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Gaetano Azzariti
Legare il reddito alla cittadinanza attiva
16 Aprile 2015
Lavoro
«Reddito di base. La vera sfida al tempo della disoccupazione strutturale, del lavoro precario, flessibile, delocalizzato, immateriale è conservare il legame tra occupazione ed emancipazione».

«Reddito di base. La vera sfida al tempo della disoccupazione strutturale, del lavoro precario, flessibile, delocalizzato, immateriale è conservare il legame tra occupazione ed emancipazione».

Il manifesto, 15 aprile 2015, con postilla

Lo ius exi­sten­tiae si pone alla base del con­tratto sociale. Sin dal ‘600 la cop­pia obbedienza-protezione s’è impo­sta come la fonte ultima di legit­ti­ma­zione del potere costi­tuito. Spetta al “sovrano” difen­dere la vita dei con­so­ciati (Hob­bes), ma anche i beni essen­ziali ad essa col­le­gati (Locke). Se il potere costi­tuito non è in grado di garan­tire le con­di­zioni di “esi­stenza”, il popolo non è più tenuto a rispet­tare il pac­tum con­so­cia­tio­nis: il diritto di resi­stenza può essere esercitato.

Nella sto­ria della moder­nità si è rite­nuto che allo Stato dovesse spet­tare il com­pito di assi­cu­rare la pace (interna ed esterna), men­tre il lavoro dovesse costi­tuire il mezzo attra­verso cui assi­cu­rare la “soprav­vi­venza” degli indi­vi­dui. La fine della civiltà del lavoro ha cam­biato le carte in tavola. Oggi non basta più la volontà di lavo­rare, né quella di emi­grare per poter soprav­vi­vere. Come può lo Stato pre­ser­vare il diritto all’esistenza?

In via di prin­ci­pio due sono le strade per­cor­ri­bili (tra loro non neces­sa­ria­mente alter­na­tive): lo Stato potrebbe assi­cu­rare comun­que un diritto al lavoro, ampliando arti­fi­cial­mente l’offerta, incen­ti­vando – ad esem­pio – i lavori social­mente utili, anche se eco­no­mi­ca­mente non neces­sari. L’altra via è quella di assi­cu­rare comun­que un red­dito di cit­ta­di­nanza anche a chi — in assenza delle con­di­zioni sociali che lo ren­dono pos­si­bile — non può lavorare.

In par­ti­co­lare, la pro­spet­tiva del red­dito di cit­ta­di­nanza ha un solido fon­da­mento costi­tu­zio­nale. Essa ruota attorno a quat­tro prin­cipi che val­gono a carat­te­riz­zare il nostro “patto sociale”: il prin­ci­pio di dignità, con il col­le­gato dovere di soli­da­rietà; il prin­ci­pio d’eguaglianza, inteso come moda­lità di rea­liz­za­zione di una società di liberi ed eguali; il prin­ci­pio di cit­ta­di­nanza, nella sua dimen­sione par­te­ci­pa­tiva e di garan­zia di appar­te­nenza ad una comu­nità; il prin­ci­pio del lavoro, assunto nella sua reale dimen­sione di vita, com­pren­sivo del dramma del non lavoro.

È nel col­le­ga­mento tra que­sti prin­cipi che si rin­viene il diritto costi­tu­zio­nale ad un red­dito di cit­ta­di­nanza. L’errore cui si è spesso incorsi è stato quello di tenerli invece sepa­rati. Eppure nella nostra costi­tu­zione – più avan­zata dei suoi inter­preti – appare evi­dente l’intreccio. Si pensi al rap­porto com­plesso che sus­si­ste tra dignità e lavoro. Al lavoro è legata la dignità (il lavo­ra­tore ha, infatti, diritto ad una retri­bu­zione «in ogni caso suf­fi­ciente ad assi­cu­rare a sé e alla fami­glia un’esistenza libera e digni­tosa»), ma è anche evi­dente come la “dignità” rap­pre­senta un valore da assi­cu­rare in ogni caso, ponen­dosi (la “dignità umana”) come limite alla libertà di ini­zia­tiva eco­no­mica pri­vata, con­for­man­dosi come “dignità sociale” nel rap­porto tra tutti i cit­ta­dini eguali davanti alla legge (nel com­bi­nato dispo­sto tra gli arti­coli 36, 41 e 3).

Vero è che i nostri costi­tuenti per­se­gui­vano l’obiettivo della piena occu­pa­zione, tant’è che alla Repub­blica veniva asse­gnato il com­pito di «pro­muo­vere le con­di­zioni» per ren­dere effet­tivo il diritto al lavoro. Dun­que era que­sta la via mae­stra per dare dignità sociale ai cit­ta­dini. Se oggi però con­si­de­riamo non più per­se­gui­bile la pro­spet­tiva della piena occu­pa­zione l’unica alter­na­tiva per rima­nere entro i con­fini trac­ciati dal costi­tuente è quella di assi­cu­rare la dignità anche a chi non può lavo­rare. Non pos­siamo ras­se­gnarci alle dise­gua­glianze di una società in cui sem­pre più ampie parti della popo­la­zione vivono in grave disa­gio, non pos­siamo evi­tare di occu­parci dei gruppi sociali in stato di emar­gi­na­zione, non pos­siamo lasciare il mondo sem­pre più esteso dei non occu­pati senza spe­ranza, pri­van­doli di ogni dignità e oppor­tu­nità di riscatto.

La let­tura siste­ma­tica del testo costi­tu­zio­nale evi­den­zia anche un secondo dato, che a me sem­bra deci­sivo, ma che è invece assai sot­to­va­lu­tato nel dibat­tito attuale sul red­dito di cittadinanza.

Detto in breve: nella nostra costi­tu­zione il diritto fon­da­men­tale alla soprav­vi­venza, i diritti alla vita digni­tosa e all’assistenza come obbligo dello Stato, la lotta all’emarginazione sociale, non ven­gono assunti in sé, ma sono sem­pre col­le­gati al neces­sa­rio svol­gi­mento della per­so­na­lità, non­ché defi­niti al fine di con­cor­rere al «pro­gresso spi­ri­tuale e mate­riale della società» (come si esprime l’art. 4 in rap­porto con il diritto al lavoro). Espli­cito e diretto è poi il legame tra diritti fon­da­men­tali e doveri inde­ro­ga­bili (art. 2). Così come l’obbligazione gene­rale di rimo­zione degli osta­coli d’ordine eco­no­mico e sociale nei con­fronti dei cit­ta­dini è asso­ciato alla par­te­ci­pa­zione all’organizzazione poli­tica, eco­no­mica e sociale del paese (art. 3).

È in que­sto com­plesso intrec­cio che deve tro­vare una sua spe­ci­fica qua­li­fi­ca­zione anche il red­dito di cit­ta­di­nanza, che dovrebbe essere inteso come red­dito di par­te­ci­pa­zione. Se si vuole cioè evi­tare che la sov­ven­zione ai non occu­pati si tra­sformi in un mero sus­si­dio di povertà, cari­ta­te­vol­mente con­cesso ad un sog­getto iso­lato, lasciato nel suo iso­la­mento, e senza pos­si­bi­lità di riscatto, v’è una sola strada da per­se­guire: legare il red­dito alla cit­ta­di­nanza attiva. La vera sfida, al tempo della disoc­cu­pa­zione strut­tu­rale, ma anche del lavoro pre­ca­rio, fles­si­bile, insta­bile, delo­ca­liz­zato, imma­te­riale, è quella di con­ser­vare quell’orizzonte eman­ci­pa­to­rio, tanto indi­vi­duale quanto sociale, che sin qui – nello schema for­di­sta — era stato assi­cu­rato prin­ci­pal­mente dal lavoro sta­bile entro una comu­nità solidale.

Ma come può legarsi il red­dito alle atti­vità sociali? E poi cosa si intende per cit­ta­di­nanza attiva? Anche in que­sto caso si può comin­ciare a riflet­tere par­tendo dalla costi­tu­zione, la quale imputa a tutti i cit­ta­dini il dovere di svol­gere un’attività o una fun­zioni che con­corra «al pro­gresso mate­riale o spi­ri­tuale della società». Il rife­ri­mento è al lavoro tra­di­zio­nal­mente inteso, ma deve ricom­pren­dere anche tutte quelle atti­vità o fun­zioni che si svol­gono “oltre il lavoro for­male”. Il volon­ta­riato, l’assistenza ai figli o ai geni­tori, le atti­vità cul­tu­rali, quelle di natura imma­te­riale, la cura dei beni comuni. Tutto ciò che – oltre la dimen­sione eco­no­mica e imme­dia­ta­mente pro­dut­tiva — per­mette agli indi­vi­dui di svi­lup­pare la pro­pria per­so­na­lità e con­cor­rere al pro­gresso sociale.

Tutto ciò come si può rea­liz­zare in con­creto? Se si guarda alle diverse forme di red­dito pro­po­ste (uni­ver­sale, minimo, di disoc­cu­pa­zione) mi sem­bra che il più con­forme al modello defi­nito sia quello che asse­gna a tutti i biso­gnosi un red­dito minimo, non tanto con­di­zio­nato dalle logi­che di work­fare (che impone al tito­lare del red­dito di accet­tare qua­lun­que lavoro, anche il più degra­dante o incoe­rente con la pro­pria for­ma­zione a pena della per­dita di ogni con­tri­buto), quando costi­tuito da due diverse fonti “red­di­tuali”: una in denaro, l’altra defi­nita da forme di soste­gno indi­rette. In que­sto secondo caso il red­dito con­si­ste in garan­zie di accesso gra­tuito ai ser­vizi (scuole, uni­ver­sità, con­sumi cul­tu­rali, tra­sporti), ovvero al sup­porto al volon­ta­riato o all’associazionismo, ovvero ancora all’affidamento ai cit­ta­dini di strut­ture inu­ti­liz­zate (dai tea­tri, alle fab­bri­che, ai cen­tri sociali) per la gestione dei beni comuni. In que­sto caso il red­dito di cit­ta­di­nanza (inteso come ser­vizi, age­vo­la­zioni e gestione degli spazi pub­blici) potrebbe per­sino favo­rire la pro­du­zione di red­dito da lavoro o con­fi­gu­rare un’altra economia.

È que­sta una pro­spet­tiva che stenta a farsi strada e che pure non è assente in alcuni tra i pro­getti sul red­dito (la pro­po­sta ela­bo­rata dal Basic Income Net­work, ripresa in sede par­la­men­tare, alcune leggi regio­nali), per­sino in una riso­lu­zione del Par­la­mento euro­peo del 2010. Per una volta pos­siamo dire: «ce lo chiede l’Europa».

postilla

L'autore scrive: «Due sono le strade per­cor­ri­bili: lo Stato potrebbe assi­cu­rare comun­que un diritto al lavoro, ampliando arti­fi­cial­mente l’offerta, incen­ti­vando - ad esem­pio - i lavori social­mente utili, anche se eco­no­mi­ca­mente non neces­sari. L’altra via è quella di assi­cu­rare comun­que un red­dito di cit­ta­di­nanza anche a chi -e in assenza delle con­di­zioni sociali che lo ren­dono pos­si­bile - non può lavorare». Esiste anche un'altra via: quella cui allude Azzariti quando scrive che pe misure che propone possono addirittura servire a «con­fi­gu­rare un’altra economi
a».
In sostanza, si tratta a mio parere di modificare alle radici l'attuale concezione (e pratica) dell'economia e rendere anche "economicamente" rilevante ciò che lo è "socialmente".
Bisognerebbe "cercare ancora" sulla strada indicata da Claudio Napoleoni. Chi voglia approfondire l'argomento può leggere in eddyburg il testo di Napoleoni, Scienza economica e lavoro dell’uomo nella definizione di Lionel Robbins, e la sintetica ricostruzione del suo pensiero in proposito che ho steso in un capitolo del mio Memorie di un urbanista e ripreso nella relazione introduttiva alla sesta edizione (2009) della Scuola di eddyburg. (e.s.)

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