Il manifesto, 7 ottobre 2015
Da un lato il governo lavora per snaturare e limitare il diritto di sciopero. Esso, contrariamente alla nostra Costituzione, non sarebbe più un diritto in capo al lavoratore, ma un atto consentito solo a sindacati aventi un certo livello di rappresentanza e di consenso tra i dipendenti. Si parla del 20–30 per cento in luogo del 50 voluto da Ichino. Ma la sostanza non cambierebbe. Il grimaldello sarebbe la questione della «rappresentanza», vecchio nodo irrisolto. Solo che qui si parla di una rappresentanza rovesciata. Non quella rispetto ai lavoratori, in base alla quale si dovrebbe giungere all’ovvia conclusione che almeno gli accordi per avere validità erga omnes dovrebbero essere approvati da un voto referendario di tutti i lavoratori cui si riferiscono. E magari bocciati, come è successo recentemente alla Fca di Marchionne negli Usa. Ma quella rispetto ai datori di lavoro, ovvero la garanzia che ciò che le sigle sindacali firmano diventi per ciò stesso norma imposta a tutti, senza altri fastidi. Dall’altro lato il governo Renzi vuole scrivere di proprio pugno le regole della contrattazione.
Senza neppure il parere delle organizzazioni sindacali e della Confindustria, che comunque con Squinzi si allinea preventivamente. L’occasione sarebbe fornita da uno dei decreti delegati del Jobs Act. Qui il piede di porco sarebbe dato dalla introduzione del salario minimo legale, essendo l’Italia uno dei pochi paesi a non averlo nella Ue. Grazie a questo si cancellerebbe la contrattazione salariale nazionale e quindi si toglierebbe linfa vitale al contratto collettivo nazionale di lavoro, mentre l’incremento salariale sarebbe abbandonato alla contrattazione aziendale – per chi se la può permettere -, ma vincolato agli aumenti di produttività.
Mettendo insieme i due elementi qui descritti è chiaro che siamo di fronte alla liquidazione del diritto del lavoro – alla sua equiparazione nel migliore dei casi al diritto commerciale – e dei diritti dei lavoratori, considerati sia singolarmente che collettivamente. Al più grande e organico attacco al movimento operaio mai portato nel nostro paese. Non solo. Tutto ciò si accompagnerebbe alla aziendalizzazione del welfare state, poiché alla contrattazione aziendale verrebbe affidata anche quella per la sanità e gli altri istituti di welfare integrativi.
Intendiamoci, non è il salario minimo orario ad essere di per sé il responsabile di questa perfida costruzione. La sua introduzione in tutt’altro quadro sarebbe positiva. Anche fatta per legge, dal momento che, per parafrasare i giuristi, avverrebbe con quel «velo di ignoranza» verso la struttura contrattuale, non diventando così il pretesto per smantellarla. In effetti al giovane, o meno giovane o all’immigrato, che non è protetto da un contratto collettivo nazionale, sapere che almeno sotto un certo livello di paga non è legale scendere è un elemento di difesa. Con il pregio della universalità. Su questa base si potrebbe immaginare una riforma della contrattazione tale da ridurre gli attuali 380 contratti collettivi nazionali a quei 5 o 6 in settori fondamentali entro i quali concentrare le forza per ottenere dal punto di vista retributivo e normativo misure accrescitive, da migliorare poi in un eventuale contrattazione di secondo livello.
Di questo si parla da tempo nelle organizzazioni sindacali. In particolare per merito della Fiom. Se non se ne è venuto a capo le responsabilità, è inutile nasconderselo, sono anche interne al movimento sindacale, sia per quanto riguarda l’aspetto della rappresentanza, ove il sindacato degli iscritti modello Cisl si è scontrato con il sindacato di tutti i lavoratori mutuato dai momenti migliori della storia del movimento sindacale; sia per quanto riguarda il tema del salario minimo, ove la paura di perdere ruolo ha paralizzato ogni proposta.
Il governo ne approfitta per cercare di cancellare del tutto contrattazione e sindacato. Reagire con uno sciopero generale sarebbe necessario.
Il manifesto, 21 agosto 2015
La sinistra è in una crisi storica e, direi, mondiale. Su questo tema è in corso sul manifesto (che si definisce ancora “quotidiano comunista”) un’utile ricerca, «C’è vita a sinistra ?», avviata in luglio e che dovrebbe portarci almeno all’abbozzo di una conclusione sulla base degli interventi pubblicati e in arrivo.
Sappiamo bene che da una crisi, specie se grande e pesante, non se ne esce restando come prima e i rischi di andare al peggio sono forti. Già con Renzi prevale la politica di destra: la prospettiva è che o resiste accrescendo il suo potere personale o sarà scavalcato da un’avanzata delle forze dichiaratamente di destra. Le crisi sono una cosa seria.
Non si ricorda mai abbastanza che dopo la rivoluzione russa del 1917 e le grandi lotte operaie in tutta Europa, ci fu una risposta reazionaria con il fascismo e il nazismo che acquistarono forza con la crisi del l929 e maturarono le condizioni per la Seconda Guerra Mondiale.
Nel secondo dopoguerra ci fu un grande sviluppo economico anche in Italia ( il famoso miracolo italiano) accompagnato da un’avanzata della sinistra. Ma durò poco. Già con gli anni ’80 comincia a maturare l’attuale gravissima crisi nella quale siamo oggi: dell’economia della politica, e, direi anche della cultura.
Per tentare una ripresa della sinistra, ci vuole una buona analisi dell’attuale crisi; senza una seria diagnosi non si cura una malattia. E bisogna anche chiedersi perché con la forte disoccupazione, soprattutto giovanile, non ci siano lotte e proteste, i sindacati sono indeboliti e anche la buona iniziativa di Landini fa fatica a decollare. Senza contare che oggi, il ruolo ammortizzatore delle famiglie si sta esaurendo.
L’attuale pesantissima crisi ha cause strutturali da ricercare, come sostengono importanti economisti, nella globalizzazione e nel progresso tecnico. La globalizzazione, con la rapida crescita della comunicazione comporta l’ingresso sul mercato di industrie di paesi a bassi salari come la Cina che con la recente svalutazione riduce i prezzi del suo prodotto, attira gli investimenti dei paesi industrializzati (da leggere un altro editoriale di Romano Prodi sul Messaggero del 15 agosto). Il progresso tecnico – e non da oggi - riduce l’importanza del lavoro vivo e produce disoccupazione.
Due effetti assai forti che colpiscono soprattutto il lavoro vivo e, quindi, anche la soggettività stessa dei lavoratori, e che mettono in evidenza come il progresso tecnico che in regime socialista (o non capitalista) migliorerebbe le condizioni di tutti, in regime capitalistico provoca disoccupazione, marginalizzazione e miseria da una parte e concentrazione del potere e della ricchezza in un ristretto e potente gruppo di capitalisti finanziari dall’altra.
Questa del progresso tecnologico nemico strutturale del lavoro vivo è storia antica e non possiamo dimenticare che l’avvio dell’industrializzazione capitalistica in Inghilterra diede vita al movimento luddista che contestava l’introduzione delle macchine. Allora il luddismo fu travolto dallo sviluppo e dalla crescita della produttività. Ma fu battuto anche dalle lotte operaie per il miglioramento delle condizioni di lavoro e, soprattutto, dalle progressive riduzioni dell’orario (va ricordata la conquista delle dieci ore e poi delle attuali otto ore mai più ridotte da quasi un secolo).
Oggi di fronte alla attuale gravissima crisi e alla disoccupazione in crescita, bisogna rimettere al primo posto ( ma per alcuni è un controsenso) la riduzione dell’orario, anche se il lavoro nei paesi che entrano oggi sul mercato globale è sottopagato, con orari ottocenteschi e contrasta con questa rivendicazione. Si tratta ora di rovesciare l’uso che il capitalismo fa del progresso tecnico ma ricordare anche che le progressive riduzioni dell’orario hanno contribuito alla crescita dei consumi e dello stesso mercato. Oggi una riduzione dell’orario di lavoro penso che gioverebbe anche ai capitalisti che con la finanza si arricchiscono, ma rischiano di affogarvi.
La riduzione del tempo impegnato nel lavoro dipendente accrescerebbe il cosiddetto “tempo libero”, che oltre a migliorare le condizioni di vita darebbe spazio a nuovi consumi, a nuove spese diventando così anche un fattore di crescita del mercato e della società. Anche i capitalisti dovrebbero aver capito che se il popolo sta meglio i loro affari miglioreranno. Ma i capitalisti temono da sempre che la crescita della libertà del mondo del lavoro riduca, quasi automaticamente il proprio potere politico ed economico.
Ma vogliamo aspettare che siano i capitalisti a proporre la riduzione dell’orario di lavoro? Oggi, anche perché la disoccupazione cresce e nel mondo del lavoro cresce non solo la domanda di salario, ma anche quella di libertà e di cultura, la riduzione dell’orario di lavoro, e la gestione del “tempo libero”, questo immenso spazio da conquistare e organizzare, dovrebbe diventare l’obiettivo storico della classe operaia, dei suoi sindacati e delle forze che dicono di volerla rappresentare.
Il decalogo del manifesto suggerendo alcuni nodi che impediscono il decollo di una nuova sinistra ci chiama ad intervenire dove ci sono carenze di analisi da colmare o punti di vista diversi da avvicinare. Al punto 6 tre domande da brivido: Chi sono oggi i lavoratori? Cosa è il lavoro? Come e quanto viene riconosciuto? Il solo fatto di porle significa riconoscere che la crisi investe le ragioni fondative del nostro essere. Ed infatti è cambiato tutto.
Il manifesto, 30 luglio2015
Nel suo ultimo libro Il soggetto dell’economia, pubblicato da Ediesse, l’autrice Laura Pennacchi sventaglia le motivazioni per cui il neoliberismo, fallimentare già da tempo, ha resistito e troneggia in Europa come unica forma di governo possibile.
C’è una domanda cruciale che si aggira negli ambiti di quella che possiamo chiamare – senza per ora migliore specificazione — la sinistra di alternativa in Europa e nel nostro paese. Laura Pennacchi la pone nelle prime pagine del suo ultimo lavoro (Il soggetto dell’economia. Dalla crisi a un nuovo modello di sviluppo, Ediesse, Roma 2015, pp. 318, euro 16,00) con queste parole: «perché il neoliberismo – di cui gli eventi del 2007/2008 avevano sancito il fallimento sul piano teorico – si è mostrato così resiliente nel tempo, continuando imperterrito a informare di sé le politiche e le scelte pratiche?».
Rispondere non è facile, eppure bisogna riconoscere che qui sta, non la, ma certamente una delle chiavi – anche perché le porte da aprire non sono poche – che permettono di comprendere le ragioni profonde della crisi della società contemporanea e della sinistra in particolare.
Non c’è dubbio che perderemmo tempo se enumerassimo le dichiarazioni, le dimostrazioni, persino le auto confessioni che forniscono le prove di quel fallimento. Valga una per tutti. Wolfgang Munchau, in una intervista a un giornale italiano di qualche tempo fa, si dimostrava allibito che «un economista del calibro di Mario Monti abbia potuto firmare un trattato (quello sul Fiscal Compact) che, se applicato alla lettera, porterà l’Italia al fallimento: ridurre al 60% il debito in venti anni significa andare incontro a una recessione che sottrarrebbe il 30–40% del Pil nello stesso periodo. Un disastro, e la fine dell’euro».
Altro che «stagnazione secolare», di cui si parla con maggiore insistenza nel dibattito economico! Si potrebbe dire – come ha scritto altrove Fausto Bertinotti – che il re è nudo, ma è ancora stabilmente sul trono e continua a comandare. Almeno qui, in Europa, dove non a caso la crisi economica e sociale è più grave e non se ne vede via d’uscita.
Crepe nella Troika
La vicenda greca costituisce il disvelamento più clamoroso e recente, ma non l’unico, di questa realtà. Che la condizione del paese e del popolo greci siano peggiorate, da ogni punto di vista, ivi compreso quello della quantità del debito, è questione che nessuno discute. Eppure l’accordo imposto a Tsipras ribadisce, in parte anche peggiorandole e indurendole, le stesse ricette. Ciò che non ha funzionato prima, può farlo ora in condizioni peggiori? Evidentemente no, basta una logica elementare ad escluderlo.
Perfino il Fondo monetario internazionale lo ribadisce, aprendo così una crepa nel monolite della Troika (risultato non trascurabile della tenacia con cui il governo greco ha affrontato la lunga trattativa), quando afferma che senza il taglio del debito non c’è salvezza, perché la situazione debitoria della Grecia è destinata a riproporsi e in modo aggravato. Eppure vi è addirittura, e non solo a destra, chi esalta la lungimiranza presunta di Schäuble perché ha posto la Grecia di fronte all’aut aut: o fuori dall’euro (per un po’, ma preferibilmente per sempre) o accetti queste condizioni. Lo stesso documento dei cinque presidenti reso noto a fine giugno, firmato da Djisselblöm, da Draghi, da Juncker, da Tusk, da Schulz e giudicato irritante persino da un uomo come Fabrizio Saccomanni ex ministro ed ex direttore generale di Bankitalia, ribadisce una linea di galleggiamento della Ue che sconta l’abbandono possibile dei paesi in difficoltà, pur di non rimuovere le politiche neoliberiste del rigore.
Come si vede, sempre in questa vicenda, grandi sono le responsabilità della socialdemocrazia europea – anche se per fortuna non vi è un comportamento omogeneo in tutti i paesi — quella tedesca in prima fila. Il paragone con il voto dei crediti di guerra è certamente forzato, come lo sono tutti i parallelismi storici, ma è quello che più si avvicina per gravità all’attuale comportamento socialdemocratico impegnato a sostenere la politica del rigore, a volte scavalcando a destra i suoi propugnatori come ha fatto Gabriel nei confronti della stessa Merkel.
Eppure non si potrebbe rispondere alla domanda di cui sopra, e infatti l’autrice non lo fa, semplicemente sostenendo che il neoliberismo ha trovato solidi alleati da un lato e il ventre ancora troppo molle della sinistra antagonista dall’altro e che ciò sarebbe sufficiente per spiegare la sua buona salute e la sua sopravvivenza ai propri disastri economici e politici.
Il concorso delle discipline
Laura Pennacchi tenta con questo suo più recente lavoro un percorso ambizioso. Considerando troppo angusti i confini della «scienza triste» per spiegare la situazione e tracciare delle nuove terapie, vuole mettere in campo una affascinante multidisciplinarietà per aggredire e destrutturare le basi della dottrina economica dominante. Ecco quindi che la ricerca non si limita al campo delle teorie economiche, ma attraversa anche quelli della filosofia, dell’antropologia, della sociologia. Questo rappresenta una nuova sfida per l’autrice, un elemento di novità rilevante, perlomeno in queste dimensioni, rispetto a precedenti lavori e certamente un fattore di particolare godimento intellettuale per il lettore. Infatti sta qui forse il maggiore valore del libro.
Cercare di riunificare mentalmente e metodologicamente le settorialità e le specializzazioni del sapere è una precondizione indispensabile per stroncare il pensiero unico, per ricostruire una critica dell’economia politica all’altezza dei tempi, per fare rinascere una cultura di sinistra. Ne nasce un percorso di scrittura nel quale l’erudizione e la formidabile ampiezza dei puntuali riferimenti ad altre autrici e autori non sono mai ostentati – come purtroppo spesso capita ad altri — ma funzionali alla costruzione di un discorso.
Non tutti i giudizi che l’autrice dà sulle opere altrui sono perfettamente condivisibili. Alcuni sembrano un po’ troppo tranchant. Per esempio sui lavori di Dardot e Laval che meriterebbero una più accurata disamina e non sono accostabili in tutto e per tutto a certe semplificazioni che circolano abbondantemente sul tema del «comune». Questo percorso, partendo dalla analisi delle principali componenti del neoliberismo, individuate nella finanziarizzazione, nella mercificazione (anche se l’autrice preferisce il termine inglese commodification), nella denormativizzazione, ci conduce fino alla proposta di un nuovo modello di sviluppo fondato su un neoumanesimo che sconfigge la dimensione mutilata e alienata dell’homo oeconomicus.
Su tutti questi tre lati gli argomenti portati sollecitano riflessioni importanti. In particolare, meriterebbe un approfondimento il tema della «denomormativizzazione», su cui del resto i giuristi sono da tempo impegnati. In realtà non siamo solo di fronte ad un abbattimento di regole e norme appartenenti alla seconda metà dello scorso secolo, ma anche — e soprattutto nell’ultima fase — ad una pericolosa «rinormativizzazione» secondo i principi della più pura a-democrazia. Nel caso europeo questo è molto evidente.
La politica insidiosa
Da diverso tempo a questa parte la Ue si è data, attraverso un percorso produttivo di nuove norme e trattati, come il già citato fiscal compact, un robusto e complesso sistema di governance. Questo sistema detta nuove norme agli stati membri, fino a modificare le loro Costituzioni in punti rilevanti. Come nel caso italiano ove la modifica dell’articolo 81 ha introdotto il pareggio di bilancio in Costituzione. Dire oggi, come purtroppo non è infrequente udire anche in discorsi altolocati quanto vuoti, che all’Europa mancherebbe un governo, è una pura sciocchezza. Come anche dire che l’Europa è governata solo dalle leggi dell’economia e che la politica è fuori dalla porta.
La politica democratica certamente, ma non la politica tout court. Mario Draghi, in un discorso tenuto all’Università di Helsinki, nel novembre del 2014, affermava che: «una diffusa erronea concezione sull’Unione Europea – e la zona euro – è che esse siano unioni economiche senza una sottostante unione politica. Ciò riflette un profondo equivoco di cosa significhi unione economica: essa è per sua natura politica». Egli ci ricorda una verità sostanziale, curvandola però al suo punto di vista: che il capitalismo, anche nella sua versione più dichiaratamente liberista, non esiste – e non è mai esistito aggiungono gli storici dell’economia come Marc Bloch — senza il supporto dello Stato. Il percorso fin qui fatto dall’Europa è stato solo apparentemente puramente economico. È vero che si è cominciato dal carbone e dall’acciaio. Ma, appunto, quella era economia reale, da cui muoveva un certo tipo di governance politica. Ora siamo dentro un’economia dominata dalla finanza e la sua governance politica è imperscrutabile e impermeabile al volere popolare quanto lo sono le sue istituzioni economiche. Ma non per questo non esiste. Un mondo di interessi
Le cose non vanno meglio se si esce dal nostro continente. Grazie all’apporto dei voti socialdemocratici ha fatto altri passi in avanti il famigerato Ttip, l’accordo «commerciale» tra Usa e Ue. Al suo interno è prevista la possibilità che le multinazionali facciano ricorso contro stati o enti locali se questi attuano provvedimenti che possono limitare la vendita dei loro prodotti o essere considerati lesivi della loro libertà commerciale. La questione non verrebbe risolta nei tribunali ma in sede extragiudiziale, tramite una cupola di superesperti chiamati a dirimere il contenzioso.
Si deregolamenta e si annichilisce il ruolo della giustizia e delle sue proprie sedi da un lato; dall’altro si costruisce un’impalcatura totalmente estranea alle logiche democratiche e coerente con la supremazia degli interessi dell’impresa identificati come interesse generale non della nazione ma di un intero continente e sistema mondo.
Per questa ragione la risposta non può che essere politica, ma non politicista. Deve contenere una proposta di nuovo modello di sviluppo e una nuova e coerente idea di democrazia, di società, di persona.
È vero, la terminologia – nuovo modello di sviluppo — qui usata è un po’ d’antan. Le parole sono consumate, come i sassi di Gino Paoli, dal tempo e soprattutto dal pessimo uso fattone. Ma non vi è altro termine più preciso, perlomeno non ancora, per indicare che non solo di distribuzione della ricchezza esistente bisogna occuparsi, anche se con criteri innovativi e trasformativi degli attuali assetti, come nel caso del basic income, ma soprattutto di radicale modificazione degli oggetti, delle finalità e delle modalità della produzione.
Dalla crisi più lunga di sempre non si esce rilanciando vecchi modelli produttivi, ma con una rivoluzione strutturale che indirizzi la produzione verso la soddisfazione dei bisogni basici e maturi delle popolazioni. Con un ruolo fondamentale del pubblico. Se alcuni prevedono una ripresa senza lavoro, la nuova sinistra non può accettare l’idea di una jobless society.
Il tema della ricerca della piena e buona occupazione va quindi ripensato, ma non espunto. La risoggettivizzazione dell’agente economico — per usare le parole di Laura Pennacchi -, la ricostruzione del nuovo soggetto dell’economia non possono avvenire senza una rivalorizzazione del lavoro in tutte le sue antiche e più moderne forme. Il capitalismo ha mostrato nella sua lunga storia di avere diverse facce. È dunque «riformabile», ma all’interno del suoi confini e ai suoi fini riproduttivi. Il suo superamento, la trasformazione, non può avvenire senza soggetti forti, resistenti a
Riferimenti
Sulla questione del lavoro vi sono su eddyburg numerosi scritti. Un primo tentativo di compilare una "visita guidata" sul tema è nel testo "il lavoro su eddyburg", del 2012. In attesa di un aggiornamento e completamento numerosi altri articolo sull'argomento sono raggiungibili nelle cartelle Temi e principi/Lavoro e "Il capitalismo d'oggi"
Il manifesto, 23 luglio 2015
È in corso in Europa una convergenza micidiale: una spinta nazionalistica e identitaria alimentata dalla crisi dell’euro e dal rigetto della burocrazia delle sue strutture; l’insofferenza verso i profughi, in fuga dalla guerra, ma sempre più difficili da distinguere dai profughi ambientali o dai “migranti economici”; il cinismo con cui governi e autorità dell’Unione hanno fatto quadrato contro il tentativo del governo greco di cambiare le regole dell’austerity, equiparandone l’operato a una colpa o a manifesta inferiorità.
C’è molto razzismo in tutti e tre questi processi: il giornale filogovernativo tedesco Die Welt ha giustificato le sue accuse contro i greci sostenendo che non sono i veri discendenti degli antichi abitanti dell’Ellade, ma un miscuglio di altre “razze”: turchi, albanesi, bulgari. Tutte degne, ovviamente, di disprezzo.
Questa miscela esplosiva è il frutto avvelenato delle politiche dell’Unione, ridotte a un feroce controllo ragionieristico dei conti degli Stati membri. Sono scomparse dal suo orizzonte tutte le grandi questioni: la lotta ai cambiamenti climatici (unica strada, anche, per rilanciare occupazione e sostenibilità economica); le guerre, dall’Ucraina al Medioriente; la dissoluzione sociale dell’Africa; i milioni di profughi prodotti da queste vicende.
Nessuna delle idee o delle azioni messe in campo ha la capacità o l’intento di contrastare quella micidiale convergenza di spinte autoritarie, identitarie e razziste. Ma tra tutte, centrale è ormai il problema dei profughi. Se la risposta ai tentativi di Syriza ha unito nella comune ferocia Stati e Governi, a spingere invece ciascuno per la propria strada, fatta di divieti, respingimenti, barriere fisiche e appelli identitari, sono i profughi.
In quell’allontanamento reciproco, tra governi comunque d’accordo, c’è però una vittima sacrificale. Anzi due: Grecia e Italia. Se non verranno espulse dal club dell’euro, come certo vorrebbero Schäuble e i suoi tanti seguaci, a metterle ai margini dell’Unione sarà la scelta di condannarle a essere plaghe su cui scaricare il “peso” dei profughi che gli altri paesi non vogliono. Una nave inglese raccoglie nel Mediterraneo centinaia di naufraghi e li sbarca in Italia: «sono roba vostra». E’ la strada da seguire: la Francia lo fa a Ventimiglia; l’Austria al Brennero.
In queste condizioni interne e internazionali non si può più pensare di trattare quei profughi come un’emergenza temporanea, mescolando improvvisazione e sfruttamento delle circostanze nel modo più bieco (non solo con Buzzi e la sua rete, perché a fare le stesse cose è tutto l’establishment della cosiddetta accoglienza in mano alle clientele del ministro degli interni). Il tutto a spese sia di profughi e migranti, sia di territori e comunità cui viene imposto senza preavvisi e preparazione l’onere di una ospitalità malvista e, nel migliore dei casi, mal sopportata; alimentando così rivolte in cui sguazzano le truppe fasciste e gli appelli velenosi per metterle a profitto elettorale.
Nessuno ne vuol prendere atto, ma le guerre ai confini dell’Europa e la massa di profughi (oltre sei milioni) che preme su di essi ci dicono che il tempo della normalità, quello a cui tutti vorrebbero tornare e che i politici continuano a promettere, è finito per sempre. Vanno messe all’ordine del giorno, proprio a partire dalla questione dei profughi, revisioni radicali a tutte le politiche: in campo economico, ambientale, sociale, internazionale.
Perché i profughi e i migranti ambientali o economici che sbarcano in Italia sono destinati ad aumentare, e molto, per quanto dure e spietate possano essere le politiche di respingimento adottate. Che fare? Gestire la loro presenza in modo diverso è ineludibile: non si dovrà più concentrarli in grandi gruppi e imporne la presenza a comunità impreparate ad accoglierli. Ci vogliono progetti mirati per distribuirli su tutto il territorio nazionale: condizione irrinunciabile se non di integrazione, per lo meno di tolleranza nei loro confronti.
Non si potrà più tenerli per mesi o per anni a far niente, accuditi malamente, o in modo brutale, dal personale di cooperative e società a scopo di lucro largamente inadeguate: è degradante per la loro dignità, ma è anche uno schiaffo a chi vive accanto lavorando per campare, o senza alcun sussidio, se inoccupato. Per questo dovrebbero poter autogestire la propria permanenza e i relativi fondi (i famigerati 35 euro al giorno); impegnarsi nella pulizia, nella manutenzione o nella ristrutturazione dei locali dove vivono, negli acquisti e nella preparazione dei loro pasti, affidando a personale italiano, adeguatamente preparato, solo compiti di sostegno e controllo. E se la scuola si è rivelata un potente mezzo di conoscenza e tolleranza reciproca tra nativi e migranti, lavorare insieme avrebbe un’efficacia anche maggiore. Per questo dovrebbero poter lavorare in forme legali e retribuite (il loro impegno nel volontariato, promosso da alcuni sindaci, è sì meritorio; ma sconfina con lo schiavismo; o rischia di consolidare un mercato del lavoro parallelo).
Certo, anche solo proporre una politica del genere in un paese con tre milioni di disoccupati ufficiali e nove effettivi sembra eresia; ma potrebbe rivelarsi un’opportunità straordinaria. Si potrebbero costituire cooperative e imprese miste di migranti e disoccupati nativi (soprattutto giovani) per impegnarle nella rivitalizzazione di borghi e terreni agricoli montani abbandonati, secondo una proposta già avanzata da Alfonso Gianni e Tonino Perna sviluppando idee di Piero Bevilacqua; ma anche in tante attività ecologicamente necessarie come la protezione dei suoli dal dissesto, la ristrutturazione di edifici dismessi o non a norma, la pulizia e la rinaturalizzazione di spiagge e greti di fiumi, ecc. O coinvolgerli in attività di assistenza a persone anziane o disabili, di istruzione e addestramento (molti tra loro hanno professioni, mestieri e competenze altamente qualificate) e in altri campi.
Ma chi pagherebbe? E’ lo stesso problema che pongono i nove milioni di disoccupati e inoccupati italiani: non si può aspettare che vengano assorbiti da una ripresa fantasma e da imprese che, anche quando prosperano, continuano ad “alleggerirsi” del loro carico di manodopera. Ci vuole un piano generale del lavoro come quello più volte prospettato da Luciano Gallino. Che collide frontalmente con le politiche di austerity e di disarmo economico imposte dall’Unione europea; ma la presenza di tanti profughi e migranti è una ragione in più, e delle più serie, per proporsi di rovesciarle, quelle politiche, azzerando così anche tanti motivi di competizione e rancore verso gli “stranieri”.
Un piano del lavoro del genere non può essere gestito dall’alto: ha bisogno di un’articolazione capillare e autonoma sul territorio; ma soprattutto di attori in grado di assumerne la gestione e di personale formato per avviarlo e per assisterlo sia in campo tecnico che organizzativo.
Dove trovarli? E’ questo un terreno decisivo di formazione e di selezione di una classe dirigente completamente nuova: quella di cui c’è bisogno. Il terzo settore – che non è solo Buzzi e Co — potrebbe fornire una prima base per mettere in piedi iniziative sperimentali in questa direzione; ma la selezione dei progetti e del personale dovrebbe essere affidata non alle clientele di ministeri, prefetti e giunte locali, bensì ad associazioni nazionali e locali di cui siano già state verificati competenze e rigore nella gestione di attività analoghe, come quella dei beni sequestrati alla mafia.
Tutto ciò sarebbe molto facilitato sostenendone l’aggregazione in associazioni delle varie nazionalità. Chi sfugge a guerre e miseria è messaggero di pace, pronto a impegnarsi perché nel suo paese si ricreino le condizioni del proprio ritorno, e ad attivare in tal senso anche i residui legami che mantiene con la propria comunità rimasta nei territori da cui è fuggito. Per questo associazioni di profughi e migranti potrebbero funzionare molto meglio di tanti governi fantoccio in esilio nel promuovere e orientare negoziati per riportare pace e democrazia nei loro paesi di origine.
Un pezzo importante, il migliore, di Africa e di Medioriente si ritroverebbe così a operare nel cuore stesso dell’Europa, trasformandone radicalmente i connotati: estendendone i confini ideali e la capacità di operare concretamente nel tessuto sociale dei paesi dove ora dominano guerre, miseria e dittature. E rendendo ogni giorno evidente, con la sua stessa presenza, che la missione dell’Unione europea, quella che la può salvare dallo sfacelo verso cui sta correndo, è proprio l’inclusione e la valorizzazione di chi ha raggiunto il suo suolo, con grande rischio, alla ricerca di pace, sicurezza, libertà.
Riferimenti
L'icona rappresenta un ritratto di Giuseppe Di Vittorio dipinto da Carlo Levi. Su Di Vittorio e il suo Piano del lavoro vedi qui su eddyburg, nonchè gli articoli linkati in quel testo. Articoli degli altri autori citati nell'articolo lsi trovano facilmente su eddyburg utilizzando il "cerca" in cma a ogni pagina
«Il reddito di cittadinanza? È la cosa meno di sinistra che esista», «significa negare il principio che l’Italia non è paese dei furbi ma chi lavora duro ce la può fare». Addirittura: «È incostituzionale». Renzi boccia il sostegno al reddito, nonostante qualcosa del genere esista in 24 paesi europei e anzi l’europarlamento da anni inviti i paesi a trovare forme di reddito «in grado di sottrarre ogni bambino, adulto e anziano alla povertà e garantire loro il diritto a una vita dignitosa» (risoluzione del 20 ottobre 2010). Renzi, che parla da Genova dov’è ospite del palco della festa di Repubblica intervistato dal direttore Ezio Mauro, forse ce l’ha con il Movimento 5 stelle, fan della proposta. Ma con tiro fa strike: proprio ieri in 200 città — Genova compresa — l’associazione Libera di don Luigi Ciotti raccoglieva le firme per l’istituzione di «un reddito minimo o di cittadinanza» nell’ambito della (fortunata) campagna «Miseria Ladra». Cui ha aderito, oltre a tutti i parlamentari del M5S e di Sel, anche la sinistra del suo partito, almeno quella parte di Area Riformista rappresentata da Roberto Speranza che il 22 maggio ha firmato la petizione di Libera e auspicato «un progetto di legge condiviso da tutti». In parlamento una maggioranza ci sarebbe. Ma da ieri sappiamo che il parere del governo, fin qui sfumato e possibilista, è contrario. E per questioni alla sua maniera ideologiche («non è di sinistra»), neanche per più digeribili obiezioni di cassa.
Messo a posto il Movimento 5 stelle, con il quale in questi giorni il Pd incrocia i ferri (sulle liste degli «impresentabili» e sul caso Bindi, sulla giunta Marino e sull’inchiesta Mafia Capitale e infine sul ’caso Orfini’, attaccato a testa bassa dallo stesso Grillo), Renzi si applica alla sua minoranza interna. Anche qui con parole ruvide. Siamo nel capoluogo della regione che il Pd ha perso rovinosamente. Settantatremila voti in meno rispetto alle regionali del 2010, 140mila in meno rispetto alle europee dell’anno scorso e del 41,7 per cento (ora crollato al 27,8). Renzi ammette che si tratta di «un campanello d’allarme», poi recita la consumata storia di quelli che se perdono non hanno «diritto di spaccare tutto». Ma archiviata la polemica con Pastorino&Cofferati è alla minoranza ancora nel Pd che invia un avviso di garanzia: «Basta spaccature tutto. Se fai così, è finita la storia del Pd». Domani sera alla direzione del partito ci sarà la resa dei conti: «Le molte mail che ricevo dicono ’vai alla direzione non solo con la mimetica ma con i reparti speciali’», assicura. Lui promette «un dibattito vero» ma chiederà «lealtà nei comportamenti perché servono delle regole di condotta», «altrimenti stai in un partito anarchico» (copyright Matteo Orfini).
Dal Pd renziano da giorni si moltiplicano i boatos di «nuove regole». Ma è difficile che la discussione interna prenda la curva disciplinare, quella imboccata senza complessi dai 5 stelle. Non ora che al senato i numeri della maggioranza sono incerti e che una ventina di democratici sono pronti a dare battaglia sul ddl scuola. Al loro indirizzo infatti Renzi saggiamente invia un messaggio di pace: «Siamo pronti a ragionare e cercheremo di coinvolgere più persone».
Il fronte sinistro del Pd si prepara al confronto in ordine rigorosamente sparso. Un presepe di posizioni diverse, da quelle in uscita dal Pd a quelle in entrata nella maggioranza renziana. Dall’account ufficiale di Area riformista su twitter parte un «#Scuola #Senato #Partito facciamo fatica ad andare avanti così. Ci stiamo preparando alla sfida congressuale». Replica Matteo Mauri, area ’dialogante’: «Chi continua a concentrarsi su una battaglia tutta interna al Pd, pensando ora al congresso del 2017 fa un danno al Pd, al paese e anche alla sinistra del Pd». E Davide Zoggia, altro bersaniano: «Proporremo un patto sul merito dei provvedimenti, così da arrivare al 2018, dando all’Italia le risposte di cui ha bisogno». Per Gianni Cuperlo le minoranze non vogliono «una resa dei conti», ma «è bene discutere di cosa intendiamo per partito della nazione», visto che le urne non hanno premiato il partito che si allontana dalla sinistra «per sfondare nell’altro campo».
E qui il discorso di fa interessante perché si tratta della stessa argomentazione svolta, all’indomani del voto, dal ministro della giustizia Andrea Orlando. Che è nella maggioranza renziana, ma su posizioni ’turche’. E che ha dichiarato «il partito della nazione» un’idea superata, anzi «ambigua, a pericolosa». E che sulla sconfitta ligure si è cavato un sasso dalla scarpa rivelando di aver cercato «di dare qualche indicazione, molto felpata», ma di essersi sentito rispondere «fatti i fatti tuoi».
La Repubblica, 15 maggio 2015
«IL reddito di cittadinanza nel senso che tutti i cittadini da Agnelli in giù hanno un reddito è una follia. L’idea di una misura contro la povertà è una cosa su cui stiamo lavorando e siamo disponibili a parlare con i 5Stelle e con gli altri, ovviamente compatibilmente con i vincoli di bilancio». Così ha dichiarato Renzi nella conversazione con Repubblica . Ma ciò che propongono i Cinquestelle è esattamente questo, una misura contro la povertà. Sbagliano a chiamarla reddito di cittadinanza, perché questo termine evoca altre proposte che circolano a livello internazionale e sono sostenute da studiosi di tutto rispetto, come Atkinson e Van Parijs, e da un network internazionale, che auspicano, appunto, un reddito di base per tutti. Ma la proposta dei Cinquestelle si riferisce a chi si trova in povertà, come quelle della Alleanza contro la povertà con il Reis (Reddito di inclusione sociale), della commissione Guerra con il Sia (Sostegno di inclusione attiva), di una proposta di legge di iniziativa popolare avanzata dal Bin (Basic Income Network) Italia, e prima ancora del lontano reddito minimo di inserimento sperimentato alla fine degli anni Novanta.
Non mancano, infatti, le proposte e neppure le sperimentazioni, anche se Maroni, che oggi a sorpresa annuncia di voler sperimentare il “reddito di cittadinanza” in Lombardia sembra aver dimenticato di aver affossato il reddito minimo di inserimento appena diventato ministro del welfare, chiudendo la sperimentazione e dichiarandola fallita, senza spiegazioni né discussioni.
Al di là dei nomi, ciò di cui si parla, e che esiste già nella stragrande maggioranza dei Paesi dell’Unione Europea, in molti Paesi Ocse e in diversi Paesi dell’America Latina, è una misura universalistica, non categoriale (cioè non limitata a una o un’altra categoria di poveri) di sostegno al reddito per chi si trova in povertà, solitamente accompagnata dalla richiesta di disponibilità ad accettare richieste di lavoro per chi ne ha la capacità, o a partecipare a corsi di formazione per chi ne ha necessità, di fare in modo che i figli (per chi ne ha) frequentino regolarmente la scuola e abbiano le cure mediche necessarie e così via. Il termine “di cittadinanza” (anche se io non lo userei proprio perché si presta ad equivoci) si riferisce al diritto di ricevere sostegno se si è in condizione di bisogno (così come si ha diritto di ricevere una istruzione di base, o cure mediche quando si è malati), a prescindere dalla appartenenza ad una o un’altra categoria.
Si può discutere dell’importo base di questa misura, di come debbano essere definiti i diritti e i doveri di chi la riceve e dei doveri di chi deve fare funzionare le attività integrative e di accompagnamento (dalla scuola ai servizi per l’impiego), su come e con quale periodicità si devono effettuare i controlli. E si deve, ovviamente, ragionare su come finanziarla (senza tuttavia metterla sempre in coda rispetto ad altre priorità non adeguatamente discusse). Ma, ripeto, si tratta di misure che già esistono in altri Paesi (incluso il Portogallo, molto più povero dell’Italia) da diversi decenni. Sono state sperimentate anche in Italia e alcuni comuni hanno da tempo qualche cosa di simile. La provincia di Trento ha messo a regime il proprio reddito minimo da oltre due anni. Sono esperienze da cui si può imparare senza iniziare ennesime sperimentazioni che servono solo per rimandare la questione creando ulteriori disparità tra chi è coinvolto nella sperimentazione e chi no: una disparità che può essere accettabile una volta, ma che non può essere sistematicamente ripetuta, senza che si vada mai a regime.
Nei dibattiti di questi giorni, incluso “Ballarò” e “Di martedì” scorsi, si sono sentiti pareri, commenti, fondati su una intollerabile ignoranza da parte anche di illustri commentatori e commentatrici. Peraltro, nessuno sembra abbia pensato di sentire, oltre ai Cinquestelle, chi di queste cose si occupa da anni e ha fatto proposte argomentate (ad esempio l’Alleanza contro la povertà). Il dibattito sembra limitato a politici (inclusi quelli del Pd) e giornalisti apparentemente scelti tra chi ne sa meno ed ha meno memoria storica. Con il risultato di aumentare la confusione, delegittimando in partenza ogni proposta, lasciando aperto il campo ad ennesime sperimentazioni più o meno idiosincrasiche, o all’invenzione di qualche ennesima misura categoriale con cui vengono disperse risorse già scarse.
L'Indice dei libri, aprile 2015
Con “7 minuti” Stefano Massini è riuscito a portare in teatro un fatto normale facendoci meravigliare. Undici operaie tessili di un consiglio di fabbrica intorno a un contratto da rinnovare. L’ azienda va bene, è stata venduta, la nuova proprietà in cambio di una garanzia dell’ occupazione e dello stipendio propone alle maestranze di rinunciare a 7 minuti “dell’ intervallo pattuito in sede di contratto premiando lo sforzo della proprietà di venirvi incontro in questo delicato passaggio storico”. La prima reazione delle donne è un grande sollievo. Perfino un sentimento di gratitudine. Questa garanzia, la tranquillità di un lavoro e di uno stipendio, valgono il sacrificio di 7 minuti al giorno. Altre fabbriche chiudono, ma qui si continua a lavorare. L’ offerta va accettata subito. Solo Blanche, trent’ anni al telaio, ha una strana „sensazione alla bocca dello stomaco“. Vuole discutere, vuole vedere chiaro. “Perché ho sempre la sensazione che noi dobbiamo ringraziare? Non è uno scambio alla pari?”.
Massini ci porta fino alle soglie del mistero economico. Andare oltre è il compito del lettore o dello spettatore che legge/vede cose che forse già sa, ma delle quali difficilmente si rende conto: Il lavoratore salariato appartiene non al singolo capitalista, ma al capitale, perché le sue condizioni di vita dipendono dai movimenti e dalle esigenze del capitale che la nostra società considera essere oggettive. La dipendenza può assumere forme attenuate da diritti conquistati, può diventare sopportabile e perfino confortevole. Ma periodicamente la legge del profitto si affaccia con la sua maschera ferrea e richiede, come gli dei degli aztechi, i suoi sacrifici umani. Infatti, il capitalismo può essere considerato ormai una delle grandi religioni. E’ il dio denaro che dà senso alle nostre azioni, regola la nostra vita, i nostri sentimenti e i nostri sogni. Nella sua “” Massini racconta attraverso le vicende di una dinastia di banchieri e finanzieri, che sono i sacerdoti di questa religione, i suoi fasti e la sua gloria fin dalla sua incarnazione nel mito americano. La forza che dà fiato al suo canto epico scaturisce da una catastrofe: Il 15 settembre 2008 crolla la Lehman Brothers provocando il fallimento più grande nella storia delle bancarotte mondiali. La banca era considerata too big to fail. Eppure questa volta il sistema bancario e lo stesso governo americano hanno voluto statuire un esempio facendo squillare le trombe del giudizio universale. Un epoca è finita. Ma che cosa significa questa affermazione e che tipo di Requiem stiamo cantando?
La Lehman Trilogy ci illumina sui passaggi cruciali da un capitalismo arcaico della “roba” a quello trascendentale della finanza. I Lehman, ebrei poveri immigrati dalla Germania, vendono attrezzi agricoli, passano alla compra-vendita di cotone, si trasferiscono dopo la guerra civile dall’ Alabama a New York dove figurano tra i fondatori della Borsa di Cotone, lontani da attrezzi, campi e carri. Capiscono il bisogno di nuovi mezzi di trasporto, investono in ferrovie e petrolio, in aerei e armi di guerra, si sposano bene, rimangono attaccati alla religione dei padri e conducono una vita da capitalisti “protestanti”, direbbe Max Weber. Sono tra gli artefici dell’ industrializzazione di un continente, creatori, come scriveva Marx, di “meraviglie ben diverse dalle piramidi egizie, dagli acquedotti romani e dalle cattedrali gotiche”.
Sembra che il reddito di cittadinanza, sinora teorizzato da isolate avanguardie, abbia fatto finalmente il suo ingresso nel cuore del Palazzo. Non ci sono solo i parlamentari di Sel e del movimento 5 Stelle, ma anche uomini del PD, il partito al governo, a premere per una sua realizzazione, che potrebbe trovare una strada praticabile nelle aule del Senato. E bisogna riconoscere che ancora una volta è stato Grillo e il suo movimento a imprimere una accelerazione di interesse politico sul tema.
Non sono così ingenuo da non sapere che la scarsa determinazione nel perseguire tale obiettivo non è solo dovuta a inerzia politico-organizzativa. A sinistra e soprattutto all'interno del sindacato, covano riserve tenaci nei confronti di questa misura assistenziale. Si teme la creazione di sacche di parassitismo, soprattutto fra la gioventù. E' la vecchia etica del lavoro, così radicata nel mondo comunista. L'etica del lavoro, introiettata da secoli di ideologia capitalistica, è stata certo trasformata col tempo dalle lotte del movimento operaio in fierezza di classe, un nuovo ethos civile che ha fatto delle classe operaia l'avanguardia sociale del Novecento.
Questo restringimento dell'età lavorativa in Italia ha almeno due gravi esiti. I giovani (almeno la maggioranza più fortunata) cercano protezione nel guscio della famiglia, rattrappendo aspirazioni e prospettive. Coloro che non ce l'hanno o non si accontentano, si rivolgono al welfare criminale. Spacciare droga non è un lavoro tranquillo, né eticamente apprezzabile, ma toglie tanti giovani dalla disperazione. E' dunque auspicabile che sia lo Stato a fornir loro un reddito, guastando l'etica capitalistica del lavoro, o preferiamo - come sempre più per tutto il resto, la scuola, la sanità, i trasporti - affidarci al mercato? Un mercato criminale, naturalmente, fra i più efficienti della Penisola. Ma naturalmente la questione giovanile riguarda, più gravemente, l'avvenire del nostro Paese. Stiamo perdendo le migliori intelligenze della presente generazione, che scappano nei grandi centri d'Europa e degli USA mentre il presidente del Consiglio e il suo governo ingannano gli italiani con le fumisterie della cosiddetta “buona scuola”.
Ma la condizione degli anziani che perdono il lavoro e non hanno ancora la pensione è tragica. Queste figure, esistenti da tempo in Italia, che la riforma Fornero ha fatto ingigantire, facendone le vittime sacrificali di una riforma ispirata dal panico e da una cultura produttivistica, non hanno nessuna famiglia a cui appoggiarsi. Quella famiglia in genere debbono reggerla loro, coi loro magri redditi. E spesso non pochi di loro si trovano in situazioni che nessuno potrebbe immaginare all'interno di una società opulenta come la nostra. Non solo devono provvedere spesso a mogli e figli disoccupati, ma talora hanno a carico anche qualche genitore anziano, tenuto in vita da una delle tante sontuose pensioni che allietano gli ultimi anni dei nostri vecchi.
Ci auguriamo che ne tengano conto i nostri parlamentari. Il reddito minimo toglierebbe dalla disperazione tante persone che hanno decenni di fatiche alle spalle e un futuro di incertezza. Aumenterebbe la domanda interna, di cui l'economia italiana ha un evidente bisogno. Costituirebbe la strada per ridurre le disuguaglianze sociali, offrirebbe a tanti nostri giovani un punto di partenza per intraprendere, studiare, continuare ricerche avviate. I giovani non si assopirebbero per un modesto reddito, vivendo da parassiti: si tranquillizzino sindacalisti e vetero comunisti. Questo lo credono coloro che dei giovani hanno solo sentito parlare.
Una versione ridotta dell'articolo è stato pubblicato su il manifesto
Il manifesto, 30 aprile 2015, con postilla
Giorgio Lunghini, i. Bollati Boringhieri, 1995
In una conferenza sulle “Prospettive economiche per i nostri nipoti”, tenuta a Madrid nel 1930, negli anni dell’ansia, John Maynard Keynes affermava che (…) nell’arco di cent’anni l’umanità avrebbe risolto il suo problema economico (…). Nei sessantacinque anni passati da allora l’umanità non si è mossa nella direzione della libertà dal bisogno, della liberazione dalla necessità di vendersi in cambio dei mezzi di vita. Dall’età dell’ansia che Keynes ha cercato di sciogliere siamo passati all’età dello spreco, non a quella della libertà e della sobrietà. L’atroce anomalia della disoccupazione in un mondo pieno di bisogni è oggi ancora più grave di allora (…). Alla proliferazione immane delle merci e alla crescita della disoccupazione si accompagnano vecchie e nuove povertà, guerre fra poveri e un generale imbarbarimento dei rapporti materiali dell’esistenza. La teoria economica e l’arte del governo non sanno spiegare né vogliono risolvere il problema economico-politico più grave: troppe merci, poco lavoro (…). La mia tesi è che la disoccupazione ha oggi carattere strutturale, ha origine nelle forme attuali del cambiamento tecnologico e organizzativo, ed è tendenzialmente irreversibile. Nel ragionamento seguente sostengo che la famacopea ortodossa non ha medicamenti che possano risolvere o almeno lenire la nuova forma della malattia cronica del capitale, la contraddizione tra spreco e penuria. Occorre cercare anche altrove, fuori da una logica esclusivamente mercantile. Occorre mettere in moto lavori concreti, essenzialmente lavori di cura delle persone, delle città e delle campagne. (stralci dalle pagine 7-9)
postilla
Lunghini pone il tema della finalizzazione del lavoro. Il lavoro è uno strumento per la produzione di merci destinate a loro volta a essere vendute a un prezzo superiore al loro costo di produzione, oppure un'attività mediante la quale l'uomo (e l'umanità) raggiunge i fini che volta a volta si pone in relazione ai suoi obiettivi? Nel primo caso il lavoro (anzi la "forza lavoro", cioè la capacità degli uomini di lavorare) è anch'esso una merce, che al proprietario e gestore dei mezzi di produzione conviene pagare il meno possibile; il reddito del lavoratore sarà il prezzo che egli riuscirà ad ottenere da compra la sua forza-lavoro. Tutt'altro è invece è il ruolo e il destino sociale del lavoro se, come Claudio Napoleoni, lo si concepisca come «lo strumento, peculiarmente umano, col quale l’uomo consegue i suoi fini; ed è strumento universale, nel senso che esso è a disposizione dell’uomo per ogni possibile suo fine» (vedi in proposito alcuni dei testi di Marx, di Robbins e di Napoleoni indicati nella nota Il lavoro su eddyburg . Se si sviluppasse il ragionamento a partire da queste premesse la questione del New Deal per l'Europa, posto da Guido Viale e da altri autori in occasione della vicenda della lista "l'Altra Europa con Tsipras" e il dibattito sul "reddito di cittadinanza" acquisterebbero un carattere più concreto, perché più solidamente fondato in una visione dell'uomo e dello sviluppo.
Il manifesto, 15 aprile 2015, con postilla
Lo ius existentiae si pone alla base del contratto sociale. Sin dal ‘600 la coppia obbedienza-protezione s’è imposta come la fonte ultima di legittimazione del potere costituito. Spetta al “sovrano” difendere la vita dei consociati (Hobbes), ma anche i beni essenziali ad essa collegati (Locke). Se il potere costituito non è in grado di garantire le condizioni di “esistenza”, il popolo non è più tenuto a rispettare il pactum consociationis: il diritto di resistenza può essere esercitato.
Nella storia della modernità si è ritenuto che allo Stato dovesse spettare il compito di assicurare la pace (interna ed esterna), mentre il lavoro dovesse costituire il mezzo attraverso cui assicurare la “sopravvivenza” degli individui. La fine della civiltà del lavoro ha cambiato le carte in tavola. Oggi non basta più la volontà di lavorare, né quella di emigrare per poter sopravvivere. Come può lo Stato preservare il diritto all’esistenza?
In via di principio due sono le strade percorribili (tra loro non necessariamente alternative): lo Stato potrebbe assicurare comunque un diritto al lavoro, ampliando artificialmente l’offerta, incentivando – ad esempio – i lavori socialmente utili, anche se economicamente non necessari. L’altra via è quella di assicurare comunque un reddito di cittadinanza anche a chi — in assenza delle condizioni sociali che lo rendono possibile — non può lavorare.
In particolare, la prospettiva del reddito di cittadinanza ha un solido fondamento costituzionale. Essa ruota attorno a quattro principi che valgono a caratterizzare il nostro “patto sociale”: il principio di dignità, con il collegato dovere di solidarietà; il principio d’eguaglianza, inteso come modalità di realizzazione di una società di liberi ed eguali; il principio di cittadinanza, nella sua dimensione partecipativa e di garanzia di appartenenza ad una comunità; il principio del lavoro, assunto nella sua reale dimensione di vita, comprensivo del dramma del non lavoro.
È nel collegamento tra questi principi che si rinviene il diritto costituzionale ad un reddito di cittadinanza. L’errore cui si è spesso incorsi è stato quello di tenerli invece separati. Eppure nella nostra costituzione – più avanzata dei suoi interpreti – appare evidente l’intreccio. Si pensi al rapporto complesso che sussiste tra dignità e lavoro. Al lavoro è legata la dignità (il lavoratore ha, infatti, diritto ad una retribuzione «in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa»), ma è anche evidente come la “dignità” rappresenta un valore da assicurare in ogni caso, ponendosi (la “dignità umana”) come limite alla libertà di iniziativa economica privata, conformandosi come “dignità sociale” nel rapporto tra tutti i cittadini eguali davanti alla legge (nel combinato disposto tra gli articoli 36, 41 e 3).
Vero è che i nostri costituenti perseguivano l’obiettivo della piena occupazione, tant’è che alla Repubblica veniva assegnato il compito di «promuovere le condizioni» per rendere effettivo il diritto al lavoro. Dunque era questa la via maestra per dare dignità sociale ai cittadini. Se oggi però consideriamo non più perseguibile la prospettiva della piena occupazione l’unica alternativa per rimanere entro i confini tracciati dal costituente è quella di assicurare la dignità anche a chi non può lavorare. Non possiamo rassegnarci alle diseguaglianze di una società in cui sempre più ampie parti della popolazione vivono in grave disagio, non possiamo evitare di occuparci dei gruppi sociali in stato di emarginazione, non possiamo lasciare il mondo sempre più esteso dei non occupati senza speranza, privandoli di ogni dignità e opportunità di riscatto.
La lettura sistematica del testo costituzionale evidenzia anche un secondo dato, che a me sembra decisivo, ma che è invece assai sottovalutato nel dibattito attuale sul reddito di cittadinanza.
Detto in breve: nella nostra costituzione il diritto fondamentale alla sopravvivenza, i diritti alla vita dignitosa e all’assistenza come obbligo dello Stato, la lotta all’emarginazione sociale, non vengono assunti in sé, ma sono sempre collegati al necessario svolgimento della personalità, nonché definiti al fine di concorrere al «progresso spirituale e materiale della società» (come si esprime l’art. 4 in rapporto con il diritto al lavoro). Esplicito e diretto è poi il legame tra diritti fondamentali e doveri inderogabili (art. 2). Così come l’obbligazione generale di rimozione degli ostacoli d’ordine economico e sociale nei confronti dei cittadini è associato alla partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del paese (art. 3).
È in questo complesso intreccio che deve trovare una sua specifica qualificazione anche il reddito di cittadinanza, che dovrebbe essere inteso come reddito di partecipazione. Se si vuole cioè evitare che la sovvenzione ai non occupati si trasformi in un mero sussidio di povertà, caritatevolmente concesso ad un soggetto isolato, lasciato nel suo isolamento, e senza possibilità di riscatto, v’è una sola strada da perseguire: legare il reddito alla cittadinanza attiva. La vera sfida, al tempo della disoccupazione strutturale, ma anche del lavoro precario, flessibile, instabile, delocalizzato, immateriale, è quella di conservare quell’orizzonte emancipatorio, tanto individuale quanto sociale, che sin qui – nello schema fordista — era stato assicurato principalmente dal lavoro stabile entro una comunità solidale.
Ma come può legarsi il reddito alle attività sociali? E poi cosa si intende per cittadinanza attiva? Anche in questo caso si può cominciare a riflettere partendo dalla costituzione, la quale imputa a tutti i cittadini il dovere di svolgere un’attività o una funzioni che concorra «al progresso materiale o spirituale della società». Il riferimento è al lavoro tradizionalmente inteso, ma deve ricomprendere anche tutte quelle attività o funzioni che si svolgono “oltre il lavoro formale”. Il volontariato, l’assistenza ai figli o ai genitori, le attività culturali, quelle di natura immateriale, la cura dei beni comuni. Tutto ciò che – oltre la dimensione economica e immediatamente produttiva — permette agli individui di sviluppare la propria personalità e concorrere al progresso sociale.
Tutto ciò come si può realizzare in concreto? Se si guarda alle diverse forme di reddito proposte (universale, minimo, di disoccupazione) mi sembra che il più conforme al modello definito sia quello che assegna a tutti i bisognosi un reddito minimo, non tanto condizionato dalle logiche di workfare (che impone al titolare del reddito di accettare qualunque lavoro, anche il più degradante o incoerente con la propria formazione a pena della perdita di ogni contributo), quando costituito da due diverse fonti “reddituali”: una in denaro, l’altra definita da forme di sostegno indirette. In questo secondo caso il reddito consiste in garanzie di accesso gratuito ai servizi (scuole, università, consumi culturali, trasporti), ovvero al supporto al volontariato o all’associazionismo, ovvero ancora all’affidamento ai cittadini di strutture inutilizzate (dai teatri, alle fabbriche, ai centri sociali) per la gestione dei beni comuni. In questo caso il reddito di cittadinanza (inteso come servizi, agevolazioni e gestione degli spazi pubblici) potrebbe persino favorire la produzione di reddito da lavoro o configurare un’altra economia.
È questa una prospettiva che stenta a farsi strada e che pure non è assente in alcuni tra i progetti sul reddito (la proposta elaborata dal Basic Income Network, ripresa in sede parlamentare, alcune leggi regionali), persino in una risoluzione del Parlamento europeo del 2010. Per una volta possiamo dire: «ce lo chiede l’Europa».
postilla
L'autore scrive: «Due sono le strade percorribili: lo Stato potrebbe assicurare comunque un diritto al lavoro, ampliando artificialmente l’offerta, incentivando - ad esempio - i lavori socialmente utili, anche se economicamente non necessari. L’altra via è quella di assicurare comunque un reddito di cittadinanza anche a chi -e in assenza delle condizioni sociali che lo rendono possibile - non può lavorare». Esiste anche un'altra via: quella cui allude Azzariti quando scrive che pe misure che propone possono addirittura servire a «configurare un’altra economia».
In sostanza, si tratta a mio parere di modificare alle radici l'attuale concezione (e pratica) dell'economia e rendere anche "economicamente" rilevante ciò che lo è "socialmente".
Bisognerebbe "cercare ancora" sulla strada indicata da Claudio Napoleoni. Chi voglia approfondire l'argomento può leggere in eddyburg il testo di Napoleoni, Scienza economica e lavoro dell’uomo nella definizione di Lionel Robbins, e la sintetica ricostruzione del suo pensiero in proposito che ho steso in un capitolo del mio Memorie di un urbanista e ripreso nella relazione introduttiva alla sesta edizione (2009) della Scuola di eddyburg. (e.s.)
l manifesto, 22 marzo 2015
La crisi dei sindacati, e l’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori, sono le cause principali delle diseguaglianze economiche e della manipolazione del sistema politico ed economico da parte di chi possiede una quota maggiore di capitali. È quanto emerge da uno studio in via di pubblicazione sulla rivista «Finance & Development» delle economiste del Fondo monetario Internazionale Florence Jaumotte e Carolina Osorio Buitron.
La ricerca, intitolata «Power from the people» e ispirata alla canzone di John Lennon «Power to the people», esamina diverse misure dell’iniquità (dalla quota di reddito del 10% più ricco della popolazione all’indice di Gini) per i paesi ad economia avanzata dal 1980 al 2010. La tesi, ispirata agli studi del premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, sostiene che «l’indebolimento dei sindacati riduce il potere contrattuale dei lavoratori rispetto a quello possessori di capitale, e aumenta la remunerazione del capitale rispetto a quella del lavoro».
Una crisi, quella dei sindacati, che si riflette anche nel calo degli iscritti, pari al 50% nel lungo trentennio della contro-rivoluzione neoliberista. Venuto meno il potere sociale, e la relativa capacità di negoziazione sul salario, così come i numeri che permettevano ai sindacati di fare pressione sul capitale e i governi al fine di ottenere una moderata redistribuzione del plusvalore in eccesso, dal 1980 i redditi si sono concentrati verso l’alto: il 5% in più è finito nelle mani del 10% della popolazione più ricca nei paesi avanzati. Anche considerando l’impatto della tecnologia, della globalizzazione, della liberalizzazione finanziaria e del fisco, per Florence Jaumotte e Carolina Osorio Buitron i risultati confermano che «il declino della sindacalizzazione è fortemente associato con l’aumento della quota di reddito» nelle mani dei ricchi.
L’analisi di Jaumotte e Osorio Buitron si concentra anche sugli strumenti che possono modificare la distribuzione dei redditi verso le classi lavoratrici e il ceto medio, i due principali settori vittime degli effetti del neoliberismo. La lotta contro la «dispersione dei redditi, la disoccupazione e per la redistribuzione» può rinascere attraverso una nuova ondata di sindacalizzazione, la creazione di un salario minimo. La generalizzazione del salario minimo a livello internazionale non aumenta la disoccupazione, come invece sostiene una fitta schiera di economisti, ma permette di contenerla, sostengono le ricercatrici. Le soluzioni suggerite da Jaumotte e Osorio Buitron sono quelle tradizionali fordiste. Quella più importante consiste nel restaurare il ruolo del sindacato come «mediatore sociale» universale e la sua identità di «cinghia di trasmissione» con i partiti politici. «Sindacati più forti – scrivono – possono mobilitare i lavoratori a votare per i partiti che promettono di redistribuire il reddito».
Una tesi che ha suscitato una reazione entusiasta di Furlan (Cisl): «Il sindacato è fondamentale per la crescita». Barbagallo (Uil): «Bisogna lottare innanzitutto per difendere il potere d’acquisto di salari e pensioni e, inoltre, per evitare una riduzione delle tutele, dei diritti e delle protezioni». Camusso (Cgil) ha sostenuto: «Quando il sindacato è presente, i risultati di protezione economica sono molto maggiori di qualsiasi altro strumento, sia esso il reddito di cittadinanza o il salario minimo deciso dalla politica». Una pietra tombale sul tentativo (anche di una parte della sinistra e dei movimenti sociali, oltre che dei Cinque Stelle) di istituire un reddito minimo in Italia.
Questo non è l’unico paradosso di uno studio proveniente dall’Fmi, cioè il principale attore della globalizzazione neoliberista, che riscuote il consenso tra i sindacati che ne sono stati le principali vittime. Si scopre che le ricette consigliate sono più avanzate di quelle dei sindacati per i quali, al momento, il salario minimo non rientra nella contrattazione. Si tratta di un equivoco indotto anche dalla ricerca di Jaumotte e Osorio Buitron per le quali i corpi intermedi possono essere restaurati come se la crisi della forma sindacato fosse stata indotta dall’esterno, e non anche per motivi storici ed endogeni.
L’obiettivo di «riaffermare standard del lavoro che permettano a lavoratori motivati di negoziarli collettivamente» potrà essere raggiunto a condizione che una nuova forma della «negoziazione» sociale includa precari, lavoratori indipendenti o intermittenti non sindacalizzabili secondo le regole che proteggono solo il lavoro salariato. Anche a questo servono strumenti come il salario minimo o il reddito di bas
Sbilanciamoci.info, 20 marzo 2015
TORNIAMO AL LAVORO
di Grazia Naletto
Workers act/Nonostante l’ottimismo parolaio di Renzi, le stime del Def parlano chiaro: il Jobs act inciderà sul Pil al massimo per lo 0,1%. Per ripartire ci sarebbe bisogno di una politica industriale, di contratti veri e di investimenti pubblici. Una riforma del lavoro per uscire dall’Ottocento 2.0
Un miliardo e 508 milioni di euro. È l'ammontare dell'evasione di contributi e premi assicurativi verificata da parte del ministero del Lavoro, INPS e INAIL nel 2014 su 221.476 aziende ispezionate. Il 64,17% (più di una su due) sono risultate irregolari e dei 181.629 lavoratori impiegati in modo irregolare, il 42,61% (77.387) erano completamente in nero. I dati sono contenuti nel Rapporto annuale dell’attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale 2014.
Il Jobs Act riuscirà davvero a migliorare le condizioni di chi oggi è fuori dal mercato del lavoro o è relegato nel suo segmento invisibile, sommerso e malpagato? E ammesso che alcune migliaia di disoccupati possano beneficiare della decontribuzione triennale prevista nella legge di stabilità per i neo-assunti nel 2015, cosa succederà loro quando i tre anni saranno finiti?
Libertà di licenziare, demansionamento, mantenimento delle 45 tipologie contrattuali esistenti ed estensione del lavoro usa e getta sono ricette che rafforzano il potere delle imprese mettendo sotto scacco e gli uni contro gli altri i lavoratori. Chi afferma che questo è il prezzo per rilanciare l'economia e uscire dalla crisi, identificando nel costo del lavoro l'unica variabile dipendente per aumentare la produttività e la "competitività" del nostro paese, non sbaglia: compie un inganno. Consapevolmente. E lo fa perché assume come unico punto di vista quello delle imprese.
E allora è utile ribaltare la prospettiva e riorientare lo sguardo, leggere non solo la crisi degli ultimi anni e le scelte dell'attuale Governo, ma anche le trasformazioni dei processi produttivi, del mondo del lavoro e delle politiche economiche dell'ultimo ventennio, attraverso gli effetti che hanno determinato e determinano sulla vita delle persone in carne e ossa.
Servirebbe un Workers Act.
Cambiare punto di vista significa innanzitutto fare i conti con un modello, quello neo-liberista, che ha subordinato i diritti delle persone (occupate e non) a quelli delle imprese e ha ridotto progressivamente il ruolo di indirizzo dello Stato in ambito economico.
Significa confrontarsi con modelli produttivi che grazie allo sviluppo tecnologico, alla deterritorializzazione e alla globalizzazione delle imprese consentono di precarizzare, frammentare e indebolire il lavoro.
Significa avere il coraggio di constatare che, senza un forte intervento pubblico finalizzato a creare buona occupazione e una redistribuzione del lavoro che c'è, migliaia di persone sono destinate a rimanere escluse dal mercato del lavoro.
Significa non rimuovere l'urgenza di garantire un reddito a chi nel mercato del lavoro non riesce ad entrarci o ne è uscito prima di aver maturato il diritto alla pensione.
Significa infine comprendere a pieno il nesso stringente tra le contro-riforme del mercato del lavoro e della scuola, lo smantellamento del welfare e le riforme costituzionali. Sono collegati da un filo spinato comune: una svolta autoritaria che partendo dalla scuola e dal lavoro intende metterci sotto ricatto ed erodere qualsiasi processo di partecipazione.
Il Jobs Act è approvato e produrrà i suoi effetti, ma le contraddizioni e i nodi lasciati irrisolti dalla mancanza di una strategia di lungo respiro, capace di scegliere come priorità il benessere sociale delle persone, restano.
Da qui la scelta di Sbilanciamoci! di intrecciare conoscenze e competenze diverse per elaborare un Workers Act. Sarà pronto tra qualche settimana. Ci piacerebbe che fosse un'occasione per avviare un dibattito politico e culturale serio sul futuro del lavoro, ma soprattutto delle persone la cui vita è condizionata dal lavoro: perché ce l'hanno già o perché non lo hanno ancora.
UN WORKERS ACT PER USCIRE DALLA CRISI
di Claudio Gnesutta
Workers act/Un progetto di politica per il lavoro, che si articoli lungo tre assi: attivazione di lavori concreti, riduzione dell’orario di lavoro e un welfare universalistico. Perchè quello di cui c'è bisogno è l’esigenza che di garantire a tutti un’attività che assicuri una prospettiva di lavoro e di vita dignitosa
Oggi in Italia ci sono 3 milioni di disoccupati “ufficiali”; se ad essi si aggiungono i disoccupati parziali e gli inattivi disponibili si tratta di 9 milioni di persone: una situazione sociale drammatica che il Job Act non affronta. La sua filosofia di aumentare i posti di lavoro facilitando i licenziamenti e sussidiando le imprese a espandere i contratti a tempo determinato non è una soluzione. Basti pensare che il CNEL stima che con una crescita annua dell’occupazione dell’1,1 % (scenario ritenuto “ottimista”) solo nel 2020 il tasso di disoccupazione si riporterebbe alla situazione pre-crisi (e a 1,8 milioni di disoccupati). Ma una tale situazione richiederebbe una crescita media della produzione del 2% e non è facile trovare qualcuno – anche con “l’aria nuova” di Cernobbio – disposto a scommetterci. A condizioni sostanzialmente inalterate di disoccupazione si accompagnerebbero condizioni di precarietà del lavoro: attualmente vi sono 3,4 milioni di working poor (0,8 tra gli autonomi), 2,5 milioni di lavoratori in part-time involontario (32% femminile), 65% dei nuovi contratti è a tempo determinato di cui il 46% registra una durata inferiore al mese. Se non si modificano le attuali istituzioni e politiche del lavoro, anche la prossima generazione vivrà una situazione di eccesso di offerta di lavoro che estenderà la precarietà alla maggioranza della popolazione attiva. Il futuro di scarsa e cattiva occupazione è il prodotto di un mercato del lavoro che opera come meccanismo di ingiustizia e di immiserimento sociale.
Non c’era certamente bisogno di un Jobs Act che volutamente consegna le vite dei lavoratori alle scelte socialmente regressive delle imprese. Vi è invece l’esigenza che di garantire a tutti un’attività (sia essa dipendente o indipendente) che assicuri una prospettiva di lavoro e di vita dignitosa. È in questa direzione che Sbilanciamoci! ritiene necessario proporre un terreno di confronto per elaborare un Workers Act, un progetto di politica per il lavoro, che si articoli lungo tre assi: attivazione di lavori concreti, riduzione dell’orario di lavoro, un welfare universalistico per il lavoro (dipendente e non). In primo luogo, va rilanciato il ruolo dello Stato (e degli enti pubblici) come occupatore di ultima istanza (Piani del lavoro, ma anche Servizio civile nazionale) finalizzando gli aumenti occupazionali alla creazione di valori socialmente utili. Inoltre occorre intervenire sugli orari di lavoro poiché – data l’attuale dimensione della disoccupazione, inoccupazione, sottoccupazione – è possibile ampliare i posti di lavoro solo riducendo il tempo medio di lavoro. Per garantire livelli adeguati di reddito a chi lavora a orari più ridotti occorre ristrutturare l’imposizione fiscale e previdenziale alleggerendola drasticamente su contratti più brevi e accentuandola su quelli prolungati. Ma anche così è difficile garantire all’intera popolazione attiva, in particolare a chi svolge un’attività autonoma, la disponibilità di un reddito. Occorre, terzo punto, ridefinire il sistema di welfare attorno a una forma di reddito minimo che, fungendo da salario di riserva, contrasti la pressione al ridimensionamento salariale. Si tratta di pensare a una misura, universale e incondizionata, che sia un punto di riferimento per il riassetto delle altre forme esistenti di sostegno del reddito.
Sono temi che richiedono una riflessione impegnativa, ma non tanto per i molti e importanti aspetti tecnici che si pongono: a questo livello, le capacità, le competenze e le intelligenze sono ampiamente disponibili. Quello che importa è la convinzione che questa prospettiva possa costituire il fondamento della politica economica. A nessuno sfugge infatti che, per realizzare una tale politica per il lavoro, siano necessari opportuni indirizzi di politica industriale per rafforzare e riorientare la crescita produttiva; che si richieda una politica fiscale che ne garantisca l’opportuno finanziamento e una amministrazione pubblica efficiente in grado di controllare e gestire l’intero processo. Si deve peraltro avere consapevolezza delle difficoltà che incontra una tale riflessione nell’attuale situazione culturale caratterizzata da una subordinazione al pensiero dominante che impedisce di pensare a qualcosa di diverso rispetto alla manutenzione dell’esistente.
Ma, a fronte di una tendenza strutturale che prospetta un futuro difficile per i lavoratori, è doveroso impegnarsi nel costruire un’alternativa altrettanto strutturale, con la consapevolezza che la soluzione non è dietro all’angolo, ma che è importante scegliere l’angolo sul quale svoltare.
UN NEW DEAL O IL DISASTRO
Di Giulio Marcon
Workers act/Il governo Renzi non esce fuori dal dogma del mercato capace di autoregolarsi. Senza politiche pubbliche la crisi non finisce
Una volta – per essere competitivi – si svalutava la moneta, oggi si svaluta il lavoro: meno diritti, meno tutele, meno retribuzione. Le politiche neoliberiste si sono basate in questi decenni su quattro pilastri: la riduzione della spesa pubblica e del ruolo dello Stato; le privatizzazioni e le liberazioni (a partire da quella della circolazione dei capitali); gli investimenti privati (il mercato) e la precarizzazione del mercato del lavoro. La riforma del mercato del lavoro è una di quelle riforme “strutturali” cui Renzi affida la speranza di rilanciare l'occupazione e l'economia. In realtà, come sappiamo tutti, in questi anni l'esistenza di oltre 45 forme di lavoro atipico non ha incoraggiato ad assumere di più, ma semplicemente a sostituire i contratti di lavoro con tutele con forme di lavoro precario, senza diritti. Non si sono creati posti di lavoro in più, ma solo più lavori precari. Né queste riforme hanno avuto effetti salvifici sull'economia. Proprio nel DEF si dice che l'impatto del Jobs Act sul PIL sarà minimo: non più dello 0,1%. Si tratta di previsioni; e quelle del governo in questi vent'anni sono sempre state troppo ottimistiche e poi inevitabilmente corrette al ribasso.
L'assunto dal quale si parte è noto: bisogna mettere le imprese nelle condizioni di avere meno vincoli e costi possibile. E così potranno assumere. Solo che, probabilmente, i nuovi assunti saranno assai pochi: la maggior parte dei nuovi contratti saranno “sostitutivi”, cioè trasformeranno rapporti di lavoro pre-esistenti più gravosi in quelli più convenienti introdotti dalla legge di stabilità. Tutte le agevolazioni fiscali di questi anni, le imprese non le hanno utilizzate per fare investimenti nell'economia reale, ma in quella finanziaria e speculativa o per arrotondare i loro profitti. La realtà è che i governi occidentali di questi anni (e Renzi, oggi), rinunciano ad ogni politica pubblica attiva: non c'è una politica industriale, non c'è una politica degli investimenti pubblici (che in 20 anni si sono dimezzati), non c'è una politica del lavoro.
Non c'è più una politica della domanda (di sostegno, programmazione, investimento), ma solo dell'offerta, dove – per quel che ci riguarda – non è più nemmeno offerta di lavoro, ma offerta di lavoratori alle condizioni più vantaggiose per le imprese. Nel frattempo gli ultimi dati ISTAT ci dicono che la situazione in Italia continua a peggiorare. E già questo dovrebbe indurre i governi ad un serio ripensamento delle politiche sin qui seguite.
L'idea di lasciare al mercato la creazione di occupazione non funziona e non ha funzionato mai, se non per la produzione di posti di lavoro precari, effimeri, mal retribuiti, senza tutele. Ma quale sistema economico e produttivo può pensare di sopravvivere grazie ad una idea di lavoro così retriva e padronale? Altro che modernità, qui siamo al ritorno all'ottocento, anche se “2.0”. Un lavoro senza qualità porta con sé una economia senza futuro. Senza un investimento nel lavoro (in termini di risorse, ma anche di formazione, di tutele, ecc.) non ci può essere alcuna economia di qualità, innovativa, capace di “competere”. Un'impresa che si serve del lavoro “usa e getta”, non ha speranze, è di bassa qualità, dura poco: non è più impresa, ma solo business di piccolo cabotaggio (anche se magari di grande ritorno affaristico).
Servirebbe invece una politica pubblica per il lavoro: una sorta di piano straordinario del lavoro fondato sugli investimenti pubblici per creare occupazione nella risposta alle grandi emergenze nazionali (lotta al dissesto idrogeologico, edilizia scolastica, “piccole opere”, ecc.) e nelle frontiere delle nuove produzioni della cosiddetta Green Economy (mobilità sostenibile, energie pulite, ecc.). Servirebbe uno Stato che fosse attivo –indirettamente, ma anche direttamente – nella creazione di posti di lavoro, attraverso un'agenzia nazionale come quella (la Works Progress Administration) che fu creata da Franklin Delano Roosevelt durante il New Deal. E servirebbero degli investimenti “pazienti” (che danno riscontro sul medio periodo) in settori fondamentali per creare buona economia e buona occupazione: nell'innovazione e nella ricerca, nel settore formativo ed educativo e nella coesione sociale. E poi, bisognerebbe riprendere un discorso che oggi può sembrare in controtendenza (sicuramente rispetto alle politiche neoliberiste), ma quanto mai attuale e necessario: la riduzione dell'orario di lavoro. Se il lavoro è poco, bisogna fare in modo che il lavoro sia redistribuito il più possibile. Lasciare milioni di persone nella disoccupazione e nell'inattività è economicamente sbagliato, moralmente disumano e socialmente ingiusto e pericoloso.
La Repubblica, 21 febbraio 2015, con postilla
CHE , fra l’altro, riscrivono e ridimensionano le guarentigie per i licenziamenti. A prima vista, una svolta storica. Ma c’è da chiedersi forse se proprio la storia non avesse già svoltato da tempo e prima che le novità legislative arrivassero a registrarne i cambiamenti. In particolare, quelli intervenuti nella realtà economica del Paese con i suoi inesorabili riflessi sui rapporti di forza tra gli attori politici e sociali in campo.
Molte sono le ragioni che aiutano a spiegare come sia stato possibile realizzare oggi un intervento che appena tredici anni fa risultò del tutto impraticabile. Vale la pena di esaminarne almeno le principali per capire meglio quali profonde trasformazioni siano intervenute nel frattempo dentro il corpo vivo della società italiana. Non che siano mancate in questi mesi le dure reazioni del fronte sindacale contro la riforma delineata dal governo Renzi: la Cgil di Susanna Camusso e ancor più la Fiom di Maurizio Landini hanno protestato e mobilitato a più riprese le piazze. Ma la loro voce stavolta non ha trovato nel resto della società quella stessa cassa di risonanza favorevole a suo tempo ottenuta da Sergio Cofferati. E non certo, almeno nel caso di Landini, per difetto di leadership o di capacità di comunicazione. Oggi neppure un novello Cofferati avrebbe potuto replicare il memorabile successo del 2002.
Intanto va soppesata la differenza fra l’interlocutore politico di allora e quello di adesso. Per Silvio Berlusconi l’intervento sull’articolo 18 non aveva soltanto una valenza di genere economico ma anche, anzi soprattutto, di tipo politico. La modifica legislativa nasceva dall’intenzione, neppure troppo dissimulata, di perseguire attraverso una modifica dei rapporti di forza sui luoghi di lavoro anche l’obiettivo di mettere all’angolo il potere tanto dei sindacati quanto dell’opposizione politica della sinistra. Un voler troppo che lo ha portato, come s’usa dire, a stroppiare.
Matteo Renzi ha avuto l’intelligenza di tenere la questione dei licenziamenti su un terreno sgombro da retro pensieri politici potendo spendere anche la moneta del suo essere segretario del maggior partito della sinistra. Ha polemizzato e anche con durezza con il mondo sindacale ma sempre tenendo la contesa sul versante specifico della questione. In più ha avuto anche l’abilità di sciogliere il nodo dell’articolo 18 all’interno di una riforma complessiva del mercato del lavoro che rottama i tanto sovente falsi contratti di collaborazione, che apre nuove strade agli ammortizzatori sociali e che con le cosiddette “tutele crescenti” schiude la porta a un rilancio delle assunzioni a tempo indeterminato. Tanto da ricevere al riguardo importanti segnali di consenso anche in sedi internazionali. Proprio in questi giorni perfino dall’Ocse che ha accreditato a questo Jobs Act del governo la capacità di far crescere il Pil del 6 per cento nel prossimo decennio. Magari, s’intende.
Ciò che più di tutto ha giocato a favore dell’iniziativa di Renzi e contro le resistenze del sindacato è comunque la profonda differenza della realtà economica di oggi rispetto a quella di tredici anni fa. L’assalto di Berlusconi all’articolo 18 è stato concepito in una fase nella quale il Pil del Paese cresceva a un ritmo dell’1,8 per cento l’anno e il tasso di disoccupazione era sceso dal 10,1 per cento al 9,2 nei dodici mesi precedenti. Una fase, insomma, nella quale le imprese assumevano senza badare all’articolo 18 e dunque la voce del fronte sindacale era conseguentemente forte e ascoltata. Va del resto ricordato che lo stesso Statuto dei lavoratori è una legge del 1970 figlia naturale di quell’autunno caldo che produsse la prima e importante redistribuzione dei redditi e dei diritti fra capitale e lavoro dopo gli anni del cosiddetto miracolo italiano.
Oggi la crescita economica, dopo anni di declino continuo, è ancora abbarbicata a uno stentato zero percentuale mentre la disoccupazione si mantiene più vicina al 13 che al 12 per cento. Non c’è bisogno di essere storici della lotta di classe per dedurne che una simile condizione statistica ridimensiona ruolo e potere delle rappresentanze sindacali. Non soltanto verso gli interlocutori politici e imprenditoriali ma anche all’interno del mondo del lavoro. E perfino su quello che si segnala come l’aspetto più imbarazzante della riforma ovvero quello di una monetizzazione del diritto al reintegro nel posto di lavoro.
postilla
Solo un lettore disattento delle parole e degli atti del Renzi della prima Leopolda può ritenere che egli abbia «avuto l’intelligenza di tenere la questione dei licenziamenti su un terreno sgombro da retro pensieri politici». La politica che l'inventore del Partito della nazione ha espresso con chiarezza di parole e di atti è determinata dalla volontà di cancellare tutte le conquiste dei migliori momenti della storia italiana: dalla progressiva conquista della democrazia, avviata nella seconda metà del XIXsec., all'affermazione della centralità dei diritti del lavoro ottenuta nella seconda metà del XX. Della storia raccontata da Riva una cosa indigno, un'altra preoccupa. Indigna che, come scrive Riva, Renzi abbia potuto «spendere la moneta del suo essere segretario del maggior partito della sinistra»: c'è ancora chi crede che quel partito e il suo creatore, abbiano qualcosa di "sinistra". Preoccupa invece l'assenza del popolo: ciò che giustamente Riva rileva quando paragona la piazza che riuscì a mobilitare Cofferari con quella oggi riempita da Camussi e Landini. a questo è anche il frutto del lavaggio dei cervelli accuratamente svolto per qualche decennio dal regno mediatico del predecessore (e preparatore) di Matteo: Silvio Berlusconi, il Lazzaro dell'epoca renziana.
MicroMega, 11 febbraio 2014
Flexicurity, ovvero uno strumento europeo di politica del lavoro
Flexicurity
suona bene sin dalla sua pronuncia, certamente meglio dell’italico “flessicurezza”. E’ un termine sfavillante, che ha un’apparente sapore di modernità nella sua versione d’importazione. E, diciamola tutta, affascina anche nella sua astratta descrizione scientifica, riferendosi ad un “modello di politica del lavoro capace di riformare e unificare i diversi sistemi di welfare esistenti in Europa”, e costituendo “un mezzo per raggiungere un fine, ovvero assicurare che i benefici dei sistemi di welfare restino una garanzia per tutti (comprese le generazioni future), rafforzando l’adattabilità e la capacità di affrontare i cambiamenti sia per i singoli che per le imprese” .
Si tratta dunque di uno strumento di politica del lavoro ibrido, promosso direttamente a livello europeo-comunitario allo scopo di uniformare i diversi modelli degli Stati membri, sostenendo da un lato una domanda del lavoro quasi totalmente deregolamentata ed in linea con la teoria classica neoliberista, che richiede forme di flessibilità numerica, funzionale e salariale della “forza-lavoro” in modo da adeguarla “in tempo reale” (secondo il modello just in time) ai cambiamenti tecnologici e alle sempre mutevoli esigenze del mercato, e dall’altro garantendo un moderno sistema di sicurezza sociale, in grado di intervenire con efficaci sistemi di sostegno al reddito, considerato che le fasi di passaggio da un’occupazione ad un’altra non possono quasi mai essere senza soluzione di continuità.
Flexicurity e tecno-nichilismo
Se volessimo reperire un ascendente teorico-filosofico della flexicurity, ben potremmo porre lo sguardo - senza tema di smentita - ai caratteri propri della società della globalizzazione (o, come è stata meglio definita in un recente saggio, della “prima globalizzazione”). Società fondata sul dominio della tecnica (economico/finanziaria ed ingegneristica) che ha modellato in chiave reticolare l’esistenza dell’uomo, il quale si trova ora “navigante” (e quasi annegato) in un flusso di merci, beni, dati e informazioni che si compongono e scompongono con velocità estrema nell’intera “rete globale”, e che ne hanno smaterializzato (o meglio, liquefatto) la natura. E’ il topos del tecno-nichilismo in cui l’uomo, subordinato alla tecnica, è ora bene, ora merce, ora dato, ora capitale (cosiddetto “umano”) inserito nei miliardi di flussi che percorrono le reti (telematiche/commerciali/finanziarie/industriali/logistiche/lavorative/giuridiche) alla velocità della luce: ed i materiali così veicolati nei flussi delle reti valgono (e vengono considerati) solo e soltanto se funzionano nell’ambito delle reti stesse.
Siamo al trionfo del tecno-nichilismo e della volontà di potenza, in cui vale non ciò che è, ma solo ciò che si vuole far funzionare nei canali - strutture costitutive delle reti - deputati al veloce scorrimento dei flussi di beni, capitali, dati: è la legge dell’efficacia o “lois de l’efficacitè”, per dirla con Albert Camus.
«Il diritto costruisce la propria artificialità servendosi di macchine e applicando procedure…..il suo scopo non è né di garantire l’attuazione di eterne verità, né di difendere un’etica della vita, ma soltanto di funzionare….la macchina funziona senza riguardo ad uno od altro contenuto. Non importa il perché ed il che cosa, ma soltanto il come: non importa la verità, ma soltanto la validità della norma giuridica… Tutti i contenuti possono attraversare quei congegni produttivi… nomo-dotti, canali percorsi da ipotesi di norme. Poiché non c’è una verità condizionante, vige l’indifferenza contenutistica, la neutralità delle procedure rispetto alle materie che vi sono immesse. Fiat productio… soltanto il volere le fa valere”.
Flessicurezza e “doppia alienazione”
Se consideriamo l’uomo inserito in tale contesto produttivo tecno-nichilista, non possiamo non rinvenire i netti profili dell’alienazione; stiamo parlando di un uomo che non è più neanche res, cosa, ma mero, inanimato fluido: dal tipo dell’uomo-macchina proprio del modello fordista-taylorista al paradigma dell’uomo quale “lubrificante” della macchina. Ecco spiegata l’esigenza di “flessibilità”, ovverosia del termine flex, primo membro del binomio flexicurity. Ciò che non funziona o, meglio, non è abbastanza flessibile, liquido per circolare nei canali delle reti tecno-produttive, diventa ovviamente scarto: anche l’esistenza umana, reificata e veicolata nei flussi testè citati, può diventare “vita di scarto” o esubero, sinonimo di “rifiuto umano”.
Ma c’è una via di possibile e necessaria uscita e di recupero, diremmo di apparente ed illusoria “rinascita” in questo demoniaco sistema, che viene veicolato dal sistema stesso: l’uomo-fluido lubrificante della macchina è al contempo anche uomo-macchina desiderante (ovverosia consumatore), il cui desiderio di consumo è il motore interno della macchina. La macchina funziona, infatti, solo se vi è consumo (e non accumulo) di ciò che dalla stessa viene prodotto. Il sistema tecno-nichilista, infatti, si fonda e si muove precipuamente sulla base del consumo dei beni, dei servizi, delle informazioni prodotte dai circuiti reticolari: in poche parole, è la domanda il combustibile dell’intero sistema che altrimenti, in sua assenza, rischia di implodere, come evidenziato nell’ultima, sistemica crisi economica.
La domanda - e con essa l’uomo-macchina desiderante o consumatore- ha dunque bisogno di un sostegno, di un “meccanismo di sicurezza”, ovverosia proprio della security, secondo elemento del sintagma della “flessicurezza”: ne deriva la teorizzazione di strumenti di sostegno dei redditi, ora pubblici (quali sussidi di disoccupazione, assegni familiari, cassa integrazione et similia) ora privati (attraverso l’intermediazione bancario-finanziaria), con la diffusione del “credito al consumo” attraverso una pluralità di mezzi di indebitamento, quali carte di credito, finanziamenti brevi (i cd payday loans), rifinanziamenti delle ipoteche sugli immobili, scoperti di conto corrente e quant’altro serva a integrare i salari erosi dalla flessibilità.
Questa iniziale riflessione, dunque, ci porta ad un primo punto di arresto: la flexicurity è la filosofia generale - o meglio, l’“attrezzo comune”- del sistema tecno-nichilista, più comunemente noto come capitalismo neoliberista.
Flessibilità, mercato del lavoro e “uberizzazione”
Passiamo quindi ad osservare la concretizzazione della “flessicurezza” nel più specifico circuito del “mercato del lavoro” odierno. Il drammatico panorama della flessibilità lavorativa è ormai conoscenza comune acquisita da tempo, sostanziandosi nella tripartizione in:
a) flessibilità “numerica” della quantità di lavoro in entrata e in uscita, attraverso il proliferare di una moltitudine di contratti atipici (a chiamata, a progetto, di job sharing, di somministrazione di manodopera et similia) o di contratti di lavoro subordinati a tempo determinato (con la più ampia possibilità di apporre il termine in una serie quasi illimitata di contratti a scadenza come previsto ad esempio, per lo specifico ambito italiano, dall’ultimo “Decreto Poletti”) e a tempo indeterminato (con la flessibilità introdotta anche in tale area, attraverso la sostanziale abrogazione dell’art. 18 Stat. Lav. portata avanti dal nuovo “contratto a tutele crescenti” disciplinato dalla seconda parte del recente “Jobs Act”);
b) flessibilità “funzionale” nella gestione del rapporto di lavoro, attraverso la possibilità di modificare unilateralmente le mansioni, anche in peius dequalificando il patrimonio professionale (si veda quanto previsto dalla Legge delega 183 del 2014 in materia di demansionamenti) o attraverso la totale liberalizzazione degli orari di lavoro con i contratti a part-time, che consentono la gestione “premiale” o “sanzionatoria” della forza-lavoro, mercè la concessione o la negazione di ore supplementari di lavoro necessarie ad integrare salari-base esigui ed insufficienti per la sussistenza o forme di orario flessibile quale quello multiperiodale (ovverosia variabile entro un dato lasso di tempo) o elastico;
c) flessibilità salariale con retribuzioni che, con riferimento al singolo lavoratore, possono essere legate non solo all’orario di lavoro (si pensi al sopracitato contratto a part-time e alla possibile variazione in aumento o in diminuzione delle “ore supplementari”) ma anche a nuove, “moderne” forme di cottimo digitale: primo fra tutti, recentemente sbarcato anche in Italia, il cosiddetto crowdworking, una sorta di “asta digitale” in cui qualsiasi richiedente, attraverso una piattaforma telematica che fa da intermediario, “posta” on line i lavori richiesti (che consistono di solito in progetti tecnici e/o richieste di consulenze qualificate). A seguito dei molteplici lavori ricevuti, il richiedente ne sceglie solo uno: ovviamente il lavoro rifiutato non viene pagato, mentre quello accettato viene pagato a prezzi infimi. Basterà riprendere le parole di Guy Standing per un giudizio senza appello: «E’ cottimo, in una forma che porta alla spremitura estrema, la forma definitiva di precariato nella quale i lavoratori sono puri postulanti, privi di diritti o sicurezza».
Se poi volessimo dare uno sguardo ancora più aggiornato al panorama della flessibilità contemporanea, vedremmo come l’esasperazione di tale dinamica abbia condotto a forme di lavoro talmente liquefatte, da far venir meno addirittura la stessa identità professionale del singolo lavoratore, scisso in un patchwork di molteplici e contemporanee – rispetto alla singola giornata lavorativa – occupazioni: siamo alla “uberizzazione” del lavoro come icasticamente rilevato da Carlo Formenti, il quale nella sua acuta analisi sul neonato fenomeno della società Uber rileva la «definitiva dissoluzione di ogni identità di classe, nella misura in cui ci trasformerebbe tutti in una massa indistinta e orizzontale di individui indipendenti costretti ad arrabattarsi in un forsennato bricolage senza nessuna garanzia di stabilità di reddito, di futuro e senza nessun controllo sul proprio tempo di vita (per tacere della qualità stessa)”.
Quali sono stati gli effetti di questa iperflessibilizzazione? Sono sotto gli occhi di tutti: l’aumento vertiginoso della disoccupazione negli ultimi anni ed il crollo del livello medio dei salari (che gli economisti, con linguaggio farisaico, definiscono “moderazione salariale”), tali da scendere sotto la soglia necessaria a garantire un’esistenza libera e dignitosa, così come invece solennemente previsto dall’art. 36 della nostra Costituzione, dando origine al sempre più diffuso fenomeno del “lavoro povero”.
I dati di una recentissima ricerca presentata al Cnel sul fenomeno dei working poor non lascia spazio a repliche: 3 milioni e 750 mila “lavoratori poveri” solo in Italia, vale a dire persone con un reddito netto orario inferiore ai 2/3 del reddito medio. In pratica si tratta di lavoratori, sia subordinati che autonomi, le cui retribuzioni si aggirano sui 4,8 euro netti all’ora (quando la media netta è di 6,2 euro all’ora) e che, oltre ad essere lavoratori poveri, saranno condannati a diventare, tra qualche anno, pensionati poveri.
Effetti individuali e sociali della flessibilizzazione
Ma vi è di più.
Gli effetti si sono riverberati innanzitutto a livello individuale sugli stessi lavoratori vittime della “flessibilizzazione” i quali, in ragione della somma incertezza causata da queste forme lavorative (incerte sia nell’ sia nel quantum), sono stati comunemente definiti “lavoratori precari”. Precarietà che si è riflessa sull’esistenza e sulle vite stesse, attraverso lo smarrimento di una precisa identità professionale (scissa, come abbiamo visto, in una moltitudine di disperse tessere lavorative), la perdita del controllo del tempo (con lavori che possono occupare, senza preavviso, qualunque parte della giornata o della settimana -come i cosiddetti lavori a chiamata- o estendersi anche oltre l’orario canonico di lavoro -da cui il “lavoro senza fine”-), la fine della mobilità sociale (in ragione di retribuzioni sotto il livello minimo di sussistenza), la sottoccupazione (ovverosia lo svolgimento di mansioni di gran lunga inferiori rispetto al proprio patrimonio professionale).
I lavoratori flessibili, dunque, diventano ostaggi di due trappole: quella della precarietà e quella direttamente connessa della povertà, da cui drammaticamente non riescono ad uscire.
Ecco spiegato il dilagare, da alcuni anni a questa parte, di numerose patologie psichiche, in primo luogo della depressione, «la quale può essere definita la malattia sociale nell’era del tecno-nichilismo». Il crollo delle aspettative individuali e sociali in ordine alla realizzazione professionale (ovviamente vanificata da una vita precaria ed incerta) ed al correlativo culto della performance e dell’efficacia (la già citata “lois de l’efficacitè”), infatti, ben può ascriversi tra le cause di primo piano nella patogenesi dei sempre più numerosi disturbi depressivi (tra cui l’ansia e lo stress) espressione, a loro volta, “dell’insostenibilità del sistema tecnico e delle sue determinazioni sociali”.
Le conseguenze del profondo malessere sociale frutto dell’esplosiva miscellanea tra flessibilità, incertezza, disoccupazione e povertà sono alla radice anche dei sempre più numerosi movimenti sociali di protesta che, dal 2011 ad oggi, hanno spinto nelle piazze di tutto il mondo migliaia di persone “indignate” le quali, a loro volta, hanno ingrossato le fila della nuova “classe esplosiva”, il precariato, insieme di “non-cittadini” (denizens) «dipendenti dalla volontà altrui…postulanti privi di diritti, soggetti alla carità o al benvolere altrui» alla ricerca di una rinnovata cittadinanza sociale.
Flessibilità senza sicurezza
Che ne è invece della “sicurezza”, secondo elemento del binomio “flexicurity”, dinanzi a questo disastroso stato di cose causato dalla flessibilità?
Se da un lato la devastante crisi economico-finanziaria in corso dal 2008, sostanziatasi anche nel cosiddetto “credit crunch” (“stretta creditizia”) ha limitato notevolmente le forme di sostegno bancario al reddito attraverso la fine del “credito facile” e la riduzione degli strumenti di indebitamento (concessi soltanto dopo lunghe e severissime istruttorie), dall’altro le forme pubbliche di supporto del reddito e dell’occupazione sono state, soprattutto in Europa, falcidiate e ridotte ai minimi termini dalle rigorose politiche di austerity ormai in corso da anni.
Ciò si è tradotto, in concreto, nell’introduzione di rigorosi sistemi di controllo, valutazione e condizionamento dei richiedenti i sussidi pubblici nei Paesi Europei (la maggioranza) che hanno un meccanismo di reddito minimo garantito condizionato: innovazioni che, di fatto, hanno comportato una drastica riduzione nelle erogazioni dei sussidi necessari a garantire la “sicurezza” ai sempre più numerosi soggetti estromessi dal mondo del lavoro flessibile. L’Italia, ovviamente, si caratterizza per essere il “fanalino di coda” anche in materia di sicurezza sociale insieme agli altri paesi dell’ “area mediterranea”, il cui raggruppamento è connotato dall’ «assenza di una rete di protezione minima di base, non di categoria, erogata e gestita a livello di governo centrale». E tale linea di tendenza regressiva, peraltro, non sembra essere più di tanto intaccata dall’introduzione dei nuovi ammortizzatori sociali previsti nello schema di decreto del 24 dicembre 2014, che ha introdotto la cosiddetta Naspi, la Asdi e la Discoll, sussidi di disoccupazione limitati nel tempo, condizionali e non universali.
Il paradosso dell’improduttività
Abbiamo dunque visto, nel nostro breve volo radente sul mondo del lavoro, come le macerie lasciate dalla “flessibilità” non siano state neanche rimosse dalla “sicurezza”, la cui promessa sarebbe insita nel mito della “flexicurity”.
Al contrario ed anche sorprendentemente, decenni di “iniezione” del fluido lavoro flessibile nei circuiti del mercato del lavoro non hanno portato allo sperato aumento di produttività così come ipotizzato dalla dogmatica neoliberista, tutt’altro: l’analisi empirica dei dati economici degli ultimi anni ha anzi rivelato la sussistenza di una relazione inversa tra flessibilità e produttività, per cui all’aumento della prima diminuirebbe costantemente la seconda. Ed invero, «la maggiore occupazione, ottenuta con contratti di questo tipo -spesso riguardanti lavoratori marginali, sul cui capitale umano le imprese si presume che investano poco- si sarebbe accompagnata a minori contributi in termini di produttività. In questa direzione vanno sia i contributi che utilizzano dati a livello microeconomico sia i contributi di tipo macroeconomico»: una sentenza inappellabile.
Del resto, che la precarietà derivante dal lavoro flessibile non fosse sorella della produttività era già da tempo desumibile, sul piano della prospettiva sociologica, considerando il classico esempio del lavoratore con contratto a tempo determinato a breve scadenza il quale, dinanzi ad un pezzo difettoso trovato lungo la catena di montaggio, preferisce girare il capo piuttosto che preoccuparsi di rimuoverlo.
Scattiamo a questo punto un’istantanea del quadro lavorativo contemporaneo, riprendendo nel complesso i tratti già visti nel nostro fin qui breve percorso: ci troviamo dinanzi a lavoratori ormai totalmente mercificati, privi di potere contrattuale a causa sia dell’ampia massa di manodopera di riserva prodotta dalla disoccupazione sia in ragione della quasi totale perdita dei diritti un tempo contenuti negli “statuti lavorativi”, con retribuzioni dal livello molto basso, ai limiti della sussistenza (cosiddetto lavoro povero) e corrosi nel carattere e nella personalità dall’insicurezza generata dalla precarietà che è l’architrave dell’intero sistema lavorativo.
Se tuttavia mettiamo meglio a fuoco la visione del quadro generale, possiamo osservare come a fianco del lavoro svolto obbligatoriamente allo scopo di affrancarsi dal bisogno materiale e ciononostante povero di diritti e di salario e scarsamente produttivo di beni e di servizi, si pone un nuovo e diffuso fenomeno, analizzato da numerosi studiosi ed oggetto di molteplici definizioni; stiamo parlando di quella forma di lavoro scelto e svolto liberamente da milioni di persone ogni giorno, che pur non essendo remunerato è produttivo di un ingente valore sociale: il lavoro volontario nelle organizzazioni no profit (pensiamo ad esempio alle migliaia di persone attive nell’assistenza ai disabili, ai poveri, ai migranti, alle innumerevoli persone che con costanza e passione fanno vivere le associazioni culturali, ambientali e le associazioni dilettantistiche sportive), il lavoro di cura ed assistenza domestico e familiare (rammentiamo l’attività di cura dei nipoti da parte dei nonni, vero e proprio welfare sociale familiare e l’attività delle madri e dei padri che impegnano larga parte della giornata nella cura e nell’educazione dei figli), l’attività di creazione e diffusione della conoscenza con cui quotidianamente abbiamo a che fare nella “rete”, sia nei blog sia nei contributi a matrice aperta pubblicati sul web.
Siamo dunque alla fine del lavoro, vaticinata vent’anni orsono in un famoso saggio dall’omonimo titolo? La risposta non sembra positiva; al contrario, gli indicatori empirici paiono di tutt’altro segno: il lavoro è proteiforme, ha mutato rapidamente forma e aspetto. Se è vero infatti che l’art. 1 della Costituzione, nell’affermare solennemente il nesso inscindibile tra democrazia e lavoro, ci dice anche e soprattutto che “lavorare non è l’esperienza del servo o dello schiavo, ma del cittadino libero”[, allora ben potremo convenire con chi definisce come “lavoro alienato” le maggioritarie forme di lavoro povero flessibile (simulacri del lavoro), al contrario esaltando quale “lavoro libero” le attività lavorative non remunerate a finalità sociale.
E’ dunque possibile sostenere, a ragione, che queste ultime forme di attività rappresentano la sublimazione del lavoro così come costituzionalmente inteso, in quanto sintesi ed equilibrio della libera realizzazione del proprio daimon (talento) e della altresì necessaria finalità sociale. Eppure, manca l’elemento fondamentale ai fini della liberazione dell’uomo dalla schiavitù del bisogno, ovverosia la retribuzione. Eccoci arrivati allo snodo cruciale che richiede un coraggioso “salto culturale”.
Una via d’uscita: il reddito minimo universale
Se è vero, come abbiamo poc’anzi visto, che si è sviluppato un sistema parallelo di attività umane produttive di valore e ricchezza sociale senza remunerazione alcuna (tali da far parlare, come abbiamo visto, di “economia sociale”), è giusto che tali attività vengano remunerate direttamente dai beneficiari, ovvero dalla società: ecco nascere l’esigenza, sempre più diffusa, di forme di “reddito minimo universale” (definito anche basic income), erogabili dalle autorità pubbliche locali, nazionali o sovranazionali, ed a carico quindi della fiscalità generale.
Il reddito minimo universale, dunque, acquista in tale ottica la natura di un reddito (con cadenza mensile o periodica, attraverso un trasferimento diretto di denaro) versato dalla società (nella forma della comunità politica locale, nazionale o sovranazionale) a tutti i suoi membri, su base individuale e senza nè condizioni (ovvero non subordinato allo svolgimento di specifici lavori ordinari indicati, ad esempio, dai centri per l’impiego come nel modello del reddito minimo garantito) nè controllo dei mezzi economici (erogato dunque indipendentemente dalla sussistenza o meno di uno stato di bisogno economico), trattandosi della remunerazione per le molteplici forme di attività produttiva sociale svolte da ciascuno. Un reddito “minimo”, ovvero sufficiente alla sola sopravvivenza dell’individuo (al fine di stimolare la persona ad un miglioramento delle proprie condizioni materiali attraverso il classico lavoro proprio dell’economia di mercato, dunque cumulabile con eventuali altri redditi aggiuntivi) e al contempo sufficiente ad affrancare le persone dalla “trappola della povertà” e del bisogno immediato, conferendo appunto una minima sicurezza di base.
Esperienze concrete di tale istituto, a parte quella consolidata dello stato dell’Alaskae altre limitate applicazioni sociali, non se ne hanno: si tratta di un esperimento di “ingegneria sociale” inedito e di fatto nuovo per l’umanità. Ma vale la pena sperimentarlo, sia per le profonde motivazioni idealiivi sottese sia per le concrete ed impellenti istanze di giustizia sociale che esso porta con sé: del resto, “come è avvenuto nel passato per il suffragio universale, la metamorfosi del reddito minimo universale, da sogno di qualche eccentrico a evidenza per tutti, non avverrà in un sol giorno”.
Ovviamente non è nostra intenzione addentrarci nel “campo minato” delle discussioni relative alla compatibilità economica di questo vero e proprio strumento di “salario sociale”, pur ritenendo particolarmente interessanti e degne di rilievo le considerazioni svolte da Andrea Fumagalli il quale, nel suo recente saggio Lavoro male comune, ha posto in rilievo la fattibilità economica del reddito minimo garantito, che dovrebbe sostituire tutte le forme di ammortizzatori sociali oggi sussistenti (indennità di disoccupazione, cassa integrazione e simili), incidendo non sulla contribuzione sociale (Inps) ma sulla fiscalità generale (Irpef e altre imposte): con ciò, considerazione non secondaria, andando a ridurre il cuneo fiscale sul lavoro rappresentato dal costo dei contributi, che diminuirebbero della quota corrispondente all’eliminazione dei relativi ammortizzatori.
Fine del lavoro, diritto alla scelta del lavoro e seconda globalizzazione
Ora, come si affaccerebbe sul mercato del lavoro ordinario la persona che, essendo già remunerata -nel minimo vitale- per le attività sociali svolte nella vita quotidiana, fosse quindi affrancata dal bisogno primario di vivere?
Eccoci tornati, attraverso il reddito minimo universale, alla riappropriazione del potere contrattuale sottratto dallo strumento della flessibilità: certamente l’incremento della disponibilità economica di base di ciascun individuo potrebbe chiudere le porte alla “ricerca di un lavoro qualsiasi”, schiudendo al contempo gli orizzonti del “diritto alla scelta del lavoro”. Con la correlativa necessità, per ciò che riguarda il lato della “domanda di lavoro” datoriale, di offrire condizioni lavorative più decorose e salari finalmente dignitosi, allo scopo di acquisire una manodopera che, altrimenti, diventerebbe pressoché irreperibile: e’ la fine del lavoro contemporaneo, e con esso la fine della dittatura della flessibilità esasperata e della “moderazione salariale”.
Questi potrebbero essere, in nuce, i germogli della “seconda globalizzazione”, di una nuova epoca in cui, oltre alla nascita di una nuova economia di mercato basata sullo sfruttamento delle energie rinnovabili, sulla conoscenza e sull’innovazione (la cosiddetta knoledge economy), sul ritorno della dialettica globale/locale con la riscoperta della centralità dei luoghi e delle comunità, vi sia altresì la forte affermazione della centralità dell’uomo attraverso un rinnovato illuminismo che, contro ogni forma di oscurantismo neoliberistico, ponga al servizio della società e della persona la tecnica e, prima fra tutte, la tecnica economica.
Il manifesto, 27 dicembre 2014
Non è inutile, comunque, ma anzi assai istruttivo, ripercorre alcuni momenti salienti della vicenda e le consapevolezze che ha consentito di acquisire. In primo luogo, infatti, nessuno si azzarda più a definire «di sinistra» il governo Renzi-Poletti che si è dimostrato tanto violento e prevaricatore nella sua azione contro i diritti fondamentali dei lavoratori, quanto falso e mistificante nell’uso del suo strapotere mediatico.
In cosa consiste, infatti, la «rivoluzione copernicana» di cui straparla Matteo Renzi a proposito dei contenuti del decreto attuativo? Puramente e semplicemente nel consentire al datore di lavoro che voglia per qualsiasi motivo (anche il più ignobile) sbarazzarsi di un lavoratore di «inventarsi» una inesistente ragione economico produttiva per procedere al licenziamento, e di farlo senza timore che il suo carattere pretestuoso venga smascherato in giudizio perché anche in tal caso gli basterebbe pagare la classica «multarella» (per ogni anno di servizio due mensilità con il massimo di 24) per lasciare comunque il lavoratore sulla strada nella condizione disperata discendente dalla disoccupazione di massa.
Tutto il resto del decreto attuativo, compresa la dibattuta questione della parziale della reintegra nel caso di licenziamenti disciplinari illegittimi, è soltanto fumo negli occhi, perché tutti i datori imboccheranno, invece, la comodissima strada del «falso» motivo economico produttivo. Il «progressista» Renzi e il «comunista» Poletti e tutti i loro accoliti dovranno spiegare un giorno che cosa vi sia di moderno, di socialmente utile, di progressivo, di «copernicano» in questa sfacciata e disgustosa ingiustizia che ripugna prima ancora che al diritto al comune senso etico.
Il secondo insegnamento della vicenda ha riguardato il presentarsi, ancora una volta del classico «tradimento dei chierici» per tale intendendo i tecnici, i tecnici politici e i politici puri che avrebbero dovuto garantire i diritti fondamentali dei lavoratori assicurati dall’articolo 18 con la sua potente valenza anti ricattatoria. Da una parte, dunque, vi sono stati i tecnici politici che hanno lavorato intensamente alla formulazione della legge delega e dei decreti attuativi ma di essi non mette conto dire più di tanto: si tratta di un gruppetto di antichi transfughi del movimento sindacale che con l’accanimento tipico di chi «è passato dall’altra parte» opera ormai da decenni — certo non gratuitamente — per la sistematica demolizione di ogni tutela dei lavoratori. Ma dall’altra parte purtroppo vi sono stati politici ossia i parlamentari della cosiddetta «sinistra del Pd», a parole del tutto contrari al Jobs act, ma che nel concreto hanno collaborato in modo assolutamente decisivo alla sua emanazione, e lo hanno fatto con piena consapevolezza. Prima vi è stato il «salvagente» offerto al governo dal presidente della Commissione lavoro della Camera e consistito nell’apparente miglioramento, con alcune precisazioni, del progetto di delega che era «in bianco»: il vero scopo è stato quindi quello di salvare il progetto di delega cercando di renderlo compatibile con l’articolo 76 Cost. e di questo abbiamo detto sulle colonne del manifesto. Poi vi è stato, in data 3 dicembre 2014, l’episodio deprimente e squallido che mai potrà essere dimenticato. Sembrava che il destino avesse voluto preparare un momento della verità: il testo del Jobs Act modificato alla Camera per salvarlo dall’incostituzionalità era conseguentemente tornato al Senato, dove però la maggioranza del governo era assai più sottile. E al Senato vi erano 27 senatori del Pd che si erano dichiarati contrari all’eliminazione dell’articolo 18 ma che poi, al momento di decidere, hanno invece approvato il testo legislativo giustificandosi con il classico documento «salva-anima» sulla necessità di non provocare crisi di governo. Ebbene, il risultato della votazione li inchioda per sempre alla loro responsabilità: vi sono stati 166 voti favorevoli, 112 contrati e un astenuto. Se i 27 «amici» dei lavoratori e dei loro diritti avessero coerentemente votato contro il progetto il risultato sarebbe stato di 139 favorevoli, 139 contrari e un astenuto e poiché l’astensione al Senato conta voto negativo il Jobs Act sarebbe andato in soffitta una volta per tutte! Il colmo dell’ipocrisia i 27 senatori lo hanno poi raggiunto nella chiusura di quel documento di giustificazione promettendo massima vigilanza in sede di formulazione dei decreti attuativi: enunciazione ridicola, visto che come tutti sanno, i decreti attuativi il legislatore delegato «se li fa da solo» senza il concorso del Parlamento.
Accanto a queste brutture, che è triste ma giusto ricordare, vi sono stati, però, importanti fatti positivi: l’ottima riuscita della manifestazioni del 25 ottobre e del 12 dicembre e l’affiancamento quanto mai importante, in occasione di quest’ultimo evento, della Uil alla Cgil. Ci sono, allora, tutte le premesse per un lieto fine: infatti per i contratti di lavoro già in essere non cambia ancora nulla e l’articolo 18 intanto rimane, reintegra compresa, e occorrerà un bel po’ di tempo perché i nuovi contratti, detti «a tutele crescenti» ma in realtà privi di tutela prendano piede. Nel frattempo sarà allora possibile sottoporre tempestivamente il decreto attuativo ad un referendum abrogativo, e cioè al giudizio popolare e di quei lavoratori che di continuo Matteo Renzi cerca di ledere e insieme di ingannare. La via del referendum abrogativo appare quanto mai semplice e fruttuosa perché in sostanza il decreto attuativo introduce per i nuovi contratti un tipo di sanzione dei licenziamenti ingiustificati diverso e se stante rispetto a quello degli altri rapporti: pertanto una volta abrogato per referendum il decreto la sanzione dell’articolo 18 torna ad essere generale per rapporti vecchi e nuovi secondo il principio di «autoimplementazione» dell’ordinamento. Chi scrive si permette di rivendicare l’onore di poter personalmente redigere i quesiti referendari
Uno sciopero generale che contribuisca ad arrestare la politica distruttiva del "capitalismo scatenato", necessaria premessa per la faticosa costruzione di un sistema economico sociale alternativo.
Il manifesto, 12 dicembre 2014
Lo sciopero generale contro il Jobs Act e più in generale contro la legge di stabilità, mette in luce la fallimentare politica economica del governo che asseconda la deriva liberista del “capitalismo scatenato”, come, una diecina di anni fa, l’economista inglese Andrew Glynn definiva la nuova fase del capitalismo. Una risposta allo spostamento nella distribuzione dei redditi a favore del lavoro registrato negli anni sessanta-settanta.
Da allora ripristino della disciplina macroeconomica, privatizzazioni, incoraggiamento delle forze di mercato, focalizzazione delle imprese sul “valore per l’azionista” sono stati i pilastri di una feroce controffensiva: il conflitto distributivo ha cambiato segno, e, per l’effetto congiunto di minore e peggiore occupazione e di più bassi salari reali, la quota di reddito che va al lavoro è costantemente diminuita.
Quell’offensiva del capitale, che oggi tocca livelli prima impensabili in Italia, non si limita a riportare indietro le lancette della storia per tornare alla situazione preesistente. Se così procedessero i processi storici troverebbe legittimità la teoria del pendolo: uno spostamento dei rapporti di potere eccessivo ad un certo punto si ferma e si mettono in moto le forze che spingono in direzione contraria. Così si potrebbero leggere, in questo caso, la risposta del capitale di cui abbiamo parlato e quella che oggi cerca di dare il sindacato anche con lo sciopero. Ma la situazione reale è molto più complessa perché negli ultimi decenni è cambiato il mondo ed è cambiato lo stesso capitalismo.
La globalizzazione, la connessa Ascesa della finanza — titolo questo di un bellissimo e preveggente libro del caro Silvano Andriani recentemente scomparso — e, più di recente, la rivoluzione digitale hanno delineato un capitalismo che ha fatto un enorme salto di qualità. In questa nuova fase di un capitalismo per il quale non troviamo ancora una denominazione condivisa – oscillando dal finanzcapitalismo di Gallino al capitalismo patrimoniale di Piketty – gli elementi che emergono sono due.
Il primo è costituito dalla globalizzazione del mercato del lavoro che mette in competizione, in termini di costo, il lavoro delle economie sviluppate con quello delle economie emergenti. Gli effetti di questa nuova competizione sono bidirezionali: da un lato si sposta la produzione dai paesi ad elevato costo del lavoro verso quelli a costo più basso, dall’altro i lavoratori delle aree più arretrate emigrano nelle aree sviluppate per fare i lavori più pesanti ed a condizioni rifiutate dai residenti. L’effetto di questi processi sul conflitto distributivo è, per i paesi sviluppati, quello di un abbassamento dei salari e di una riduzione dei diritti. Il secondo elemento che caratterizza questa fase è la rivoluzione digitale che ha già investito pesantemente la produzione manifatturiera e che investirà sempre di più i settori del commercio e dei servizi, pubblici e privati, riducendo la quantità di lavoro necessaria e modificando profondamente, contenuti e modalità della prestazione lavorativa.
I due elementi segnalati si intrecciano tra di loro, e contribuiscono allo stesso processo: una svalutazione del lavoro impensabile fino a pochi anni fa che si manifesta a livello sovranazionale ed agisce su un terreno senza regole come quello finanziario nel quale il capitalismo scatenato è diventato sfuggente ed inafferrabile. I processi di cui stiamo parlando non sono ancora compiuti, ma in pieno svolgimento e, quindi, le situazioni che si vivono nei vari paesi sono differenziate secondo le loro storie e secondo le modalità con le quali si stanno affrontando i processi stessi.
Non è un caso che l’area dei paesi sviluppati si articoli in tre gruppi: economie che si affacciano verso una possibile nuova fase di crescita come gli Usa, economie che hanno superato la crisi anche se non hanno ritrovato il sentiero della crescita come Germania e Nord Europa, economie che ristagnano ed indietreggiano. Questo significa che, pur di fronte ad una comune controffensiva del capitale, non è ineluttabile che i paesi più sviluppati subiscano contemporaneamente riduzioni del lavoro, riduzioni dei diritti ed indebolimento e declino delle strutture produttive. Un mix questo che può essere veramente esplosivo. L’Italia si colloca nel terzo gruppo ed è sulla soglia di un’esplosione sociale.
Lo scontro che la agita oggi, protagonisti Cgil, Uil e governo si colloca in questo contesto e la partita appare decisiva per il nostro futuro. Se è vero che siamo in mezzo ad una mutazione che supera i confini nazionali è anche vero che le modalità scelte dal nostro governo sono di rassegnazione, al di la delle chiacchiere su speranze e futuro, ad un ridimensionamento di lavoro, diritti e futuro produttivo.
Aver fatto della subordinazione alle logiche confindustriali e dello scontro col sindacato il perno delle politiche del governo ci sta cacciando in un vicolo cieco. In Italia non dobbiamo dimenticare che, a parte alcune isole felici di una parte dell’imprenditoria che ha saputo investire, innovare ed esportare, le ricette del passato (contenimento del costo del lavoro e svalutazioni competitive), non hanno aiutato il capitalismo italiano a crescere puntando sull’innovazione, sulla ricerca e sull’aumento della dimensione di impresa. Anche per questo, quello che abbiamo oggi di fronte è un capitalismo industriale che sa solo chiedere più libertà di licenziare, meno tasse, privatizzazioni per fare investimenti sicuri e grandi opere nelle quali lucrare; un capitalismo incapace di progettare una possibile politica industriale di investimenti, di ricerca, di nuovi rapporti produzione – università — ricerca…
Questo capitalismo non andrebbe coccolato con un po’ di spiccioli elargiti a pioggia accontentandolo e facendo copia/incolla delle sue ricette, ma stimolato e sfidato a fare un salto di qualità. Certo questo richiederebbe un governo con una capacità progettuale, con un piano dei trasporti e della mobilità, con un piano di risanamento ambientale e del territorio, con un piano industriale ed una visione dei settori del futuro.
Ed invece noi abbiamo di fronte una classe industriale ed un governo assolutamente inadeguati alle sfide del nostro tempo. E’ in questo quadro che si colloca lo sciopero del 12. Per la complessità dei problemi di cui abbiamo parlato, non possiamo e non dobbiamo illuderci che con esso si possa fare il miracolo di capovolgere questa situazione. Ma la “politica” di questo governo e la sua “non politica” vanno contrastate e fermate. Fare questo sarebbe già tanto ed una buona riuscita delle mobilitazioni di oggi è per questo essenziale. Importante sarà, però, soprattutto il dopo.
Sarà quello che accadrà nel Pd e quello che accadrà a sinistra. Un futuro vicino, ad oggi imprevedibile, la cui direzione più o meno a sinistra dipenderà sì dall’esito dello sciopero, ma soprattutto da come sapremo ricostruire un pensiero di sinistra volto al futuro più che al passato. Ma questo, in tempi di corruzioni – degenerazione — evaporazione dei partiti — astensionismo dilagante, è proprio un altro capitolo
Troika. Traduca quella speranza in lavoro"». Repubblica.it, 11 dicembre 2014
ROMA - «Non credo che la decisione sia stata presa in solitudine, perché è un atto grave. La nostra risposta è in atto, con forme di protesta e di denuncia di questo intervento a gamba tesa. Chiediamo la revoca della precettazione. Se il governo la dovesse mantenere, la rispetteremo, ma è un atto grave». Susanna Camusso, ospite del videoforum di Repubblica Tv, reagisce così alla decisione del ministro dei Trasporti Maurizio Lupi, di richiamare al lavoro i ferrovieri che venerdì avrebbero aderito allo sciopero generale indetto da Cgil e Uil contro Jobs act, legge di stabilità, politiche economiche e industriali, mancato rinnovo del contratto dei dipendenti pubblici.
«Stiamo valutando, non finisce lì perché secondo noi si viola la legge e c'è un uso strumentale della legge - osserva la leader Cgil -. Noi abbiamo proclamato lo sciopero più di un mese fa. Non abbiamo ancora avuto il testo dell'ordinanza, che valuteremo. Abbiamo appreso della precettazione dai giornali. Poi si chiede a noi di non alimentare la conflittualità». «Vorrei sottolineare - aggiunge Camusso - come le procedure non siano rispettate, con atti unilaterali che alzano i toni del conflitto». Il segretario generale della Cgil venerdì mattina parlerà a Torino, ma la manifestazione, connotata dallo slogan "Così non va", si estenderà a oltre 50 piazze italiane.
In 20 anni di Berlusconi mai tanti scioperi come contro Renzi. (domanda dai lettori Rosario Giosa e Fulvio Castellani)
Non è vero, la lunga stagione dei governi di centrodestra è coincisa col maggior numero di scioperi. Li abbiamo sempre contrastati. Poi capisco, la domanda è legittima da chi ha sperato che Renzi fosse il grande cambiamento. Ma in nome della speranza ci prendiamo i licenziamenti senza giusta causa? Sono sentimenti che attraversano tutto il popolo della Cgil e dei lavoratori. Il mondo del lavoro non può rinunciare a lavoro e diritti.
"Cara Camusso, sei riuscita a convincermi a dare la disdetta all'Inps relativamente alla trattenuta pro Cgil. Mi sembra che niente sia cambiato dal 1984 quando la Cgil era in piazza contro l'abrogazione della scala mobile". La domanda riassume quanto molti pensano: Cgil oggi è retroguardia, meglio togliere le tutele purché ci sia lavoro. (domanda dal lettore Enzo Reali)
E' un Paese che ha scelto di competere solo sulla riduzione dei costi, con un lavoro che costi meno e non abbia diritti. E' un'illusione, che va rispettata nelle singole persone, la povertà induce a certi comportamenti. Ma la responsabilità deve essere che per quella via il nostro Paese è diventato fragile. La vera retroguardia e grande sconfitta sarebbe ridurre i diritti sul lavoro. Concentrare tutto sulla diminuzione dei diritti rende il paese fragile e senza sviluppo. Ci sono tutti gli elementi per dire che per quella strada si arriva a forme di schiavitù e guerra tra poveri.
Anche i precari meritano di essere rappresentati.
Noi abbiamo detto al governo, ricevendo disprezzo: abbiamo bisogno di ricostruire il lavoro in Italia. C'è poco lavoro rispetto alla domanda, lo dicono le cifre. La scelta dovrebbe essere di investire, partendo dagli investimenti pubblici. E tutte le risorse andrebbero indirizzate lì. Se si riduce il lavoro si riducono i diritti. In Italia c'è anche un fenomeno nuovo: un milione di persone che con un lavoro, anche a tempo pieno, è comunque sulla soglia della povertà. Non vediamo nelle politiche del governo come si distribuisca la ricchezza per generare il lavoro. Si può reagire contrastando l'austerità, non solo dicendolo in Europa, ma facendolo anche in Italia. Mentre c'è questa strana dicotomia.
Dipendenti pubblici che scioperano "solo" per il contratto. E attacchi al "senso di responsabilità" di chi nel Pd ha votato il Jobs Act, in riferimento soprattutto alla minoranza dem. Un elenco di "tradimenti".(domanda dai lettori Nicola Verdicchio, Claudio De Biase e Maria Genova)
E' l'effetto di una situazione, un mondo del lavoro che ha una sua proposta, che va in conflitto con chi faceva del lavoro il suo riferimento centrale. Questa frammentazione non fa bene a nessuno, il governo fa male ad alimentarla. Ma è questo il grande tema: il lavoro non ha rappresentanza politica, quindi cambia anche il rapporto tra le organizzazioni sindacali e i partiti. Mi ricordavano una preoccupante assonanza: il Codice del lavoro del 1927 diceva che per il licenziamento ingiusto c'è l'indennizzo, si torna a quella logica col Jobs Act. Ma non tutto è monetizzabile, la dignità delle persone ad esempio.
Uno studio della Uil dimostra che le misure del Jobs Act incentiveranno a licenziare piuttosto che ad assumere.
C'è una strana e poco trasparente discussione sui decreti attuativi del Jobs Act. I ministri competenti sono desaparecidos e questo dopo che Renzi aveva detto che dovevano parlare con i sindacati. Dopo aver deciso che la strada è la monetizzazione, si discute su come risparmiare. E se tutto si gioca sulle risorse, si dà un vantaggio alle imprese che licenziano, che hanno sgravi e pagano poco chi sarà assunto dopo. Ma con le tutele crescenti, cresce nel tempo anche l'indennizzo da corrispondere ai nuovi assunti in caso di licenziamento. Il che incentiva a interrompere quel rapporto il prima possibile. Vedo che una parte del Parlamento si è accorto di questo. E, in un Paese normale, dovrebbe essere obbligato a cambiare quello schema.
Assieme allo sciopero generale, non ci vorrebbe anche altro tipo di sciopero, quello dei consumi? (domanda dalla lettrice Angela Castellero)
La domanda della lettrice arriva da una parte del Paese che ci comunica il senso di abbandono che si prova oggi. Anche noi ci interroghiamo su forme diverse. Ma nello specifico, lo sciopero dei consumi è già in atto a causa della crisi. Forme alternative di mobilitazione, un ottimo suggerimento. Ma, vista la situazione, credo si debba sperimentare in altre direzioni.
Lo sciopero si poggia su un pacchetto vasto di temi. Su quale vorrebbe ottenere una risposta positiva?
Sul lavoro, un cambiamento di impostazione che metta tutte le risorse e le energie a disposizione del lavoro, per il futuro. Dando concretezza a quel senso di speranza che il governo intende dare.
Colpisce che due donne alla testa dei sindacati, Camusso e Furlan, nuova segretaria della Cisl, non siano riuscite a creare un'intesa. Furlan non ha escluso che su alcuni temi si possa parlare con la Cgil. Strano, considerando che la Cisl non è affatto morbida con Renzi.
Infatti, credo che da parte della Cisl ci sia una pregiudiziale, non sui contenuti ma sul "non ci si può mobilitare". Ma io dico che non ci si può nemmeno rassegnare. Se si crede che con un'intervista arrivino risposte positive non andiamo da nessuna parte. Ci siamo sentiti rimproverare che quando al governo c'era Monti abbiamo fatto poco. Di fronte a un simile attacco, non si può restare fermi. La Cisl non capisce che i nostri iscritti non comprenderebbero una mancata risposta, lo interpreterebbero come rassegnazione.
Forse sarebbe stato necessario un approccio diverso. Ovvero, la Cisl che va allo sciopero "insieme" alla Cgil, non "aderisce" allo sciopero Cgil.
In realtà, noi abbiamo discusso molto. La nostra idea è stata proposta, ma c'è un tempo per fare le cose. E quel tempo è adesso. Se non ci sono risposte bisogna trarre le conseguenze. Se i lavoratori hanno diritto, bisogna scegliere se esercitare le proprie capacità di pressione per cambiare le politiche o stare un passo indietro. Noi abbiamo scelto di fare il passo avanti. Il governo Renzi non può non sapere che si sono cumulati degli effetti che provocano la reazione delle persone.
Il suo giudizio su Renzi.
Penso che abbia il merito di avere acceso una grande speranza in questo Paese. Adesso non la trasformi in paura evocando la Troika. Evocare quella speranza è stata anche la sua fortuna. Ora la traduca in lavoro.
Oltre che tra i lavoratori e le classi possidenti, le disuguaglianze aumenteranno tra gli stessi lavoratori. La facoltà conferita alle imprese, comprese decine di migliaia medio-piccole, di regolare mediante accordi sindacali anche locali sia il salario, sia altre condizioni cruciali del rapporto di lavoro, avrà come generale conseguenza una ulteriore riduzione dei salari reali e con essi della quota salari sul Pil. In fondo, è uno degli scopi del Jobs Act, anche se non si legge in chiaro nel testo. Ma ciò avverrà, quasi certamente, con differenze rilevanti attorno alla media tra le imprese che vanno bene e le tante altre che arrancano. Queste si gioveranno della suddetta facoltà per pagare salari che in molti casi collocheranno i percipienti al disotto della soglia della povertà relativa, che nel 2013 era fissata in circa 1.300 euro per una famiglia di tre persone. Si può quindi stimare che il numero di “lalavoro voratori poveri” aumenterà in Italia in notevole misura. Alle disuguaglianze di reddito tra un’azienda e l’altra, a parità di lavoro, si aggiungeranno quelle territoriali, quelle che un tempo il cnl doveva servire a superare, stabilendo quanto meno una base salariale per tutti.
Va però notato che il regime di bassi salari, introdotto di fatto dal decreto sul lavoro, ostacola fortemente anche la modernizzazione delle imprese e danneggia l’intera economia. Le imprese italiane — con rade eccezioni — si collocano da anni tra le ultime della Ue quanto a spesa in ricerca e sviluppo; tasso di investimenti fissi; età degli impianti; innovazione di prodotto e di processo. Nonché, guarda caso, per la produttività del lavoro. Dagli anni 90 in poi le spese in ricerca, sviluppo e investimenti fanno registrare entrambe un patetico zero virgola qualcosa. L’età media degli impianti è il doppio di quella europea, più o meno 25-28 anni contro 12-15. Inoltre le imprese italiane sono, in media, troppo piccole. Risultato: l’aumento della produttività del lavoro segna anch’esso uno zero virgola sin dagli anni 90.
Varando delle leggi sul lavoro che consentono un uso sfrenato del precariato, evitando di impegnarsi in qualsiasi azione che assomigli a una politica industriale, i governi italiani hanno efficacemente contribuito a mantenere le imprese italiane nella condizione di ultime della classe. Il Jobs Act offre ad esse un aiuto per mantenersi in tale posizione. Si può infatti essere certi che ove la legge permetta loro di pagare salari da poveri quattro imprese su cinque utilizzeranno tale facilitazione e non spenderanno un euro in più in ricerca, sviluppo e investimenti, rinnovo degli impianti, innovazioni. E l’aumento annuo della produttività del lavoro, che è strettamente collegato a tali voci, resterà nei pressi dello zero.
C’è in ultimo da chiedersi se gli estensori del Jobs Act abbiano un’idea di quanto siano oggi numerosi e complessi i fattori della produttività del lavoro: essa è seriamente misurabile solo a livello nazionale, mentre a livello di impresa, in specie se medio-piccola, misurare stabilmente e per lunghi periodi la produttività del lavoro, è come cercare di catturare un ologramma con una canna da pesca. Qualsiasi bene o servizio un’impresa produca, è ormai raro che se lo produca per intero da sola. La maggior parte dei componenti arriva da altre imprese. Innumeri prodotti, dai gamberetti alle camicie, percorrono migliaia di chilometri in aereo o per nave prima di arrivare nei nostri negozi. Un piccolo elettrodomestico da cinquanta euro, assemblato da ultimo da una casa italiana per essere venduto nei supermercati, capita sia costituito di un centinaio di pezzi provenienti da dieci paesi diversi. In tali complicatissime “catene di produzione del valore” come sono chiamate, interamente fondate sull’informatica, può avvenire di tutto. Che un componente ritardi; che non sia quello giusto; sia guasto; abbia cambiato di prezzo rispetto al contratto; richieda macchinari non previsti per essere rifinito o assemblato; ecc. Tutti questi inconvenienti incidono ovviamente sulla produttività dell’impresa finale. E non sono l’ultimo motivo per cui la produttività del lavoro aumenta annualmente dello zero virgola nelle imprese italiane. Le quali, temo, cercheranno invano nel Jobs Act, come si fa a misurarla davvero, e magari come si fa ad aumentarla. Senza di che i nuovi “lavoratori poveri”, in tema di frutti della produttività, avranno ben poco da spartirsi.
Il manifesto, 11 settembre 2014, con postilla
Palazzo Paradiso è la sede centrale del polo bibliotecario di Ferrara, il mio posto di lavoro originario, dove sono rientrato dopo molti anni di distacco sindacale, grazie al governo Renzi. È un palazzo bello e imponente, sito in pieno centro storico, fatto costruire nel 1391 da Alberto V d’Este e che deve probabilmente il proprio nome a un ciclo di affreschi ispirato ad esso.
In questi anni di lontananza da questo luogo, i miei ricordi forse non me lo raffiguravano in questo modo, ma certamente mi rimandavano a un mondo un po’ a parte, un po’ ovattato, preservato dal gorgo della postmodernità, presidiato da studiosi e ricercatori interessati alle vicende dell’Orlando Furioso e dell’epopea umanistica — rinascimentale. In questa suggestione ovviamente c’entrava il fatto che la biblioteca Ariostea svolge sì funzione di prestito librario «classico», ma è forte di un patrimonio di circa 100.000 volumi antichi, tra cui molti incunaboli e rari.
Sono stato assegnato, in questi giorni in via temporanea, al servizio di prestiti-rientri dei libri, nel cosiddetto front-office con il pubblico. Siamo poco meno di una decina su due turni di lavoro, a ricoprire tale ruolo, appena sufficienti a rispondere a un’affluenza di persone, soprattutto studenti universitari, che mi dicono essere decisamente cresciuta in questi anni.
Accanto a noi, addetti a dare informazioni al pubblico, e al piano di sopra, con compiti prevalentemente di guardiania dei locali museali, ci sono i volontari dell’Auser, affiliata allo Spi-Cgil. Sono un certo numero, si alternano in circa una ventina su tre turni. Dopo un po’ realizzo che sono volontari un po’ speciali: pensionati che integrano il loro reddito, che non ci vuole molto a capire non è quello delle pensioni d’oro o d’argento, con un rimborso che può arrivare a circa 200 euro mensili, sempre che sia supportato da corrispondenti scontrini che giustifichino le spese sostenute. Una specie di voucher che, per esempio, come mi spiega Rosa che lavora di fianco a me, consente di andare dal parrucchiere visto che per svolgere il lavoro di accoglienza è giusta
mente riconosciuto che bisogna presentarsi bene.
Poi, al mattino, appena prima dell’apertura al pubblico, passano le donne delle pulizie, rigorosamente dipendenti di una cooperativa, che, come mi fa presente una di loro, gira per 4–5 «cantieri» — così li chiama — al giorno. Avanti e indietro tutto il giorno tra casa e luoghi di lavoro diversi: per fortuna che Ferrara è un fazzoletto e in un quarto d’ora di bicicletta vai da un capo all’altro della città.
In questo puzzle del lavoro, non vedo un’altra tipologia classica, quella dei lavoratori delle cooperative sociali che affiancano i lavoratori pubblici, facendo lo stesso lavoro ma pagati meno. Però — tranquilli — anch’essi, in passato, hanno popolato questo luogo, in una fase di relativo incremento del lavoro, per poi sparire quando le esigenze di ulteriore risparmio hanno ripreso il sopravvento. In compenso, non ci sono ancora i gruppetti di disoccupati e extracomunitari che però stazionano nei mesi invernali, quando fa più freddo, nei locali d’ingresso della biblioteca, creando qualche problema di convivenza — solo raramente di «ordine pubblico» — con gli abituali frequentatori di questo luogo civico.
Non c’è che dire: un bello spaccato di un lavoro che è stato frammentato, che ne ha rotto i legami sociali e di solidarietà, che lo priva di senso generale e lo svalorizza.Certo, si coglie ancora una relazione di interesse e riconoscimento reciproco all’interno di questa piccola e diversificata comunità , ma a me appare più il lascito in via d’estinzione di una cultura frutto di un glorioso passato — quella civile e solidale che ha accompagnato il «modello emiliano», anch’esso ormai esaurito — piuttosto che un’acquisizione proiettata nel futuro.
Del resto, se l’imperativo è il taglio della spesa pubblica, che sarebbe di per sé improduttiva, anche il lavoro ad essa collegato non può che soggiacere ad esso. Non importa se poi tutto ciò produce impoverimento, disuguaglianza e distruzione della coesione sociale. Se rimane, alla fine, la solitudine competitiva dell’individuo di fronte al mercato e la contrapposizione tra penultimi e ultimi. Semmai, quello che impressiona è, come dice in questi giorni il premier Renzi, bisogna proseguire su questa strada e, anzi, rafforzarla. Perché, sempre secondo il suo lucido pensiero, c’è ancora «molto grasso da tagliare».
Forse anche a lui, sempre che ce l’abbia mai avuto, non farebbe male rientrare in un posto di lavoro subordinato. Potrebbe vedere un mondo un po’ rovesciato, ma probabilmente più veritiero delle slide con cui ci inonda da un po’ di mesi in qua.
postilla
Corrado Oddi è stato tra i più attivi ed efficaci organizzatori del referendum per l'acqua pubblica. Ha svolto quel suo rilevante impegno sociale in quanto dirigente della CGIL, e quindi potendo godere del "privilegio" del distacco sindacale. Non c'è bisogno di essere maliziosi per comprendere il nesso tra l'obbligato ritorno di Corrado al lavoro d'ufficio e il suo ruolo di promotore di importanti lotte sociali di civiltà. E' amaro constatare che simili eventi si manifestano a causa delle decisioni di un governo che molti continuano a definire "di centro sinistra" , se non addirittura "di sinistra"
Bene un nuovo New Deal per l’Altra Europa
ma non quello di Junker
di Alfonso Gianni
Ho letto con attenzione l’articolo di Barbara Spinelli pubblicato sul Manifesto. Barbara conclude con una frase che meriterebbe qualche ulteriore chiarimento: “Resta la promessa di un comune piano d’investimenti nell’economia reale, pari a 300 miliardi di euro su 3 anni: una sorta di New Deal che Juncker ha esposto al Parlamento europeo, favorito in questo dai governi di Italia e Francia (è quanto va chiedendo l’Iniziativa cittadina che porta lo stesso nome: New Deal for Europe). Con che mezzi lo si voglia attuare non è chiaro - mentre l’Iniziativa cittadina chiede una duplice tassa comunitaria sulle transazioni finanziarie e sull’emissione di anidride carbonica – ma appoggiarlo sarebbe già un primo passo.”
A quanto so – ma le mie informazioni possono essere incomplete e superate il piano Juncker appare alquanto generico; ad esempio viene citata la tradizionale voce infrastrutture. Ma cosa significa in concreto? La specificazione su quali infrastrutture stiamo parlando è decisivo per capire se si tratti di cosa buona o cattiva. Inoltre Barbara fa presente la questione del reperimento delle risorse. Juncker ha parlato di Banca per gli investimenti europei (BEI) e di bilancio europeo, che come sappiamo è molto striminzito (tanto è vero che noi proponiamo almeno di quintuplicarlo), oltre che di un mix tra investimenti pubblici e privati (questi ultimi dove e come?), mentre l’Ice cui abbiamo aderito parla esplicitamente di Tobin tax e di carbon tax. Ovvero in questo caso il finanziamento di un simile piano sarebbe a carico della speculazione finanziaria e di chi peggiora l’ambiente. Non si tratta di differenze da poco. Ma allora perché “appoggiare” , seppure come primo passo, il piano Juncker e non invece criticarlo fin da subito nel merito, sviluppando la giusta idea di un New Deal basato su nuovi investimenti, con forme di finanziamento aggiuntive (perché provenienti da nuovo tassazioni che colpiscono il capitale) e su un’idea diversa di sviluppo sociale e quindi di settori da incrementare? O no?
D’accordo
ma l’importante è cominciare
diBarbara Spinelli
Caro Alfonso, ti ringrazio innanzitutto per aver letto con attenzione l'articolo sul Manifesto. Capisco che la formulazione sul Piano Juncker di investimenti comunitari possa esserti sembrata ambigua, ma lo spazio che mi è stato dato dal giornale imponeva una sintesi. L'articolo era il sunto del discorso iniziale che ho pronunciato davanti ai ministri e sottosegretari per gli affari europei dell'Unione: a quella platea ho detto che un loro unanime appoggio allo stanziamento di una somma importante per lo sviluppo sarebbe un primo passo in direzione del cambio di politica che auspichiamo (l'appoggio in effetti stenta a venire: per il momento Italia e Francia spingono in questa direzione, ma timidamente e confusamente).
Al tempo stesso, ho tuttavia espresso con molta chiarezza il mio (e nostro, immagino) punto di vista in proposito: i soldi che Juncker e alcuni governi dicono di voler mobilitare non sono sufficienti, se interverrà solo la Banca europea degli investimenti, e considerato il fatto che le risorse comuni dell'Unione sono state addirittura decurtate dai ministri. E ho fatto mio il piano dell'Iniziativa cittadina New Deal 4 Europe, secondo il quale devono esser messe a disposizione ulteriori risorse della Banca di investimenti, questo sì, ma soprattutto vanno introdotte due tasse a mio avviso generatrici non solo della crescita in sé, ma di uno sviluppo diverso, ecologico e non più basato sulla finanziarizzazione dell'economia (tassa sulle transazioni finanziarie e carbon tax). Per fortuna l'accenno alle due tasse è rimasto nel testo del Manifesto.
Il commento di Alfonso Gianni e la replica (meglio, la precisazione, poiché tra i due interventi non ci sono differenze di posizione) costituiscono l’occasione per riprendere un tema a mio parere centrale nella proposta politica della lista “L’altra Europa con Tsipras”. E’ un tema che mi sembra di particolare interesse nel dibatito sul come proseguire, in Italia, quell’esperienza. Mi sembra infatti che proprio grazie a intellettuali italiani si sia dato un contributo importante all’argomento(penso a persone direttamente impegnate nella costruzione di quella lista come Guido Viale e Luciano Gallino, ma anche a numerosi altri che l’hanno sostenuta (da Giorgio Nebbia a Piero Bevilacqua, Da Giorgio Airaudo a Giovanna Ricoveri, per non citare che i primi nomi che mi vengono in mente).
Il dialogo Gianni-Spinelli puà essere insomma l'occasione buona per sviluppare e chiarire che cosa significa per noi qui e oggi questa espressione. Che è oggi, ed era già ai tempi di Roosevelt (e a quelli di Di Vittorio) tutt’altro che un piano di beneficenza internazionale, più o meno “pelosa”,come il “piano Marshall” ma era una iniziativa di una politica nuova che voleva guidare l’economia invece di esserne ancella. Il New Deal può essere quindi l’avvio di un superamento del modo di produzione capitalistico. Alla radice dell’esperienza del New deal di Roosvelt c’è una verità che contrasta con il pensiero corrente, e costituisce la ragione di fondo per la quale tutte le proposte che andavano in questa direzione sono cadute nel vuoto. Proporre lo Stato come il soggetto che determina le scelte della produzione, e introdurre i bisogni collettivi come l’argomento e l’obiettivo del consumo significa infatti indurre una trasformazione radicale (alla radice) del sistema economico-sociale nel quale viviamo: il capitalismo.
Molte cose già scritte dai promotori della Lista Tsipras possono aiutare a comprendere che cosa si può e deve fare a partire da oggi non solo per rilanciare l'occupazione e soddisfare bisogni sociali (di civiltà) che il mercato neanche vede (e quando vede sfrutta), ma per intervenire sul sistema economico-sociale, sul versante della spesa pubblica ma anche su quello delle entrate Esiste già un elenco dei bisogni sociali (e di civiltà)che richiedono l’impiego diforze di lavoro, fisico e intellettuale, capace di soddisfarli. Ed esistono già proposte praticabili per individuare le risorse finanziarie per remunerare una siffatta forza lavoro. Vogliamo lavorare in questa direzione? Questo sito, per quel poco che conta, è aperto a chi voglia proseguire il lavoro in questa direzione.
Del “piano del lavoro” della CGIL abbiamo scritto nell’eddytoriale 144 del novembre 2010. Su Giuseppe Di Vittorio vogliamo anche ricordare l’episodio della sua vita che è stato commentato dalla figlia Baldina. Rinviamo poi all’archivio della Fondazione Giuseppe Di Vittorio. Sul significato e il possibile contenuto di un new deal italiano oggi rinviamo ai numerosi articoli di Guido Viale ripresi da
eddyburg e oggi negli archivi della vecchia e della nuova edizione.
Il manifesto, 15 maggio 2014
«Siamo noi il Quarto stato. Io vivo con 650 euro al mese ma allo sciopero non rinuncio». Giuseppe Augello, delegato milanese di McDonald’s è carico, pronto per incrociare le braccia insieme a tutti i suoi colleghi che nel mondo friggono panini e battono scontrini alla cassa. Cappellino e uniforme di ordinanza, i ragazzi degli archi dorati si preparano a cortei, volantinaggi e flash mob per rivendicare salari più alti, il diritto a un lavoro full time e ritmi umani.
Giuseppe è Rsa Filcams Cgil da cinque anni, da quando cioè ha cominciato a lavorare per la multinazionale del panino: da allora, McDonald’s lo ha spedito prima a Bergamo e poi in ben due locali destinati alla chiusura, pur di costringerlo ad andarsene («perché io rompo e metto i paletti»), ma lui ha resistito. Giuseppe ha citato l’azienda davanti al giudice, per contestare un apprendistato lungo tre anni ma senza formazione (il recente decreto Poletti suggerisce qualcosa?): McDo ha accettato di conciliare, ha dovuto assumerlo a tempo indeterminato e pagargli tutti gli arretrati. Giuseppe è solo un esempio, parla di un mondo di lavoratori che non si arrende. Per oggi la IUF (International Union Food, sindacato globale della ristorazione) ha indetto una giornata di iniziativa mondiale, la #FastFoodGlobal, a cui l’Italia aderisce – con lo sciopero di domani, che in realtà riunisce tutti i lavoratori del turismo.
«Il nostro contratto non è un menù», dice il volantino dei milanesi in sciopero. «Su Milano e in tante altre città porteremo i lavoratori in corteo», annuncia Giorgio Ortolani della Filcams. In effetti la mobilitazione italiana è stata indetta da Cgil, Cisl e Uil soprattutto per il contratto: perché la Fipe-Confcommercio – cui aderisce McDonald’s, con i suoi 16 mila dipendenti – ha disdetto il contratto nazionale, lanciando una sfida senza precedenti al sindacato. Il gesto della Fipe è davvero «rivoluzionario», visto che l’associazione che riunisce grossi marchi come Autogrill, MyChef, ChefExpress, vorrebbe idealmente passare al superamento del contratto nazionale, per applicare dei regolamenti aziendali unilaterali. Abbattendo gli scatti di anzianità, i permessi retribuiti, le maggiorazioni per notturni e festivi, la quattordicesima. «La disdetta ci era stata comunicata a partire dal primo maggio 2014 – spiega Cristian Sesena, segretario nazionale Filcams Cgil – Poi hanno deciso di prorogarla al 31 dicembre: forse adesso vogliono sedersi a un tavolo».
A minacciare i principali istituti contrattuali, anche se non hanno scelto di disdettare il contratto, anche gli albergatori aderenti a Confindustria e Confesercenti. Una situazione – quella di un contratto che non si riesce a rinnovare ormai da un anno (se si eccettuano Federalberghi e Faita campeggi, unici ad aver firmato) – che mette gli addetti ancora più in crisi, se già non bastassero condizioni di lavoro spesso precarie e al confine con la povertà.
Sesena di recente è stato a New York, dove ha partecipato al summit indetto dalla IUF per organizzare le mobilitazioni: «Il fatto positivo è che stiamo cercando di uscire dal localismo – spiega – McDonald’s ha un’organizzazione del lavoro simile in tutto il mondo, che si ripete un po’ nei 33 paesi che hanno aderito alla protesta. E uguali sono i metodi di formazione. È importante creare un coordinamento delle lotte globali: che però non deve essere fatto solo di azioni estemporanee, per guadagnare visibilità, pure fondamentale. Serve una strategia sindacale». Negli Usa, ad esempio, si chiede il raddoppio della paga oraria: da 7,25 dollari a 15 (tenendo conto che non è un netto: i lavoratori con questa cifra devono pagarci anche l’assicurazione sanitaria). Ecco il senso della campagna #fightfor15.
In Italia, seppure il tema del reddito sia importante – non solo sul piano del contratto nazionale, ma anche sulla obbligatorietà di fatto del part time – la vertenza va anche su altri temi: «Si deve parlare di orari, di conciliazione vita-lavoro, di tutela delle donne e delle mamme – dice Sesena – Non dimenticando che McDonald’s non ha mai voluto sedersi per discutere un integrativo». A Milano, tra l’altro, si parla anche di Expo: come lavoreranno nel 2015 gli addetti di ristoranti e alberghi se non avranno un contratto?
Quindi ecco le campagne che la Filcams Cgil ha lanciato per gli addetti dei fast food, spesso giovani e un po’ a digiuno di conoscenze sindacali, intercettabili però sui social network: la campagna «Faccia a faccia con la realtà» è diventata un blog (www.fastgeneration.it) dove i lavoratori si raccontano (su Twitter l’hashtag è #fastgeneration).
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Il pollo transgenico di McDonald’s che fa litigare Usa e Germania
«Che cosa intendiamo per politiche tecnologiche e industriali? Sono le politiche che generano e stimolano innovazione tecnologica, che stimolano e favoriscono l'apprendimento e la produzione da parte di imprese private, e che creano e sostengono attività produttive pubbliche in settori e localizzazioni particolari. Oggi in Europa servono programmi pubblici finalizzati a precisi obiettivi tecnologici soprattutto nel campo dell'ambiente e della salute». Sbilanciamoci. infonewsletter n. 328, 12 maggio 2014 (m.p.r.)
Per una trentina d'anni, fino alla crisi del 2008, di politiche industriali e tecnologiche non si poteva parlare: erano brutte parole per tutta la gente per bene, inclusa la sinistra moderata e riformista, e non solo in Italia. Il mantra era – ed in buona parte è ancora – «la magìa del mercato», come la definì quel grande economista che era Ronald Reagan; una «magìa» che alimentava la retorica del «lasciar fare» e del «perché la politica dovrebbe saperne di più delle imprese?»
È il momento di spiegare invece che le politiche tecnologiche sono state cruciali, almeno dalla seconda guerra mondiale in poi, nella generazione della maggior parte delle innovazioni di cui oggi godiamo (o soffriamo) e che le politiche tecnologiche ed industriali sono sempre state cruciali nei processi di industrializzazione soprattutto nei paesi ritardatari – e si ricordi che due secoli fa anche Usa e Germania erano ritardatari rispetto all'Inghilterra.
Innanzi tutto, che cosa intendiamo per politiche tecnologiche e industriali? Ne voglio dare una definizione molto ampia: sono le politiche che generano e stimolano innovazione tecnologica, che stimolano e favoriscono l'apprendimento e la produzione da parte di imprese private, e che creano e sostengono attività produttive pubbliche in settori e localizzazioni particolari.
Partiamo dall'innovazione tecnologica. Come mostra il bel libro di Marianna Mazzucato Lo stato innovatore, di imminente pubblicazione per Laterza, senza le innovazioni generate nei grandi programmi pubblici di ricerca (come il Cern per la fisica) e nei programmi militari e spaziali oggi non avremmo internet, il microprocessore, il web, l'iPad e così via. Senza i grandi programmi pubblici del National Institute of Health negli Usa non avremmo nemmeno i (pochi) farmaci innovativi che le grandi imprese farmaceutiche ci offrono a carissimo prezzo. Come ironizzava il compianto Keith Pavitt, la leadership Usa è stata alimentata dalle paranoie americane del comunismo e del cancro.
Guardando al futuro, ciò di cui abbiamo bisogno oggi in Europa sono massicci programmi pubblici focalizzati, mission-oriented, cioè finalizzati a precisi obiettivi tecnologici – come nel passato sono stati mandare un uomo sulla luna o un grappolo di missili inter-continentali sull'Unione Sovietica – soprattutto nel campo delle tecnologie verdi e della sostenibilità ambientale, della medicina e della salute sociale più in generale. Invece buona parte del discorso politico mitologizza i garage degli Steve Jobs e Bill Gates senza considerare le fonti (pubbliche) della tecnologia che questi imprenditori hanno messo assieme. D'altro lato, invece, finanziamo mission altrui e pure fallimentari come i cacciabombardieri F-35 che, come sostiene un rapporto della Rand Corporation di qualche anno fa, «non combatte, non vira, non vola».
Perché servono anche politiche industriali ? La risposta è che in molte circostanze, specialmente nei paesi ritardatari – o in quelli, come l'Italia di oggi, che perdono terreno rispetto ai paesi più avanzati – le imprese private non hanno né le capacità organizzative, né gli incentivi di profitto per operare in aree magari molto promettenti dal punto di vista delle potenzialità innovative e di mercato, ma nelle quali esse hanno uno svantaggio comparato ed assoluto rispetto alla concorrenza internazionale.
Se due economie, una high tech e una dell'età della pietra, cominciano ad interagire, sicuramente gli operatori economici nella seconda avranno un incentivo a produrre e commerciare beni ad «alta intensità di pietre», ma la società nel suo complesso progredirebbe molto di più se si imparasse l'high tech, anche se si è meno efficienti dell'altro paese. Le politiche industriali comprendono tutte le misure appropriate all'accumulazione di conoscenze e capacità produttive nelle tecnologie più dinamiche e più promettenti. Alla fine dell'Ottocento si trattava della chimica e dell'elettromeccanica; oggi delle tecnologie dell'informazione, della bioingegneria, delle tecnologie ambientali. In effetti le politiche industriali sono state un ingrediente fondamentale nell'industrializzazione dagli Stati Uniti alla Germania, al Giappone, alla Corea, alla Cina (ne discutiamo in dettaglio nel volume curato da Cimoli, Dosi e Stiglitz, Industrial Policies and Development, Oxford, University Press). Incidentalmente gli Usa sono il paese che oggi ne pratica di più, senza parlarne.
Che cosa si fa oggi in Europa, e in particolare in Italia? Per lungo tempo, possiamo dire, sono state fatte politiche anti-industriali. È una storia antica, che comincia almeno dal rifiuto del governo italiano di sostenere lo sviluppo dei calcolatori Olivetti (quasi sicuramente su pressione americana) all'inizio degli anni sessanta. Continua con la dissennata politicizzazione e finanziarizzazione della Montedison, e poi la con la sua dissoluzione, che ha portato anche alla liquidazione di fatto di un piccolo gioiello nella farmaceutica come Farmitalia. Ha il momento cruciale nella liquidazione con "spezzatino" delle imprese a partecipazione statale, per ottenere nella crisi del 1993 entrate straordinarie: «pochi soldi, maledetti e subito». Con quale conseguenza? Una delle prime cose che hanno fatto i privati è stato chiudere le attività di ricerca e sviluppo (come in Telecom), o liquidare addirittura la produzione (come in Italtel). Tutto questo si è accompagnato per quasi un trentennio alla mitologia del "piccolo è bello", con il risultato di un quasi azzeramento della partecipazione italiana all'oligopolio internazionale della chimica, dell'acciaio, della farmaceutica, dell'elettronica, delle telecomunicazioni, del software e così via.
Che cosa fare? In Italia molte cose sono difficili da fare perché ormai i buoi sono scappati dalle stalle, ma è ancora possibile favorire l'emergere di attori tecnologicamente forti, italiani o quanto meno europei. E, per farlo, spesso è necessario l'intervento diretto dello Stato, per esempio via Cassa Depositi e Prestiti, che già un po' fa di queste cose, ma senza una strategia industriale seria, quasi con la paura di disturbare la "magìa" del mercato. Tante cose si possono fare a livello europeo, a condizione di abbandonare la frenesia mercatista. Un esempio recente per tutti: c'è qualcuno che crede che il governo americano starebbe a guardare se Alstom e Siemens si mettessero assieme e tentassero di acquisire General Electric, invece di quest'ultima che tenta di scalare Alstom?
Poi ci sono alcune cose che non bisogna assolutamente fare. Tra queste l'accordo di libero scambio transatlantico, che rappresenta essenzialmente una folle cessione di sovranità della politica, nazionale ed europea e l'assolutizzazione degli interessi degli investitori privati, indipendentemente dall'utilità sociale degli investimenti stessi.