo tren­ten­nio della contro-rivoluzione neo­li­be­ri­sta. Venuto meno il potere sociale, e la rela­tiva capa­cità di nego­zia­zione sul sala­rio, così come i numeri che per­met­te­vano ai sin­da­cati di fare pres­sione sul capi­tale e i governi al fine di otte­nere una mode­rata redi­stri­bu­zione del plu­sva­lore in eccesso, dal 1980 i red­diti si sono con­cen­trati verso l’alto: il 5% in più è finito nelle mani del 10% della popo­la­zione più ricca nei paesi avan­zati. Anche con­si­de­rando l’impatto della tec­no­lo­gia, della glo­ba­liz­za­zione, della libe­ra­liz­za­zione finan­zia­ria e del fisco, per Flo­rence Jau­motte e Caro­lina Oso­rio Bui­tron i risul­tati con­fer­mano che «il declino della sin­da­ca­liz­za­zione è for­te­mente asso­ciato con l’aumento della quota di red­dito» nelle mani dei ricchi.

L’analisi di Jau­motte e Oso­rio Bui­tron si con­cen­tra anche sugli stru­menti che pos­sono modi­fi­care la distri­bu­zione dei red­diti verso le classi lavo­ra­trici e il ceto medio, i due prin­ci­pali set­tori vit­time degli effetti del neo­li­be­ri­smo. La lotta con­tro la «disper­sione dei red­diti, la disoc­cu­pa­zione e per la redi­stri­bu­zione» può rina­scere attra­verso una nuova ondata di sin­da­ca­liz­za­zione, la crea­zione di un sala­rio minimo. La gene­ra­liz­za­zione del sala­rio minimo a livello inter­na­zio­nale non aumenta la disoc­cu­pa­zione, come invece sostiene una fitta schiera di eco­no­mi­sti, ma per­mette di con­te­nerla, sosten­gono le ricer­ca­trici. Le solu­zioni sug­ge­rite da Jau­motte e Oso­rio Bui­tron sono quelle tra­di­zio­nali for­di­ste. Quella più impor­tante con­si­ste nel restau­rare il ruolo del sin­da­cato come «media­tore sociale» uni­ver­sale e la sua iden­tità di «cin­ghia di tra­smis­sione» con i par­titi poli­tici. «Sin­da­cati più forti – scri­vono – pos­sono mobi­li­tare i lavo­ra­tori a votare per i par­titi che pro­met­tono di redi­stri­buire il reddito».

Una tesi che ha susci­tato una rea­zione entu­sia­sta di Fur­lan (Cisl): «Il sin­da­cato è fon­da­men­tale per la cre­scita». Bar­ba­gallo (Uil): «Biso­gna lot­tare innan­zi­tutto per difen­dere il potere d’acquisto di salari e pen­sioni e, inol­tre, per evi­tare una ridu­zione delle tutele, dei diritti e delle pro­te­zioni». Camusso (Cgil) ha soste­nuto: «Quando il sin­da­cato è pre­sente, i risul­tati di pro­te­zione eco­no­mica sono molto mag­giori di qual­siasi altro stru­mento, sia esso il red­dito di cit­ta­di­nanza o il sala­rio minimo deciso dalla poli­tica». Una pie­tra tom­bale sul ten­ta­tivo (anche di una parte della sini­stra e dei movi­menti sociali, oltre che dei Cin­que Stelle) di isti­tuire un red­dito minimo in Italia.

Que­sto non è l’unico para­dosso di uno stu­dio pro­ve­niente dall’Fmi, cioè il prin­ci­pale attore della glo­ba­liz­za­zione neo­li­be­ri­sta, che riscuote il con­senso tra i sin­da­cati che ne sono stati le prin­ci­pali vit­time. Si sco­pre che le ricette con­si­gliate sono più avan­zate di quelle dei sin­da­cati per i quali, al momento, il sala­rio minimo non rien­tra nella con­trat­ta­zione. Si tratta di un equi­voco indotto anche dalla ricerca di Jau­motte e Oso­rio Bui­tron per le quali i corpi inter­medi pos­sono essere restau­rati come se la crisi della forma sin­da­cato fosse stata indotta dall’esterno, e non anche per motivi sto­rici ed endogeni.

L’obiettivo di «riaf­fer­mare stan­dard del lavoro che per­met­tano a lavo­ra­tori moti­vati di nego­ziarli col­let­ti­va­mente» potrà essere rag­giunto a con­di­zione che una nuova forma della «nego­zia­zione» sociale includa pre­cari, lavo­ra­tori indi­pen­denti o inter­mit­tenti non sin­da­ca­liz­za­bili secondo le regole che pro­teg­gono solo il lavoro sala­riato. Anche a que­sto ser­vono stru­menti come il sala­rio minimo o il red­dito di bas

Per uscire dalla crisi,sul tema cruciale del lavoro occorre rovesciare il punto di vista di Renzi : partire il punto di vista dei lavoratori, non quello delle imprese. Articoli di Grazia Naletto, Claudio Gnesutta e Giulio Marcon.

Sbilanciamoci.info, 20 marzo 2015


TORNIAMO AL LAVORO
di Grazia Naletto

Workers act/Nonostante l’ottimismo parolaio di Renzi, le stime del Def parlano chiaro: il Jobs act inciderà sul Pil al massimo per lo 0,1%. Per ripartire ci sarebbe bisogno di una politica industriale, di contratti veri e di investimenti pubblici. Una riforma del lavoro per uscire dall’Ottocento 2.0

Un miliardo e 508 milioni di euro. È l'ammontare dell'evasione di contributi e premi assicurativi verificata da parte del ministero del Lavoro, INPS e INAIL nel 2014 su 221.476 aziende ispezionate. Il 64,17% (più di una su due) sono risultate irregolari e dei 181.629 lavoratori impiegati in modo irregolare, il 42,61% (77.387) erano completamente in nero. I dati sono contenuti nel Rapporto annuale dell’attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale 2014.

Il Jobs Act riuscirà davvero a migliorare le condizioni di chi oggi è fuori dal mercato del lavoro o è relegato nel suo segmento invisibile, sommerso e malpagato? E ammesso che alcune migliaia di disoccupati possano beneficiare della decontribuzione triennale prevista nella legge di stabilità per i neo-assunti nel 2015, cosa succederà loro quando i tre anni saranno finiti?

Libertà di licenziare, demansionamento, mantenimento delle 45 tipologie contrattuali esistenti ed estensione del lavoro usa e getta sono ricette che rafforzano il potere delle imprese mettendo sotto scacco e gli uni contro gli altri i lavoratori. Chi afferma che questo è il prezzo per rilanciare l'economia e uscire dalla crisi, identificando nel costo del lavoro l'unica variabile dipendente per aumentare la produttività e la "competitività" del nostro paese, non sbaglia: compie un inganno. Consapevolmente. E lo fa perché assume come unico punto di vista quello delle imprese.

E allora è utile ribaltare la prospettiva e riorientare lo sguardo, leggere non solo la crisi degli ultimi anni e le scelte dell'attuale Governo, ma anche le trasformazioni dei processi produttivi, del mondo del lavoro e delle politiche economiche dell'ultimo ventennio, attraverso gli effetti che hanno determinato e determinano sulla vita delle persone in carne e ossa.

Servirebbe un Workers Act.

Cambiare punto di vista significa innanzitutto fare i conti con un modello, quello neo-liberista, che ha subordinato i diritti delle persone (occupate e non) a quelli delle imprese e ha ridotto progressivamente il ruolo di indirizzo dello Stato in ambito economico.

Significa confrontarsi con modelli produttivi che grazie allo sviluppo tecnologico, alla deterritorializzazione e alla globalizzazione delle imprese consentono di precarizzare, frammentare e indebolire il lavoro.

Significa avere il coraggio di constatare che, senza un forte intervento pubblico finalizzato a creare buona occupazione e una redistribuzione del lavoro che c'è, migliaia di persone sono destinate a rimanere escluse dal mercato del lavoro.

Significa non rimuovere l'urgenza di garantire un reddito a chi nel mercato del lavoro non riesce ad entrarci o ne è uscito prima di aver maturato il diritto alla pensione.

Significa infine comprendere a pieno il nesso stringente tra le contro-riforme del mercato del lavoro e della scuola, lo smantellamento del welfare e le riforme costituzionali. Sono collegati da un filo spinato comune: una svolta autoritaria che partendo dalla scuola e dal lavoro intende metterci sotto ricatto ed erodere qualsiasi processo di partecipazione.

Il Jobs Act è approvato e produrrà i suoi effetti, ma le contraddizioni e i nodi lasciati irrisolti dalla mancanza di una strategia di lungo respiro, capace di scegliere come priorità il benessere sociale delle persone, restano.

Da qui la scelta di Sbilanciamoci! di intrecciare conoscenze e competenze diverse per elaborare un Workers Act. Sarà pronto tra qualche settimana. Ci piacerebbe che fosse un'occasione per avviare un dibattito politico e culturale serio sul futuro del lavoro, ma soprattutto delle persone la cui vita è condizionata dal lavoro: perché ce l'hanno già o perché non lo hanno ancora.

UN WORKERS ACT PER USCIRE DALLA CRISI
di Claudio Gnesutta

Workers act/Un progetto di politica per il lavoro, che si articoli lungo tre assi: attivazione di lavori concreti, riduzione dell’orario di lavoro e un welfare universalistico. Perchè quello di cui c'è bisogno è l’esigenza che di garantire a tutti un’attività che assicuri una prospettiva di lavoro e di vita dignitosa

Oggi in Italia ci sono 3 milioni di disoccupati “ufficiali”; se ad essi si aggiungono i disoccupati parziali e gli inattivi disponibili si tratta di 9 milioni di persone: una situazione sociale drammatica che il Job Act non affronta. La sua filosofia di aumentare i posti di lavoro facilitando i licenziamenti e sussidiando le imprese a espandere i contratti a tempo determinato non è una soluzione. Basti pensare che il CNEL stima che con una crescita annua dell’occupazione dell’1,1 % (scenario ritenuto “ottimista”) solo nel 2020 il tasso di disoccupazione si riporterebbe alla situazione pre-crisi (e a 1,8 milioni di disoccupati). Ma una tale situazione richiederebbe una crescita media della produzione del 2% e non è facile trovare qualcuno – anche con “l’aria nuova” di Cernobbio – disposto a scommetterci. A condizioni sostanzialmente inalterate di disoccupazione si accompagnerebbero condizioni di precarietà del lavoro: attualmente vi sono 3,4 milioni di working poor (0,8 tra gli autonomi), 2,5 milioni di lavoratori in part-time involontario (32% femminile), 65% dei nuovi contratti è a tempo determinato di cui il 46% registra una durata inferiore al mese. Se non si modificano le attuali istituzioni e politiche del lavoro, anche la prossima generazione vivrà una situazione di eccesso di offerta di lavoro che estenderà la precarietà alla maggioranza della popolazione attiva. Il futuro di scarsa e cattiva occupazione è il prodotto di un mercato del lavoro che opera come meccanismo di ingiustizia e di immiserimento sociale.

Non c’era certamente bisogno di un Jobs Act che volutamente consegna le vite dei lavoratori alle scelte socialmente regressive delle imprese. Vi è invece l’esigenza che di garantire a tutti un’attività (sia essa dipendente o indipendente) che assicuri una prospettiva di lavoro e di vita dignitosa. È in questa direzione che Sbilanciamoci! ritiene necessario proporre un terreno di confronto per elaborare un Workers Act, un progetto di politica per il lavoro, che si articoli lungo tre assi: attivazione di lavori concreti, riduzione dell’orario di lavoro, un welfare universalistico per il lavoro (dipendente e non). In primo luogo, va rilanciato il ruolo dello Stato (e degli enti pubblici) come occupatore di ultima istanza (Piani del lavoro, ma anche Servizio civile nazionale) finalizzando gli aumenti occupazionali alla creazione di valori socialmente utili. Inoltre occorre intervenire sugli orari di lavoro poiché – data l’attuale dimensione della disoccupazione, inoccupazione, sottoccupazione – è possibile ampliare i posti di lavoro solo riducendo il tempo medio di lavoro. Per garantire livelli adeguati di reddito a chi lavora a orari più ridotti occorre ristrutturare l’imposizione fiscale e previdenziale alleggerendola drasticamente su contratti più brevi e accentuandola su quelli prolungati. Ma anche così è difficile garantire all’intera popolazione attiva, in particolare a chi svolge un’attività autonoma, la disponibilità di un reddito. Occorre, terzo punto, ridefinire il sistema di welfare attorno a una forma di reddito minimo che, fungendo da salario di riserva, contrasti la pressione al ridimensionamento salariale. Si tratta di pensare a una misura, universale e incondizionata, che sia un punto di riferimento per il riassetto delle altre forme esistenti di sostegno del reddito.

Sono temi che richiedono una riflessione impegnativa, ma non tanto per i molti e importanti aspetti tecnici che si pongono: a questo livello, le capacità, le competenze e le intelligenze sono ampiamente disponibili. Quello che importa è la convinzione che questa prospettiva possa costituire il fondamento della politica economica. A nessuno sfugge infatti che, per realizzare una tale politica per il lavoro, siano necessari opportuni indirizzi di politica industriale per rafforzare e riorientare la crescita produttiva; che si richieda una politica fiscale che ne garantisca l’opportuno finanziamento e una amministrazione pubblica efficiente in grado di controllare e gestire l’intero processo. Si deve peraltro avere consapevolezza delle difficoltà che incontra una tale riflessione nell’attuale situazione culturale caratterizzata da una subordinazione al pensiero dominante che impedisce di pensare a qualcosa di diverso rispetto alla manutenzione dell’esistente.

Ma, a fronte di una tendenza strutturale che prospetta un futuro difficile per i lavoratori, è doveroso impegnarsi nel costruire un’alternativa altrettanto strutturale, con la consapevolezza che la soluzione non è dietro all’angolo, ma che è importante scegliere l’angolo sul quale svoltare.

UN NEW DEAL O IL DISASTRO
Di Giulio Marcon

Workers act/Il governo Renzi non esce fuori dal dogma del mercato capace di autoregolarsi. Senza politiche pubbliche la crisi non finisce

Una volta – per essere competitivi – si svalutava la moneta, oggi si svaluta il lavoro: meno diritti, meno tutele, meno retribuzione. Le politiche neoliberiste si sono basate in questi decenni su quattro pilastri: la riduzione della spesa pubblica e del ruolo dello Stato; le privatizzazioni e le liberazioni (a partire da quella della circolazione dei capitali); gli investimenti privati (il mercato) e la precarizzazione del mercato del lavoro. La riforma del mercato del lavoro è una di quelle riforme “strutturali” cui Renzi affida la speranza di rilanciare l'occupazione e l'economia. In realtà, come sappiamo tutti, in questi anni l'esistenza di oltre 45 forme di lavoro atipico non ha incoraggiato ad assumere di più, ma semplicemente a sostituire i contratti di lavoro con tutele con forme di lavoro precario, senza diritti. Non si sono creati posti di lavoro in più, ma solo più lavori precari. Né queste riforme hanno avuto effetti salvifici sull'economia. Proprio nel DEF si dice che l'impatto del Jobs Act sul PIL sarà minimo: non più dello 0,1%. Si tratta di previsioni; e quelle del governo in questi vent'anni sono sempre state troppo ottimistiche e poi inevitabilmente corrette al ribasso.

L'assunto dal quale si parte è noto: bisogna mettere le imprese nelle condizioni di avere meno vincoli e costi possibile. E così potranno assumere. Solo che, probabilmente, i nuovi assunti saranno assai pochi: la maggior parte dei nuovi contratti saranno “sostitutivi”, cioè trasformeranno rapporti di lavoro pre-esistenti più gravosi in quelli più convenienti introdotti dalla legge di stabilità. Tutte le agevolazioni fiscali di questi anni, le imprese non le hanno utilizzate per fare investimenti nell'economia reale, ma in quella finanziaria e speculativa o per arrotondare i loro profitti. La realtà è che i governi occidentali di questi anni (e Renzi, oggi), rinunciano ad ogni politica pubblica attiva: non c'è una politica industriale, non c'è una politica degli investimenti pubblici (che in 20 anni si sono dimezzati), non c'è una politica del lavoro.

Non c'è più una politica della domanda (di sostegno, programmazione, investimento), ma solo dell'offerta, dove – per quel che ci riguarda – non è più nemmeno offerta di lavoro, ma offerta di lavoratori alle condizioni più vantaggiose per le imprese. Nel frattempo gli ultimi dati ISTAT ci dicono che la situazione in Italia continua a peggiorare. E già questo dovrebbe indurre i governi ad un serio ripensamento delle politiche sin qui seguite.

L'idea di lasciare al mercato la creazione di occupazione non funziona e non ha funzionato mai, se non per la produzione di posti di lavoro precari, effimeri, mal retribuiti, senza tutele. Ma quale sistema economico e produttivo può pensare di sopravvivere grazie ad una idea di lavoro così retriva e padronale? Altro che modernità, qui siamo al ritorno all'ottocento, anche se “2.0”. Un lavoro senza qualità porta con sé una economia senza futuro. Senza un investimento nel lavoro (in termini di risorse, ma anche di formazione, di tutele, ecc.) non ci può essere alcuna economia di qualità, innovativa, capace di “competere”. Un'impresa che si serve del lavoro “usa e getta”, non ha speranze, è di bassa qualità, dura poco: non è più impresa, ma solo business di piccolo cabotaggio (anche se magari di grande ritorno affaristico).

Servirebbe invece una politica pubblica per il lavoro: una sorta di piano straordinario del lavoro fondato sugli investimenti pubblici per creare occupazione nella risposta alle grandi emergenze nazionali (lotta al dissesto idrogeologico, edilizia scolastica, “piccole opere”, ecc.) e nelle frontiere delle nuove produzioni della cosiddetta Green Economy (mobilità sostenibile, energie pulite, ecc.). Servirebbe uno Stato che fosse attivo –indirettamente, ma anche direttamente – nella creazione di posti di lavoro, attraverso un'agenzia nazionale come quella (la Works Progress Administration) che fu creata da Franklin Delano Roosevelt durante il New Deal. E servirebbero degli investimenti “pazienti” (che danno riscontro sul medio periodo) in settori fondamentali per creare buona economia e buona occupazione: nell'innovazione e nella ricerca, nel settore formativo ed educativo e nella coesione sociale. E poi, bisognerebbe riprendere un discorso che oggi può sembrare in controtendenza (sicuramente rispetto alle politiche neoliberiste), ma quanto mai attuale e necessario: la riduzione dell'orario di lavoro. Se il lavoro è poco, bisogna fare in modo che il lavoro sia redistribuito il più possibile. Lasciare milioni di persone nella disoccupazione e nell'inattività è economicamente sbagliato, moralmente disumano e socialmente ingiusto e pericoloso.

Un articolo interessante, ma un titolo sbagliato. Definiremmo "reazione", e non "rivoluzione", l'abolizione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Reazione feroce a quanto di positivo l'ultima metà del XX secolo ha prodotto sul terreno del lavoro.

La Repubblica, 21 febbraio 2015, con postilla

VENTITRÉ marzo 2002: tre milioni di italiani invadono Roma per fermare (riuscendoci) la riforma del fatidico articolo 18 minacciata dal governo Berlusconi. Venti febbraio 2015: il Consiglio dei ministri presieduto da Matteo Renzi approva i decreti attuativi del cosiddetto Jobs Act.

CHE , fra l’altro, riscrivono e ridimensionano le guarentigie per i licenziamenti. A prima vista, una svolta storica. Ma c’è da chiedersi forse se proprio la storia non avesse già svoltato da tempo e prima che le novità legislative arrivassero a registrarne i cambiamenti. In particolare, quelli intervenuti nella realtà economica del Paese con i suoi inesorabili riflessi sui rapporti di forza tra gli attori politici e sociali in campo.

Molte sono le ragioni che aiutano a spiegare come sia stato possibile realizzare oggi un intervento che appena tredici anni fa risultò del tutto impraticabile. Vale la pena di esaminarne almeno le principali per capire meglio quali profonde trasformazioni siano intervenute nel frattempo dentro il corpo vivo della società italiana. Non che siano mancate in questi mesi le dure reazioni del fronte sindacale contro la riforma delineata dal governo Renzi: la Cgil di Susanna Camusso e ancor più la Fiom di Maurizio Landini hanno protestato e mobilitato a più riprese le piazze. Ma la loro voce stavolta non ha trovato nel resto della società quella stessa cassa di risonanza favorevole a suo tempo ottenuta da Sergio Cofferati. E non certo, almeno nel caso di Landini, per difetto di leadership o di capacità di comunicazione. Oggi neppure un novello Cofferati avrebbe potuto replicare il memorabile successo del 2002.

Intanto va soppesata la differenza fra l’interlocutore politico di allora e quello di adesso. Per Silvio Berlusconi l’intervento sull’articolo 18 non aveva soltanto una valenza di genere economico ma anche, anzi soprattutto, di tipo politico. La modifica legislativa nasceva dall’intenzione, neppure troppo dissimulata, di perseguire attraverso una modifica dei rapporti di forza sui luoghi di lavoro anche l’obiettivo di mettere all’angolo il potere tanto dei sindacati quanto dell’opposizione politica della sinistra. Un voler troppo che lo ha portato, come s’usa dire, a stroppiare.

Matteo Renzi ha avuto l’intelligenza di tenere la questione dei licenziamenti su un terreno sgombro da retro pensieri politici potendo spendere anche la moneta del suo essere segretario del maggior partito della sinistra. Ha polemizzato e anche con durezza con il mondo sindacale ma sempre tenendo la contesa sul versante specifico della questione. In più ha avuto anche l’abilità di sciogliere il nodo dell’articolo 18 all’interno di una riforma complessiva del mercato del lavoro che rottama i tanto sovente falsi contratti di collaborazione, che apre nuove strade agli ammortizzatori sociali e che con le cosiddette “tutele crescenti” schiude la porta a un rilancio delle assunzioni a tempo indeterminato. Tanto da ricevere al riguardo importanti segnali di consenso anche in sedi internazionali. Proprio in questi giorni perfino dall’Ocse che ha accreditato a questo Jobs Act del governo la capacità di far crescere il Pil del 6 per cento nel prossimo decennio. Magari, s’intende.

Ciò che più di tutto ha giocato a favore dell’iniziativa di Renzi e contro le resistenze del sindacato è comunque la profonda differenza della realtà economica di oggi rispetto a quella di tredici anni fa. L’assalto di Berlusconi all’articolo 18 è stato concepito in una fase nella quale il Pil del Paese cresceva a un ritmo dell’1,8 per cento l’anno e il tasso di disoccupazione era sceso dal 10,1 per cento al 9,2 nei dodici mesi precedenti. Una fase, insomma, nella quale le imprese assumevano senza badare all’articolo 18 e dunque la voce del fronte sindacale era conseguentemente forte e ascoltata. Va del resto ricordato che lo stesso Statuto dei lavoratori è una legge del 1970 figlia naturale di quell’autunno caldo che produsse la prima e importante redistribuzione dei redditi e dei diritti fra capitale e lavoro dopo gli anni del cosiddetto miracolo italiano.

Oggi la crescita economica, dopo anni di declino continuo, è ancora abbarbicata a uno stentato zero percentuale mentre la disoccupazione si mantiene più vicina al 13 che al 12 per cento. Non c’è bisogno di essere storici della lotta di classe per dedurne che una simile condizione statistica ridimensiona ruolo e potere delle rappresentanze sindacali. Non soltanto verso gli interlocutori politici e imprenditoriali ma anche all’interno del mondo del lavoro. E perfino su quello che si segnala come l’aspetto più imbarazzante della riforma ovvero quello di una monetizzazione del diritto al reintegro nel posto di lavoro.

La dura realtà economica del presente conduce così a un inevitabile paradosso: i più interessati a un successo dei decreti attuativi del Jobs Act soprattutto in termini occupazionali diventano quei sindacati che ne dissentono apertamente. Perché, allo stato, solo nella riuscita della scommessa renziana potrebbero ritrovare il potere perduto.

postilla
Solo un lettore disattento delle parole e degli atti del Renzi della prima Leopolda può ritenere che egli abbia «avuto l’intelligenza di tenere la questione dei licenziamenti su un terreno sgombro da retro pensieri politici». La politica che l'inventore del Partito della nazione ha espresso con chiarezza di parole e di atti è determinata dalla volontà di cancellare tutte le conquiste dei migliori momenti della storia italiana: dalla progressiva conquista della
democrazia, avviata nella seconda metà del XIXsec., all'affermazione della centralità dei diritti del lavoro ottenuta nella seconda metà del XX. Della storia raccontata da Riva una cosa indigno, un'altra preoccupa. Indigna che, come scrive Riva, Renzi abbia potuto «spendere la moneta del suo essere segretario del maggior partito della sinistra»: c'è ancora chi crede che quel partito e il suo creatore, abbiano qualcosa di "sinistra". Preoccupa invece l'assenza del popolo: ciò che giustamente Riva rileva quando paragona la piazza che riuscì a mobilitare Cofferari con quella oggi riempita da Camussi e Landini. a questo è anche il frutto del lavaggio dei cervelli accuratamente svolto per qualche decennio dal regno mediatico del predecessore (e preparatore) di Matteo: Silvio Berlusconi, il Lazzaro dell'epoca renziana.

Forse il problema non è uscire dal lavoro così com’é configurato nell’economia capitalistica, ma costruire una nuova economia basata sul valor d’uso e non su quello di scambio. E facendo rientrare nel lavoro socialmente riconosciuto come tale anche le attività finalizzate alla produzioni di “beni” anziché di “merci”, che oggi vengono relegate al “tempo libero.

MicroMega, 11 febbraio 2014


Flexicurity, ovvero uno strumento europeo di politica del lavoro

Flexicurity

suona bene sin dalla sua pronuncia, certamente meglio dell’italico “flessicurezza”. E’ un termine sfavillante, che ha un’apparente sapore di modernità nella sua versione d’importazione. E, diciamola tutta, affascina anche nella sua astratta descrizione scientifica, riferendosi ad un “modello di politica del lavoro capace di riformare e unificare i diversi sistemi di welfare esistenti in Europa”, e costituendo “un mezzo per raggiungere un fine, ovvero assicurare che i benefici dei sistemi di welfare restino una garanzia per tutti (comprese le generazioni future), rafforzando l’adattabilità e la capacità di affrontare i cambiamenti sia per i singoli che per le imprese” .

Si tratta dunque di uno strumento di politica del lavoro ibrido, promosso direttamente a livello europeo-comunitario allo scopo di uniformare i diversi modelli degli Stati membri, sostenendo da un lato una domanda del lavoro quasi totalmente deregolamentata ed in linea con la teoria classica neoliberista, che richiede forme di flessibilità numerica, funzionale e salariale della “forza-lavoro” in modo da adeguarla “in tempo reale” (secondo il modello just in time) ai cambiamenti tecnologici e alle sempre mutevoli esigenze del mercato, e dall’altro garantendo un moderno sistema di sicurezza sociale, in grado di intervenire con efficaci sistemi di sostegno al reddito, considerato che le fasi di passaggio da un’occupazione ad un’altra non possono quasi mai essere senza soluzione di continuità.

Flexicurity e tecno-nichilismo

Se volessimo reperire un ascendente teorico-filosofico della flexicurity, ben potremmo porre lo sguardo - senza tema di smentita - ai caratteri propri della società della globalizzazione (o, come è stata meglio definita in un recente saggio, della “prima globalizzazione”). Società fondata sul dominio della tecnica (economico/finanziaria ed ingegneristica) che ha modellato in chiave reticolare l’esistenza dell’uomo, il quale si trova ora “navigante” (e quasi annegato) in un flusso di merci, beni, dati e informazioni che si compongono e scompongono con velocità estrema nell’intera “rete globale”, e che ne hanno smaterializzato (o meglio, liquefatto) la natura. E’ il topos del tecno-nichilismo in cui l’uomo, subordinato alla tecnica, è ora bene, ora merce, ora dato, ora capitale (cosiddetto “umano”) inserito nei miliardi di flussi che percorrono le reti (telematiche/commerciali/finanziarie/industriali/logistiche/lavorative/giuridiche) alla velocità della luce: ed i materiali così veicolati nei flussi delle reti valgono (e vengono considerati) solo e soltanto se funzionano nell’ambito delle reti stesse.

Siamo al trionfo del tecno-nichilismo e della volontà di potenza, in cui vale non ciò che è, ma solo ciò che si vuole far funzionare nei canali - strutture costitutive delle reti - deputati al veloce scorrimento dei flussi di beni, capitali, dati: è la legge dell’efficacia o “lois de l’efficacitè”, per dirla con Albert Camus.

Leggiamo un passo, splendido nella sua nettezza, di un grande giurista che così traduce il trionfo del tecno-nichilismo nello specifico campo del diritto:

«Il diritto costruisce la propria artificialità servendosi di macchine e applicando procedure…..il suo scopo non è né di garantire l’attuazione di eterne verità, né di difendere un’etica della vita, ma soltanto di funzionare….la macchina funziona senza riguardo ad uno od altro contenuto. Non importa il perché ed il che cosa, ma soltanto il come: non importa la verità, ma soltanto la validità della norma giuridica… Tutti i contenuti possono attraversare quei congegni produttivi… nomo-dotti, canali percorsi da ipotesi di norme. Poiché non c’è una verità condizionante, vige l’indifferenza contenutistica, la neutralità delle procedure rispetto alle materie che vi sono immesse. Fiat productio… soltanto il volere le fa valere”.

Flessicurezza e “doppia alienazione”

Se consideriamo l’uomo inserito in tale contesto produttivo tecno-nichilista, non possiamo non rinvenire i netti profili dell’alienazione; stiamo parlando di un uomo che non è più neanche res, cosa, ma mero, inanimato fluido: dal tipo dell’uomo-macchina proprio del modello fordista-taylorista al paradigma dell’uomo quale “lubrificante” della macchina. Ecco spiegata l’esigenza di “flessibilità”, ovverosia del termine flex, primo membro del binomio flexicurity. Ciò che non funziona o, meglio, non è abbastanza flessibile, liquido per circolare nei canali delle reti tecno-produttive, diventa ovviamente scarto: anche l’esistenza umana, reificata e veicolata nei flussi testè citati, può diventare “vita di scarto” o esubero, sinonimo di “rifiuto umano”.

Ma c’è una via di possibile e necessaria uscita e di recupero, diremmo di apparente ed illusoria “rinascita” in questo demoniaco sistema, che viene veicolato dal sistema stesso: l’uomo-fluido lubrificante della macchina è al contempo anche uomo-macchina desiderante (ovverosia consumatore), il cui desiderio di consumo è il motore interno della macchina. La macchina funziona, infatti, solo se vi è consumo (e non accumulo) di ciò che dalla stessa viene prodotto. Il sistema tecno-nichilista, infatti, si fonda e si muove precipuamente sulla base del consumo dei beni, dei servizi, delle informazioni prodotte dai circuiti reticolari: in poche parole, è la domanda il combustibile dell’intero sistema che altrimenti, in sua assenza, rischia di implodere, come evidenziato nell’ultima, sistemica crisi economica.

La domanda - e con essa l’uomo-macchina desiderante o consumatore- ha dunque bisogno di un sostegno, di un “meccanismo di sicurezza”, ovverosia proprio della security, secondo elemento del sintagma della “flessicurezza”: ne deriva la teorizzazione di strumenti di sostegno dei redditi, ora pubblici (quali sussidi di disoccupazione, assegni familiari, cassa integrazione et similia) ora privati (attraverso l’intermediazione bancario-finanziaria), con la diffusione del “credito al consumo” attraverso una pluralità di mezzi di indebitamento, quali carte di credito, finanziamenti brevi (i cd payday loans), rifinanziamenti delle ipoteche sugli immobili, scoperti di conto corrente e quant’altro serva a integrare i salari erosi dalla flessibilità.

Questa iniziale riflessione, dunque, ci porta ad un primo punto di arresto: la flexicurity è la filosofia generale - o meglio, l’“attrezzo comune”- del sistema tecno-nichilista, più comunemente noto come capitalismo neoliberista.

Flessibilità, mercato del lavoro e “uberizzazione”

Passiamo quindi ad osservare la concretizzazione della “flessicurezza” nel più specifico circuito del “mercato del lavoro” odierno. Il drammatico panorama della flessibilità lavorativa è ormai conoscenza comune acquisita da tempo, sostanziandosi nella tripartizione in:

a) flessibilità “numerica” della quantità di lavoro in entrata e in uscita, attraverso il proliferare di una moltitudine di contratti atipici (a chiamata, a progetto, di job sharing, di somministrazione di manodopera et similia) o di contratti di lavoro subordinati a tempo determinato (con la più ampia possibilità di apporre il termine in una serie quasi illimitata di contratti a scadenza come previsto ad esempio, per lo specifico ambito italiano, dall’ultimo “Decreto Poletti”) e a tempo indeterminato (con la flessibilità introdotta anche in tale area, attraverso la sostanziale abrogazione dell’art. 18 Stat. Lav. portata avanti dal nuovo “contratto a tutele crescenti” disciplinato dalla seconda parte del recente “Jobs Act”);

b) flessibilità “funzionale” nella gestione del rapporto di lavoro, attraverso la possibilità di modificare unilateralmente le mansioni, anche in peius dequalificando il patrimonio professionale (si veda quanto previsto dalla Legge delega 183 del 2014 in materia di demansionamenti) o attraverso la totale liberalizzazione degli orari di lavoro con i contratti a part-time, che consentono la gestione “premiale” o “sanzionatoria” della forza-lavoro, mercè la concessione o la negazione di ore supplementari di lavoro necessarie ad integrare salari-base esigui ed insufficienti per la sussistenza o forme di orario flessibile quale quello multiperiodale (ovverosia variabile entro un dato lasso di tempo) o elastico;

c) flessibilità salariale con retribuzioni che, con riferimento al singolo lavoratore, possono essere legate non solo all’orario di lavoro (si pensi al sopracitato contratto a part-time e alla possibile variazione in aumento o in diminuzione delle “ore supplementari”) ma anche a nuove, “moderne” forme di cottimo digitale: primo fra tutti, recentemente sbarcato anche in Italia, il cosiddetto crowdworking, una sorta di “asta digitale” in cui qualsiasi richiedente, attraverso una piattaforma telematica che fa da intermediario, “posta” on line i lavori richiesti (che consistono di solito in progetti tecnici e/o richieste di consulenze qualificate). A seguito dei molteplici lavori ricevuti, il richiedente ne sceglie solo uno: ovviamente il lavoro rifiutato non viene pagato, mentre quello accettato viene pagato a prezzi infimi. Basterà riprendere le parole di Guy Standing per un giudizio senza appello: «E’ cottimo, in una forma che porta alla spremitura estrema, la forma definitiva di precariato nella quale i lavoratori sono puri postulanti, privi di diritti o sicurezza».

Se poi volessimo dare uno sguardo ancora più aggiornato al panorama della flessibilità contemporanea, vedremmo come l’esasperazione di tale dinamica abbia condotto a forme di lavoro talmente liquefatte, da far venir meno addirittura la stessa identità professionale del singolo lavoratore, scisso in un patchwork di molteplici e contemporanee – rispetto alla singola giornata lavorativa – occupazioni: siamo alla “uberizzazione” del lavoro come icasticamente rilevato da Carlo Formenti, il quale nella sua acuta analisi sul neonato fenomeno della società Uber rileva la «definitiva dissoluzione di ogni identità di classe, nella misura in cui ci trasformerebbe tutti in una massa indistinta e orizzontale di individui indipendenti costretti ad arrabattarsi in un forsennato bricolage senza nessuna garanzia di stabilità di reddito, di futuro e senza nessun controllo sul proprio tempo di vita (per tacere della qualità stessa)”.

Quali sono stati gli effetti di questa iperflessibilizzazione? Sono sotto gli occhi di tutti: l’aumento vertiginoso della disoccupazione negli ultimi anni ed il crollo del livello medio dei salari (che gli economisti, con linguaggio farisaico, definiscono “moderazione salariale”), tali da scendere sotto la soglia necessaria a garantire un’esistenza libera e dignitosa, così come invece solennemente previsto dall’art. 36 della nostra Costituzione, dando origine al sempre più diffuso fenomeno del “lavoro povero”.

I dati di una recentissima ricerca presentata al Cnel sul fenomeno dei working poor non lascia spazio a repliche: 3 milioni e 750 mila “lavoratori poveri” solo in Italia, vale a dire persone con un reddito netto orario inferiore ai 2/3 del reddito medio. In pratica si tratta di lavoratori, sia subordinati che autonomi, le cui retribuzioni si aggirano sui 4,8 euro netti all’ora (quando la media netta è di 6,2 euro all’ora) e che, oltre ad essere lavoratori poveri, saranno condannati a diventare, tra qualche anno, pensionati poveri.

Effetti individuali e sociali della flessibilizzazione

Ma vi è di più.

Gli effetti si sono riverberati innanzitutto a livello individuale sugli stessi lavoratori vittime della “flessibilizzazione” i quali, in ragione della somma incertezza causata da queste forme lavorative (incerte sia nell’ sia nel quantum), sono stati comunemente definiti “lavoratori precari”. Precarietà che si è riflessa sull’esistenza e sulle vite stesse, attraverso lo smarrimento di una precisa identità professionale (scissa, come abbiamo visto, in una moltitudine di disperse tessere lavorative), la perdita del controllo del tempo (con lavori che possono occupare, senza preavviso, qualunque parte della giornata o della settimana -come i cosiddetti lavori a chiamata- o estendersi anche oltre l’orario canonico di lavoro -da cui il “lavoro senza fine”-), la fine della mobilità sociale (in ragione di retribuzioni sotto il livello minimo di sussistenza), la sottoccupazione (ovverosia lo svolgimento di mansioni di gran lunga inferiori rispetto al proprio patrimonio professionale).

I lavoratori flessibili, dunque, diventano ostaggi di due trappole: quella della precarietà e quella direttamente connessa della povertà, da cui drammaticamente non riescono ad uscire.

Ecco spiegato il dilagare, da alcuni anni a questa parte, di numerose patologie psichiche, in primo luogo della depressione, «la quale può essere definita la malattia sociale nell’era del tecno-nichilismo». Il crollo delle aspettative individuali e sociali in ordine alla realizzazione professionale (ovviamente vanificata da una vita precaria ed incerta) ed al correlativo culto della performance e dell’efficacia (la già citata “lois de l’efficacitè”), infatti, ben può ascriversi tra le cause di primo piano nella patogenesi dei sempre più numerosi disturbi depressivi (tra cui l’ansia e lo stress) espressione, a loro volta, “dell’insostenibilità del sistema tecnico e delle sue determinazioni sociali”.

Le conseguenze del profondo malessere sociale frutto dell’esplosiva miscellanea tra flessibilità, incertezza, disoccupazione e povertà sono alla radice anche dei sempre più numerosi movimenti sociali di protesta che, dal 2011 ad oggi, hanno spinto nelle piazze di tutto il mondo migliaia di persone “indignate” le quali, a loro volta, hanno ingrossato le fila della nuova “classe esplosiva”, il precariato, insieme di “non-cittadini” (denizens) «dipendenti dalla volontà altrui…postulanti privi di diritti, soggetti alla carità o al benvolere altrui» alla ricerca di una rinnovata cittadinanza sociale.

Flessibilità senza sicurezza

Che ne è invece della “sicurezza”, secondo elemento del binomio “flexicurity”, dinanzi a questo disastroso stato di cose causato dalla flessibilità?

Se da un lato la devastante crisi economico-finanziaria in corso dal 2008, sostanziatasi anche nel cosiddetto “credit crunch” (“stretta creditizia”) ha limitato notevolmente le forme di sostegno bancario al reddito attraverso la fine del “credito facile” e la riduzione degli strumenti di indebitamento (concessi soltanto dopo lunghe e severissime istruttorie), dall’altro le forme pubbliche di supporto del reddito e dell’occupazione sono state, soprattutto in Europa, falcidiate e ridotte ai minimi termini dalle rigorose politiche di austerity ormai in corso da anni.

Ciò si è tradotto, in concreto, nell’introduzione di rigorosi sistemi di controllo, valutazione e condizionamento dei richiedenti i sussidi pubblici nei Paesi Europei (la maggioranza) che hanno un meccanismo di reddito minimo garantito condizionato: innovazioni che, di fatto, hanno comportato una drastica riduzione nelle erogazioni dei sussidi necessari a garantire la “sicurezza” ai sempre più numerosi soggetti estromessi dal mondo del lavoro flessibile. L’Italia, ovviamente, si caratterizza per essere il “fanalino di coda” anche in materia di sicurezza sociale insieme agli altri paesi dell’ “area mediterranea”, il cui raggruppamento è connotato dall’ «assenza di una rete di protezione minima di base, non di categoria, erogata e gestita a livello di governo centrale». E tale linea di tendenza regressiva, peraltro, non sembra essere più di tanto intaccata dall’introduzione dei nuovi ammortizzatori sociali previsti nello schema di decreto del 24 dicembre 2014, che ha introdotto la cosiddetta Naspi, la Asdi e la Discoll, sussidi di disoccupazione limitati nel tempo, condizionali e non universali.

Il paradosso dell’improduttività

Abbiamo dunque visto, nel nostro breve volo radente sul mondo del lavoro, come le macerie lasciate dalla “flessibilità” non siano state neanche rimosse dalla “sicurezza”, la cui promessa sarebbe insita nel mito della “flexicurity”.

Al contrario ed anche sorprendentemente, decenni di “iniezione” del fluido lavoro flessibile nei circuiti del mercato del lavoro non hanno portato allo sperato aumento di produttività così come ipotizzato dalla dogmatica neoliberista, tutt’altro: l’analisi empirica dei dati economici degli ultimi anni ha anzi rivelato la sussistenza di una relazione inversa tra flessibilità e produttività, per cui all’aumento della prima diminuirebbe costantemente la seconda. Ed invero, «la maggiore occupazione, ottenuta con contratti di questo tipo -spesso riguardanti lavoratori marginali, sul cui capitale umano le imprese si presume che investano poco- si sarebbe accompagnata a minori contributi in termini di produttività. In questa direzione vanno sia i contributi che utilizzano dati a livello microeconomico sia i contributi di tipo macroeconomico»: una sentenza inappellabile.

Del resto, che la precarietà derivante dal lavoro flessibile non fosse sorella della produttività era già da tempo desumibile, sul piano della prospettiva sociologica, considerando il classico esempio del lavoratore con contratto a tempo determinato a breve scadenza il quale, dinanzi ad un pezzo difettoso trovato lungo la catena di montaggio, preferisce girare il capo piuttosto che preoccuparsi di rimuoverlo.

Scattiamo a questo punto un’istantanea del quadro lavorativo contemporaneo, riprendendo nel complesso i tratti già visti nel nostro fin qui breve percorso: ci troviamo dinanzi a lavoratori ormai totalmente mercificati, privi di potere contrattuale a causa sia dell’ampia massa di manodopera di riserva prodotta dalla disoccupazione sia in ragione della quasi totale perdita dei diritti un tempo contenuti negli “statuti lavorativi”, con retribuzioni dal livello molto basso, ai limiti della sussistenza (cosiddetto lavoro povero) e corrosi nel carattere e nella personalità dall’insicurezza generata dalla precarietà che è l’architrave dell’intero sistema lavorativo.

Lavoro e attività lavorativa

Se tuttavia mettiamo meglio a fuoco la visione del quadro generale, possiamo osservare come a fianco del lavoro svolto obbligatoriamente allo scopo di affrancarsi dal bisogno materiale e ciononostante povero di diritti e di salario e scarsamente produttivo di beni e di servizi, si pone un nuovo e diffuso fenomeno, analizzato da numerosi studiosi ed oggetto di molteplici definizioni; stiamo parlando di quella forma di lavoro scelto e svolto liberamente da milioni di persone ogni giorno, che pur non essendo remunerato è produttivo di un ingente valore sociale: il lavoro volontario nelle organizzazioni no profit (pensiamo ad esempio alle migliaia di persone attive nell’assistenza ai disabili, ai poveri, ai migranti, alle innumerevoli persone che con costanza e passione fanno vivere le associazioni culturali, ambientali e le associazioni dilettantistiche sportive), il lavoro di cura ed assistenza domestico e familiare (rammentiamo l’attività di cura dei nipoti da parte dei nonni, vero e proprio welfare sociale familiare e l’attività delle madri e dei padri che impegnano larga parte della giornata nella cura e nell’educazione dei figli), l’attività di creazione e diffusione della conoscenza con cui quotidianamente abbiamo a che fare nella “rete”, sia nei blog sia nei contributi a matrice aperta pubblicati sul web.

Distinzione, questa, che pare riflettere l’emergente divisione tra economia sociale ed economia di mercato, e che si sostanzia nella scissione tra attività umane produttive di valore sociale ma non certificate come tali dal “mercato” (trattandosi della produzione di valori “immateriali”, difficilmente quantificabili in forma di prezzo, unità di misura tipica del mercato) e processi lavorativi tradizionali oggetto di un costante processo di svalutazione economica e funzionale. Da qui, nella letteratura lavoristica, il moltiplicarsi delle contrapposizioni tra work e labour, tra opus e labor, tra lavoro e attività.

Siamo dunque alla fine del lavoro, vaticinata vent’anni orsono in un famoso saggio dall’omonimo titolo? La risposta non sembra positiva; al contrario, gli indicatori empirici paiono di tutt’altro segno: il lavoro è proteiforme, ha mutato rapidamente forma e aspetto. Se è vero infatti che l’art. 1 della Costituzione, nell’affermare solennemente il nesso inscindibile tra democrazia e lavoro, ci dice anche e soprattutto che “lavorare non è l’esperienza del servo o dello schiavo, ma del cittadino libero”[, allora ben potremo convenire con chi definisce come “lavoro alienato” le maggioritarie forme di lavoro povero flessibile (simulacri del lavoro), al contrario esaltando quale “lavoro libero” le attività lavorative non remunerate a finalità sociale.

E’ dunque possibile sostenere, a ragione, che queste ultime forme di attività rappresentano la sublimazione del lavoro così come costituzionalmente inteso, in quanto sintesi ed equilibrio della libera realizzazione del proprio daimon (talento) e della altresì necessaria finalità sociale. Eppure, manca l’elemento fondamentale ai fini della liberazione dell’uomo dalla schiavitù del bisogno, ovverosia la retribuzione. Eccoci arrivati allo snodo cruciale che richiede un coraggioso “salto culturale”.

Una via d’uscita: il reddito minimo universale

Se è vero, come abbiamo poc’anzi visto, che si è sviluppato un sistema parallelo di attività umane produttive di valore e ricchezza sociale senza remunerazione alcuna (tali da far parlare, come abbiamo visto, di “economia sociale”), è giusto che tali attività vengano remunerate direttamente dai beneficiari, ovvero dalla società: ecco nascere l’esigenza, sempre più diffusa, di forme di “reddito minimo universale” (definito anche basic income), erogabili dalle autorità pubbliche locali, nazionali o sovranazionali, ed a carico quindi della fiscalità generale.

Il reddito minimo universale, dunque, acquista in tale ottica la natura di un reddito (con cadenza mensile o periodica, attraverso un trasferimento diretto di denaro) versato dalla società (nella forma della comunità politica locale, nazionale o sovranazionale) a tutti i suoi membri, su base individuale e senza nè condizioni (ovvero non subordinato allo svolgimento di specifici lavori ordinari indicati, ad esempio, dai centri per l’impiego come nel modello del reddito minimo garantito) nè controllo dei mezzi economici (erogato dunque indipendentemente dalla sussistenza o meno di uno stato di bisogno economico), trattandosi della remunerazione per le molteplici forme di attività produttiva sociale svolte da ciascuno. Un reddito “minimo”, ovvero sufficiente alla sola sopravvivenza dell’individuo (al fine di stimolare la persona ad un miglioramento delle proprie condizioni materiali attraverso il classico lavoro proprio dell’economia di mercato, dunque cumulabile con eventuali altri redditi aggiuntivi) e al contempo sufficiente ad affrancare le persone dalla “trappola della povertà” e del bisogno immediato, conferendo appunto una minima sicurezza di base.

Esperienze concrete di tale istituto, a parte quella consolidata dello stato dell’Alaskae altre limitate applicazioni sociali, non se ne hanno: si tratta di un esperimento di “ingegneria sociale” inedito e di fatto nuovo per l’umanità. Ma vale la pena sperimentarlo, sia per le profonde motivazioni idealiivi sottese sia per le concrete ed impellenti istanze di giustizia sociale che esso porta con sé: del resto, “come è avvenuto nel passato per il suffragio universale, la metamorfosi del reddito minimo universale, da sogno di qualche eccentrico a evidenza per tutti, non avverrà in un sol giorno”.

Ovviamente non è nostra intenzione addentrarci nel “campo minato” delle discussioni relative alla compatibilità economica di questo vero e proprio strumento di “salario sociale”, pur ritenendo particolarmente interessanti e degne di rilievo le considerazioni svolte da Andrea Fumagalli il quale, nel suo recente saggio Lavoro male comune, ha posto in rilievo la fattibilità economica del reddito minimo garantito, che dovrebbe sostituire tutte le forme di ammortizzatori sociali oggi sussistenti (indennità di disoccupazione, cassa integrazione e simili), incidendo non sulla contribuzione sociale (Inps) ma sulla fiscalità generale (Irpef e altre imposte): con ciò, considerazione non secondaria, andando a ridurre il cuneo fiscale sul lavoro rappresentato dal costo dei contributi, che diminuirebbero della quota corrispondente all’eliminazione dei relativi ammortizzatori.

Fine del lavoro, diritto alla scelta del lavoro e seconda globalizzazione

Ora, come si affaccerebbe sul mercato del lavoro ordinario la persona che, essendo già remunerata -nel minimo vitale- per le attività sociali svolte nella vita quotidiana, fosse quindi affrancata dal bisogno primario di vivere?

Eccoci tornati, attraverso il reddito minimo universale, alla riappropriazione del potere contrattuale sottratto dallo strumento della flessibilità: certamente l’incremento della disponibilità economica di base di ciascun individuo potrebbe chiudere le porte alla “ricerca di un lavoro qualsiasi”, schiudendo al contempo gli orizzonti del “diritto alla scelta del lavoro”. Con la correlativa necessità, per ciò che riguarda il lato della “domanda di lavoro” datoriale, di offrire condizioni lavorative più decorose e salari finalmente dignitosi, allo scopo di acquisire una manodopera che, altrimenti, diventerebbe pressoché irreperibile: e’ la fine del lavoro contemporaneo, e con esso la fine della dittatura della flessibilità esasperata e della “moderazione salariale”.

Questi potrebbero essere, in nuce, i germogli della “seconda globalizzazione”, di una nuova epoca in cui, oltre alla nascita di una nuova economia di mercato basata sullo sfruttamento delle energie rinnovabili, sulla conoscenza e sull’innovazione (la cosiddetta knoledge economy), sul ritorno della dialettica globale/locale con la riscoperta della centralità dei luoghi e delle comunità, vi sia altresì la forte affermazione della centralità dell’uomo attraverso un rinnovato illuminismo che, contro ogni forma di oscurantismo neoliberistico, ponga al servizio della società e della persona la tecnica e, prima fra tutte, la tecnica economica.

Il file .pdf dell'intero articolo completo di note, scaricabile su eddyburg
«Il presidente del Consiglio ha varato la sua «rivoluzione copernicana». In realtà il nuovo contratto "a tutele crescenti" cancella l’articolo 18 e, allargando la normativa ai licenziamenti collettivi, apre la strada alle discriminazioni. Le imprese potranno disfarsi dei lavoratori - sotto ricatto continuo - in ogni momeno» Ma non è detta l'ultima parola.

Il manifesto, 27 dicembre 2014

L’emanazione del decreto attua­tivo del Jobs act, che eli­mina, in sostanza, la tutela dell’articolo 18 dello Sta­tuto per i futuri con­tratti a tempo inde­ter­mi­nato non chiude affatto la par­tita, ma è solo la pre­messa del con­fronto vero che avrà per pro­ta­go­ni­sti i lavo­ra­tori, nelle piazze e, se neces­sa­rio, alle urne in un refe­ren­dum abrogativo.

Non è inu­tile, comun­que, ma anzi assai istrut­tivo, riper­corre alcuni momenti salienti della vicenda e le con­sa­pe­vo­lezze che ha con­sen­tito di acqui­sire. In primo luogo, infatti, nes­suno si azzarda più a defi­nire «di sini­stra» il governo Renzi-Poletti che si è dimo­strato tanto vio­lento e pre­va­ri­ca­tore nella sua azione con­tro i diritti fon­da­men­tali dei lavo­ra­tori, quanto falso e misti­fi­cante nell’uso del suo stra­po­tere media­tico.

In cosa con­si­ste, infatti, la «rivo­lu­zione coper­ni­cana» di cui stra­parla Mat­teo Renzi a pro­po­sito dei con­te­nuti del decreto attua­tivo? Pura­mente e sem­pli­ce­mente nel con­sen­tire al datore di lavoro che voglia per qual­siasi motivo (anche il più igno­bile) sba­raz­zarsi di un lavo­ra­tore di «inven­tarsi» una ine­si­stente ragione eco­no­mico pro­dut­tiva per pro­ce­dere al licen­zia­mento, e di farlo senza timore che il suo carat­tere pre­te­stuoso venga sma­sche­rato in giu­di­zio per­ché anche in tal caso gli baste­rebbe pagare la clas­sica «mul­ta­rella» (per ogni anno di ser­vi­zio due men­si­lità con il mas­simo di 24) per lasciare comun­que il lavo­ra­tore sulla strada nella con­di­zione dispe­rata discen­dente dalla disoc­cu­pa­zione di massa.

Tutto il resto del decreto attua­tivo, com­presa la dibat­tuta que­stione della par­ziale della rein­te­gra nel caso di licen­zia­menti disci­pli­nari ille­git­timi, è sol­tanto fumo negli occhi, per­ché tutti i datori imboc­che­ranno, invece, la como­dis­sima strada del «falso» motivo eco­no­mico pro­dut­tivo. Il «pro­gres­si­sta» Renzi e il «comu­ni­sta» Poletti e tutti i loro acco­liti dovranno spie­gare un giorno che cosa vi sia di moderno, di social­mente utile, di pro­gres­sivo, di «coper­ni­cano» in que­sta sfac­ciata e disgu­stosa ingiu­sti­zia che ripu­gna prima ancora che al diritto al comune senso etico.

Il secondo inse­gna­mento della vicenda ha riguar­dato il pre­sen­tarsi, ancora una volta del clas­sico «tra­di­mento dei chie­rici» per tale inten­dendo i tec­nici, i tec­nici poli­tici e i poli­tici puri che avreb­bero dovuto garan­tire i diritti fon­da­men­tali dei lavo­ra­tori assi­cu­rati dall’articolo 18 con la sua potente valenza anti ricat­ta­to­ria. Da una parte, dun­que, vi sono stati i tec­nici poli­tici che hanno lavo­rato inten­sa­mente alla for­mu­la­zione della legge delega e dei decreti attua­tivi ma di essi non mette conto dire più di tanto: si tratta di un grup­petto di anti­chi tran­sfu­ghi del movi­mento sin­da­cale che con l’accanimento tipico di chi «è pas­sato dall’altra parte» opera ormai da decenni — certo non gra­tui­ta­mente — per la siste­ma­tica demo­li­zione di ogni tutela dei lavo­ra­tori. Ma dall’altra parte pur­troppo vi sono stati poli­tici ossia i par­la­men­tari della cosid­detta «sini­stra del Pd», a parole del tutto con­trari al Jobs act, ma che nel con­creto hanno col­la­bo­rato in modo asso­lu­ta­mente deci­sivo alla sua ema­na­zione, e lo hanno fatto con piena con­sa­pe­vo­lezza. Prima vi è stato il «sal­va­gente» offerto al governo dal pre­si­dente della Com­mis­sione lavoro della Camera e con­si­stito nell’apparente miglio­ra­mento, con alcune pre­ci­sa­zioni, del pro­getto di delega che era «in bianco»: il vero scopo è stato quindi quello di sal­vare il pro­getto di delega cer­cando di ren­derlo com­pa­ti­bile con l’articolo 76 Cost. e di que­sto abbiamo detto sulle colonne del mani­fe­sto. Poi vi è stato, in data 3 dicem­bre 2014, l’episodio depri­mente e squal­lido che mai potrà essere dimen­ti­cato. Sem­brava che il destino avesse voluto pre­pa­rare un momento della verità: il testo del Jobs Act modi­fi­cato alla Camera per sal­varlo dall’incostituzionalità era con­se­guen­te­mente tor­nato al Senato, dove però la mag­gio­ranza del governo era assai più sot­tile. E al Senato vi erano 27 sena­tori del Pd che si erano dichia­rati con­trari all’eliminazione dell’articolo 18 ma che poi, al momento di deci­dere, hanno invece appro­vato il testo legi­sla­tivo giu­sti­fi­can­dosi con il clas­sico docu­mento «salva-anima» sulla neces­sità di non pro­vo­care crisi di governo. Ebbene, il risul­tato della vota­zione li inchioda per sem­pre alla loro respon­sa­bi­lità: vi sono stati 166 voti favo­re­voli, 112 con­trati e un aste­nuto. Se i 27 «amici» dei lavo­ra­tori e dei loro diritti aves­sero coe­ren­te­mente votato con­tro il pro­getto il risul­tato sarebbe stato di 139 favo­re­voli, 139 con­trari e un aste­nuto e poi­ché l’astensione al Senato conta voto nega­tivo il Jobs Act sarebbe andato in sof­fitta una volta per tutte! Il colmo dell’ipocrisia i 27 sena­tori lo hanno poi rag­giunto nella chiu­sura di quel docu­mento di giu­sti­fi­ca­zione pro­met­tendo mas­sima vigi­lanza in sede di for­mu­la­zione dei decreti attua­tivi: enun­cia­zione ridi­cola, visto che come tutti sanno, i decreti attua­tivi il legi­sla­tore dele­gato «se li fa da solo» senza il con­corso del Parlamento.

Accanto a que­ste brut­ture, che è tri­ste ma giu­sto ricor­dare, vi sono stati, però, impor­tanti fatti posi­tivi: l’ottima riu­scita della mani­fe­sta­zioni del 25 otto­bre e del 12 dicem­bre e l’affiancamento quanto mai impor­tante, in occa­sione di quest’ultimo evento, della Uil alla Cgil. Ci sono, allora, tutte le pre­messe per un lieto fine: infatti per i con­tratti di lavoro già in essere non cam­bia ancora nulla e l’articolo 18 intanto rimane, rein­te­gra com­presa, e occor­rerà un bel po’ di tempo per­ché i nuovi con­tratti, detti «a tutele cre­scenti» ma in realtà privi di tutela pren­dano piede. Nel frat­tempo sarà allora pos­si­bile sot­to­porre tem­pe­sti­va­mente il decreto attua­tivo ad un refe­ren­dum abro­ga­tivo, e cioè al giu­di­zio popo­lare e di quei lavo­ra­tori che di con­ti­nuo Mat­teo Renzi cerca di ledere e insieme di ingan­nare. La via del refe­ren­dum abro­ga­tivo appare quanto mai sem­plice e frut­tuosa per­ché in sostanza il decreto attua­tivo intro­duce per i nuovi con­tratti un tipo di san­zione dei licen­zia­menti ingiu­sti­fi­cati diverso e se stante rispetto a quello degli altri rap­porti: per­tanto una volta abro­gato per refe­ren­dum il decreto la san­zione dell’articolo 18 torna ad essere gene­rale per rap­porti vec­chi e nuovi secondo il prin­ci­pio di «autoim­ple­men­ta­zione» dell’ordinamento. Chi scrive si per­mette di riven­di­care l’onore di poter per­so­nal­mente redi­gere i que­siti referendari

Uno sciopero generale che contribuisca ad arrestare la politica distruttiva del "capitalismo scatenato", necessaria premessa per la faticosa costruzione di un sistema economico sociale alternativo.

Il manifesto, 12 dicembre 2014

Lo scio­pero gene­rale con­tro il Jobs Act e più in gene­rale con­tro la legge di sta­bi­lità, mette in luce la fal­li­men­tare poli­tica eco­no­mica del governo che asse­conda la deriva libe­ri­sta del “capi­ta­li­smo sca­te­nato”, come, una die­cina di anni fa, l’economista inglese Andrew Glynn defi­niva la nuova fase del capi­ta­li­smo. Una rispo­sta allo spo­sta­mento nella distri­bu­zione dei red­diti a favore del lavoro regi­strato negli anni sessanta-settanta.

Da allora ripri­stino della disci­plina macroe­co­no­mica, pri­va­tiz­za­zioni, inco­rag­gia­mento delle forze di mer­cato, foca­liz­za­zione delle imprese sul “valore per l’azionista” sono stati i pila­stri di una feroce con­trof­fen­siva: il con­flitto distri­bu­tivo ha cam­biato segno, e, per l’effetto con­giunto di minore e peg­giore occu­pa­zione e di più bassi salari reali, la quota di red­dito che va al lavoro è costan­te­mente diminuita.

Quell’offensiva del capi­tale, che oggi tocca livelli prima impen­sa­bili in Ita­lia, non si limita a ripor­tare indie­tro le lan­cette della sto­ria per tor­nare alla situa­zione pre­e­si­stente. Se così pro­ce­des­sero i pro­cessi sto­rici tro­ve­rebbe legit­ti­mità la teo­ria del pen­dolo: uno spo­sta­mento dei rap­porti di potere ecces­sivo ad un certo punto si ferma e si met­tono in moto le forze che spin­gono in dire­zione con­tra­ria. Così si potreb­bero leg­gere, in que­sto caso, la rispo­sta del capi­tale di cui abbiamo par­lato e quella che oggi cerca di dare il sin­da­cato anche con lo scio­pero. Ma la situa­zione reale è molto più com­plessa per­ché negli ultimi decenni è cam­biato il mondo ed è cam­biato lo stesso capitalismo.

La glo­ba­liz­za­zione, la con­nessa Ascesa della finanza — titolo que­sto di un bel­lis­simo e pre­veg­gente libro del caro Sil­vano Andriani recen­te­mente scom­parso — e, più di recente, la rivo­lu­zione digi­tale hanno deli­neato un capi­ta­li­smo che ha fatto un enorme salto di qua­lità. In que­sta nuova fase di un capi­ta­li­smo per il quale non tro­viamo ancora una deno­mi­na­zione con­di­visa – oscil­lando dal finan­z­ca­pi­ta­li­smo di Gal­lino al capi­ta­li­smo patri­mo­niale di Piketty – gli ele­menti che emer­gono sono due.

Il primo è costi­tuito dalla glo­ba­liz­za­zione del mer­cato del lavoro che mette in com­pe­ti­zione, in ter­mini di costo, il lavoro delle eco­no­mie svi­lup­pate con quello delle eco­no­mie emer­genti. Gli effetti di que­sta nuova com­pe­ti­zione sono bidi­re­zio­nali: da un lato si spo­sta la pro­du­zione dai paesi ad ele­vato costo del lavoro verso quelli a costo più basso, dall’altro i lavo­ra­tori delle aree più arre­trate emi­grano nelle aree svi­lup­pate per fare i lavori più pesanti ed a con­di­zioni rifiu­tate dai resi­denti. L’effetto di que­sti pro­cessi sul con­flitto distri­bu­tivo è, per i paesi svi­lup­pati, quello di un abbas­sa­mento dei salari e di una ridu­zione dei diritti. Il secondo ele­mento che carat­te­rizza que­sta fase è la rivo­lu­zione digi­tale che ha già inve­stito pesan­te­mente la pro­du­zione mani­fat­tu­riera e che inve­stirà sem­pre di più i set­tori del com­mer­cio e dei ser­vizi, pub­blici e pri­vati, ridu­cendo la quan­tità di lavoro neces­sa­ria e modi­fi­cando pro­fon­da­mente, con­te­nuti e moda­lità della pre­sta­zione lavorativa.

I due ele­menti segna­lati si intrec­ciano tra di loro, e con­tri­bui­scono allo stesso pro­cesso: una sva­lu­ta­zione del lavoro impen­sa­bile fino a pochi anni fa che si mani­fe­sta a livello sovra­na­zio­nale ed agi­sce su un ter­reno senza regole come quello finan­zia­rio nel quale il capi­ta­li­smo sca­te­nato è diven­tato sfug­gente ed inaf­fer­ra­bile. I pro­cessi di cui stiamo par­lando non sono ancora com­piuti, ma in pieno svol­gi­mento e, quindi, le situa­zioni che si vivono nei vari paesi sono dif­fe­ren­ziate secondo le loro sto­rie e secondo le moda­lità con le quali si stanno affron­tando i pro­cessi stessi.

Non è un caso che l’area dei paesi svi­lup­pati si arti­coli in tre gruppi: eco­no­mie che si affac­ciano verso una pos­si­bile nuova fase di cre­scita come gli Usa, eco­no­mie che hanno supe­rato la crisi anche se non hanno ritro­vato il sen­tiero della cre­scita come Ger­ma­nia e Nord Europa, eco­no­mie che rista­gnano ed indie­treg­giano. Que­sto signi­fica che, pur di fronte ad una comune con­trof­fen­siva del capi­tale, non è ine­lut­ta­bile che i paesi più svi­lup­pati subi­scano con­tem­po­ra­nea­mente ridu­zioni del lavoro, ridu­zioni dei diritti ed inde­bo­li­mento e declino delle strut­ture pro­dut­tive. Un mix que­sto che può essere vera­mente esplo­sivo. L’Italia si col­loca nel terzo gruppo ed è sulla soglia di un’esplosione sociale.

Lo scon­tro che la agita oggi, pro­ta­go­ni­sti Cgil, Uil e governo si col­loca in que­sto con­te­sto e la par­tita appare deci­siva per il nostro futuro. Se è vero che siamo in mezzo ad una muta­zione che supera i con­fini nazio­nali è anche vero che le moda­lità scelte dal nostro governo sono di ras­se­gna­zione, al di la delle chiac­chiere su spe­ranze e futuro, ad un ridi­men­sio­na­mento di lavoro, diritti e futuro produttivo.

Aver fatto della subor­di­na­zione alle logi­che con­fin­du­striali e dello scon­tro col sin­da­cato il perno delle poli­ti­che del governo ci sta cac­ciando in un vicolo cieco. In Ita­lia non dob­biamo dimen­ti­care che, a parte alcune isole felici di una parte dell’imprenditoria che ha saputo inve­stire, inno­vare ed espor­tare, le ricette del pas­sato (con­te­ni­mento del costo del lavoro e sva­lu­ta­zioni com­pe­ti­tive), non hanno aiu­tato il capi­ta­li­smo ita­liano a cre­scere pun­tando sull’innovazione, sulla ricerca e sull’aumento della dimen­sione di impresa. Anche per que­sto, quello che abbiamo oggi di fronte è un capi­ta­li­smo indu­striale che sa solo chie­dere più libertà di licen­ziare, meno tasse, pri­va­tiz­za­zioni per fare inve­sti­menti sicuri e grandi opere nelle quali lucrare; un capi­ta­li­smo inca­pace di pro­get­tare una pos­si­bile poli­tica indu­striale di inve­sti­menti, di ricerca, di nuovi rap­porti pro­du­zione – uni­ver­sità — ricerca…

Que­sto capi­ta­li­smo non andrebbe coc­co­lato con un po’ di spic­cioli elar­giti a piog­gia accon­ten­tan­dolo e facendo copia/incolla delle sue ricette, ma sti­mo­lato e sfi­dato a fare un salto di qua­lità. Certo que­sto richie­de­rebbe un governo con una capa­cità pro­get­tuale, con un piano dei tra­sporti e della mobi­lità, con un piano di risa­na­mento ambien­tale e del ter­ri­to­rio, con un piano indu­striale ed una visione dei set­tori del futuro.

Ed invece noi abbiamo di fronte una classe indu­striale ed un governo asso­lu­ta­mente ina­de­guati alle sfide del nostro tempo. E’ in que­sto qua­dro che si col­loca lo scio­pero del 12. Per la com­ples­sità dei pro­blemi di cui abbiamo par­lato, non pos­siamo e non dob­biamo illu­derci che con esso si possa fare il mira­colo di capo­vol­gere que­sta situa­zione. Ma la “poli­tica” di que­sto governo e la sua “non poli­tica” vanno con­tra­state e fer­mate. Fare que­sto sarebbe già tanto ed una buona riu­scita delle mobi­li­ta­zioni di oggi è per que­sto essen­ziale. Impor­tante sarà, però, soprat­tutto il dopo.

Sarà quello che acca­drà nel Pd e quello che acca­drà a sini­stra. Un futuro vicino, ad oggi impre­ve­di­bile, la cui dire­zione più o meno a sini­stra dipen­derà sì dall’esito dello scio­pero, ma soprat­tutto da come sapremo rico­struire un pen­siero di sini­stra volto al futuro più che al pas­sato. Ma que­sto, in tempi di cor­ru­zioni – dege­ne­ra­zione — eva­po­ra­zione dei par­titi — asten­sio­ni­smo dila­gante, è pro­prio un altro capitolo

Susanna Camusso «il segretario generale della Cgil ospite di Repubblica Tv alla vigilia dello sciopero generale. "Renzi ha avuto il merito di accendere una grande speranza in questo Paese. Adesso non la trasformi in paura evocando la

Troika. Traduca quella speranza in lavoro"». Repubblica.it, 11 dicembre 2014

ROMA - «Non credo che la decisione sia stata presa in solitudine, perché è un atto grave. La nostra risposta è in atto, con forme di protesta e di denuncia di questo intervento a gamba tesa. Chiediamo la revoca della precettazione. Se il governo la dovesse mantenere, la rispetteremo, ma è un atto grave». Susanna Camusso, ospite del videoforum di Repubblica Tv, reagisce così alla decisione del ministro dei Trasporti Maurizio Lupi, di richiamare al lavoro i ferrovieri che venerdì avrebbero aderito allo sciopero generale indetto da Cgil e Uil contro Jobs act, legge di stabilità, politiche economiche e industriali, mancato rinnovo del contratto dei dipendenti pubblici.

«Stiamo valutando, non finisce lì perché secondo noi si viola la legge e c'è un uso strumentale della legge - osserva la leader Cgil -. Noi abbiamo proclamato lo sciopero più di un mese fa. Non abbiamo ancora avuto il testo dell'ordinanza, che valuteremo. Abbiamo appreso della precettazione dai giornali. Poi si chiede a noi di non alimentare la conflittualità». «Vorrei sottolineare - aggiunge Camusso - come le procedure non siano rispettate, con atti unilaterali che alzano i toni del conflitto». Il segretario generale della Cgil venerdì mattina parlerà a Torino, ma la manifestazione, connotata dallo slogan "Così non va", si estenderà a oltre 50 piazze italiane.

In 20 anni di Berlusconi mai tanti scioperi come contro Renzi. (domanda dai lettori Rosario Giosa e Fulvio Castellani)
Non è vero, la lunga stagione dei governi di centrodestra è coincisa col maggior numero di scioperi. Li abbiamo sempre contrastati. Poi capisco, la domanda è legittima da chi ha sperato che Renzi fosse il grande cambiamento. Ma in nome della speranza ci prendiamo i licenziamenti senza giusta causa? Sono sentimenti che attraversano tutto il popolo della Cgil e dei lavoratori. Il mondo del lavoro non può rinunciare a lavoro e diritti.

"Cara Camusso, sei riuscita a convincermi a dare la disdetta all'Inps relativamente alla trattenuta pro Cgil. Mi sembra che niente sia cambiato dal 1984 quando la Cgil era in piazza contro l'abrogazione della scala mobile". La domanda riassume quanto molti pensano: Cgil oggi è retroguardia, meglio togliere le tutele purché ci sia lavoro. (domanda dal lettore Enzo Reali)
E' un Paese che ha scelto di competere solo sulla riduzione dei costi, con un lavoro che costi meno e non abbia diritti. E' un'illusione, che va rispettata nelle singole persone, la povertà induce a certi comportamenti. Ma la responsabilità deve essere che per quella via il nostro Paese è diventato fragile. La vera retroguardia e grande sconfitta sarebbe ridurre i diritti sul lavoro. Concentrare tutto sulla diminuzione dei diritti rende il paese fragile e senza sviluppo. Ci sono tutti gli elementi per dire che per quella strada si arriva a forme di schiavitù e guerra tra poveri.

Anche i precari meritano di essere rappresentati.
Noi abbiamo detto al governo, ricevendo disprezzo: abbiamo bisogno di ricostruire il lavoro in Italia. C'è poco lavoro rispetto alla domanda, lo dicono le cifre. La scelta dovrebbe essere di investire, partendo dagli investimenti pubblici. E tutte le risorse andrebbero indirizzate lì. Se si riduce il lavoro si riducono i diritti. In Italia c'è anche un fenomeno nuovo: un milione di persone che con un lavoro, anche a tempo pieno, è comunque sulla soglia della povertà. Non vediamo nelle politiche del governo come si distribuisca la ricchezza per generare il lavoro. Si può reagire contrastando l'austerità, non solo dicendolo in Europa, ma facendolo anche in Italia. Mentre c'è questa strana dicotomia.

Dipendenti pubblici che scioperano "solo" per il contratto. E attacchi al "senso di responsabilità" di chi nel Pd ha votato il Jobs Act, in riferimento soprattutto alla minoranza dem. Un elenco di "tradimenti".(domanda dai lettori Nicola Verdicchio, Claudio De Biase e Maria Genova)
E' l'effetto di una situazione, un mondo del lavoro che ha una sua proposta, che va in conflitto con chi faceva del lavoro il suo riferimento centrale. Questa frammentazione non fa bene a nessuno, il governo fa male ad alimentarla. Ma è questo il grande tema: il lavoro non ha rappresentanza politica, quindi cambia anche il rapporto tra le organizzazioni sindacali e i partiti. Mi ricordavano una preoccupante assonanza: il Codice del lavoro del 1927 diceva che per il licenziamento ingiusto c'è l'indennizzo, si torna a quella logica col Jobs Act. Ma non tutto è monetizzabile, la dignità delle persone ad esempio.

Uno studio della Uil dimostra che le misure del Jobs Act incentiveranno a licenziare piuttosto che ad assumere.
C'è una strana e poco trasparente discussione sui decreti attuativi del Jobs Act. I ministri competenti sono desaparecidos e questo dopo che Renzi aveva detto che dovevano parlare con i sindacati. Dopo aver deciso che la strada è la monetizzazione, si discute su come risparmiare. E se tutto si gioca sulle risorse, si dà un vantaggio alle imprese che licenziano, che hanno sgravi e pagano poco chi sarà assunto dopo. Ma con le tutele crescenti, cresce nel tempo anche l'indennizzo da corrispondere ai nuovi assunti in caso di licenziamento. Il che incentiva a interrompere quel rapporto il prima possibile. Vedo che una parte del Parlamento si è accorto di questo. E, in un Paese normale, dovrebbe essere obbligato a cambiare quello schema.

Assieme allo sciopero generale, non ci vorrebbe anche altro tipo di sciopero, quello dei consumi? (domanda dalla lettrice Angela Castellero)

La domanda della lettrice arriva da una parte del Paese che ci comunica il senso di abbandono che si prova oggi. Anche noi ci interroghiamo su forme diverse. Ma nello specifico, lo sciopero dei consumi è già in atto a causa della crisi. Forme alternative di mobilitazione, un ottimo suggerimento. Ma, vista la situazione, credo si debba sperimentare in altre direzioni.

Lo sciopero si poggia su un pacchetto vasto di temi. Su quale vorrebbe ottenere una risposta positiva?
Sul lavoro, un cambiamento di impostazione che metta tutte le risorse e le energie a disposizione del lavoro, per il futuro. Dando concretezza a quel senso di speranza che il governo intende dare.

Ma anche sulla qualità del lavoro, per dare speranza a tutti quei giovani costretti a fuggire dall'Italia se vogliono essere apprezzati per preparazione e talento.
Lavoro e qualità vanno insieme. Nel contrasto all'idea del lavoro senza diritti, è implicita l'idea della qualità. Si può costruire un percorso. Si potrebbe utilizzare la flessibilità nell'uscita pensionistica. Ma è fondamentale creare lavoro.

Colpisce che due donne alla testa dei sindacati, Camusso e Furlan, nuova segretaria della Cisl, non siano riuscite a creare un'intesa. Furlan non ha escluso che su alcuni temi si possa parlare con la Cgil. Strano, considerando che la Cisl non è affatto morbida con Renzi.
Infatti, credo che da parte della Cisl ci sia una pregiudiziale, non sui contenuti ma sul "non ci si può mobilitare". Ma io dico che non ci si può nemmeno rassegnare. Se si crede che con un'intervista arrivino risposte positive non andiamo da nessuna parte. Ci siamo sentiti rimproverare che quando al governo c'era Monti abbiamo fatto poco. Di fronte a un simile attacco, non si può restare fermi. La Cisl non capisce che i nostri iscritti non comprenderebbero una mancata risposta, lo interpreterebbero come rassegnazione.

Forse sarebbe stato necessario un approccio diverso. Ovvero, la Cisl che va allo sciopero "insieme" alla Cgil, non "aderisce" allo sciopero Cgil.
In realtà, noi abbiamo discusso molto. La nostra idea è stata proposta, ma c'è un tempo per fare le cose. E quel tempo è adesso. Se non ci sono risposte bisogna trarre le conseguenze. Se i lavoratori hanno diritto, bisogna scegliere se esercitare le proprie capacità di pressione per cambiare le politiche o stare un passo indietro. Noi abbiamo scelto di fare il passo avanti. Il governo Renzi non può non sapere che si sono cumulati degli effetti che provocano la reazione delle persone.

Il suo giudizio su Renzi.
Penso che abbia il merito di avere acceso una grande speranza in questo Paese. Adesso non la trasformi in paura evocando la Troika. Evocare quella speranza è stata anche la sua fortuna. Ora la traduca in lavoro.

La Repubblica, 18 novembre 2014

UNO dei principali esiti del Jobs Act, a danno dei lavoratori, sarà la liquidazione di fatto del contratto nazionale di lavoro (CNL), in attesa di una legge — di cui il governo parlerà, sembra, a gennaio — che ne sancisca anche sul piano formale la definitiva insignificanza rispetto alla contrattazione aziendale e territoriale. D’altra parte la strada verso tale esito nefasto era già stata tracciata dagli accordi interconfederali del giugno 2011 e del novembre 2012 (non firmato dalla Cgil). In essi venivano assegnate al cnl dei compiti del tutto marginali rispetto alla sua funzione storica: che sta nel difendere la quota salari sul Pil, cioè la parte di reddito che va ai lavoratori rispetto a quella che va ai profitti e alle rendite finanziarie e immobiliari. Grazie al progressivo indebolimento del cnl, dal 1990 al 2013 tale quota è diminuita in Italia di circa 7 punti, dal 62 per cento al 55. Si tratta di oltre 100 miliardi che invece di andare ai lavoratori vanno ora ogni anno ai possessori di patrimoni, dando un contributo di peso all’aumento delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza. Questo spostamento di reddito dal ai profitti e alle rendite ha pure contribuito alla contrazione della domanda interna. Un top manager può pure guadagnare duecento volte quel che guadagna un suo dipendente, ma quanto a consumi quotidiani, dagli alimentari ai trasporti, non potrà mai rappresentare una domanda pari a quella di duecento dipendenti.

Oltre che tra i lavoratori e le classi possidenti, le disuguaglianze aumenteranno tra gli stessi lavoratori. La facoltà conferita alle imprese, comprese decine di migliaia medio-piccole, di regolare mediante accordi sindacali anche locali sia il salario, sia altre condizioni cruciali del rapporto di lavoro, avrà come generale conseguenza una ulteriore riduzione dei salari reali e con essi della quota salari sul Pil. In fondo, è uno degli scopi del Jobs Act, anche se non si legge in chiaro nel testo. Ma ciò avverrà, quasi certamente, con differenze rilevanti attorno alla media tra le imprese che vanno bene e le tante altre che arrancano. Queste si gioveranno della suddetta facoltà per pagare salari che in molti casi collocheranno i percipienti al disotto della soglia della povertà relativa, che nel 2013 era fissata in circa 1.300 euro per una famiglia di tre persone. Si può quindi stimare che il numero di “lalavoro voratori poveri” aumenterà in Italia in notevole misura. Alle disuguaglianze di reddito tra un’azienda e l’altra, a parità di lavoro, si aggiungeranno quelle territoriali, quelle che un tempo il cnl doveva servire a superare, stabilendo quanto meno una base salariale per tutti.

Va però notato che il regime di bassi salari, introdotto di fatto dal decreto sul lavoro, ostacola fortemente anche la modernizzazione delle imprese e danneggia l’intera economia. Le imprese italiane — con rade eccezioni — si collocano da anni tra le ultime della Ue quanto a spesa in ricerca e sviluppo; tasso di investimenti fissi; età degli impianti; innovazione di prodotto e di processo. Nonché, guarda caso, per la produttività del lavoro. Dagli anni 90 in poi le spese in ricerca, sviluppo e investimenti fanno registrare entrambe un patetico zero virgola qualcosa. L’età media degli impianti è il doppio di quella europea, più o meno 25-28 anni contro 12-15. Inoltre le imprese italiane sono, in media, troppo piccole. Risultato: l’aumento della produttività del lavoro segna anch’esso uno zero virgola sin dagli anni 90.

Varando delle leggi sul lavoro che consentono un uso sfrenato del precariato, evitando di impegnarsi in qualsiasi azione che assomigli a una politica industriale, i governi italiani hanno efficacemente contribuito a mantenere le imprese italiane nella condizione di ultime della classe. Il Jobs Act offre ad esse un aiuto per mantenersi in tale posizione. Si può infatti essere certi che ove la legge permetta loro di pagare salari da poveri quattro imprese su cinque utilizzeranno tale facilitazione e non spenderanno un euro in più in ricerca, sviluppo e investimenti, rinnovo degli impianti, innovazioni. E l’aumento annuo della produttività del lavoro, che è strettamente collegato a tali voci, resterà nei pressi dello zero.

C’è in ultimo da chiedersi se gli estensori del Jobs Act abbiano un’idea di quanto siano oggi numerosi e complessi i fattori della produttività del lavoro: essa è seriamente misurabile solo a livello nazionale, mentre a livello di impresa, in specie se medio-piccola, misurare stabilmente e per lunghi periodi la produttività del lavoro, è come cercare di catturare un ologramma con una canna da pesca. Qualsiasi bene o servizio un’impresa produca, è ormai raro che se lo produca per intero da sola. La maggior parte dei componenti arriva da altre imprese. Innumeri prodotti, dai gamberetti alle camicie, percorrono migliaia di chilometri in aereo o per nave prima di arrivare nei nostri negozi. Un piccolo elettrodomestico da cinquanta euro, assemblato da ultimo da una casa italiana per essere venduto nei supermercati, capita sia costituito di un centinaio di pezzi provenienti da dieci paesi diversi. In tali complicatissime “catene di produzione del valore” come sono chiamate, interamente fondate sull’informatica, può avvenire di tutto. Che un componente ritardi; che non sia quello giusto; sia guasto; abbia cambiato di prezzo rispetto al contratto; richieda macchinari non previsti per essere rifinito o assemblato; ecc. Tutti questi inconvenienti incidono ovviamente sulla produttività dell’impresa finale. E non sono l’ultimo motivo per cui la produttività del lavoro aumenta annualmente dello zero virgola nelle imprese italiane. Le quali, temo, cercheranno invano nel Jobs Act, come si fa a misurarla davvero, e magari come si fa ad aumentarla. Senza di che i nuovi “lavoratori poveri”, in tema di frutti della produttività, avranno ben poco da spartirsi.

«Diario di bordo di un sindacalista rientrato nel luogo di lavoro: la Biblioteca Ariostea di Ferrara. Tra mini voucher ai pensionati e cooperative di servizi, la lotta di classe alla rovescia entra anche tra incunaboli e volumi dell’epica rinascimentale».

Il manifesto, 11 settembre 2014, con postilla

Palazzo Para­diso è la sede cen­trale del polo biblio­te­ca­rio di Fer­rara, il mio posto di lavoro ori­gi­na­rio, dove sono rien­trato dopo molti anni di distacco sin­da­cale, gra­zie al governo Renzi. È un palazzo bello e impo­nente, sito in pieno cen­tro sto­rico, fatto costruire nel 1391 da Alberto V d’Este e che deve pro­ba­bil­mente il pro­prio nome a un ciclo di affre­schi ispi­rato ad esso.

In que­sti anni di lon­ta­nanza da que­sto luogo, i miei ricordi forse non me lo raf­fi­gu­ra­vano in que­sto modo, ma cer­ta­mente mi riman­da­vano a un mondo un po’ a parte, un po’ ovat­tato, pre­ser­vato dal gorgo della post­mo­der­nità, pre­si­diato da stu­diosi e ricer­ca­tori inte­res­sati alle vicende dell’Orlando Furioso e dell’epopea uma­ni­stica — rina­sci­men­tale. In que­sta sug­ge­stione ovvia­mente c’entrava il fatto che la biblio­teca Ario­stea svolge sì fun­zione di pre­stito libra­rio «clas­sico», ma è forte di un patri­mo­nio di circa 100.000 volumi anti­chi, tra cui molti incu­na­boli e rari.

Sono stato asse­gnato, in que­sti giorni in via tem­po­ra­nea, al ser­vi­zio di prestiti-rientri dei libri, nel cosid­detto front-office con il pub­blico. Siamo poco meno di una decina su due turni di lavoro, a rico­prire tale ruolo, appena suf­fi­cienti a rispon­dere a un’affluenza di per­sone, soprat­tutto stu­denti uni­ver­si­tari, che mi dicono essere deci­sa­mente cre­sciuta in que­sti anni.

Accanto a noi, addetti a dare infor­ma­zioni al pub­blico, e al piano di sopra, con com­piti pre­va­len­te­mente di guar­dia­nia dei locali museali, ci sono i volon­tari dell’Auser, affi­liata allo Spi-Cgil. Sono un certo numero, si alter­nano in circa una ven­tina su tre turni. Dopo un po’ rea­lizzo che sono volon­tari un po’ spe­ciali: pen­sio­nati che inte­grano il loro red­dito, che non ci vuole molto a capire non è quello delle pen­sioni d’oro o d’argento, con un rim­borso che può arri­vare a circa 200 euro men­sili, sem­pre che sia sup­por­tato da cor­ri­spon­denti scon­trini che giu­sti­fi­chino le spese soste­nute. Una spe­cie di vou­cher che, per esem­pio, come mi spiega Rosa che lavora di fianco a me, con­sente di andare dal par­ruc­chiere visto che per svol­gere il lavoro di acco­glienza è giu­sta­
mente rico­no­sciuto che biso­gna pre­sen­tarsi bene.

Poi, al mat­tino, appena prima dell’apertura al pub­blico, pas­sano le donne delle puli­zie, rigo­ro­sa­mente dipen­denti di una coo­pe­ra­tiva, che, come mi fa pre­sente una di loro, gira per 4–5 «can­tieri» — così li chiama — al giorno. Avanti e indie­tro tutto il giorno tra casa e luo­ghi di lavoro diversi: per for­tuna che Fer­rara è un faz­zo­letto e in un quarto d’ora di bici­cletta vai da un capo all’altro della città.

In que­sto puzzle del lavoro, non vedo un’altra tipo­lo­gia clas­sica, quella dei lavo­ra­tori delle coo­pe­ra­tive sociali che affian­cano i lavo­ra­tori pub­blici, facendo lo stesso lavoro ma pagati meno. Però — tran­quilli — anch’essi, in pas­sato, hanno popo­lato que­sto luogo, in una fase di rela­tivo incre­mento del lavoro, per poi spa­rire quando le esi­genze di ulte­riore rispar­mio hanno ripreso il soprav­vento. In com­penso, non ci sono ancora i grup­petti di disoc­cu­pati e extra­co­mu­ni­tari che però sta­zio­nano nei mesi inver­nali, quando fa più freddo, nei locali d’ingresso della biblio­teca, creando qual­che pro­blema di con­vi­venza — solo rara­mente di «ordine pub­blico» — con gli abi­tuali fre­quen­ta­tori di que­sto luogo civico.

Non c’è che dire: un bello spac­cato di un lavoro che è stato fram­men­tato, che ne ha rotto i legami sociali e di soli­da­rietà, che lo priva di senso gene­rale e lo svalorizza.Certo, si coglie ancora una rela­zione di inte­resse e rico­no­sci­mento reci­proco all’interno di que­sta pic­cola e diver­si­fi­cata comu­nità , ma a me appare più il lascito in via d’estinzione di una cul­tura frutto di un glo­rioso pas­sato — quella civile e soli­dale che ha accom­pa­gnato il «modello emi­liano», anch’esso ormai esau­rito — piut­to­sto che un’acquisizione pro­iet­tata nel futuro.

Del resto, se l’imperativo è il taglio della spesa pub­blica, che sarebbe di per sé impro­dut­tiva, anche il lavoro ad essa col­le­gato non può che sog­gia­cere ad esso. Non importa se poi tutto ciò pro­duce impo­ve­ri­mento, disu­gua­glianza e distru­zione della coe­sione sociale. Se rimane, alla fine, la soli­tu­dine com­pe­ti­tiva dell’individuo di fronte al mer­cato e la con­trap­po­si­zione tra penul­timi e ultimi. Sem­mai, quello che impres­siona è, come dice in que­sti giorni il pre­mier Renzi, biso­gna pro­se­guire su que­sta strada e, anzi, raf­for­zarla. Per­ché, sem­pre secondo il suo lucido pen­siero, c’è ancora «molto grasso da tagliare».

Forse anche a lui, sem­pre che ce l’abbia mai avuto, non farebbe male rientrare in un posto di lavoro subor­di­nato. Potrebbe vedere un mondo un po’ rove­sciato, ma pro­ba­bil­mente più veri­tiero delle slide con cui ci inonda da un po’ di mesi in qua.

postilla

Corrado Oddi è stato tra i più attivi ed efficaci organizzatori del referendum per l'acqua pubblica. Ha svolto quel suo rilevante impegno sociale in quanto dirigente della CGIL, e quindi potendo godere del "privilegio" del distacco sindacale. Non c'è bisogno di essere maliziosi per comprendere il nesso tra l'obbligato ritorno di Corrado al lavoro d'ufficio e il suo ruolo di promotore di importanti lotte sociali di civiltà. E' amaro constatare che simili eventi si manifestano a causa delle decisioni di un governo che molti continuano a definire "di centro sinistra" , se non addirittura "di sinistra"

Bene un nuovo New Deal per l’Altra Europa
ma non quello di Junker
di Alfonso Gianni

Ho letto con attenzione l’articolo di Barbara Spinelli pubblicato sul Manifesto. Barbara conclude con una frase che meriterebbe qualche ulteriore chiarimento: “Resta la promessa di un comune piano d’investimenti nell’economia reale, pari a 300 miliardi di euro su 3 anni: una sorta di New Deal che Juncker ha esposto al Parlamento europeo, favorito in questo dai governi di Italia e Francia (è quanto va chiedendo l’Iniziativa cittadina che porta lo stesso nome: New Deal for Europe). Con che mezzi lo si voglia attuare non è chiaro - mentre l’Iniziativa cittadina chiede una duplice tassa comunitaria sulle transazioni finanziarie e sull’emissione di anidride carbonica – ma appoggiarlo sarebbe già un primo passo.”

A quanto so – ma le mie informazioni possono essere incomplete e superate il piano Juncker appare alquanto generico; ad esempio viene citata la tradizionale voce infrastrutture. Ma cosa significa in concreto? La specificazione su quali infrastrutture stiamo parlando è decisivo per capire se si tratti di cosa buona o cattiva. Inoltre Barbara fa presente la questione del reperimento delle risorse. Juncker ha parlato di Banca per gli investimenti europei (BEI) e di bilancio europeo, che come sappiamo è molto striminzito (tanto è vero che noi proponiamo almeno di quintuplicarlo), oltre che di un mix tra investimenti pubblici e privati (questi ultimi dove e come?), mentre l’Ice cui abbiamo aderito parla esplicitamente di Tobin tax e di carbon tax. Ovvero in questo caso il finanziamento di un simile piano sarebbe a carico della speculazione finanziaria e di chi peggiora l’ambiente. Non si tratta di differenze da poco. Ma allora perché “appoggiare” , seppure come primo passo, il piano Juncker e non invece criticarlo fin da subito nel merito, sviluppando la giusta idea di un New Deal basato su nuovi investimenti, con forme di finanziamento aggiuntive (perché provenienti da nuovo tassazioni che colpiscono il capitale) e su un’idea diversa di sviluppo sociale e quindi di settori da incrementare? O no?

D’accordo
ma l’importante è cominciare
diBarbara Spinelli

Caro Alfonso, ti ringrazio innanzitutto per aver letto con attenzione l'articolo sul Manifesto. Capisco che la formulazione sul Piano Juncker di investimenti comunitari possa esserti sembrata ambigua, ma lo spazio che mi è stato dato dal giornale imponeva una sintesi. L'articolo era il sunto del discorso iniziale che ho pronunciato davanti ai ministri e sottosegretari per gli affari europei dell'Unione: a quella platea ho detto che un loro unanime appoggio allo stanziamento di una somma importante per lo sviluppo sarebbe un primo passo in direzione del cambio di politica che auspichiamo (l'appoggio in effetti stenta a venire: per il momento Italia e Francia spingono in questa direzione, ma timidamente e confusamente).

Al tempo stesso, ho tuttavia espresso con molta chiarezza il mio (e nostro, immagino) punto di vista in proposito: i soldi che Juncker e alcuni governi dicono di voler mobilitare non sono sufficienti, se interverrà solo la Banca europea degli investimenti, e considerato il fatto che le risorse comuni dell'Unione sono state addirittura decurtate dai ministri. E ho fatto mio il piano dell'Iniziativa cittadina New Deal 4 Europe, secondo il quale devono esser messe a disposizione ulteriori risorse della Banca di investimenti, questo sì, ma soprattutto vanno introdotte due tasse a mio avviso generatrici non solo della crescita in sé, ma di uno sviluppo diverso, ecologico e non più basato sulla finanziarizzazione dell'economia (tassa sulle transazioni finanziarie e carbon tax). Per fortuna l'accenno alle due tasse è rimasto nel testo del Manifesto.

postilla

Il commento di Alfonso Gianni e la replica (meglio, la precisazione, poiché tra i due interventi non ci sono differenze di posizione) costituiscono l’occasione per riprendere un tema a mio parere centrale nella proposta politica della lista “L’altra Europa con Tsipras”. E’ un tema che mi sembra di particolare interesse nel dibatito sul come proseguire, in Italia, quell’esperienza. Mi sembra infatti che proprio grazie a intellettuali italiani si sia dato un contributo importante all’argomento(penso a persone direttamente impegnate nella costruzione di quella lista come Guido Viale e Luciano Gallino, ma anche a numerosi altri che l’hanno sostenuta (da Giorgio Nebbia a Piero Bevilacqua, Da Giorgio Airaudo a Giovanna Ricoveri, per non citare che i primi nomi che mi vengono in mente).

Il dialogo Gianni-Spinelli puà essere insomma l'occasione buona per sviluppare e chiarire che cosa significa per noi qui e oggi questa espressione. Che è oggi, ed era già ai tempi di Roosevelt (e a quelli di Di Vittorio) tutt’altro che un piano di beneficenza internazionale, più o meno “pelosa”,come il “piano Marshall” ma era una iniziativa di una politica nuova che voleva guidare l’economia invece di esserne ancella. Il New Deal può essere quindi l’avvio di un superamento del modo di produzione capitalistico. Alla radice dell’esperienza del New deal di Roosvelt c’è una verità che contrasta con il pensiero corrente, e costituisce la ragione di fondo per la quale tutte le proposte che andavano in questa direzione sono cadute nel vuoto. Proporre lo Stato come il soggetto che determina le scelte della produzione, e introdurre i bisogni collettivi come l’argomento e l’obiettivo del consumo significa infatti indurre una trasformazione radicale (alla radice) del sistema economico-sociale nel quale viviamo: il capitalismo.

Molte cose già scritte dai promotori della Lista Tsipras possono aiutare a comprendere che cosa si può e deve fare a partire da oggi non solo per rilanciare l'occupazione e soddisfare bisogni sociali (di civiltà) che il mercato neanche vede (e quando vede sfrutta), ma per intervenire sul sistema economico-sociale, sul versante della spesa pubblica ma anche su quello delle entrate Esiste già un elenco dei bisogni sociali (e di civiltà)che richiedono l’impiego diforze di lavoro, fisico e intellettuale, capace di soddisfarli. Ed esistono già proposte praticabili per individuare le risorse finanziarie per remunerare una siffatta forza lavoro. Vogliamo lavorare in questa direzione? Questo sito, per quel poco che conta, è aperto a chi voglia proseguire il lavoro in questa direzione.

C

Premessa
Due circostanzeci hanno spinti a cercare e riprendere proprio in questi giorni agostani questotesto, pubblicato sul sito della CGIL . 1. Integrare l’articolo chel’amico Giorgio Nebbia ci ha inviato e che abbiamo, come al solito, pubblicatonelle “opinioni”; 2. ricordare il bracciante pugliese di cui ricorreva recentemente l’anniversario della nascita (13 agosto 1898) proprio nei giorni in cui iquotidiani ci raccontano degli ulteriori tentativi delle forze che sorreggonoil governo Renzi di far pagare ancorapiù duramente al lavoro la crisi provocata dalla più recente (e letale)incarnazione del capitalismo.
Non è laprima volta che ricordiamo su eddyburg il significato che ebbe quella proposta scaturitadal mondo del lavoro. Che essa non sia stata riaccolta in quegli anni e rapidamente dimenticata dalla stessapolitica e cultura della sinistra italiana è un triste segno dei tempi. Cheessa sia stata ripresa dalla lista “l’altra Europa con Tsipras” e sia al centrodel dibattito per una nuova sinistra italiana ed europea è un segno di speranzaper il futuro.

IL PIANO DEL LAVORO 1949-50

Nel 1949, anno in cui, in ottobre, al Congressonazionale di Genova Giuseppe Di Vittorio presenta la proposta di un “pianoeconomico e costruttivo per la rinascita dell'economia nazionale”, l'Italia èancora tutta alle prese con gli effetti disastrosi della Seconda Guerramondiale. I senza lavoro sono due milioni, concentrati per gran parte al Sud,un milione di lavoratori sono ad orario ridotto e più di un milione dibraccianti è occupato solo saltuariamente. Anche le infrastrutture sono aiminimi termini, il tasso di scolarizzazione è tra i più bassi d'Europa, moltissimiitaliani sono costretti a emigrare, le diseguaglianze sono fortissime, la famee la malnutrizione sono realtà tangibili.
Ma il 1949 è anche un anno di mobilitazioni e dilotte di massa per il lavoro, per il salario, per il riscatto del Mezzogiornoche vedono la CGIL in prima fila. E a proposito del Mezzogiorno, Di Vittorio aGenova afferma “che l'unica spedizione militare che potrebbe riuscire aeliminare il banditismo e la mafia dovrebbe essere una spedizione di ingegnerie di tecnici”. Il Piano del lavoro nasce con un'ispirazione keynesiana e conl'idea di raccogliere e unire tutte le energie produttive per far sì che lafase delle ricostruzione coincida con un nuovo sviluppo del Paese. Non unatrasformazione radicale dei rapporti di classe, dunque, ma un deciso interventopubblico per correggere gli squilibri sociali ed economici. E, per la CGIL, unmodo di affermarsi come sindacato di proposta e di lotta anche su questioni dicarattere generale.
Il Piano, che dopo il Congresso di Genova vienepresentato l'anno successivo a Roma, può essere sintetizzato in tre direttricidi intervento: nazionalizzazione dell'energia elettrica con la costruzione dinuove centrali e bacini idroelettrici laddove erano più necessari, soprattuttoal Sud; avvio di un vasto programma di bonifica e irrigazione dei terreni perpromuovere lo sviluppo dell'agricoltura, specialmente nel Mezzogiorno; un pianoedilizio nazionale per la costruzione di case, scuole e ospedali. Larealizzazione del Piano prevedeva la creazione di 700 mila posti di lavoro e ifinanziamenti sarebbero arrivati da una tassazione progressiva “da richiederealle classi più abbienti, in modo particolare ai grandi gruppi monopolistici ealle società per azioni”; dal risparmio nazionale e da prestiti esteri che nonmettessero in discussione “l'indipendenza economica e politica della nazione”.
Anche se il Piano non diede nell'immediato irisultati voluti, indicò tuttavia alcune direttrici di politica economica chesarebbero poi state avviate avviate e realizzate dai governi dei decennisuccessivi (la nazionalizzazione dell'energia elettrica, le bonifiche, il pianoedilizio, ecc, per esempio). E produsse, inoltre, una straordinariamobilitazione civile, “un movimento - come ha sottolineato Bruno Trentin - cheliberò immense energie potenziali, che suscitò l'insorgere di nuovi fattiassociativi e organizzativi, di nuove forme di partecipazione dal basso”.
Riferimenti

Del “piano del lavoro” della CGIL abbiamo scritto nell’eddytoriale 144 del novembre 2010. Su Giuseppe Di Vittorio vogliamo anche ricordare l’episodio della sua vita che è stato commentato dalla figlia Baldina. Rinviamo poi all’archivio della Fondazione Giuseppe Di Vittorio. Sul significato e il possibile contenuto di un new deal italiano oggi rinviamo ai numerosi articoli di Guido Viale ripresi da

eddyburg e oggi negli archivi della vecchia e della nuova edizione.

La cronaca della protesta da New York a Milano e la lotta per portare la paga oraria a 15 dollari, di Antonio Sciotto e Joseph Giles.

Il manifesto, 15 maggio 2014

“IL CONTRATTO NON E' UN MENU'”
Antonio Sciotto

«Siamo noi il Quarto stato. Io vivo con 650 euro al mese ma allo scio­pero non rinun­cio». Giu­seppe Augello, dele­gato mila­nese di McDonald’s è carico, pronto per incro­ciare le brac­cia insieme a tutti i suoi col­le­ghi che nel mondo frig­gono panini e bat­tono scon­trini alla cassa. Cap­pel­lino e uni­forme di ordi­nanza, i ragazzi degli archi dorati si pre­pa­rano a cor­tei, volan­ti­naggi e flash mob per riven­di­care salari più alti, il diritto a un lavoro full time e ritmi umani.

Giu­seppe è Rsa Fil­cams Cgil da cin­que anni, da quando cioè ha comin­ciato a lavo­rare per la mul­ti­na­zio­nale del panino: da allora, McDonald’s lo ha spe­dito prima a Ber­gamo e poi in ben due locali desti­nati alla chiu­sura, pur di costrin­gerlo ad andar­sene («per­ché io rompo e metto i paletti»), ma lui ha resi­stito. Giu­seppe ha citato l’azienda davanti al giu­dice, per con­te­stare un appren­di­stato lungo tre anni ma senza for­ma­zione (il recente decreto Poletti sug­ge­ri­sce qual­cosa?): McDo ha accet­tato di con­ci­liare, ha dovuto assu­merlo a tempo inde­ter­mi­nato e pagar­gli tutti gli arretrati. Giu­seppe è solo un esem­pio, parla di un mondo di lavo­ra­tori che non si arrende. Per oggi la IUF (Inter­na­tio­nal Union Food, sin­da­cato glo­bale della risto­ra­zione) ha indetto una gior­nata di ini­zia­tiva mon­diale, la #Fast­Food­Glo­bal, a cui l’Italia ade­ri­sce – con lo scio­pero di domani, che in realtà riu­ni­sce tutti i lavo­ra­tori del turismo.

«Il nostro con­tratto non è un menù», dice il volan­tino dei mila­nesi in scio­pero. «Su Milano e in tante altre città por­te­remo i lavo­ra­tori in cor­teo», annun­cia Gior­gio Orto­lani della Fil­cams. In effetti la mobi­li­ta­zione ita­liana è stata indetta da Cgil, Cisl e Uil soprat­tutto per il con­tratto: per­ché la Fipe-Confcommercio – cui ade­ri­sce McDonald’s, con i suoi 16 mila dipen­denti – ha disdetto il con­tratto nazio­nale, lan­ciando una sfida senza pre­ce­denti al sindacato. Il gesto della Fipe è dav­vero «rivo­lu­zio­na­rio», visto che l’associazione che riu­ni­sce grossi mar­chi come Auto­grill, MyChef, Che­fEx­press, vor­rebbe ideal­mente pas­sare al supe­ra­mento del con­tratto nazio­nale, per appli­care dei rego­la­menti azien­dali uni­la­te­rali. Abbat­tendo gli scatti di anzia­nità, i per­messi retri­buiti, le mag­gio­ra­zioni per not­turni e festivi, la quat­tor­di­ce­sima. «La disdetta ci era stata comu­ni­cata a par­tire dal primo mag­gio 2014 – spiega Cri­stian Sesena, segre­ta­rio nazio­nale Fil­cams Cgil – Poi hanno deciso di pro­ro­garla al 31 dicem­bre: forse adesso vogliono sedersi a un tavolo».

A minac­ciare i prin­ci­pali isti­tuti con­trat­tuali, anche se non hanno scelto di disdet­tare il con­tratto, anche gli alber­ga­tori ade­renti a Con­fin­du­stria e Confesercenti. Una situa­zione – quella di un con­tratto che non si rie­sce a rin­no­vare ormai da un anno (se si eccet­tuano Fede­ral­ber­ghi e Faita cam­peggi, unici ad aver fir­mato) – che mette gli addetti ancora più in crisi, se già non bastas­sero con­di­zioni di lavoro spesso pre­ca­rie e al con­fine con la povertà.

Sesena di recente è stato a New York, dove ha par­te­ci­pato al sum­mit indetto dalla IUF per orga­niz­zare le mobi­li­ta­zioni: «Il fatto posi­tivo è che stiamo cer­cando di uscire dal loca­li­smo – spiega – McDonald’s ha un’organizzazione del lavoro simile in tutto il mondo, che si ripete un po’ nei 33 paesi che hanno ade­rito alla pro­te­sta. E uguali sono i metodi di for­ma­zione. È impor­tante creare un coor­di­na­mento delle lotte glo­bali: che però non deve essere fatto solo di azioni estem­po­ra­nee, per gua­da­gnare visi­bi­lità, pure fon­da­men­tale. Serve una stra­te­gia sindacale». Negli Usa, ad esem­pio, si chiede il rad­dop­pio della paga ora­ria: da 7,25 dol­lari a 15 (tenendo conto che non è un netto: i lavo­ra­tori con que­sta cifra devono pagarci anche l’assicurazione sani­ta­ria). Ecco il senso della cam­pa­gna #fightfor15.

In Ita­lia, sep­pure il tema del red­dito sia impor­tante – non solo sul piano del con­tratto nazio­nale, ma anche sulla obbli­ga­to­rietà di fatto del part time – la ver­tenza va anche su altri temi: «Si deve par­lare di orari, di con­ci­lia­zione vita-lavoro, di tutela delle donne e delle mamme – dice Sesena – Non dimen­ti­cando che McDonald’s non ha mai voluto sedersi per discu­tere un integrativo». A Milano, tra l’altro, si parla anche di Expo: come lavo­re­ranno nel 2015 gli addetti di risto­ranti e alber­ghi se non avranno un contratto?

Quindi ecco le cam­pa­gne che la Fil­cams Cgil ha lan­ciato per gli addetti dei fast food, spesso gio­vani e un po’ a digiuno di cono­scenze sin­da­cali, inter­cet­ta­bili però sui social net­work: la cam­pa­gna «Fac­cia a fac­cia con la realtà» è diven­tata un blog (www​.fast​ge​ne​ra​tion​.it) dove i lavo­ra­tori si rac­con­tano (su Twit­ter l’hashtag è #fast­ge­ne­ra­tion).


#FIGHTFOR15
Joseph Giles
Gli hash­tag girano da giorni sui social net­work: #Fast­food­glo­bal, #fightfor15, ma que­sta volta la mobi­li­ta­zione non sarà solo riser­vata ai con­sueti «atti­vi­sti da tastiera», ma si svol­gerà per le strade di 150 città. Una pro­te­sta glo­bale, mon­diale, dei lavo­ra­tori sim­boli delle odierne società, ovvero i lavo­ra­tori delle catene dei fast food. Si tratta — secondo gli orga­niz­za­tori — della più grande pro­te­sta con­tro l’industria ali­men­tare della sto­ria; 33 paesi, dagli Usa all’Argentina, dall’Italia alle Filip­pine, dal Bra­sile al Marocco, dal Giap­pone al Malawi. I pro­ta­go­ni­sti sono i fast food wor­kers, sot­to­messi alla con­tem­po­ra­nea catena di mon­tag­gio, carat­te­riz­zata dai ritmi ver­ti­gi­nosi, con poche pause, pochi diritti e sti­pendi da fame.
Eppure le aziende che sfrut­tano i lavo­ra­tori fanno i miliardi. I panini, gli ham­bur­ger, gli snack, vanno a ruba, hanno disin­te­grato eco­no­mie ali­men­tari locali, spe­cie nei paesi in cui i fast food sono una recente sco­perta per­messa dalla glo­ba­liz­za­zione. E più di tutto fanno lauti pro­fitti per­ché i lavo­ra­tori sono mal pagati e quel che è peg­gio ricat­tati da rego­la­menti interni che non pre­ve­dono orga­niz­za­zioni sin­da­cali e pos­si­bi­lità di riven­di­ca­zioni. Negli Stati Uniti le avvi­sa­glie erano in atto da tempo; e oggi è giunto il momento mon­diale, al ter­mine di un per­corso orga­niz­za­tivo che ha saputo con­so­li­dare tutti i lavo­ra­tori con poche e sem­plici parole d’ordine.
Ci sarà anche l’Italia: «Nel nostro paese, le con­di­zioni di lavoro all’interno dei fast food non sono buone e non esi­ste con­trat­ta­zione inte­gra­tiva», ha affer­mato Cri­stian Sesena, che per la Fil­cams Cgil nazio­nale ha par­te­ci­pato all’incontro orga­niz­za­tivo di New York e orga­niz­zato dallo Iuf, l’International Union of Food, Agri­cul­tu­ral, Hotel, Restau­rant, Cate­ring, Tobacco and Allied Wor­kers’ Asso­cia­tio­nism. «Già da un paio di anni, in con­trap­po­si­zione a quanto pub­bli­ciz­zato da molti famosi mar­chi inter­na­zio­nali, come Fil­cams abbiamo avviato un per­corso per cer­care di met­tere in risalto la reale situa­zione dei lavo­ra­tori, per la mag­gior parte gio­vani, a part time obbli­ga­to­rio, con una paga minima ora­ria infe­riore agli 8 euro lordi», spiega, men­tre «negli Usa si com­batte per otte­nere una paga ora­ria di 15 dol­lari» (da cui l’hashtag #fightfor15 ndr).
Uno dei prin­ci­pali obiet­tivi della pro­te­sta, sia per le richie­ste di aumenti sala­riali, sia per il diritto di for­mare sin­da­cati, è senza dub­bio la McDo­nalds, par­ti­co­lar­mente pre­oc­cu­pata dall’azione mon­diale, tanto da man­dare una let­tera ai pro­pri dipen­denti e inter­cet­tata alcuni giorni fa dal Wall Street Jour­nal, nella quale si chie­deva di moni­to­rare quanto acca­drà oggi. «Le per­sone ora si orga­niz­zano, è tempo di cam­biare» ha rac­con­tato all’Afp Eli­za­beth Rene, lavo­ra­trice di 24 anni di un McDonald.
Oggi par­te­ci­perà al suo terzo scio­pero in due anni. «Stiamo affron­tando le stesse sfide, ci tro­viamo di fronte gli stessi pro­blemi, le stesse lotte. Con­ti­nue­remo fino a rag­giun­gere il nostro obiet­tivo», ha dichia­rato l’italiano Mas­simo Fra­tini, coor­di­na­tore per lo Iuf, che rap­pre­senta 396 sin­da­cati e 12 milioni di lavo­ra­tori per un totale di 126 paesi.

Articoli correlati su questo sito
Il pollo transgenico di McDonald’s che fa litigare Usa e Germania

«Che cosa intendiamo per politiche tecnologiche e industriali? Sono le politiche che generano e stimolano innovazione tecnologica, che stimolano e favoriscono l'apprendimento e la produzione da parte di imprese private, e che creano e sostengono attività produttive pubbliche in settori e localizzazioni particolari. Oggi in Europa servono programmi pubblici finalizzati a precisi obiettivi tecnologici soprattutto nel campo dell'ambiente e della salute». Sbilanciamoci. infonewsletter n. 328, 12 maggio 2014 (m.p.r.)

Per una trentina d'anni, fino alla crisi del 2008, di politiche industriali e tecnologiche non si poteva parlare: erano brutte parole per tutta la gente per bene, inclusa la sinistra moderata e riformista, e non solo in Italia. Il mantra era – ed in buona parte è ancora – «la magìa del mercato», come la definì quel grande economista che era Ronald Reagan; una «magìa» che alimentava la retorica del «lasciar fare» e del «perché la politica dovrebbe saperne di più delle imprese?»

È il momento di spiegare invece che le politiche tecnologiche sono state cruciali, almeno dalla seconda guerra mondiale in poi, nella generazione della maggior parte delle innovazioni di cui oggi godiamo (o soffriamo) e che le politiche tecnologiche ed industriali sono sempre state cruciali nei processi di industrializzazione soprattutto nei paesi ritardatari – e si ricordi che due secoli fa anche Usa e Germania erano ritardatari rispetto all'Inghilterra.

Innanzi tutto, che cosa intendiamo per politiche tecnologiche e industriali? Ne voglio dare una definizione molto ampia: sono le politiche che generano e stimolano innovazione tecnologica, che stimolano e favoriscono l'apprendimento e la produzione da parte di imprese private, e che creano e sostengono attività produttive pubbliche in settori e localizzazioni particolari.

Partiamo dall'innovazione tecnologica. Come mostra il bel libro di Marianna Mazzucato Lo stato innovatore, di imminente pubblicazione per Laterza, senza le innovazioni generate nei grandi programmi pubblici di ricerca (come il Cern per la fisica) e nei programmi militari e spaziali oggi non avremmo internet, il microprocessore, il web, l'iPad e così via. Senza i grandi programmi pubblici del National Institute of Health negli Usa non avremmo nemmeno i (pochi) farmaci innovativi che le grandi imprese farmaceutiche ci offrono a carissimo prezzo. Come ironizzava il compianto Keith Pavitt, la leadership Usa è stata alimentata dalle paranoie americane del comunismo e del cancro.

Guardando al futuro, ciò di cui abbiamo bisogno oggi in Europa sono massicci programmi pubblici focalizzati, mission-oriented, cioè finalizzati a precisi obiettivi tecnologici – come nel passato sono stati mandare un uomo sulla luna o un grappolo di missili inter-continentali sull'Unione Sovietica – soprattutto nel campo delle tecnologie verdi e della sostenibilità ambientale, della medicina e della salute sociale più in generale. Invece buona parte del discorso politico mitologizza i garage degli Steve Jobs e Bill Gates senza considerare le fonti (pubbliche) della tecnologia che questi imprenditori hanno messo assieme. D'altro lato, invece, finanziamo mission altrui e pure fallimentari come i cacciabombardieri F-35 che, come sostiene un rapporto della Rand Corporation di qualche anno fa, «non combatte, non vira, non vola».

Perché servono anche politiche industriali ? La risposta è che in molte circostanze, specialmente nei paesi ritardatari – o in quelli, come l'Italia di oggi, che perdono terreno rispetto ai paesi più avanzati – le imprese private non hanno né le capacità organizzative, né gli incentivi di profitto per operare in aree magari molto promettenti dal punto di vista delle potenzialità innovative e di mercato, ma nelle quali esse hanno uno svantaggio comparato ed assoluto rispetto alla concorrenza internazionale.

Se due economie, una high tech e una dell'età della pietra, cominciano ad interagire, sicuramente gli operatori economici nella seconda avranno un incentivo a produrre e commerciare beni ad «alta intensità di pietre», ma la società nel suo complesso progredirebbe molto di più se si imparasse l'high tech, anche se si è meno efficienti dell'altro paese. Le politiche industriali comprendono tutte le misure appropriate all'accumulazione di conoscenze e capacità produttive nelle tecnologie più dinamiche e più promettenti. Alla fine dell'Ottocento si trattava della chimica e dell'elettromeccanica; oggi delle tecnologie dell'informazione, della bioingegneria, delle tecnologie ambientali. In effetti le politiche industriali sono state un ingrediente fondamentale nell'industrializzazione dagli Stati Uniti alla Germania, al Giappone, alla Corea, alla Cina (ne discutiamo in dettaglio nel volume curato da Cimoli, Dosi e Stiglitz, Industrial Policies and Development, Oxford, University Press). Incidentalmente gli Usa sono il paese che oggi ne pratica di più, senza parlarne.

Che cosa si fa oggi in Europa, e in particolare in Italia? Per lungo tempo, possiamo dire, sono state fatte politiche anti-industriali. È una storia antica, che comincia almeno dal rifiuto del governo italiano di sostenere lo sviluppo dei calcolatori Olivetti (quasi sicuramente su pressione americana) all'inizio degli anni sessanta. Continua con la dissennata politicizzazione e finanziarizzazione della Montedison, e poi la con la sua dissoluzione, che ha portato anche alla liquidazione di fatto di un piccolo gioiello nella farmaceutica come Farmitalia. Ha il momento cruciale nella liquidazione con "spezzatino" delle imprese a partecipazione statale, per ottenere nella crisi del 1993 entrate straordinarie: «pochi soldi, maledetti e subito». Con quale conseguenza? Una delle prime cose che hanno fatto i privati è stato chiudere le attività di ricerca e sviluppo (come in Telecom), o liquidare addirittura la produzione (come in Italtel). Tutto questo si è accompagnato per quasi un trentennio alla mitologia del "piccolo è bello", con il risultato di un quasi azzeramento della partecipazione italiana all'oligopolio internazionale della chimica, dell'acciaio, della farmaceutica, dell'elettronica, delle telecomunicazioni, del software e così via.

Che cosa fare? In Italia molte cose sono difficili da fare perché ormai i buoi sono scappati dalle stalle, ma è ancora possibile favorire l'emergere di attori tecnologicamente forti, italiani o quanto meno europei. E, per farlo, spesso è necessario l'intervento diretto dello Stato, per esempio via Cassa Depositi e Prestiti, che già un po' fa di queste cose, ma senza una strategia industriale seria, quasi con la paura di disturbare la "magìa" del mercato. Tante cose si possono fare a livello europeo, a condizione di abbandonare la frenesia mercatista. Un esempio recente per tutti: c'è qualcuno che crede che il governo americano starebbe a guardare se Alstom e Siemens si mettessero assieme e tentassero di acquisire General Electric, invece di quest'ultima che tenta di scalare Alstom?

Poi ci sono alcune cose che non bisogna assolutamente fare. Tra queste l'accordo di libero scambio transatlantico, che rappresenta essenzialmente una folle cessione di sovranità della politica, nazionale ed europea e l'assolutizzazione degli interessi degli investitori privati, indipendentemente dall'utilità sociale degli investimenti stessi.

© 2024 Eddyburg