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«Il grande economista Anthony Atkinson indica "che cosa si può fare". Le risposte arrivano dal passato». Se l'errore del capitalismo è nella sua stessa struttura, come si può uscire dalla crisi che ha prodotto rimanendovi dentro? un tentativo. Il manifesto, 6 gennaio 2016

Come testimoniano le gravi turbolenze che dai mercati azionari asiatici si stanno estendendo a quelli occidentali, l’anno nuovo eredita uno scenario gravido di incognite che i sintomi positivi non bastano a fugare. La decelerazione della Cina (al decimo decremento consecutivo del Pil e in cui si sono accumulate immense bolle nei settori immobiliare, bancario, finanziario) e dei paesi emergenti (con mercati che valgono il 60% del Pil mondiale e che assorbono metà delle esportazioni europee) si sta traducendo in pesante rallentamento dell’incremento del commercio mondiale.

In Europa continua ad aleggiare lo spettro della deflazione e rimane elevato il gap tra i livelli produttivi effettivi e quelli che si sarebbero raggiunti in assenza di crisi. La significativa ripresa che si registra negli Usa non è tuttavia tale da imprimere un netto impulso alle retribuzioni interne, la cui compressione è, invece, alla base di un paradossale incremento dei profitti e dei guadagni dei possessori di azioni, i quali — in mercati azionari mantenuti molto effervescenti dalle politiche monetarie “non convenzionali”, volte a creare liquidità, adottate dalle Banche centrali di tutto il mondo — hanno conosciuto il livello più alto degli ultimi due decenni.

Ma l’indicatore più eloquente della persistente drammaticità della situazione sociale è quello occupazionale: in tutto il mondo l’inoccupazione giovanile e femminile si è allargata paurosamente, la disoccupazione di lunga durata supera l’antecedente storico delle crisi petrolifere degli anni ’70, la precarietà è cresciuta esponenzialmente, in Italia raggiungendo il picco storico del 15%. La questione del lavoro è davvero la linea di faglia su cui tornano a passare discriminanti fondamentali, perché attorno ad essa si configura una vera e propria rottura nelle traiettorie di sviluppo.

In questo contesto opera un nesso strettissimo tra creazione di lavoro e rilancio degli investimenti pubblici diretti (assai più importanti della semplice riduzione delle imposte). Questa è la convinzione del grande economista Anthony Atkinson che, con singolare congiunzione di “spirito di ottimismo” e di determinazione, nel suo recente, bellissimo Diseguaglianza. Che cosa si può fare (Cortina Editore), deplora lo «stato del pensiero economico contemporaneo» tutto concentrato sul mercato del lavoro e assai disattento al mercato dei capitali, denuncia l’insufficienza quando non la fallacia delle misure standard (quali tagli delle tasse, intensificazione della concorrenza, maggiore flessibilità del lavoro, privatizzazioni), invoca «proposte più radicali» (more radical proposals) della semplice insistenza sull’elevamento dell’istruzione della forza lavoro, proposte «che ci richiedono di ripensare aspetti fondamentali delle nostre moderne società, di interrogarci sulla profondità e l’estensione delle nostre ambizioni, di respingere (to cast off) le idee politiche che hanno dominato i decenni più recenti».

Atkinson — padre spirituale di una generazione di ricercatori sulle diseguaglianze, compreso Piketty che, infatti, gli tributa grandi riconoscimenti — prende di petto il problema della diseguaglianza, interrogandosi sull’intreccio tra questioni di eguaglianza e questioni strutturali, tra problemi di redistribuzione e problemi di allocazione. In questo è più avanzato dello stesso Piketty, il quale si concentra su una considerazione delle diseguaglianze come problema prevalentemente distributivo e redistributivo da trattare ex post, non anche problema allocativo da trattare ex ante perché attinente al funzionamento delle strutture, dell’accumulazione, della produzione. Atkinson non nega certo che la redistribuzione sia questione gravissima. Ma ha profonda consapevolezza della strutturalità degli aspetti problematici del capitalismo che essa mette in gioco: ad esempio, posto che la “genialità”, se così vogliamo chiamarla, del neoliberismo è stata di inventare, per sopperire alla caduta del tenore di vita conseguente alla compressione dei salari, un nuovo elemento autonomo di domanda — il consumo finanziato con debito -, oggi il problema cruciale è intervenire politicamente su quell’intreccio tra assetti produttivi, finanza e redistribuzione che ha creato un elemento autonomo di domanda sfociato in sovraconsumo e in alterazione della dinamica dell’investimento a vantaggio della finanza e a svantaggio dell’economia reale. E questo è un problema di allocazione e di struttura.

Con il neoliberismo, dunque, Atkinson si misura fino in fondo. Se le diseguaglianze non sono un destino naturale, se esse sono incapsulate in economie e società «costruite socialmente», sono il frutto di scelte politiche. Per affrontarle con proposte valide per il presente e per il futuro dobbiamo «apprendere dal passato», ponendoci due domande: 1) perché la diseguaglianza è caduta nel secondo dopoguerra in Europa? 2) Perché il trend egualitario è stato rovesciato in uno disegualitario a partire dal 1980?

Le risposte di Atkinson sono nette. I fattori maggiormente esplicativi del periodo di riduzione delle diseguaglianze sono tutti politici: «il welfare state e l’espansione dei trasferimenti pubblici, la crescita della quota dei salari sul valore aggiunto dovuta alla forza dei sindacati, la ridotta concentrazione della ricchezza personale, la contrazione della dispersione salariale come risultato di interventi legislativi dei governi e della contrattazione collettiva sindacale». E altrettanto politiche (anche se di segno opposto) sono «le ragioni che hanno condotto a un termine il processo di equalizzazione, rovesciando nel loro contrario i fattori equalizzanti»: tagli del welfare state, declino della quota dei salari sul valore aggiunto (con una responsabilità specifica dell’incremento della disoccupazione, che dalla fine degli anni ‘70 fu vertiginoso), crescente ampliamento dei differenziali salariali, minore forza sindacale, minore capacità redistributiva del welfare e del sistema di tassazione.

La radicalità dell’analisi conduce Atkinson a un’analoga radicalità delle proposte per combattere le diseguaglianze. Per esempio la proposta che «la direzione del cambiamento tecnologico» sia identificata come impegno intenzionale ed esplicito da parte dell’operatore pubblico, volto ad accrescere l’occupazione, e non a ridurla come avviene con l’automazione, e ad enfatizzare la dimensione umana della fornitura di servizi specie se pubblici, nella convinzione che le scelte delle imprese, degli individui e dei governi possano influenzare l’indirizzo della tecnologia (a sua volta influente sulla distribuzione del reddito). O quella — memore di quando nel 1961 nel Regno Unito vigeva per i giocatori di calcio una retribuzione massima di 20 sterline alla settimana, pari alla retribuzione media nazionale — che le imprese adottino, oltre che un «codice etico», un «codice retributivo» con cui fissare anche tetti massimi alle retribuzioni dei manager pure nel settore privato. O quella di tornare a prendere nuovamente molto sul serio l’obiettivo della piena occupazione — eluso dalla maggior parte dei paesi Ocse dagli anni ’70 — facendo sì che i governi operino come employer of last resort offrendo «lavoro pubblico garantito».

Si tratta di embrioni di un «nuovo modello di sviluppo» che fanno perno sul rilancio del lavoro e della «piena e buona occupazione», non in termini irenici però, o indifferenti alle grandi trasformazioni in corso, ma nella acuta consapevolezza che la loro intrusività — la loro «rivoluzionarietà» — rispetto al funzionamento spontaneo del capitalismo è massima proprio quando il sistema economico non crea naturalmente occupazione e si predispone alla jobless society, lasciare libero spazio alla quale, però, equivarrebbe a non frapporre alcun argine alla catastrofe, anche e soprattutto in termini disegualitali.

Guardando nelle pieghe della vita della città si possono scoprire i germi della città di domani: una citta che sarà migliore per tutti se questi germi non rimarranno solo tali. Comune.info, newsletter, 4 gennaio 2015

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Autorganizzazione, appropriazione dei luoghi e produzione di urbanità»


Le città sembrano essere intensamente attraversate, in questa fase storica, da processi e pratiche di appropriazione e ri-appropriazione dei luoghi, dei propri contesti di vita. Si tratta, in realtà, di esperienze molto diverse tra loro: dagli orti urbani alle forme di autogestione della città informale e autocostruita, dalparkour alle occupazioni a scopo abitativo, dagli spazi verdi autogestiti alle recenti occupazioni dei luoghi di produzione culturale (cinema, teatri, ecc.), dagli usi temporanei di spazi abbandonati all’utilizzazione degli spazi pubblici per attività collettive organizzate, ecc.

In questa varietà di situazioni, emergono alcune motivazioni, a diversi livelli: “di necessità”, di carattere politico e di carattere personale. Queste tre dimensioni sono in realtà inscindibili e si influenzano reciprocamente. Anzi, sono un elemento innovatore: ad esempio, l’azione e il pensiero politici sono ripensati anche in considerazione di una relazionalità profonda e di un rapporto con la vita quotidiana; così come le risposte ai bisogni sociali sono cercate all’interno di idee diverse di città e di pratiche alternative di convivenza.

Il lavoro sul campo evidenzia, però, un’altra motivazione, che emerge non solo nelle persone, ma nei collettivi, spesso nella dimensione sociale della convivenza locale, e cioè un bisogno di urbanità e di qualità di vita urbana. È un bisogno che non risponde soltanto a giuste necessità basilari, ma che si radica anche nel bisogno di una qualità dell’abitare, intesa in termini di possibilità di plasmare e qualificare il luogo in cui si vive, di sentirlo come proprio, di ricostruire un rapporto costruttivo con la città (e non semplicemente di subirlo), di parteciparee di sentirsi corresponsabile delle scelte che riguardano il proprio contesto di vita, di creare condizioni per una socialità reale e profonda, di non subire modelli eterodiretti e condizionati soltanto dalle logiche economiciste dell’interesse e del profitto, di decolonizzare l’immaginario collettivo dai modelli imposti di abitare, di dare valore alla memoria e alla bellezza, di prestare attenzione alle storie degli abitanti e alla dimensione della quotidianità, di dare forma ad una progettualità collettiva. Si tratta di dimensioni che l’attuale sviluppo della città sembra aver cancellato, e su cui converge un’attenzione che travalica le differenze sociali o culturali, perché va a interessare la persona nella sua essenza. E allo stesso tempo, quello dell’urbanità è un bisogno costitutivo dell’idea stessa di appropriazione dei luoghi e di autorganizzazione, che altrimenti non potrebbero sussistere.

Conflitti e territori

Anche la dimensione del conflitto assume caratteri diversi. Sembra assumere forme che non sono più quelle del confronto frontale sulle politiche, sostenuto da una diffusa mobilitazione sociale. Per questo motivo, in alcuni casi il conflitto sembra perdere la sua valenza politica e la sua forza euristica e costruttiva. D’altra parte, questo cambiamento può essere interpretato diversamente, e l’evoluzione del conflitto può anche rappresentare l’affermarsi di modi diversi dell’azione politica e l’esprimersi di energie innovative.

In alcune esperienze si rinuncia ad un conflitto diretto nel senso tradizionale del termine, pur mantenendo ovviamente un clima di conflittualità, per lavorare invece sulla costruzione di un’alternativa che è prima di tutto culturale e poi politica, attraverso la sua sperimentazione diretta nella pratica della propria organizzazione, attraverso la costruzione di relazioni con i propri territori di riferimento o di reti territoriali a livello cittadino e sovralocale, e – in alcuni casi – anche attraverso la ricerca di un riconoscimento istituzionale, preparato tramite un grande lavoro in campo culturale. È su questo terreno, quello dell’elaborazione culturale, ovvero dell’elaborazione di possibili innovative categorie interpretative della politica e delle istituzioni, interpretata in un senso non egemonico, ma inclusivo, che si gioca l’affermazione di un’innovazione e di un’autonomia al di fuori dei tradizionali spazi del conflitto e del confronto politico, ritenuti inadeguati e di fatto colonizzati dalla prevalenza dell’economico sul politico.

Ripensare la politica

Alcune esperienze pongono direttamente ed esplicitamente diversi interrogativi sui modi di produzione della politica e delle istituzioni, inserendosi in un vasto dibattito e diventando spesso protagonisti di una specifica elaborazione culturale. D’altronde anche le esperienze che non lo fanno esplicitamente, di fatto sollevano indirettamente il problema.

In primo luogo, un aspetto caratterizzante è la dimensione dell’azione, l’idea di costruire e realizzare la politica attraverso l’azione e la pratica. La politica si elabora e si rielabora nel farsi dell’azione.

In secondo luogo, sembra rilevante l’obiettivo di ricostruzione di uno ‘spazio pubblico’ (concetto abusato e spesso trasformato in slogan), non più come categoria astratta della modernità e luogo logoro del dibattito politico tradizionale, ma come luogo di produzione della politica che affondi le radici nelle esperienze e nelle domande della quotidianità e della convivenza, e diventi la costruzione libera di idee a partire dal confronto e dalla condivisione sulle situazioni di vita e non da ideologie precostituite. Uno ‘spazio pubblico’ quindi che si radica nelle esigenze e nelle domande delle persone nella vita di ogni giorno, che a quelle cerca risposte, che si confronta con le ragioni dell’altro, dove non è il prevalere di una posizione che importa o interessa ma il percorso del consenso, il processo che porta alla costruzione di una posizione condivisa e che risponde alle esigenze espresse e messe in comune.

In terzo luogo, mirano quindi a spostare i luoghi di produzione della politica e a ripensarne le modalità, rispetto a quelli tradizionali. Queste esperienzesviluppano quindi il tentativo di ricostruire il politico, non più come categoria autonoma con sue regole specifiche, ma come in-between, a partire cioè dal ‘sociale’, come attributo del sociale, del vivere in relazione, in una sua forma che si potrebbe considerare più “basale”.

In conseguenza di questo approccio, ed è questo un quarto punto di particolare attenzione, le esperienze di autorganizzazione pongono il problema delripensamento delle istituzioni.

Questo processo ricostruttivo che riparte dalle persone e dalle narrazioni trova la sua centralità nel territorio, come luogo della vita quotidiana, come luogo della presa diretta con i vissuti, con le esigenze personali che diventano sociali, come luogo della concretezza, dell’empatia e della convivenza. Come già molti hanno affermato, perché la politica recuperi un significato è necessario che riparta dai territori; non come localismo ma come luogo della ricostruzione di senso. Vi è la necessità di un re-incanto della politica. Il ‘territorio’, come proprio ‘contesto di vita’, rappresenta proprio il luogo e il medium di un tale re-incantamento.

«La fotografia di Eurostat. Nei 28 Paesi dell’Unione il 17% degli alloggi è vuoto A Copenaghen i palazzi più vecchi, a Bucarest i più giovani. E il 3% è senza bagni». La Repubblica, 12 dicembre 2015 (m.p.r.)

Londra. L’Europa vive in una casa di proprietà, costruita prima della seconda guerra mondiale, con uno o nessun inquilino dentro e in qualche caso senza gabinetto. È la fotografia, non troppo rassicurante, scattata da Eurostat, l’agenzia di statistiche della Ue, sulle abitazioni nel vecchio continente, basata su un sondaggio del 2011. Un’immagine che non dice necessariamente come” viviamo”, ma illustra “dove” e già questo fornisce dati su cui riflettere. La maggior parte dei cittadini dell’Unione sono proprietari della residenza in cui abitano, e questo è un segnale positivo. Ma molti alloggi sono disabitati, molti europei vivono soli, la maggioranza delle case ha più di settant’anni e forse bisogno di un restauro - per non parlare della necessità dei servizi igienici per la minoranza, esigua ma pur sempre allarmante, che non li ha.

Un’abitazione su sei, in Europa, è disabitata. Il record va al Sud: spesso sono alloggi per le vacanze, dunque “seconde case”. L’emergenza abitativa, verrebbe da dire, si potrebbe risolvere più in fretta se le case non occupate venissero date a chi non ne ha. E in tema di alloggi sfitti l’Italia è sul podio. Secondo gli ultimi dati Istat, basate sul censimento del 2011, le case vuote sono oltre 7 milioni, il 22,7%, con picchi del 40% in Calabria e del 50 in Val d’Aosta. Di queste, più di metà sono case vacanza; le altre (2,7 milioni, stima l’Istituto di statistica) sono semplicemente disabitate.
Complessivamente, lo stivale è diviso a metà tra chi abita in appartamento (il 50%, contro una media europea del 41,1%) e chi ha scelto una soluzione indipendente o semi-indipendente. Ma non mancano le ombre: il 27,3% degli italiani vive in alloggi sovraffollati, e quasi una persona su 10 sperimenta il disagio abitativo.
Guardando ai 28 Paesi dell’Unione, il 70% dei cittadini è proprietario della casa in cui vive, percentuale che sale al 90% o quasi in Romania, Ungheria, Lituania e Slovacchia. L’Italia si colloca poco sopra la media, al 73%. La nazione con più case in affitto è invece la Germania, motore economico della Ue, con il 47 %, seguita dall’Austria (43%). Altro dato illuminante: più di 4 europei su dieci vivono in una casa di proprietà senza mutuo da pagare, cioè l’hanno comprata già tutta (o l’hanno ereditata). Il quinto Paese europeo per numero di case di proprietà è la Gran Bretagna: non a caso qui si dice che «la casa di un inglese è il suo castello».
Altro fenomeno di rilievo: quasi un terzo delle case dell’Unione ha un solo inquilino, una fenomeno che cresce al ritmo del 2% all’anno. La capitale della Norvegia, Oslo, è anche la capitale europea di chi vive solo: il 53% degli abitanti. E in Danimarca la percentuale è appena più bassa, il 47%, per scendere al 40 nel resto della Scandinavia e in Germania. La maggioranza di questi europei che abitano in solitudine sono donne. D’altra parte, Londra è la città europea con più case in coabitazione (per forza, con quello che costano); ed è anche la città dove convivono più coppie dello stesso sesso, il 13 per cento.
Il primato delle case più vecchie spetta a Copenhagen: il 68 per cento è stato costruito prima del 1946. Risale a prima della guerra anche un terzo delle abitazioni in Danimarca, Belgio e Regno Unito, mentre in Irlanda, Grecia, Spagna, Portogallo e Cipro il 43 per cento è stato eretto dopo il 1980. I più nuovi in assoluto sono i sobborghi di Bucarest, dove il 37% degli alloggi è venuto su dopo il 2000. Ma la Romania ha anche un record meno confortante: il 38% delle abitazioni non ha il bagno. E la toilette manca, in tutta la Ue, in 3 case su cento, una minoranza neanche tanto piccola per il mondo del 2015.

Le ragioni di fondo del movimento ecologista e il suo contributo a una nuova cultura della città e della campagna nella premessa al libro di Ilaria Agostini, Il diritto alla campagna. Rinascita rurale e rifondazione urbana . Con postilla

Premessa a Ilaria Agostini, Il diritto alla città. Rinascita rurale e rifondazione urbana, Ediesse, Roma, 2015

Il maggiore contributo del movimento ecologista è stata la messa a fuoco della consapevolezza che non esiste separazione tra mente e corpo, tra esseri umani e natura. L’ecologismo ci ha costretto a riconoscere assonanze e dissonanze delle nostre interazioni con la natura.

Fin dalle sue origini il movimento ecologista ha affrontato la necessità di rafforzare i diritti collettivi sulle risorse naturali. La cancellazione dei diritti collettivi sulle risorse naturali è stata essenziale per rifornire l’industria di materie prime. È stato necessario privatizzare i mezzi di sostentamento delle popolazioni per alimentare la macchina del progresso industriale e dell’accumulazione capitalistica a livello globale.

La globalizzazione si è rivelata, più che interazione tra culture, imposizione di una cultura su tutte le altre, prevalenza della monocultura sulla varietà culturale. E anche prevalenza della cultura meccanicista sulle forme di pensiero che considerano la natura come vita. Per queste, il sacro è visto come presente nella natura e ogni manifestazione naturale è sua espressione diretta. Per le culture meccanicistiche, invece, il sacro è al di fuori della creazione e assume il ruolo di ingegnere supremo. Le prime rispettano la molteplicità e la diversità della natura, e riconoscono che tutte le creature crescono e si sviluppano per propria forza intrinseca. Nel pensiero meccanicista, invece, le forme della natura appaiono come qualcosa di compiuto, come parti intercambiabili di una grande macchina.

La natura diventa una macchina, l’agricoltura industriale perde le connessione con la vita, il territorio e la città diventano il supporto inerte per l’economia finanziarizzata.

La monocoltura della mente riduce le diverse economie a un’economia unica: quella globale del mercato in cui scompaiono le economie naturali o di autosussistenza. L’autosussistenza è vista come una deficienza economica. Il modello di produzione monoculturale svaluta il lavoro delle donne e il lavoro condotto nelle economie parallele al mercato globale. La separazione della produzione dalla riproduzione, la caratterizzazione della prima come economica e della seconda come biologica, è un assunto reputato “naturale”. In realtà è stato costruito ad arte nella sfera sociale e politica.

Il contributo creativo offerto dalle donne, dai contadini e dai nativi, consiste prima di tutto nel rigenerare la vita, e nel conservare le capacità di rigenerarla. Nella visione patriarcale capitalista – che considera l’impegno di donne e contadini come un’attività biologica ripetitiva e priva di pensiero – rigenerare non corrisponde a creare, bensì a ripetere. Ma ciò è falso. E anche l’idea che la creazione si riduca alla novità è falsa, così come essa non è pura replica. La rigenerazione comporta diversità, mentre l’ingegneria genetica produce uniformità. In realtà la rigenerazione si identifica con il modo in cui la diversità è prodotta e rinnovata.

La globalizzazione trasforma la diversità in malattia e carenza, perché non riesce a tenerla sotto controllo. L’omogeneizzazione e le monoculture introducono la violenza a molti livelli. La globalizzazione produce infatti monoculture controllate con la coercizione. La diversità è intimamente legata alla facoltà delle comunità di autorganizzarsi e di evolvere secondo i propri bisogni, competenze, strutture e priorità. Solo le comunità policentriche e autorganizzate, e il controllo democratico locale, possono produrre diversità culturale e biologica.

L’intolleranza nei confronti della diversità ha imposto un ordine violento.

In un mondo caratterizzato naturalmente dalla diversità biologica e antropologica, la globalizzazione si può realizzare solo annullando il carattere variegato delle comunità e la loro capacità di rigenerarsi, di autorganizzarsi e autogovernarsi. Oggi, uno degli slogan dell’ambientalismo di base in India è “Nate na raj”, ossia “le nostre norme nel nostro villaggio”. È la rivendicazione della sovranità locale; le risorse naturali di un villaggio appartengono a quel villaggio. Ma la sovranità locale è messa in pericolo: la recinzione delle terre comuni si intensifica; brevetti sui semi e sulle forme di vita trasformano la proprietà comune biologica in una merce genetica; la privatizzazione dell’acqua rende i fiumi e le acque sotterranee merci da vendere in bottiglie di plastica o attraverso una rete urbana privatizzata.

Con la rottura delle connessioni tra mente e natura, le campagne si desertificano. Oggi almeno la metà della popolazione mondiale vive in città e l’inurbamento è inarrestabile e fuori controllo. Cinque secoli di pensiero coloniale sul suolo extra-europeo come terra nullius, e un centinaio di anni di agricoltura industriale, hanno espulso dalla terra i contadini, che si ammassano negli slums.

L’urbanizzazione divora enormi quantità di energia ed è una delle principali cause dei cambiamenti climatici. È perciò essenziale un cambio di paradigma economico: dall’economia lineare e di rapina, all’economia circolare. Dall’estrazione, alla restituzione.

Il recupero delle terre comuni, dei diritti naturali, dei diritti collettivi sul suolo, è alla base del recupero ecologico, della creazione del benessere economico e della realizzazione di una vera democrazia.

L’esperienza narrata nel libro – la Fierucola del pane – va in questo senso: l’originale e precoce elaborazione e messa in atto di idee ecologiste in un “collettivo” di contadini e cittadini che coltiva la diversità come risposta nonviolenta ai soprusi della globalizzazione, dell’omogeneizzazione e delle monoculture. Stretti in un’alleanza contro gli imperativi del mercato, contadini e cittadini pongono la resistenza nonviolenta (sathyagraha), la sapienza popolare e la rigenerazione (swadeshi) e l’autorganizzazione (swaraj) alla base della produzione del cibo e, in sintesi, degli stili di vita.

Anche questa esperienza ci insegna che è necessario un nuovo patto col pianeta e col suolo. Un patto che riconosca che noi siamo il suolo, che dal suolo proveniamo e traiamo nutrimento.

Questa è la nuova rinascita, è la consapevolezza che il suolo è vivo e che prendersene cura è il lavoro più importante svolto dai contadini. Dalla cura del pianeta, obbiettivo primario, discende il cibo buono. Cibo nutriente da suoli sani. Quando sarà riconosciuto il ruolo fondamentale dei contadini nella salute umana e nella fertilità dei suoli, l’agricoltura cesserà di essere terra di conquista da parte di industrializzazione e urbanizzazione. I contadini, remunerati per il loro ruolo ecologico e sociale, rimarranno sulla terra e non si trasferiranno come profughi nelle aree urbane.

Una riconciliazione tra città e campagna scaturirà dal nuovo patto con il suolo.

postilla

Il testo dell’autorevole esponentedella cultura ecologista internazionale si conclude con una frase che contieneun’affermazione e un auspicio. Non mi sento di accogliere pienamentel’affermazione (forse il “nuovo patto con il suolo” non è l’unico “nuovo patto”che bisogna stabilire) ma condivido pienamente l’auspicio: “una riconciliazionetra città e campagna”.

La città è nata storicamente come opposizione allacampagna. Nei secoli più recenti ha occupato la campagna e la staseppellendo sotto la «repellente crosta di cemento e asfalto» (Cederna). Macontemporaneamente il concetto stesso di città si sta evolvendo. Si è faticosamenteriusciti a comprendere che la città non è solo un insieme di elementi materialiconcentrati in determinate porzioni del territorio ma è un sistema complessonel quale abita un insieme di persone e attività legate da intense relazioni: «lacittà non è un aggregato di case ma è lacasa di una società» (Salzano). Più recentemente abbiamo compreso che lacondizione urbana (ossia la possibilità di godere di tutti i requisiti positiviche l’avventura urbana ha concesso ai suoi fruitori) non deve essere garantitosolo agli abitanti di determinati insiemi di aree caratterizzate dallaprevalenza di trasformazioni profonde e irreversibili del suolo naturale, mache è - deve essere- diritto degli abitanti dell’insieme della superficie dellaTerra. Ecco allora che si è passati dal termine città a quello di «habitatdell’uomo» (Bevilacqua). Ecco allora che, alla condizione urbana bisogna aggiungere un’analoga “condizionerurale”, ossia la garanzia di fruire di tutti gli elementi propri di unmaggiore e più diretto rapporto con la natura, sia quella selvatica che quellaaddomesticata dei paesaggi agrari. Illibro di Ilaria Agostini è una utile raccolta di stimoli e di esperienze offerti achi ritiene che percorrere la strada di una “riconciliazione tra città ecampagna” sia necessario e possibile. È una visione utopistica? Può darsi; non a caso riecheggiaparole d’ordine degli utopisti del XIX secolo. Ma senza sconfinare nell’utopia è difficile immaginare un futurodavvero migliore di quello che ci aspetta se ci abbandoniamo al mainstream, o se ci ubriachiamo nei fumi della nostalgia.

Dov'è il governo pubblico delle trasformazioni della città? Non cercatelo nella pianificazione nel dibattito pubblico, nelle regole uguali per tutti. Contano solo gli interessi immobiliari dell'età della globalizzazione Il Sole 24ore, 26 novembre 2015

Dopo un lungo periodo di incognite finalmente si trova l'accordo per il palazzo del Poligrafico e della Zecca dello Stato di Piazza Verdi a Roma.
Il progetto di farlo diventare un hotel di lusso si concretizza grazie alla firma tra Residenziale Immobiliare 2004 (controllata da Cdp Immobiliare al 75% e partecipata da Finprema del gruppo Fratini con il 25%) e il gruppo cinese Rosewood Hotels and Resorts International Limited (controllato dal gruppo New World China Land quotato ad Hong Kong e che fa capo alla famiglia Cheng) di una lettera di intenti per la futura gestione sia dell'hotel sia delle residenze previste nell'edifico di Piazza Verdi in Roma.
A svettare sul complesso sarà quindi il marchio del gruppo Rosewood (in passato era stato fatto più volte il nome di Four Seasons) che in giro per il mondo vanta hotel del calibro del Carlyle di New York, Las Ventanas al Paraíso a Los Cabos in Messico, il Jumby Bay ad Antigua, ma anche l'Hotel de Crillion a Parigi e così via.
Il progetto di valorizzazione della sede storica del Poligrafico e Zecca dello Stato prevede la realizzazione di un hotel di extra lusso per complessive 200 camere circa, centro congressi, ristoranti, piscina, Spa, oltre a circa 50 residenze private gestite dallo stesso operatore alberghiero. La riqualificazione di questa parte sarà a cura di Rosewood, mentre a Residenziale Immobiliare 2004 restano ulteriori 28mila metri quadrati da sviluppare con residenze di lusso e uffici.
Sul mercato si sono rincorse anche molte voci in passato su una possibile vendita del complesso sul mercato. Il termine dei lavori è previsto per il 2018, mentre tutte le autorizzazioni per procedere sarebbero già a posto.

Nella concentrazione e complessità urbana chi è privo di potere storicamente converge per trasformare la propria debolezza in diritti: oggi le grandi concentrazioni finanziario-immobiliari stanno minando questo vero e proprio pilastro di civiltà. The Guardian, 24 novembre 2015

Sta segnando una svolta per le grandi città, l'acquisizione di immobili urbani da parte di grandi concentrazioni finanziarie nazionali e internazionali iniziata alle prime avvisaglie della crisi nel 2008? Da metà 2013 a metà 2014 questo tipo di acquisizioni ha superato un valore di 600 miliardi di dollari nelle 100 città principali, quasi il doppio un anno dopo, e si calcoli che la cifra comprende soltanto le grandi operazioni (per esempio a New York quelle superiori a 5 milioni di dollari). Vorrei qui discutere alcuni particolari di queste forme emergenti di investimento, e cosa rappresentano. Le città sono da sempre il luogo in cui chi non ha potere va a costruire la storia, la cultura, trasformando la propria assenza di potere in complessità. Se si continua con queste acquisizioni sul larga scala, perderemo del tutto questa caratteristica che ha conferito alle nostre città il loro cosmopolitismo.

Coi ritmi attuali, assistiamo ad una sistematica trasformazione del sistema della proprietà urbana, in grado di alterare lo stesso significato storico delle città. Una trasformazione dai profondi significati democratici, per i diritti e l'eguaglianza. Una città è un sistema complesso ma incompleto: una mescolanza che ha avuto la capacità nella storia e nelle geografie di resistere a fronte di entità assai più possenti organizzate, dalla grande impresa ai governi nazionali. Da Londra, a Pechino, al Cairo, New York, Johannesburg o Bangkok – solo per fare alcuni nomi a caso – tutte sono sopravvissute a tanti dominatori e grandi attività. Sta nel mescolarsi di complessità e non-completezza, il potere di chi non ha potere, la possibilità di affermare: «ci siamo, questa è la nostra città». O per dirla col leggendario slogan delle città sudamericane «Estamos presentes»: non vogliamo soldi, ma solo farvi sapere che questa è la nostra città, anche la nostra città. Chi è senza potere soprattutto nelle città ha lasciato la propria impronta, culturale, economica, sociale: a partire dalla propria zona, ma anche a diffondersi su aree più vaste come accade alla ristorazione «etnica», alla musica, alle cure e via dicendo.

Nulla di tutto ciò potrebbe mai accadere in un quartiere di uffici, indipendentemente dalle densità edilizie: sono spazi privatizzati e controllati, in cui il lavoratore può certo entrare, ma non «fare». E nulla di tutto ciò può avvenire nemmeno in un mondo sempre più militarizzato nei suoi impianti minerari o nelle colture estensive. Solo nelle città esiste la possibilità di trasformare l'assenza di potere in complessità: nessuno può controllare un tale intreccio complesso di persone e relazioni. Chi ha potere non vuole la scocciatura della vicinanza coi poveri, il comportamento standard consiste nel lasciarli al loro destino. In certe città (per esempio negli Usa o in Brasile) c'è una polizia molto violenta, ma questo può anche trasformarsi nel primo passo in un lungo percorso di rivendicazione di alcuni diritti. È nelle città luogo di conflitti, che queste battaglie alla fine sono riuscite. Ma proprio questa possibilità – di fare storia, cultura e tanto altro – oggi viene messa in discussione dalle grandi trasformazioni urbane in corso.

Una nuova fase

Sarebbe facile spiegare l'ascesa degli investimenti nelle città dopo il 2008 come «semplice proseguimento» di qualcosa già in corso da tempo. Dopo tutto anche a fine anni '80 si era assistito a una rapida crescita di acquisizioni nazionali e internazionali di uffici e alberghi, specie a New York e Londra. Nel mio La Città Globale parlavo dei tantissimi fabbricati nella City di Londra di proprietà internazionale proprio in quell'epoca. Finanziarie giapponesi o olandesi che stabilivano una solida base dentro la City per poi entrare nei mercati europei. Ma se guardiamo a quel che accade oggi si notano notevoli differenze, sino a definire una fase totalmente nuova nei caratteri e nel progetto strategico di queste acquisizioni (per inciso non vedrei invece grandi differenze fra investimenti locali e internazionali: in entrambi i casi si tratta di grossissime operazioni, ed è quel che conta). Spiccano quattro caratteristiche:

• La rapida impennata del numero di acquisizioni, anche là dove di investimenti del genere ce ne erano da sempre, specie a New York e Londra. Nel mondo sono un centinaio le città oggetto di queste operazioni: dal 2013 al 2014 crescita del 248% a Amsterdam/Randstadt, del 180% a Madrid e 475% a Nanchino. Mentre il tasso di crescita era relativamente inferiore per le grandi città rispetto alla regione: 68,5% per New York, 37,6% per Londra, 160,8% per Pechino.

• La quantità di nuove realizzazioni. La rapida crescita a fine anni '80 e '90 era degli investimenti su edifici esistenti: i grandi magazzini Harrods a Londra, o Sachs sulla Fifth Avenue, o il Rockefeller Center a New York. Nel periodo dopo il 2008, gran parte delle acquisizioni ha significato demolire e ricostruire con edilizia a maggiori volumi e di lusso, specie appartamenti di lusso.

• L'affermazione del mega-progetto ingombrante che devasta il tessuto urbano: vie e piazze minori, arterie commerciali di negozi e uffici tradizionali, e così via. Il mega-progetto incrementa le densità ma di fatto rende l'ambiente meno urbano, confermando l'idea secondo cui la densità edilizia non è la componente chiave di una città.

• Il pignoramento di immobili acquistati da famiglie a redditi bassi. Ha raggiunto proporzioni catastrofiche negli Usa, dove i dati della Federal Reserve mostrano oltre 14 milioni di casi del genere dal 2006 al 2014. Ciò significa moltissimo suolo urbano non sfruttato, o poco sfruttato, di cui almeno una parte si presta alla «riqualificazione».

Un ulteriore carattere che colpisce, di questo periodo, è l'acquisizione di isolati industriali dismessi o sottoutilizzati, edificati o meno a scopo di trasformazione. Qui le cifre si possono fare davvero elevate. C'è l'esempio Atlantic Yards, una vasta superficie di New York acquistata da una compagnia cinese per cinque miliardi di dollari. Occupata da attività produttive, servizi, quartieri, studi d'arte già espulsi da Manhattan per far posto ad altre trasformazioni. Un tessuto caratteristicamente urbano destinato ad essere spazzato via e sostituito da un formidabile complesso di quattordici torri di lusso, con l'effetto di cancellare ogni carattere di città. Una specie di spazio «gated» che contiene moltissime persone; nulla a che vedere con i densi intrecci che siamo abituati a chiamare «urbani». E si tratta di un genere di trasformazione in corso in tantissime città – spesso con recinti soltanto virtuali, a volte anche fisicamente definiti. E tutti, direi, coi medesimi effetti di de-urbanizzazione.

Dimensioni e tipo degli investimenti si possono ben riassumere nella mole delle spese. Quell'investimento globale di 600 miliardi di dollari da metà 2013 a metà 2014, e di quasi il doppio l'anno successivo, era solo per acquistare immobili esistenti. Ovvero senza le trasformazioni, che sono un'altra partita. La proliferazione del gigantismo urbano nasce e si sviluppa dalle privatizzazioni e deregolamentazione degli anni'90 in tutto il mondo, e da allora prosegue senza particolari discontinuità. Con l'effetto generali di diminuire la quantità di immobili di proprietà pubblica, e di far impennare quelli della grande proprietà privata. Contemporaneamente restringendo e appiattendo quanto accessibile al pubblico. Là dove prima c'era un edificio della pubblica amministrazione che si occupava di varie faccende o di interagire coi cittadini di un quartiere, oggi magari c'è la sede centrale di un'impresa, un complesso ad appartamenti di lusso, un centro commerciale chiuso.

De-urbanizzazione

Uno dei punti di vista privilegiati sulle forme geografiche globali dello sviluppo economico sono i luoghi in cui si genera la ricchezza. Che si sono spostati più verso le aree urbane che l'agricoltura estensiva o le attività estrattive, anche se queste si sono allargate e rese brutalmente efficienti. Questa sorta di riorganizzazione dei processi di acquisizione e controllo degli immobili urbani non riguarda semplicemente certi investimenti ad elevato valore aggiunto, ma anche i terreni dove stanno modeste abitazioni o uffici pubblici. Assistiamo a inspiegabili enormi acquisizioni private di interi settori urbani da alcuni anni. I cui meccanismi di produzione di ricchezza sono assai complessi nonostante la brutalità delle azioni di cui si compongono. Un aspetto chiave è il passaggio da una proprietà piccola frammentata a grandi concentrazioni, e dal pubblico al privato. Avviene poco alla volta, per parti grandi o meno grandi, e per molti versi si tratta di pratiche correnti del mercato urbano e relative trasformazioni. Quello che cambia oggi è la dimensione dei processi, sino ad alterare lo stesso significato storico delle città. Ciò che era piccolo e/o pubblico diventa grande e privato. La tendenza è passare da piccoli lotti intersecati da vie e piccoli slarghi, verso trasformazioni che cancellano il tessuto, di dimensioni gigantesche. Si privatizza, si de-urbanizza la città pur aggiungendo densità edilizia.

Le grandi città sono complesse e incompiute, ciò ha storicamente consentito di accogliere diversità personali, culturali, politiche.La città mescola, è una frontiera dove attori di provenienze diverse si possono incontrare secondo regole non prestabilite, dove si incrociano anche quelli dotati di potere con chi di potere non ne ha affatto. Ciò le rende anche spazio dell'innovazione, importante o meno importante, specie da parte di chi non ha potere: anche se il potere poi non lo acquisisce produce parti componenti della città, lascia una eredità che arricchisce il cosmopolitismo, in modi impossibili altrove. L'ambiente urbano complesso e incompiuto dà forma a soggetti e soggettività, supera alcune differenze religiose, etniche, razziali, di classe.

Esistono momenti nella vita di una città in cui tutto dipende dall'urbano, spazio e tempo, come nell'ora di punta. Mentre oggi le città globali invece di accogliere genti da diverse culture e provenienze, respingono la diversità. I nuovi padroni, spesso residenti solo a tempo parziale, sono di certo internazionali: ma ciò non vuol dire che rappresentino culture e tradizioni diverse. Rappresentano invece la nuova cultura globalizzata di chi ce l'ha fatta: sono assurdamente omogenei, senza alcuna differenza rispetto al luogo di nascita o lingua. Non è il genere di contesto urbano prodotto storicamente dalle grandi città miste: è una corporation globale.

Gran parte delle trasformazioni significano inevitabilmente espulsione di ciò che c'era prima. Sin dalle più lontane origini, che siano tremila o cento anni fa, le città hanno continuato a reinventarsi, si sono alternati sempre vincitori e vinti. Le storie urbane traboccano dei racconti di persone povere magari relativamente emarginate, ceti subalterni che progrediscono, le città da sempre ospitano grande varietà. Con le grandi acquisizioni odierne si azzera ogni dinamica, nulla si aggiunge in termini di diversità e mescolanza. Viene invece innestato qualcosa di totalmente nuovo, in forma di monotone serie di torri di lusso. Si può anche dire che si innesta una logica tutta sua, irriducibile a diventare parte della città. Resta totalmente autonoma, ci gira del tutto le spalle: e non è molto bello.

Titolo originale: Who owns our cities – and why this urban takeover should concern us all – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Il nostro futuro è già lì, ed è peggio del presente raccontato da James Ballard. «John Banville recensisce il nuovo romanzo di Joseph O’Neill ambientato negli Emirati Arabi fra grottesche pacchianerie e trappole finanziarie». La Repubblica, 28 ottobre 2015

Joseph O’Neill, L’uomo di Dubai (Codice, trad. di T. Pincio pagg. 288, euro 18,90)

L’ossessione degli anni ‘50 per la fantascienza, alimentata dalla paranoia da guerra fredda, il terrore della bomba e il sogno di un mondo nuovo, sgargiante, pulito e senza limiti, produsse una serie di riviste meravigliosamente strampalate. I racconti che c’erano dentro erano quasi sempre trascurabili (o forse eravamo troppo giovani per apprezzarli?), ma chi può dimenticare le illustrazioni in copertina, che raffiguravano le città fantastiche di un futuro lontano, con grattacieli alti un chilometro e mezzo, viadotti che si libravano tra le nuvole, automobili volanti e treni che solcavano i cieli. Oggi, vedendo le fotografie di Dubai, noi della vecchia generazione ci stropicciamo gli occhi per essere sicuri di non sognare. In questa città nel deserto, il futuro, che ai tempi della nostra gioventù sembrava impossibilmente lontano, o semplicemente impossibile, è già arrivato: ed è un futuro (chi lo avrebbe immaginato?) grottescamente pacchiano.

Joseph O’Neill, per un lampo di ispirazione, ha ambientato il suo nuovo romanzo, L’uomo di Dubai , a Dubai, appunto. I libri per cui è più famoso, il pluripremiato La città invincibile e quello precedente Blood-Dark Track , sono incentrati sui luoghi e l’assenza di luogo. Niente di strano, considerando che le sue origini, come Blood-Dark Track illustra doviziosamente, sono un groviglio inestricabile: uno dei suoi nonni era un uomo d’affari turco un po’ losco, l’altro era un nazionalista irlandese e militante dell’Ira.

O’Neill è nato a Cork, ma da bambino ha vissuto con i suoi genitori in tanti Paesi diversi, fra cui il Mozambico, la Turchia, l’Iran, e da quando aveva sei anni in Olanda, dove ha frequentato scuole francesi e inglesi. Poi ha studiato legge al Girton College di Cambridge e per dieci anni ha fatto l’avvocato a Londra, prima di trasferirsi a New York e stabilirsi lì, nel 1998.

L’anonimo avvocato svizzero- americano originario di Zurigo che fa da narratore in L’uomo di Dubai (è lui The Dog del titolo inglese), ha un nome che inizia per X, e per comodità lo chiameremo così. Ha lasciato New York e si è stabilito, se stabilito è la parola giusta, fra le discutibili meraviglie di Dubai, dopo la fine disastrosa e umiliante di una storia di nove anni con Jenn, anche lei avvocatessa esperta di diritto societario. Uno dei problemi insolubili della coppia, anche se non esplicitamente dichiarato, è che fra i due Jenn è quella che ha più successo sul lavoro, e di sicuro è più determinata, per non dire spietata. In realtà la sua durezza Jenn la espleta non soltanto nella vita professionale, ma anche nei rapporti con il nostro sventurato eroe. Quando la loro storia finisce, dopo che X decide, in stile Bartleby, che donare un campione di sperma non fa per lui (una splendida scena comica a cui O’Neill avrebbe potuto dare maggior rilievo), lei svuota il loro conto, lasciandolo senza un soldo.

Per sua fortuna, almeno in apparenza, X incappa in un vecchio amico dei tempi in cui era studente in Irlanda, tale Eddie Batros, rampollo di una ricchissima famiglia libanese; questo Eddie poco dopo gli offre un lavoro come «amministratore fiduciario della famiglia Batros». Per svolgere questo lavoro X deve trasferirsi a Dubai.

O’Neill tira fuori una cosa che assomiglia molto, anche in questa fase prematura della sua esistenza, a un capolavoro di comicità. Lo stile che ha congegnato per il suo racconto semidistopico è uno splendido amalgama fra il demotico e il leccatino. Si avvertono echi di Ballard e Martin Amis (che bieco divertimento avrebbe Amis a Dubai!), di Bellow e Nabokov, di Woody Allen e Don DeLillo, e di Philip Roth quando era comico, di Wittgenstein – sì, Wittgenstein – e di William Butler Yeats.

O’Neill è uno di quei rari scrittori che non si lasciano innervosire dalla ricchezza e dalle infinite potenzialità del linguaggio letterario. Qui ci sono frasi di tale tortuosa complessità, anima di versioni degne del Proust più verboso, che a due terzi del cammino la mente dà forfait: ma la pancia ride. L’uomo di Dubai è causticamente spiritoso come il miglior cabaret. È anche beatamente disinteressato alla trama (la vita ha forse una trama?), come in una delle immense opere dell’ultimo Henry James.

La cosa divertente (amaramente divertente) è che Dubai, come il resto del mondo, dopo il Grande Crac del 2008 aveva frenato di brutto, e forse sarebbe sprofondata senza lasciar traccia nelle sabbie dell’Arabia se i suoi vicini degli Emirati Arabi Uniti, meno smodati e più ricchi, non avessero messo mano alla loro larga dotazione di petrodollari per salvarla dai suoi stessi eccessi. X, però, è fedele al suo luogo di rifugio, che si rivelerà, anche se lui non lo sa, fin troppo temporaneo. «Non mi schiero con i denigratori», dichiara.

Questo non gli impedisce di vedere la sconfortante iperbolicità del luogo: «La missione non dichiarata di Dubai è rendersi indistinguibile dal suo aeroporto». O’Neill si trastulla largamente con le peculiarità delle usanze e costumanze locali. Alla fine X finirà dritto in una, o anche più d’una, trappola legale, quando la famiglia Batros sarà sorpresa con le mani nel sacco e lui sarà il capro espiatorio.

L’uomo di Dubai, come scopriamo pian piano, è una sorta di trappola per gli sprovveduti. In superficie sembra una commedia, brillantemente lavorata ma ordinaria, sulla mascolinità post-femminista, dove un homme moyen sensuel , inoffensivo, benintenzionato ma impacciato, più Candido che Caligola, va a cozzare con i costumi, o la mancanza di costumi, dei tempi moderni.

Ma la superficie nasconde oscure profondità. Nelle pagine di apertura del libro, X racconta delle sue visite (alla disperata ricerca di qualcuno che gli spieghi perché è Jenn a sentirsi umiliata dalla fine della loro relazione) a siti «dedicati ai progressi moderni della psicologia» e in particolare forum dove giungere alla saggezza attraverso le esperienze condivise di altri. Ma quello che trova è una Babele infuocata di accuse, recriminazioni e veri e propri abusi, che, confessa, fa paura a guardarla.

Il mondo, insomma, si è trasformato in un’enorme Dubai, una città di false meraviglie al largo di un mare di sabbia, dove il sogno della vita moderna si è trasformato in un incubo futuristico in cui tutto è più grande, più alto, più largo, più profondo, più ricco di tutto il resto in tutti gli altri posti, un luogo la cui «assenza di passato rappresenta una grande opportunità per raccontare storie», come dice Ted Wilson, studioso di storia convertito in pierre. X – che alla fine si accorgerà di non avere nessuna storia da raccontare che valga la pena di essere ascoltata, o che convinca chicchessia che lui è autentico, che lui vale – è sconvolto dalla piega che hanno preso le cose. Contemplando la natura essenzialmente sintetica della città in cui si trova esiliato, rimane meravigliato e sgomento dalla proprio ingenuità.

La legislazione urbana si è molto ampliata negli ultimi dieci anni, mentre lo spazio pubblico diminuisce e i nostri diritti sulla città si sono ridotti. Molte ordinanze limitano la libertà di circolazione o proibiscono pratiche secolari. Eppure la costruzione di un quadro legale può essere una maniera diversa di occupare la città, un gesto di creatività politica piuttosto audace. Comune-Info, 2 ottobre 2015

Negli ultimi anni cittadini e abitanti dei quartieri hanno occupato lo spazio pubblico urbano, riformulando in questo processo la nostra maniera di prendere parte alla città. Da una parte all’altra proliferano orti che rinverdiscono terreni sterili, progetti di vicinato che liberano edifici abbandonati e iniziative che arredano vuoti urbani. Di fronte alla città ufficiale e statica, l’iniziativa del vicinato reinventa la nostra relazione con l’urbe, e allo stesso tempo mette in pratica una politica diversa.

Ciò accade in modi diversi in città come Malaga, Barcellona, Bilbao e Madrid, tra le altre. Qui faccio riferimento solo a quest’ultima, poiché conosco le sue esperienze in maniera diretta. Le iniziative che si sono sforzate per condizionare materialmente i nuovi edifici della città si stanno ora concentrando sugli aspetti legali. Una rete emergente di spazi madrileni si sta affannando da mesi per disegnare un quadro comune che dia sostegno alla cessione di spazi e che offra sicurezza legale ai progetti di vicinato che in essi si sviluppano.

Ridisegnare la città intervenendo nel suo spazio legale ha un precedente eccezionale nella “okupación”, dove la trasgressione della legge ha permesso di evidenziare gli abusi della speculazione immobiliare. La costruzione di un quadro legale per la cessione di spazi è una maniera diversa di occupare la città, riabilitando la sua architettura legale: si tratta di esercizi che disegnano sfumature diverse del pubblico, intervenendo sugli spazi normativi. La discussione legale potrebbe sembrare un tema minore, ma è invece un gesto di creatività politica piuttosto audace nella città.

Un precedente importante che ci ha mostrato come hackerare la legge permetta la costruzione di nuove condizioni per la collaborazione, è quello del software libero, una delle eccezionali tecnologie di internet che dà corpo ad alcune delle sue strutture chiave. Una delle invenzioni più sofisticate del software libero è stata lo sviluppo di un’infrastruttura legale che ha invertito il regime convenzionale della proprietà intellettuale. Attraverso un sistema di licenze, il software libero risponde alla logica escludente dei diritti d’autore, dispiegando un impulso includente che espande le possibilità dell’invenzione tecnologica e della creatività organizzativa.

La legislazione urbana è cresciuta durante gli ultimi dieci anni, mentre i nostri diritti sulla città si sono parallelamente ridotti. Il processo di atrofia regolatrice è simile a ciò che è accaduto nel copyright, con il suo l’ampliamento eccessivo che limita la creatività cittadina a favore dell’iniziativa d’impresa e insiste sul diritto d’autore. Tradotto nell’ambito della città, ci troviamo di fronte a ordinanze che proibiscono pratiche secolari come mettere una sedia per strada, norme che proibiscono di giocare in piazza e leggi che limitano la libertà di circolazione. Lo spazio pubblico urbano rimpicciolisce, mentre la legge si ingrandisce.

Alla maniera del software libero, forse la forma di espandere la città è quella di intervenire sulle condizioni legali dello spazio pubblico, invertire e capovolgere la logica della riduzione legale per espandere nuove condizioni dell’urbano. Da anni i governi municipali di tutti il mondo sono coscienti della loro incapacità di rispondere alla complessità crescente delle città. Il tropo della partecipazione è un riconoscimento della necessità di aprire il disegno e la progettazione della città alla partecipazione dei suoi abitanti. Ma a differenza di altre forme convenzionali, dove la partecipazione ai temi cittadini si veicola attraverso la consultazione o la richiesta diretta, gli spazi cittadini costituiscono luoghi dove la partecipazione si reinventa, un’altra politica prende forma e il diritto alla città si equipaggia con nuove infrastrutture. Attraverso altri modi di abitare l’urbano questi esercizi di creatività cittadina sperimentano nuove forme di governo della città. Gli interventi sullo spazio urbano stanno reinventando le forme di organizzazione vicinale, sperimentando altri modi di interloquire con l’amministrazione ed esplorando i limiti della proprietà pubblica.

Viviamo in città sempre più complesse che ci richiedono un enorme esercizio di re-immaginazione per poterle governare in un modo equo ed espandere le possibilità di abitarle. Questi piccoli spazi dove si espande la creatività cittadina contengono dentro di essi la forma di una città diversa: sono la sineddoche di un nuovo governo urbano. In gran parte sono iniziative che condividono sensibilità urbana e aspirazioni politiche con alcuni dei governi municipali sorti nelle ultime elezioni. Per questi governi municipali, così come per altri, la sfida è quella di essere capaci di sostenere gli spazi che ci permettono di immaginare in modo singolare una città diversa. La partecipazione non dipende dall’invito ufficiale, è l’effetto dell’invenzione cittadina. Confidiamo che i nuovi governi municipali siano all’altezza dei tempi che corrono e degli spazi che si dispiegano.

Fonte: Diagonal Periodico Traduzione: Michela Giovannini

La solita prospettiva pur affascinante ma tutta centrata su architetture e stili di vita, forse manca di cogliere il nocciolo ambientale ed economico della sostenibilità urbana e di un diverso equilibrio fra natura e artificio. La Repubblica, 17 agosto 2015, postilla (f.b.)

Un'esplosione di verde. Un paradiso terrestre moderno e tecnologico. Una metropoli punteggiata dalla natura, con torri vegetali che svettano verso l’alto, fasci di edere e rampicanti che scendono a cascata dai tetti. Un corridoio ecologico di 23 torrette foto-catalitiche. Un parco naturale realizzato in spirali ascendenti e ricoperto da alghe. Torri termodinamiche con balconi che ospitano gli orti urbani.

La “Ville des lumières” riprogetta se stessa. Angosciata da un inquinamento sempre sottovalutato, Parigi si proietta nel futuro e si candida ad essere la “Smart city mondiale” del 2050. Si è candidata all’Unesco come patrimonio dell’umanità. Avviato nel giugno del 2014, il progetto è stato affidato all’architetto belga Vincent Callebaut e allo studio d’ingegneria Setec. L’idea parte dall’obiettivo di ridurre del 75% le emissioni dei gas entro 35 anni.

Il verde è quindi il cuore della pianificazione che vedrà punteggiare di natura tutti i 20 arrondissement di Parigi. Su 40 mila interpellati, ben 20 mila si sono detti pronti a collaborare con idee e suggerimenti. Il sindaco di Parigi, Anne Hidalgo, ha creato un’applicazione con la quale chiunque può spedire via web una segnalazione di arredo, la proposta di restauro di una facciata, la creazione di uno spazio verde che renda più accogliente il quartiere, il condominio, uno scorcio annacquato dal grigio e dal cemento.

Se si naviga sul sito del progetto, messo in rete dal Comune, sembra di attraversare la città di Pandora, quella del film “Avatar” di James Cameron. I plastici disegnano palazzi ornati da cascate di verde che scendono dai tetti; edere che avvolgono cornicioni e balconi; aiuole e prati che separano strade; ciuffi di bambù e boschetti di alberi e piante che in modo armonico dividono le vie dalle piazze. La Torre Montparnasse, l’unica che svetta in una città risparmiata da grattacieli, è stata lo spunto di una rivoluzione urbanistica. Costruita nel giugno del 1940, ha sempre rappresentato il cuore del fermento culturale. Le trasformazioni degli anni 70 l’hanno confinata nel degrado. «Il quartiere», sostenne un anno fa Jean-Louis Missika, vicesindaco e incaricato all’urbanistica, «è spento. Va ripensato e rilanciato».

La torre diventa così l’“Atelier di Montparnasse”: un laboratorio di progettazione architettonica al quale aderiscono i sindaci delle circoscrizioni. Il dibattito ruota attorno a tre programmi di riabilitazione: spazi verdi sui tetti dei parcheggi, grandi aiuole e prati negli incroci, punti ecologici che dividono i boulevard. Il piano non si limita a un accurato make-up. Con il verde si punta a energie alternative: da quella positiva (Bepos) da ricavare negli immobili di grande altezza, fino all’idroelettrica prodotta dai circuiti delle acque.

Non si tratta di filosofia urbanistica. Il piano è già operativo. Assieme al grande progetto è scattato quello destinato a tutta la popolazione: «Il verde fai da te». Su 1200 proposte 250 sono state selezionate e finanziate. Entro un mese, gli ideatori riceveranno a casa un kit di giardinaggio con terra vegetale e semi da piantare. La parola d’ordine è “vegetalizzare”. La Parigi del futuro conserverà l’assetto lineare voluto dal barone Haussmann. Assieme ai simboli religiosi e laici della Francia moderna: tra le torri ecologiche spiccheranno sempre le Sacre Coeur e la Tour Eiffel. La storia non si cancella ma le città cambiano: invece del grigio dominerà il verde.

Alessandra Baduel, «Buona idea ma i costi la renderanno irrealizzabile» (intervista all'architetto del verde Paolo Pejrone)

Beati loro che possono pensare a questo, diventare primi al mondo nella costruzione del verde pubblico. Però sarà di certo costoso e non credo tanto rapido come i francesi si propongono». L’architetto di giardini e progettista paesaggistico Paolo Pejrone commenta così la novità di Parigi.

Architetto, Parigi dedita al verde con emissioni ridotte del 75% entro il 2050. Le sembra possibile?
«Parigi è sempre stata un luogo di sperimentazione sul verde, fin da Napoleone III e a cominciare dal suo dono alla città del Bois de Boulogne, primo parco pubblico francese. Non mi stupisco affatto. Ma credo che si tratti anche di un progetto che avrà i suoi costi» .

Si va dai tetti verdi ai balconi coltivati.
«Parigi ama stupire, gli inglesi hanno giardini e parchi bellissimi fatti in maniera più pacata. In ogni caso, ben venga che la città diventi un territorio di sperimentazione verde sotto gli occhi del mondo. La cosa che mi piace di più è l’idea dei boschetti fra le vie. Non credo affatto nel verde verticale, invece: non è né facile, né sostenibile. La verticalità è innaturale e rende le piante totalmente dipendenti dall’uomo, bisognose quindi non di una normale cura, ma di giardinieri molto esperti».

I costi prevedibili?«Sono enormi. Per l’acqua e per le cure. Ma soprattutto trovo sbagliato immaginare uno sviluppo così poco spontaneo per le piante: ci si avvicina al mondo dei bonsai, con radici e teste degli alberi tagliate, ovvero a un certo culto della sofferenza » .

E gli orti sui balconi?«Una buona idea, ma solo se davvero ben tenuti. E’ tutto molto bello, innovativo, ma come sempre poi la realizzazione dipende solo da una cosa: la passione delle persone».

postilla
Come spesso accade in certe descrizioni della metropoli futura, si colgono elementi superficiali di indubbia attrattività, senza però chiedersi «cosa ci sta sotto» davvero. E qui le risposte sono almeno due, non necessariamente in contraddizione: ci sta sotto solo un po' di interesse professionale e immobiliare, se diamo retta a questa visione tutta di progetti singoli, cascate di verzura, terrazze e tetti verdi al posto delle coperture tradizionali; oppure ci sta sotto il tema della sostenibilità interpretato in senso proprio, da una amministrazione che ha scelto di declinare seriamente, e strategicamente, un paio di concetti, ovvero le «infrastrutture verdi» e i dibattuti «servizi dell'ecosistema». Tutte queste bellissime emergenze di verzura soprattutto privata, altro non solo che i terminali capillari di un ben più vasto sistema che da un lato collega la città alla campagna senza soluzioni di continuità (una sorta di rete ecologica continua in senso proprio), dall'altro viene usata in alternativa ad altre «infrastrutture grigie» tradizionali per scopi di depurazione dell'aria, dell'acqua, e per altre funzioni come la mobilità dolce o l'agricoltura urbana. E, inquadrato in questo modo il problema, saltano anche tutte le obiezioni del paesaggista che ci trova una incongruenza economica, nella «Parigi Verde»: se sappiamo leggere l'economia alla scala adeguata, tutto si tiene molto bene, se invece caschiamo nel solito equivoco dei boschi verticali molto carini ma nulla più che giocattoli per chi se li può permettere, non cogliamo il punto. Infrastrutture verdi vuol dire proprio infrastrutture, cose indispensabili, solo che stavolta costano meno e impattano molto meno. A Parigi l'hanno capito (f.b.)

La questione dei grandi sistemi insediativi, di riconoscerne l’esistenza in quanto tali e poi eventualmente di programmarne lo sviluppo, è vecchia quanto l’uomo. Ma anche il vizio di confondere un po’ i termini. La Repubblica, 27 luglio 2015, postilla (f.b.)

La Cina vuole donare al mondo la nuova capitale del futuro. Sarà la megalopoli più vasta e popolata della storia e anche il suo nome sembra studiato su un pianeta alieno, dove è vietato perdere tempo: “JJJ”, ossia “Jing-Jin-Ji”, da pronunciare “tre gi”, o “gei-gei-gei”. Già la sigla rivela un progetto colossale: fondere Pechino (Beijing), con il porto di Tianjin e con l’intera regione dell’Hebei, che i cinesi chiamano rapidamente «Ji». Le dimensioni appaiono oggi disumane: oltre 100 mila chilometri quadrati e 130 milioni di abitanti. Per capire: la capitale cinese conta oggi 21,5 milioni di persone, New Delhi 14, Tokyo 13,3, Città del Messico 9,1, New York 8,4, Londra 8,3. La nuova mega- city globale avrà un po’ meno di un terzo degli abitanti degli Usa, quasi quanti l’intera popolazione russa, oltre il doppio di quelli in Italia. Roma ha 2,6 milioni di residenti, Milano 1,5: non rappresenteranno nemmeno un quartiere della metropoli con cui il presidente Xi Jinping è deciso a sconvolgere il profilo di quella che punta a diventare la prima super- potenza del secolo.

Pure l’obiettivo tradisce un’ambizione senza precedenti: creare un nuovo concetto di urbanizzazione, per chiudere l’era delle città industriali dell’Occidente, nate nell’Ottocento, e aprire quella delle regioni hi-tech, che segneranno il Duemila dell’Oriente. La spaventosa “Big-Bei”, appellativo con cui la propaganda di Stato cerca già di rendere simpatica la prossima capitale tra i cinesi, è investita della missione di dominare il pianeta, ma prima di salvare la Cina socialista, costretta a convertirsi realmente alle leggi del libero mercato. Pechino ha il problema di essere un innesto incompiuto e arretrato: la metropoli del potere maoista è cresciuta sulle rovine di quella imperiale, lo stile è quello squallido sovietico, la qualità della vita prossima allo zero, i residenti sempre più vecchi. L’antica bellezza di pietra è soffocata dai palazzoni di cemento, bunker del partito-Stato e delle sue “industrie del popolo”. Traffico, congestione e smog sono un incubo che gli stessi cinesi, dopo gli occidentali, si sono rassegnati a definire «condizioni inadatte alla vita umana».

Il “nuovo Mao”, deciso a non farsi schiacciare nella funzione burocratica del moralizzatore anti-corruzione, così ha deciso: il mondo ha bisogno di una capitale-simbolo del futuro, la Cina di una giovane metropoli- immagine del cambiamento e questa vetrina globale del “sogno cinese” sarà Pechino, rifondata come “JJJ”. La leva della rivoluzione, oltre agli affari, è la tecnologia. Per connettere una città-regione vasta come un terzo dell’Italia, entro dieci anni verranno ultimate decine di linee ferroviarie ad alta velocità, di autostrade, di canali fluviali e di ponti, di metropolitane, di aeroporti e di tunnel. L’attuale Pechino, ricostruita nei villaggi imperiali rasi al suolo dalle Guardie rosse, resterà uno spot di storia, arte e ambiente, consacrato al business del commercio e del turismo internazionale. La nuova metropoli, estesa tra il mare di Tianjin, le montagne che confinano con la Mongolia e le pianure dello Yangtze che conducono verso Shanghai, inghiottirà centinaia di villaggi rurali e di città di seconda fascia, trasformate in dormitori, distretti industriali, poli della ricerca e del potere, tutti satelliti del pianeta principale.

Già oggi è in parte così. Più del 60% dei pechinesi abita al di là del quinto anello delle circonvallazioni, muro ufficiale che divide il centro dalla periferia. Per questa massa di persone, costituita da 8,1 milioni di migranti interni, la vita quotidiana è un calvario. I vecchi si alzano all’alba e raggiungono le stazioni dei bus prima delle cinque, per fare la coda al posto dei figli che lavorano in città. Questi arrivano alle sei e grazie al sacrificio dei genitori pensionati possono sperare di raggiungere l’ufficio, o la fabbrica, dopo tre ore di viaggio. Il tragitto medio del pendolare metropolitano tocca in 50 chilometri, per coprire i quali si impiegano anche cinque ore, condanna da scontare due volte al giorno.

L’onnipotente Commissione per lo sviluppo e per la riforma (NDRC), ha ora annunciato che grazie all’alta velocità i futuri abitanti di “JJJ” non dovranno perdere oltre un’ora al giorno sui mezzi di trasporto, percorrendo al massimo 100 chilometri. Il segreto, secolare eredità nazionale, è la pianificazione forzata. Ad ogni area metropolitana il governo assegnerà un compito preciso: l’attuale Pechino punterà su cultura e terziario hi-tech, Tianjin su ricerca, distribuzione ed energia, l’Hebei sulla manifattura delle piccole e medie imprese. Anche i sobborghi riceveranno l’ordine di una vocazione. Il quartiere-fantasma di Tongzhou, una spianata con centinaia di prefabbricati tutti uguali alti venticinque piani, sarà trasformato nella nuova cittadella del potere rosso.

Dopo oltre mille anni il cuore dell’impero traslocherà dalla Città Proibita, affacciata su piazza Tiananmen, alla periferia nord, su cui sorgerà pure un secondo aeroporto, subito candidato ad essere «il più trafficato del pianeta». A Tongzhou verranno trasferiti i ministeri, il cosiddetto parlamento, la sconfinata burocrazia cinese, i colossi dell’economia di Stato, ma pure gli ospedali, le università, i tribunali e le caserme dell’armata di liberazione. L’obiettivo dichiarato è alleggerire il centro dal traffico e dall’inquinamento più terrorizzanti dell’Asia. Quello taciuto è circoscrivere la roccaforte del potere comunista, per renderla più controllabile, interconnessa e difendibile. Treni- missile e metrò, grazie a convogli da oltre 300 chilometri all’ora, faranno sì che entro il 2025 trasferimenti che oggi impegnano tre ore vengano ridotti a non più di 40 minuti.

Riordinare la Cina in un’unica megalopoli verde e hi-tech, con Pechino centro del Nord, Shanghai del Centro e Guangzhou del Sud, è la missione a cui la nuova generazione dei leader affida non solo il destino delle riforme economiche, ma anche la sopravvivenza dei cinesi e quella del partito. Una super-città da 130 milioni di abitanti, fondata su treni, auto elettriche, energie verdi e colletti bianchi, rappresenta una sfida titanica per i servizi, dall’acqua al cibo, dall’istruzione ai rifiuti. L’urto del boom immobiliare sfonda però anche i limiti conosciuti della convivenza sociale, mescolando un decimo della popolazione nazionale. «La mobilità veloce — dice Dong Zuoji, direttore dell’ufficio centrale di pianificazione territoriale — rivoluziona gli spazi politici, economici e vitali: ma prima di tutto apre prospettive inimmaginabili al sistema adottato dall’umanità per distribuirsi sulla terra. Il fenomeno dell’immigrazione ad esempio, presto sarà superato».

Per bruciare le tappe “JJJ” punta ancora una volta sulle Olimpiadi. Il 31 luglio il Cio assegnerà i Giochi invernali 2022 e Pechino contende alla kazakha Almaty l’opportunità di diventare la prima località al mondo ad aver ospitato le gare olimpiche sia estive (2008) che bianche. Il punto forte della candidatura cinese, oltre al low cost e agli sponsor, è proprio l’eco-compatibilità e la connessione rapida con i campi di gara, sulle montagne di Zhangjiakou, vicino alla Grande Muraglia. Da mesi, per vincere la sfida del cielo blu, le autorità hanno fermato fabbriche, centrali a carbone e traffico. Milioni di migranti, grazie a un sistema a punti, sperano di strappare i diritti di cittadinanza nella capitale, miraggio rurale dai tempi di Mao.

Se tra dieci giorni Pechino coronerà il secondo sogno olimpico in un quindicennio, il segnale sarà inequivocabile per tutti: il conto alla rovescia della megalopoli-Paese del futuro è cominciato, il mondo ha trovato la sua prossima capitale.

postilla
In fondo la verità pura e semplice ce la racconta nei fatti anche l’articolo: centomila chilometri quadrati sono un terzo del totale della superficie italiana, e anche quei 130 milioni di abitanti (specie se non si concede troppo al caso o allo sprawl «di mercato») organizzati per nuclei di grandi e medie dimensioni ci stanno relativamente comodi, lasciando spazio a ottime e pure visivamente abbastanza «a perdita d’occhio» distese verdi. Insomma l’idea originaria e autentica di megalopoli, complice l’urbanizzazione planetaria e i problemi creati dalla crescita a casaccio, pare stia iniziando a uscire dal cosiddetto «libro dei sogni», così come si chiamava da noi in Italia con linguaggio sprezzante esattamente qualcosa del genere, circa mezzo secolo fa. Sarebbe ora che qualcuno, come auspicano ogni tanto geografi o urbanisti in qualche estemporanea intervista sulla vita e dintorni, si accorgesse che nominarla, la megalopoli, non significa fare paura ai bambini, ma iniziare a riconoscere il problema, e magari affrontarlo per tempo coi criteri adeguati. Invece a volte dobbiamo sorbirci sequele di sciocchezze, come quelle pubblicate tempo fa da un noto architetto e ascoltato maître à penser locale, riportate nello Stupidario (f.b.)

La strage del parcheggio in provincia di Caserta evoca questioni di convivenza urbana e spunti letterari di tutto rispetto: ma noi siamo sufficientemente urbani per cogliere il punto? Non si tratta invece dell'eterna questione degli equilibri fra pubblico e privato, nello spazio e nei comportamenti? Corriere della Sera, 13 luglio 2015, postilla (f.b.)

È un movente banale, esattamente come quello di Trentola Ducenta, che scatena uno dei noir fantascientifici condominiali più feroci della letteratura: Il condominio , scritto da James G. Ballard nel 1975, prefigura tanti e tanti casi di cronaca non solo metropolitana. Il movente? Una serie di blackout che colpiscono un gigantesco, elegante grattacielo londinese per ricchi, una «città verticale, con i suoi duemila abitanti inscatolati nel cielo». In realtà, sotto il velo della quieta convivenza si celano vecchi dissapori, pettegolezzi, litigi causati da insignificanti guasti degli ascensori o da piccoli equivoci senza importanza sugli spazi del parcheggio (come, a quanto pare, quelli che hanno provocato la strage casertana).

Insomma, basta un guaio elettrico perché i rancori maturati nel tempo degenerino in brutale violenza facendo regredire l’intera collettività condominiale a una sorta di stadio primitivo-bestiale retto dalla legge del più forte. È evidente che Ballard ha lo sguardo lungo e che il suo grattacielo è l’allegoria della contemporaneità, le cui solitudini da bunker esasperano comportamenti irrazionali e assecondano il riemergere di antichi impulsi tribali: «Per molti versi — scrive Ballard — il grattacielo era il perfetto modello di tutto ciò che la tecnologia aveva fatto per rendere possibile l’espressione di una psicopatologia autenticamente libera». È vero che le difficoltà della convivenza abitativa erano già ben presenti nella letteratura ottocentesca: si vedano Balzac, Zola, Dostoevskij (Raskol’nikov non è che un inquilino); ma esploderanno in horror nel pieno Novecento.

La finestra sul cortile di Cornell Woolrich, che piacque tanto a Hitchcock, è un racconto del 1942 in cui la curiosità del protagonista (Jeff è James Stewart) per la vita dei vicini apre una vertigine di terrore. La stessa in cui precipita il modesto impiegato polacco Trelkovski nel film di Roman Polanski L’inquilino del terzo piano (1976), dove l’esasperato rapporto di vicinato provoca angosce, allucinazioni, psicosi. Il condominio è diventato un luogo mitico della modernità abitato da violenze psichiche che uccidono più lentamente di un colpo di pistola.

postilla
Forse non è chiarissimo all’estensore del pur interessante articolo/rassegna letteraria, quanto lo squilibrio della sua tesi implicita stia già nel titolo, dove campeggia la parola «Condominio», forse desunta dall’edizione italiana del lavoro di Ballard, originariamente pubblicato col titolo «Highrise». Questione filologica di lana caprina, inadeguata e magari irrispettosa visto che stiamo parlando di una tragedia con quattro morti e la vita dell’assassino di fatto cancellata dalla pazzia del gesto? Forse no, se non ci perdiamo in certi particolari psicologici, restando saldi all’ambiente urbano in cui tutto sobbolle fino all’esplosione finale. La cui scintilla sembra essere l’irrisolta questione delle forme di convivenza, ovvero del rapporto fra spazio individuale e collettivo, diciamo pure pubblico e privato. Che la logica condominiale privatistica non risolve affatto, scaricando sul cosiddetto «buon senso», mentre ogni altro ragionamento sociale e urbanistico dall’unità di vicinato di Perry all’unità di abitazione di le Corbusier, in qualche modo prova a prendere di petto. Certo non c’è mai (come in nessun altro campo) la bacchetta magica in grado di risolvere una volta per tutte l’equilibrio, ma è certo che non tener conto della variabilità estrema degli spazi fisici di convivenza e relative regole, o meglio distribuzione di responsabilità, o ancora concentrazione di attriti, vuol dire fare ideologia. Non diversa da quando davanti a certi incidenti sul lavoro (pensiamo al clamoroso incidente aereo di non molto tempo fa, già sepolto nel dimenticatoio) il padronato punta sempre e automaticamente il dito sulla responsabilità individuale, perché il contesto e l’ambiente sono determinati dal destino eterno. Mentre invece, lo sappiamo troppo bene, la città e le forme di convivenza sono cose che ci dobbiamo costruire consapevolmente, giorno per giorno, altro che esplosione di follia improvvisa. Che dire del ruolo perverso degli standard a parcheggio? (f.b.)

Cosa si aspetta la gente da Expo, e soprattutto come intende vivere la metropoli dei flussi la fascia più giovane della popolazione? Alcune stimolanti risposte e questioni. La Repubblica Milano, 23 aprile 2015, postilla (f.b.)

C’è “Piacere Milano”, il progetto che prevede che i milanesi mettano a disposizione le loro case, le loro cucine e il loro tempo per invitare a cena un visitatore dell’Esposizione. E le isole digitali del Comune, con il wi-fi gratuito e le prese per ricaricare cellulare e tablet. È la Milano condivisa della “sharing economy”. In cui credono i giovani visitatori di Expo: oltre uno su tre è interessato all’economia della condivisione, secondo una ricerca realizzata dall’Istituto Giuseppe Toniolo con la Cattolica e il sostegno di Fondazione Cariplo e di Intesa Sanpaolo.

I dati sono stati presentati ieri, durante l’incontro “Milano (è) una città condivisa?”. La ricerca, curata da Alessandro Rosina, ha coinvolto 1.783 persone tra i 19 e i 32 anni. Il 91 per cento dei giovani sente propri i temi di Expo, oltre la metà dice che probabilmente visiterà il sito e sei su dieci sono pronti a sperimentare almeno una delle opportunità della sharing economy. «Questi servizi trovano già un ampio bacino di interesse tra i giovani e sono un’alternativa alle forme standard del mercato – spiega Rosina – Questo non solo per la convenienza economica, ma anche per l’aspetto sociale del vivere l’esperienza di condivisione in sé». Così, oltre un terzo dei ragazzi che sta considerando di visitare l’Esposizione, sta valutando soluzioni all’insegna dello sharing.

Non a caso, gli alloggi offerti sul sito Airbnb oggi sono oltre 7.600, con un aumento del 107 per cento rispetto all’anno scorso. E da maggio a ottobre si stima che ogni giorno 7mila persone a Milano saranno a caccia di una soluzione “ alternativa” per l’alloggio. «Le esperienze della sharing economy contribuiscono a definire nuovi spazi di socialità e inclusione – dice l’assessore alle Politiche del lavoro Cristina Tajani - Sono aspetti che meritano il sostegno del pubblico: per questo abbiamo deciso di mettere a disposizione uno spazio in vicolo Calusca». A dicembre la giunta ha approvato il documento “ Milano Sharing city”: alla “chiamata” di Palazzo Marino, per condividere tempo e competenze con il resto della città, hanno già risposto 42 operatori e 33 esperti.

Che la Milano dell’Expo sia all’insegna della condivisione, lo dimostrano anche le tante iniziative pronte ad accogliere i 20 milioni di visitatori attesi a partire dall’apertura dei cancelli di Rho Pero. Come il bike sharing, che dal giovedì alla domenica sarà attivo fino alle 2 del mattino, con le sue 3.600 bici tradizionali e mille elettriche. O il car sharing, disponibile 24 ore su 24, e il “Tim2go”, il servizio di tablet sharing lanciato da Tim. Con una cifra che va da 10 a 15 euro al giorno si potrà noleggiare un tablet Samsung Galaxy S e avere a disposizione applicazioni e contenuti sulla visita al sito o l’accesso allo streaming video degli eventi.

postilla

Comunque lo si voglia leggere, anche al netto di eventuali retropensieri su metodi e obiettivi della ricerca specifica, lo scenario proposto indica un’idea di città piuttosto diversa da quella a cui pensiamo legittimamente criticando questo o quell’aspetto dell’evento e di chi ne decide le modalità. Impressiona la quota straripante di approcci positivi e soprattutto l’idea di trasversalità estrema fra spazi e flussi nella percezione della metropoli. Coincide, si avvicina, questa percezione, all’idea di città pensata e proposta da chi si ritiene progressista, ma spesso se non sempre pare sbilanciato da tutt’altra parte, magari in ambiti del tutto strategici quanto lontani mille miglia dalla vita di questo mercato delle menti e delle sensibilità, tutto da scoprire e con cui interagire? Una bella domanda, se non altro da porsi seriamente (f.b.)

Discussione apparentemente surreale sulla necessità di mantenere la competitività della metropoli, e vaghe tendenze autoritarie tecnocratiche, non dissimili da quelle nostrane. La Repubblica, 7 aprile 2015, postilla (f.b.)

Come i chief executive, le star del calcio o i direttori d’orchestra. Anche il mestiere del sindaco diventa transnazionale, intercambiabile su un mercato cosmopolita. Ne sono convinte le due capitali della globalizzazione, New York e Londra. I giornali delle due metropoli si appassionano per un presunto scoop: Michael Bloomberg, tre volte sindaco della Grande Mela, starebbe sondando la possibilità di candidarsi a governare Londra. Bloomberg ha lasciato un ricordo eccellente dei suoi 12anni alla guida di New York: un periodo segnato dalla grande crisi di Wall Street nel 2008, ma anche da straordinari cambiamenti nell’urbanistica, il crollo della criminalità, gli investimenti nell’arte, i miglioramenti ambientali. Non stupisce che Londra possa corteggiarlo. L’importazione di politici stranieri diventerebbe una regola, visto che l’attuale sindaco della capitale inglese, Boris Johnson, è nato a New York 50 anni fa. E finora ha la doppia nazionalità. A quella americana ha detto di voler rinunciare, solo di recente, per ragioni fiscali e forse per puntare alla poltrona di premier. In quanto a Bloomberg, la nazionalità britannica non ce l’ha, ma potrebbe chiederla... “honoris causa”? Investitore emerito, Bloomberg ha creato a Londra la seconda sede della sua fondazione filantropica, che elargisce donazioni pari a 460 milioni di dollari all’anno.

A dare credibilità a Bloomberg come suo successore, è stato proprio Johnson. Nella sua column sul Daily Telegraph , ha spezzato una lancia in favore di un “secondo” sindaco americano (lui, Johnson, comunque non si ricandiderà al termine del suo mandato l’anno prossimo). Lo ha fatto col suo solito stile: ironico, eccessivo, sopra le righe. Ma al di là delle provocazioni e del patriottismo municipale – “caro Mike, vecchio amico, solo la guida di Londra per te sarebbe una vera promozione” – il commento di Johnson è davvero istruttivo. Nell’elencare le qualità delle due metropoli anglosassoni, coglie un tratto distintivo del nostro tempo. Tra i punti di forza che hanno in comune, il sindaco di Londra enumera una lista che include “musei e gallerie d’arte; sale di concerti; università di eccellenza mondiale”. Aggiunge il fatto che “sia New York sia Londra possono vantare una straordinaria diversità etnica, con circa 300 lingue parlate dai loro abitanti”. Esalta le strategie comuni alle due metropoli per allargare il verde pubblico, le piste ciclabili; la fioritura di start-up tecnologiche nel tessuto dell’economia urbana. Ricorda il fenomenale crollo della criminalità. Naturalmente Johnson promuove la sua Londra dandole voti superiori (“per la prima volta abbiamo scavalcato New York e Parigi come destinazione del turismo mondiale”). E tuttavia il suo elenco è un riassunto perfetto di ciò che distingue le nuove tecnopoli del terzo millennio. Le città che hanno più successo, che creano più ricchezza e posti di lavoro, hanno queste caratteristiche: investono molto nell’università e nella cultura; sono multietniche e associano i grandi flussi d’immigrazione con un calo evidente dei reati. Non a caso, città come queste eleggono dei sindaci sui generis. Imprenditore post-politico, visionario, audace, Bloomberg è un miliardario liberal, che non ha dimenticato le sue origini povere, ed era democratico fino a quando il suo partito rifiutò di dargli la nomination. Avendo costruito la più grande agenzia d’informazione finanziaria del mondo, e una fortuna personale di oltre 36 miliardi, è il 13esimo uomo più ricco del pianeta. Ma ha messo il suo patrimonio al servizio di cause progressiste: la lotta contro la lobby delle armi, il cambiamento climatico, i danni sociali del junk-food. Johnson, ex giornalista, in parte ha cercato di assomigliargli: ha unito posizioni liberiste in economia, e progressiste sui temi valoriali.

Il tormentone a favore di una candidatura Bloomberg a Londra è anche strumentale. Johnson nell’incoraggiare l’amico americano lo “avverte” che Londra rischia di diventare inospitale qualora il Labour vinca le prossime elezioni nazionali. Come se Barack Obama avesse impaurito gli investitori esteri allontanandoli dall’America... In quanto al New York Post di Rupert Murdoch, che avalla questa storia: non perde mai un’occasione per rimpiangere Bloomberg e attaccare l’attuale sindaco “socialista” di New York, Bill de Blasio. Accusato di occuparsi troppo delle categorie meno abbienti. Johnson vanta che Londra ha superato New York per il numero di addetti alla finanza (320.000). Non è un buon segno: gli inglesi hanno attratto speculazioni ad alto rischio, che le nuove regole americane mettono al bando.

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Forse non sfugge, al lettore attento, la sottile analogia fra le forme sovranazionali di questo abbastanza surreale dibattito sul governo delle aree metropolitane, e certe nostre riforme nella stessa materia. Là dove i conservatori neoliberali puntano esplicitamente verso una sostituzione della classica rappresentanza locale con una maggiore importanza delle imprese e del capitale nella gestione delle gradi città (di fatto Bloomberg sarebbe un manager nominato, non certo un sindaco eletto, salvo referendum confermativo), le città metropolitane italiane in quanto enti di secondo grado, rispondono ai medesimi criteri di massima, salvo l’intermediazione dei partiti, che potrebbero localmente decidere anche di passare a forme di partecipazione più diretta dei cittadini. Insomma un dibattito certo da non perdere di vista, questo sulla efficienza e competitività metropolitana, perché ci interessa tutti molto da vicino (f.b.)

«Se il nocciolo della questione è sempre la rigida separazione funzionale delle città, che ha penalizzato le donne in virtù del tributo che esse pagano alle necessità della specie non saranno certo gli edifici disegnati da donne a fare la differenza».

In molti paesi le donne hanno assunto un ruolo determinante nelle economie nazionali, ma il tema di come la forma della città ed il paesaggio urbano tengano conto dell’universo femminile difficilmente viene affrontato. Se l’organizzazione spaziale delle città tende ad assumere le stesse caratteristiche che si riscontrano nella struttura sociale, se essa è stata modellata a misura del genere dominante, se il modo in cui le donne vivono e si muovono al suo interno si differenzia in relazione al diverso ruolo che esse ricoprono nella società, se quindi, almeno a livello simbolico, essa continua ad essere lo spazio degli uomini e implicitamente, la casa quello delle donne, ci si potrebbe domandare come possa diventare più attenta ai bisogni dei suoi abitanti semplicemente favorendo l’opera di architette, ingegnere e urbaniste.

La domanda è stata recentemente posta da articolo del Guardian a proposito della mostra Urbanistas: women innovators in architecture, urban and landscape design, e la risposta che se ne trae è tutto sommato positiva. L’esposizione riguarda l’opera di cinque professioniste selezionate, la cui appartenenza al genere femminile sembra essere rappresentata ancora una volta dalla dimensione della cura. Fare dello spazio pubblico un valore sociale, non sprecare prezioso suolo urbano, dare importanza alle questioni climatiche ed ecologiche che riguardano il modo in cui mutano le città, avere insomma un approccio soft (e conservativo) alla pianificazione sarebbe ciò che le differenzia dalla visione hard (e distruttiva) dei loro colleghi maschi, ritenuta implicitamente responsabile di molti dei problemi che riguardano le trasformazioni urbane.

Se da un lato l’esperienza delle Urbanistas, nell’ambito della pratica professionale corrente, si differenzia perché farebbe della connotazione di genere uno strumento con il quale pensare in maniera differente allo spazio urbano, dall’altro si deve però constatare che una approccio così parziale, solo legato alla dimensione del progetto, non riesce a diventare un programma per condizionare i processi di trasformazione urbana da una prospettiva di genere. Cosa che non si limita affatto alle professioniste dell’ambiente costruito, più o meno in grado di imporre nell’esercizio della loro professione la centralità di temi che si da per scontato i loro colleghi maschi ignorino.

Kate Henderson, la direttrice della Town and Country Planning Association, ha dichiarato qualche tempo fa di avere spesso modo di sentirsi isolata, in quanto ad appartenenza di genere, nel contesto professionale in cui opera. D’altra parte a decidere sul corpo delle città sono principalmente gli uomini, dato che la politica è un ambito ancora fortemente dominato dal genere maschile, malgrado il crescente numero di donne in posti di comando. Nella polis, così come nella città, il pensiero e l’opera delle donne continuano ad essere poco influenti, anche se da tempo le professioni dell’ambiente costruito attingono dal genere femminile.

Nello spazio pubblico i corpi femminili sono purtroppo ancora relegati nell’immaginario della domesticità o ancorati al desiderio sessuale maschile e tutto ciò è considerato normale, basta percorrere le strade di una città qualsiasi. Non è certo una novità che il corpo femminile sia utilizzato per finalità commerciali, ma che sia possibile evitare questa interferenza con il paesaggio urbano, soprattutto se essa finisce per rafforzare i peggiori stereotipi di genere, lo prova la decisione della città di Grenoble di rinunciare ai proventi derivanti dalla cartellonistica pubblicitaria.

La recente proposta di regolamentare la prostituzione di strada nel quartiere dell’EUR a Roma - non a caso un ambito della città a forte specializzazione funzionale che sta facendo i conti con la fallimentare gestione urbanistica delle sindacature di Veltroni e Alemanno - rappresenta molto bene quanto il vecchio immaginario maschile, che associa prostituzione a degrado, sia diventato l’argomento che consente di non prendere in considerazione i veri problemi di quell’area. C’è una evidente ipocrisia nel far credere all’opinione pubblica che la priorità sia mettere ordine nella situazione attuale, già dominata dalla forte presenza di prostitute, e non affrontare le conseguenze di scelte urbanistiche che hanno lasciato in eredità una serie di contenitori non finiti, come la Nuvola sede del Nuovo Centro Congressi, o abbandonati, come nel caso del vecchio parco di divertimenti Luneur.

La questione centrale che ancora va posta a chi decide sulle città, è quella a cui rimanda la vicenda del cosiddetto “quartiere a luci rosse”, con il suo connubio di fallimenti urbanistici e di degrado generato dalla città pensata per funzioni separate. Il tema, che è stato affrontato da Dolores Hayden nel 1980 in What Would a Non sexist City Be Like?, è quello dell’integrazione, rispetto al quale le domande da porsi restano la differenze funzionali e percettive della sua struttura e come essa riesca a rappresentare i suoi differenti abitanti. Hayden, da urbanista, riconduce la questione del sessismo insito nell’organizzazione urbana ai suoi aspetti spaziali, riconoscendo tuttavia che il problema è politico, nel senso più pieno del termine. Il saggio, che ha evidenziato la necessità di considerare lo spazio costruito non più secondo le categorie rigide, contiene una serie di soluzioni progettuali in grado di superare la separazione tra abitazioni e luoghi di lavoro. L’intento è di scardinare le basi dello sviluppo urbano contemporaneo al di là di un diverso progetto spaziale: sono le basi sociali ed economiche, che affidano alle donne il lavoro domestico non retribuito, a dover essere radicalmente trasformate.

In sintesi, se il nocciolo della questione è sempre la rigida separazione funzionale delle città, che ha penalizzato le donne in virtù del tributo che esse pagano alle necessità della specie - per dirla con Simone de Beauvoir – non saranno certo gli edifici disegnati da donne a fare la differenza, nemmeno se essi ricordano parti del corpo femminile come nel caso del progetto di Zaha Hadid per lo stadio dei mondiali di calcio in Qatar. Il punto centrale resta il diverso progetto spaziale a patto che il suo ordinamento sociale sia radicalmente trasformato a partire dal ribaltamento della visione che l’ha fin qui dominato. Senza ipocrisie e moralismi.

Riferimenti
L. Bullivant, How are women changing our cities?, The Guardian, 5 marzo 2015.

Dalla Cavallerizza a Torino ai "Cantieri che vogliamo" a Palermo, dal Teatro Marinoni a Venezia al cinema Palazzo a Roma, rinasce forse in Italia un movimento, per decenni sopito, di riappropriazione degli spazi pubblici: una vicenda da ricordare. Micromega, newsletter 9 marzo 2015

A Torino gli spazi della Cavallerizza Reale sono stati occupati contro la minaccia di cartolarizzazione e privatizzazione. E sono diventati immediatamente un luogo di ritrovo e di cultura. Al termine di tre giorni di manifestazione, che segnano una tappa importante dopo nove mesi di occupazione, Angelo d’Orsi ha fatto questo intervento.


1. Il diritto alla città, nasce, in Italia, nel II Dopoguerra. La guerra nazifascista, e la guerra degli Alleati, avevano ridotto il paese a un campo di macerie, in senso proprio, e anche in senso figurato. Più di tre milioni di vani distrutti o gravemente danneggiati; cancellati un terzo della rete stradale e tre quarti di quella ferroviaria. I danni sono concentrati nel triangolo industriale e nelle grandi città.
La politica dei governi democristiani, dopo il 1948, fu all’insegna di una accoppiata terribile: liberismo e clientelismo, proprietà privata e assistenza pubblica, ossia profitti per i padroni, costi per la collettività. La ricostruzione privilegiò l’edilizia privata, ovviamente, e l’industria manifatturiera: si trascurò colpevolmente l’edilizia pubblica, e si procedette a casaccio, in base a interessi di clientele, a pressioni locali, solo alla ricerca del profitto, senza nessun riguardo per gli spazi urbani, per i luoghi, per la storia, per gli ambienti, per il paesaggio. Anzi, offese quasi sempre lo spirito dei luoghi, il genius loci, mentre, nel contempo, si mettevano da parte, in nome della “fretta” e della “necessità” (esigenze certo legittime), i piani, i progetti, i disegni di insieme. Le compatibilità ambientali e la memoria storica. I flussi migratori interni, dal Sud al Nord, e in minor misura da Est a Ovest, cambiarono la fisionomia delle città; con problemi, difficoltà, disagi per tutti.

Ma soprattutto si sconvolse il volto di città già piagate dai bombardamenti: la ricostruzione fu selvaggia. E la scelta del trasporto su gomma, il privilegiamento del trasporto privato, la folgorazione dell’automobile velocizzò tutto, ma congestionò le città, e ne snaturò l’anima. Gli spazi dell’agorà, essenza della polis, furono vilipesi, maltrattati. E scendere in piazza, sulla base di un Codice penale che era ancora quello fascistissimo di Alfredo Rocco, fu comunque, a lungo, per tutti gli anni 50 un reato potenziale. Ci pensava la Celere, dopo le estenuanti attese per un’ “autorizzazione” della Questura. Si toccò con mano il divario tra la legge (la Costituzione) e la sua “applicazione ; sulla base di leggi subordinate, ma le sole in realtà in atto. I Codici! CP e il micidiale Testo Unico delle Leggi di PS.

Ma accanto gli squilibri interni, emergeva il divario tra centri e periferie urbane. La letteratura e l’arte si mostrarono quasi sempre più sensibili della politica: abbiamo scoperto la realtà drammatica delle borgate romane grazie ai primi due romanzi di Pasolini, delle periferie milanesi grazie a Rocco e i suoi fratelli di Visconti. Abbiamo capito la realtà della Speculazione edilizia grazie all’omonimo romanzo di Italo Calvino (1963) ambientato in Liguria, o al meraviglioso film denuncia su Napoli Le mani sulla città di Francesco Rosi, che è dello stesso anno. Esistevano, certamente, riviste accademiche che cominciavano a studiare quelle realtà, ma la classe di governo non le leggeva, e quando andava al cinema si accontentava del “divertimento”.

Il 1963 è pure l’anno in cui nasce il Centrosinistra, dopo il preludio dell’anno prima, il ‘62, che, nondimeno, è anche l’anno di Piazza Statuto a Torino: la più grande rivolta operaia dagli scioperi del ’43, nella città, probabilmente la più grande in Italia: una rivolta contro il sindacato padronale, una manifestazione di autonomia dei proletari che si riprendono gli spazi centrali della città, che riaffermano il proprio diritto a usarli, come palcoscenico, rivendicando l’identità tra polis e agorà; la città non può insomma essere considerata un mero spazio fisico, non è il dove abito, dove dormo, dove mangio, dove amo, dove soffro, 24 ore su 24; la città è, o deve essere, soprattutto il luogo politico, simbolico, culturale, antropologico, estetico che dà spessore e senso non tanto alla esistenza del singolo, quanto alla con-vivenza: che è la base della politica. Platone docet! Ma il singolo può vivere in solitudine? È così beata la solitudo?!

La città è la risposta. E l’elogio della solitudo viene sempre da chi non ha il problema dell’essere solo. La città che invece il capitalismo della Repubblica nata dalla Resistenza stava costruendo era un posto sempre più invivibile, sempre più caotico, sempre più deprivato di senso.

2. Ma esistevano eccezioni. Furono due ministri, “moderati”, il leader repubblicano Ugo La Malfa, ministro del Bilancio, che introdusse in concetto della Programmazione economica, che aveva come obiettivo ridisegnare lo sviluppo del Paese, e dunque anche delle aree urbane, superare gli squilibri (economici, demografici, culturali…), e il democristiano di sinistra Fiorentino Sullo, che si pose in testa, e cercò di far entrare in quella dei suoi compagni di partito, la necessità e l’urgenza di riformare il modello di crescita delle città; fu un politico intelligente e coraggioso che leggeva e che aveva capito l’importanza della questione, anche sulla base degli studi dell’INU, Istituto Nazionale di Urbanistica, dove operavano i maggiori intellettuali del settore. Ovviamente la sua riforma fu bocciata: si parlò di comunismo, naturalmente.

Ma da tanta parte la questione veniva riproposta, e se non venne accolta a livello nazionale cominciò ad essere accolta a livello territoriale, provinciale e comunale, e poi, dal 1970, regionale. La città non poteva essere la giungla, e occorreva cominciare se non a privilegiare, almeno a tener conto degli interessi generali, ma fu spesso, una lotta vana, anche se non mancarono risultati positivi,che non vanno sottovalutati.

Ma nel 1966, l’alluvione di Firenze (e una “anomala” acqua alta a Venezia, la più grave mai verificatasi, esattamente nello stesso giorno, il 4 novembre, paradossalmente “festa della vittoria”) resero drammatica l’urgenza di un cambio di rotta. Il ‘68 era alle porte, per fortuna, dobbiamo dire: anzi il ‘68/69. È un errore isolare il primo anno: in Italia, diversamente dal resto dei Paesi coinvolti dalla contestazione, ci fu una sostanziale, forte alleanza studenti/operai. E la città divenne il luogo dell’azione. Torino fu l’epicentro, grazie alla Fiat, e al suo bando per l’assunzione di trentamila nuovi operai, ovviamente provenienti dal Sud. Con tutti i problemi che al Nord come al Sud questo avrebbe procurato, e che in effetti procurò: perdita di energie giovanili, rinuncia a politiche di occupazione nel Mezzogiorno, costi sociali enormi per l’amministrazione cittadina, problemi di adattamento, situazioni abitative precarie, a Torino. Gli assunti andavano a vivere in baracche! O in forme di coabitazione allucinanti. Come i migranti non italiani di oggi. Nihil sub sole novi.

Soprattutto va notato che per la prima volta la lotta non richiamava solo obiettivi tradizionalmente, vorrei dire esanguamente“politici”, ma sostanzialmente, politici, riguardanti la polis in tutte le sue problematiche. Come ha scritto Edoardo Salzano:

«I fatti di Torino, gli altri scioperi in numerose province nei mesi successivi, le proteste degli abitanti delle baracche e negli altri insediamenti impropri, il ripetersi delle occupazioni di alloggi (e dall’altra parte, l’esistenza di numerosi alloggi i cui canoni d’affitto erano bloccati ai valori di prima della guerre) ponevano in primo piano la necessità di una nuova politica della casa. L’autunno del 1969 fu il momento più alto del conflitto: si trattava di affermare il diritto alla città come componente essenziale di una società riformata» (La città come bene comune, in Historia Magistra. Rivista di storia critica”, 8/2012).

Proprio “diritto alla città” e “diritto alla casa” divennero motti diffusi del nuovo movimento: i diritti dei lavoratori non potevano essere scissi dai diritti dei cittadini, che vivevano, appunto, in spazi urbani, nel ventre della “città” che dunque si fondeva in qualche modo con la fabbrica: non nel senso negativo della città fabbrica di tanta letteratura (narrativa o sociologica), ma nel senso invece positivo di un’azione che rivendicasse unitariamente il diritto a essere lavoratore non super sfruttato e cittadino non vessato, compresso, negletto: la lotta investiva dunque il padronato, il sindacato acquiescente, i partiti che avevano coperto la situazione, le amministrazioni locali acquiescenti, i governi e i loro strumenti repressivi. E i media protagonisti negativi di quella stagione, complici della repressione.
La città dunque diventava l’oggetto della posta in gioco tra due forze contrastanti: il movimento, più o meno sostenuto dalle organizzazioni politico-sindacali della sinistra, da un canto, che rivendicava la città come “casa della società”, come bene comune, anche se allora l’espressione non era in uso; dall’altro il blocco sociale edilizio-finanziario, con ampia rappresentanza politica, che perseguiva unicamente i propri interessi economici. La tensione che ne seguì, con gli attentati, le provocazioni, i morti, i feriti, fu espressione anche di questo scontro. Non è un caso che i momenti più terribili di quella stagione, che giunge fino ai primi anni Ottanta, si collochino nei luoghi topici, dell’aggregazione urbana: le piazze, le stazioni. Milano, Brescia, Bologna, ci dicono anche che quello scontro si materializzava prima di tutto nelle aree a maggiore sviluppo urbano, a più alta rendita fondiaria.


3. Tutta questa è storia passata: ma stiamo meglio, oggi? Oggi, a partire dalle avvisaglie del decennio craxiano, passando per il ventennio berlusconiano, stiamo vivendo i primi passi di una filosofia politica all’insegna dell’ultracapitalismo da una parte, del neoliberismo dall’altro. E per quanto riguarda il nostro tema, la città ci viene presentata come il baluardo della fusione tra capitalismo selvaggio e liberismo come unico orizzonte di senso del presente, e del futuro. Al Politecnico di Milano si è lanciato lo slogan, da parte di qualcuno, della “città del liberalismo attivo”: aberrante perché il liberalismo è la dottrina della libertà individuale. Che viene intesa essenzialmente, prima di tutto, come libertà di commercio, di impresa, di profitto: senza regole, senza ”lacci e lacciuoli”. E ciò nella tragica assenza di una opposizione, se non per frammenti convulsi, per ipotesi confuse, per aggregazioni fallimentari, per continue ulteriori disaggregazioni.

Eppure, malgrado la morte della sinistra, una nuova opposizione sociale, diffusa, fuori dai partiti, si è andata materializzando, nell’ultimo decennio, soprattutto, incentivata dalla crisi e dall’assenza di risposte ad essa, se non nell’interesse dei ceti privilegiati. Una opposizione che ci ripropone la piazza, non semplicemente come luogo di incontro e svago, dei traffici e del divertimento, dei commerci e delle esibizioni; ma come luogo di lotta. È il “ritorno dell’agorà”, ossia il ritorno della politica nel senso più alto e nobile, una politica dal basso, che rovescia le gerarchie, che rifiuta l’istituzionalizzazione, che vuole mettere insieme tutti i diritti, e dar vita a un progetto complessivo, “olistico”.

Si era già avviata, lentamente, nel corso degli anni e dei decenni, l’associazione tra azione politica e azione di intrattenimento, grazie specialmente alla musica, con alti e bassi, ossia con prevalenza dell’uno o dell’altro fattore, con la parziale eccezione degli Ottanta, anni mefitici in cui anche la piazza venne obliterata, quasi cancellata. Si sono manifestate forme di azione che comprendevano lo sberleffo, la gioiosità, l’espressione di ogni passione creativa, dalla danza ai giochi circensi. Era il diritto ad avere spazi per chi non intendeva accontentarsi delle gabbie politiche, culturali e anche di intrattenimento del “sistema”.

Talora il divertimento ha preso la mano alla politica, va detto: si pensi al “Concertone del Primo Maggio”, ma si pensi del reato alla stessa manifestazione ”ufficiale”. Talaltra si è costruito un vero progetto sociale complessivo, a partire, questo è un dato rilevantissimo, non sempre, tradizionalmente, dalle periferie, ma anche sovente dal centro, non sempre dalle fabbriche o dalle nostrane favelas, bensì dai luoghi della cultura: i teatri, i cinema, gli spazi dedicati alle forme artistiche.

Tutti luoghi e spazi che nella città neoliberista sono destinati alla privatizzazione: o dal “libero gioco della concorrenza”, dalla libera dialettica di domanda e offerta, ma sempre a partire da precise scelte o quanto meno da orientamenti netti degli amministratori locali e centrali. Le forze della sinistra ufficiale sono ormai del tutto interne alle logiche di una politica al servizio degli interessi finanziari, piccoli e grandi, europei o nazionali, e comunque ad essi subordinate.
Si può contare solo ogni tanto su un sostegno di questo o quello, ma la forza del cambiamento (non lo pseudo cambiamento delle “riforme” che hanno obiettivi diametralmente opposti a quelli che noi perseguiamo, e vanno contrastate duramente) viene dal basso, e dal basso vanno selezionate le élites, dall’agorà – reale virtuale, culturale – nel fuoco della lotta, di qualsiasi genere, va formata la leadership, non il contrario come avviene ora, in ogni partito e spesso anche nei movimenti che vorrebbero esser alternativi.

In questo generale ritorno dell’agorà, che abbiamo salutato con entusiasmo non solo in Italia, anzi, specie altrove, dalla Spagna alla Grecia, e anche in talune situazioni mediterranee, prima che fossero inquinate da agenti esterni di varia provenienza, vanno sottolineate e sostenute esperienze sociali che sono esperimenti politici, come questo, La Cavallerizza occupata, e come la Verdi 15 prima, come il Teatro Valle di Roma, il Coppola di Catania, i “Cantieri che vogliamo” della Zisa, a Palermo, Il teatro Marinoni di Venezia, o le Sale DOCS sempre a Venezia, il Cinema Palazzo a Roma, l’Asilo di Milano eccetera…

Si tratta di una nuova primavera culturale che esprime il bisogno di una politica autentica, con la riappropriazione della essenza della parola e del concetto, connessi come si sa allo stare insieme nella polis. Nella città. Sono esperimenti di straordinario significato, al di là della loro durata, e dell’effettivo valore della proposta “culturale” che sono in grado di offrire. E sono esperienze che occorre moltiplicare, farle diventare, come si dice oggi, “virali”. E si tratta di un virus, quello della cultura, che non può essere fermato né con barriere fisiche, né con le forze di polizia, né con gli interventi della magistratura o gli ukaze dei sindaci.

La cultura non si mangia, ebbe a dire un tale, ebbene credo che tutti noi qui possiamo dire che senza cultura non v’è politica, non v’è umanità. E poiché sono convinto che la cultura non possa essere distaccata dalla realtà, sono qui a testimoniare con la mia presenza che la politica autentica ha bisogno di un fondamento culturale, ma anche che uno studioso, un professore, un artista se vuole essere un intellettuale deve abbracciare interamente la sua epoca, e farsi carico dei problemi che in essa si propongono, e individuarne le cause, denunciarne le responsabilità, e, sempre soprattutto, togliere il velo che nasconde la verità. Perché, dire la verità, arrivare insieme alla verità, come insegna Gramsci, è l’atto più profondamente rivoluzionario che si possa compiere. E anche il più necessario.

Cifre e qualità di una ripresa economica “miracolosa” che però a ben vedere trova anche spiegazione in un fenomeno specificamente urbano, che l'articolo non sa o non vuole sottolineare. Corriere della Sera, 20 febbraio 2015, postilla (f.b.)

Quattrocentoventicinquemila posti di lavoro creati a New York, una città di poco più di otto milioni di abitanti, dall’uscita dalla recessione (fine 2009) ad oggi. Con una retribuzione media (oltre 87 mila dollari l’anno) elevata e in ascesa. Nella ripresa economica degli Stati Uniti, oggi l’unica vera «locomotiva» mondiale, New York cresce a velocità più che doppia rispetto al resto del Paese. Non era scontato dopo il crollo di Wall Street che ha provocato la più grande distruzione di ricchezza della storia universale e l’implosione di un settore, la finanza, che era la spina dorsale dell’economia della città.

Un miracolo frutto delle caratteristiche inimitabili della «capitale del mondo» o un recupero che può ispirare anche altri? I numeri dicono che a creare nuovo lavoro sono stati soprattutto sanità, ristorazione e servizi come alberghi e negozi. Impieghi che spesso non offrono retribuzioni elevate, ma che sono molto numerosi. E questo grazie a una crescita formidabile del turismo, attratto da una città che in questi anni è diventata molto più sicura, pulita e verde, coi nuovi arredi urbani e i milioni di alberi piantati dall’amministrazione Bloomberg.

 Certo, la ripresa immobiliare trainata dalla costruzione di torri per i super ricchi è un fenomeno che non si può replicare in Italia (e che anche il sindaco de Blasio cerca di contenere, per non alimentare ulteriormente le sperequazioni nella distribuzione del reddito). Ma, oltre alla cura per la sicurezza e l’ambiente, ci sono altri fattori che possono ispirare o far riflettere: gli investimenti nell’istruzione che non solo hanno fatto di New York una città accademica per eccellenza (Columbia, NYU, Fordham, Baruch, cento altri college, e presto la grande università tecnologica della Cornell che sorgerà su Roosevelt Island), ma hanno portato a Manhattan e Brooklyn molte aziende tecnologiche a partire da Google e Facebook.

Decine di migliaia di posti di lavoro dell’economia digitale ad alto reddito, una concentrazione — la «Silicon Alley» — ormai seconda solo alla Silicon Valley californiana. Ma le caratteristiche di fondo della città restano la flessibilità e la creatività che hanno consentito a New York di cambiare pelle già varie volte: da città portuale a metropoli industriale a polo di finanza e assicurazioni. E, ora, la New York dei servizi, dell’arte, di tv e cinema, dell’istruzione, e delle mille piccole attività manifatturiere, dalle fabbriche di stampanti 3D ai produttori artigianali di birra.

postilla
Come hanno osservato moltissimi commentatori americani, ma a quanto pare il corrispondente ha deciso di non rilevare, il boom economico di New York spicca soprattutto proprio per quest'ultimo aspetto soprannominato Silicon Alley, letteralmente il vicolo del silicone, versione rigidamente urbana del più noto distretto tecnologico californiano. Per usare come metafora il titolo di un noto best-seller di settore, questo è davvero un “Trionfo della Città”, del tutto in linea con le migliori tendenze di urbanizzazione planetaria, che spesso leggiamo descritte solo in termini di problemi ed emergenze. Quando si parlava mesi fa delle manifestazioni di San Francisco contro i Google-bus e l'impennarsi dei prezzi delle abitazioni, ci si scordava di menzionare come alla base di tutto ci fosse il ritorno in città di tantissime imprese di punta, che abbandonavano la dispersione nei campus suburbani, quelle impattanti e autoritarie cattedrali sul modello della sede Apple fortemente voluta sul modello classico anni '60 da Steve Jobs in persona. Il caso di New York conferma da un lato il potenziale trionfo del modello urbano su quello disperso, dall'altro l'importanza di enfatizzare gli aspetti propositivi di sviluppo e stimolo alla complessità, da affiancare o addirittura premettere alle politiche ambientali di contenimento del consumo di suolo e tutela di paesaggio e superfici agricole produttive. Quando si dice che la città moderna contiene sia le malattie che la loro cura, in fondo si intende soprattuto questo (f.b.)

«L’egemonia occidentale non persuade più: nemmeno gli occidentali. C’è voluto più di un secolo per capire che il mondo costruito non era né il migliore, né il solo possibile». Comune.info, newsletter 3 febbraio 2015

Gli occidentali ritenevano che una “Grande Partizione” separasse natura e cultura, anima e corpo, umani e animali, coloro che sanno e coloro che credono. Così, per oltre quattro secoli abbiamo creduto che il nostro mondo, la nostra conoscenza e il nostro modo di vivere fossero superiori agli altri e che tutti, prima o poi, sarebbero diventati come noi. Un’idea insolente, che ha giustificato la spoliazione e il sistematico sterminio delle “culture altre”, extraoccidentali o interne ai nostri confini che fossero: dagli indigeni alle streghe, dai pogrom contro i migranti agli ebrei dell’Europa nazista, dalla schiavitù coloniale alle civiltà contadine. Oggi l’egemonia occidentale non persuade più nessuno: nemmeno gli occidentali. C’è voluto più di un secolo per capire che il mondo che avevamo costruito non era né il migliore, né il solo possibile. L’ultima grande stagione mondiale di lotte ha detto che se ne può fare un altro. Dacché un altro mondo è possibile, un altro mondo vogliamo: gli umani sono capaci di costruirne un numero infinito e molti di questi già popolano il pianeta. Ed è solo perché molti mondi diversi dal nostro sono già reali, che altri mondi possibili sono immaginabili. L’orizzonte chiuso e soffocante del capitalismo, quest’impressione di destino segnato che oggi ci fa accettare l’inaccettabile, non è che un’illusione ottica. Dobbiamo tornare all’idea di inventare “qualcosa di meglio per tutti”, a una rivoluzione tutta da ripensare

UNO Che odore ha l’aria di un mondo in cui le piante danno insegnamenti agli umani? Quali spigoli e inciampi trova sulla sua strada chi voglia diventare guaritore, là dove le malattie sono causate da cattive intenzioni? Come ci si sente ad appartenere alla stessa categoria ontologica del tucano? Quali paure e quali estasi s’incontrano nelle iniziazioni? A cavallo del millennio, l’ultima grande stagione mondiale di lotte ha dichiarato con forza che un altro mondo è possibile. Contro tutti i richiami all’ordine e a un sedicente principio di realtà (i vari “fa schifo, ma è così”), quel grido era al contempo constatazione di un dato di fatto e manifestazione di un’esigenza: dacché un altro mondo è possibile, un altro mondo vogliamo. Attorno a quella possibilità molti hanno ritrovato un senso, dopo la tragedia politica e antropologica del ventennio precedente. Oggi – dopo che tantissima acqua avvelenata è di nuovo passata sotto i ponti: l’11/09, Abu Ghraib, l’estensione incontrastata del neoliberismo, la crisi finanziaria e ora anche i fatti parigini – per mantenersi fedeli a quel grido è necessario fare un giro lungo.

DUE Vediamo, per cominciare, come siamo arrivati fin qui. Nel periodo della modernità gli occidentali ritenevano che una “Grande Partizione” separasse natura e cultura, anima e corpo, umani e animali, coloro che sanno e coloro che credono. In base a ciò, per oltre quattro secoli abbiamo creduto che il nostro mondo, la nostra conoscenza e il nostro modo di vivere fossero superiori a qualsiasi altro e che tutti, alla lunga, sarebbero diventati come noi. E poiché, oltre all’arroganza, non ci mancavano neppure le buone intenzioni, eravamo anche convinti di dover portare a tutti i nostri lumi, quel progresso di cui andavamo tanto fieri e che avrebbe portato a tutti ricchezza e benessere. Pensavamo dunque, nella modernità, che ci fossero un unico Essere, un unico Bene, un unico Vero: i nostri. Idea insolente, non c’è che dire: eppure, è quella che ha giustificato la spoliazione eil sistematico sterminio di tutte le “culture altre”, che fossero extraoccidentali o interne ai nostri confini: dagli indios d’America alle streghe, dai pogrom contro i migranti durante la “conquista del West” agli ebrei d’Europa durante il nazismo, dalla schiavitù coloniale alle civiltà contadine.

TRE Oggi l’egemonia occidentale non persuade più nessuno: nemmeno gli occidentali. Ci è voluto più di un secolo per convincerci che il mondo che avevamo costruito non era né il migliore, né l’unico possibile: un secolo fatto di totalitarismi, di guerre che ammazzano i civili a decine di milioni, di campi di sterminio, di confini militarizzati, di profughi, di disastri ecologici, di crisi economiche, di polverizzazione esterna e interna dei soggetti, di sacralizzazione della competizione. Ma fattoanche – è bene ricordarlo – di sperimentazioni politiche e conoscitive fra le più belle di ogni tempo: dalle evoluzioni fantasmagoriche della fisica e della matematica alle riflessioni sul potere, dall’ecologia come scienza delle connessioni fra ciò che vive ai femminismi, dalla liberazione sessuale ai subaltern studies. È questo secondo versante del secolo che abbiamo alle spalle che dobbiamo ostinarci ad abitare: col suo richiamo alla complessità e alla molteplicità e con la sua esigenza di rivoluzione – ovvero, di “qualcosa di meglio per tutti”.

QUATTRO. In questi anni qualcosa di nuovo sta crescendo nelle pieghe dell’antropologia, nella zona che confina a nord con la filosofia e a sud con la politica. Sciolte le ambiguità di una disciplina nata nel periodo coloniale come “scienza che fornisce ai civilizzati dati oggettivi sui non civilizzati”, alcuni antropologi hanno deciso di saltare infine oltre la grande partizione e prendere gli altri sul serio. Questo significa partire dall’idea che ogni cultura umana ha la stessa dignità di tutte le altre perché tutte si trovano di fronte un medesimo problema: quello di dare forma a un mondo abitabile e a un’umanità che lo sappia abitare. Poco importa, allora, se il linguaggio che si parla è l’italiano o il dogon; se l’alimento più consumato è la pasta o il miglio; se si crede nel Dio unico creatore dei cieli e della terra o in una fantasmagoria di anime potenzialmente presenti in ogni cosa: il denominatore comune a ogni cultura è la necessità di immettere i soggetti in una storia sempre particolare e in divenire, entro un mondo umano specifico che, come i linguaggi che si parlano sulla terra, è sempre estremamente complesso e sapiente.

CINQUE «Prender gli altri sul serio» è qualcosa che suona bene sulla carta perché politicamente corretto, ma che, se fatto davvero, ha i suoi pericoli: si tratta, nientemeno, di uscire dalla nostra presunzione di superiorità, abbandonando lo sguardo sempre un po’ paternalista che gettiamo sulle culture altrui. Il che può causare straniamento, una specie di “mal di mare” etico e conoscitivo. Quando si dà credito a ciò che gli altri (i “primitivi”, i “selvaggi”, i “sottosviluppati”: i non occidentali) ci dicono, quando si ammettono le loro cosmovisioni come tanto valide quanto la nostra, si spalanca un panorama sorprendente e vertiginoso, composto di una molteplicità di mondi umani organizzati secondo linee assai diverse da quelle che percorrono il nostro. Ci sono contesti nei quali è possibile imbattersi nelle divinità o negli spiriti degli antenati; dove il contatto con l’immateriale, la trasformazione in spirito e la conversazione coi rappresentanti di specie vegetali e animali sono attivamente cercati; dove la trance, la possessione o il colloquio onirico con un dio non sono anomalie a cui porre rimedio, ma piste di conoscenza; dove molti enti non-umani del mondo hanno lo statuto di persona; dove il soggetto non è pensato come un’anima individuale dentro un corpo, ma come un insieme di relazioni. È una fantasmagoria che può stordire ma che, se ben praticata, apre squarci irresistibili che, letteralmente, aprono gli occhi. Un solo esempio: nell’Africa subsahariana coloro che si muovono nel mondo secondo i criteri che per noi occidentali sono i più elementari e scontati (badando al proprio vantaggio, accumulando ricchezza e in un’ottica competitiva) sono reputati stregoni. Stregone è dunque chi mette al lavoro gli altri prelevandone i frutti – ovvero, chiunque agisca il meccanismo-base della creazione capitalista di plusvalore. Più chiaro di così…

SEI Non solo, dunque, un altro mondo è possibile: gli umani sono capaci di innumerevoli mondi e molti di questi già popolano il pianeta. Ed è solo perché molti mondi diversi dal nostro sono già reali, che altri mondi possibili sono immaginabili. L’orizzonte chiuso e soffocante del capitalismo, quest’impressione di destino segnato che oggi ci fa accettare l’inaccettabile, non è che un’illusione ottica, il trucco con cui uno stregone malevolo ci ammalia. Torniamo così all’idea di “qualcosa di meglio per tutti”: a una rivoluzione tutta da ripensare, ma tutt’altro che impossibile. I mondi umani non ammettono gerarchie: ciascuno di essi è valutabile solo dal suo interno e secondo i suoi propri principi. Inoltre, se il nostro Bene non è più l’unico bene, allora che cosa sia meglio per gli altri non è cosa che possiamo decidere noi (non più di quanto io possa decidere come il mio vicino di casa debba arredare il suo salotto). Bisognerà dunque sedersi e parlare, inventare gli istituti di una democrazia finalmente radicale in cui ciascun gruppo umano possa decidere come far convivere i propri bisogni, le proprie esigenze e le proprie piste con quelle di tutti gli altri. Luoghi dove rendere fra loro compatibili i diversi mondi, e dove pensarne di ancora inediti. Bisognerà imparare l’umiltà e tornare a praticare la diplomazia: perché è chiaro che il mondo fra tutti meno compatibile, quello che continuamente torna a imporre il proprio dio geloso come unico dio possibile per tutti, è proprio il nostro.

Note
- Le implicazioni dell’insolenza di cui si parla, e i rischi della buona educazione, sono analizzati in un brillante articolo di Bruno Latour intitolato “Guerre di mondi – offerte di pace”. Lo trovate qui: www.ec-aiss.it.
– Per un’introduzione generale, v. Mondi multipli vol. 1: Oltre la Grande partizione e Mondi multipli vol. 2: Lo splendore dei mondi, a cura di S. Consigliere, Kaiak editore. Più informazioni, tanto sulle pubblicazioni quanto sul gruppo di ricerca, si trovano all’indirizzo www.mondimultipli.sdf.unige.it
(email: mondimultipli@gmail.com).

Affidare lo sviluppo urbano alle pure dinamiche di mercato, pensando che qualche mano invisibile risolverà tutto, è stupido e sadico, come ci conferma il caso della Mosca post-socialista. La Repubblica, 15 gennaio 2015, postilla (f.b.)

Sembra proprio il sogno di un leghista modello: gli immigrati che se ne vanno, tornano a casa più rapidamente di come sono arrivati. Oltre un milione di stranieri, ma forse molti di più, provenienti dalle repubbliche più povere dell’ex Unione Sovietica, letteralmente spariti nel giro di due settimane e tanti altri pronti alla fuga. Ma dopo le prime inevitabili reazioni di soddisfazione, anche i russi più ostili all’“invasione”, cominciano a temere di essere precipitati in un incubo. D’improvviso la Russia di Putin, tanto amato e corteggiato da Matteo Salvini e dai suoi, sembra bloccata, paralizzata nelle piccole cose che sembrano marginali quando ce le hai e che creano il panico quando invece non ci sono più.

Se ne sono accorti i moscoviti, generalmente viziatissimi quanto a pulizia e manutenzione delle strade, ritrovandosi a galleggiare su lastre di ghiaccio che nessuno ha tolto via per tempo dai marciapiede. O ad attraversare come in un percorso di guerra, vie cittadine su cui piovono quintali di neve dai tetti che non hanno più alcuna manutenzione. A San Pietroburgo, comune storicamente molto più povero, va ancora peggio. L’ufficio del sindaco ha chiesto alla gente di «spalarsi la neve con mezzi propri», ricevendo in risposta una valanga di improperi e e di insulti da cittadini assolutamente impreparati alla bisogna.

Ed è solo l’inizio. La fuga degli stranieri sta bloccando cantieri, negozi, ristoranti, piccole fabbriche aggiungendo altri danni alla già incontenibile crisi economica. I motivi sono tanti. Certamente hanno avuto un loro ruolo le nuove leggi che restringono notevolmente la possibilità di circolazione degli stranieri e che pretendono una «perfetta conoscenza della lingua russa. Ma il colpo decisivo è stato il crollo del rublo che ha dimezzato il suo valore rispetto alla fine dell’estate.

Il ridicolo salario medio, che nessun russo avrebbe mai accettato, di 4000 rubli al mese (fino a settembre 100 euro, adesso 53) è diventato intollerabile perfino per questo popolo di disperati arrivati dalle steppe dell’Uzbekistan, dalle montagne del Kirghizistan e del Tagikistan o dai villaggi più miseri di Bielorussia e Ucraina. Troppo poco per sopportare condizioni di vita da medioevo, l’arroganza persecutoria della polizia, l’indifferenza della gente che li evita per le loro diverse abitudini religiose, alimentari e di igiene personale e che li chiama con la parola tedesca Gastarbeiter, che qui ha una valenza fortemente dispregiativa. E soprattutto, il guadagno irrisorio, non giustifica più i ricatti continui dei datori di lavoro tipo: «Fai così o ti rispedisco al tuo villaggio».

Uno sfruttamento spudorato che ha fatto la ricchezza di molti imprenditori e portato molte invidiabili comodità agli abitanti delle grandi città russe. A Mosca, per esempio, basta anche meno di un anno per costruire un palazzo di dieci piani o per ristrutturare stucchi e colonne di un’antica abitazione pre-rivoluzionaria destinata ai grandi ricchi della capitale. Così come in pochi mesi si possono veder realizzare opere stradali, strutture pubbliche che in Europa richiederebbero anni. Il metodo è semplice: si ospitano gli immigrati in container di metallo limitrofi ai cantieri e trasformati in alloggi di fortuna, un gabinetto all’aperto e un piccolo rumorosissimo generatore per la luce e il, poco, riscaldamento. La spesa per dieci lavoratori è inferiore alla paga richiesta da un operaio russo. L’orario di lavoro non c’è, nel senso che si lavora dall’alba fino a notte inoltrata, anche nei giorni di festa. I container con gli immigrati vengono poi trasferiti in tutta fretta in alti campi di lavoro alla vigilia delle inaugurazioni e dei brindisi compiaciuti tra politici e oligarchi.

E non sono solo i privati a guadagnarci ma anche i comuni e le organizzazioni statali. Lo hanno scoperto gli studenti che hanno trovato le aule sporche e i cortili delle scuole colmi di rifiuti dopo la scomparsa dei “bidelli asiatici” che dormivano in palestra e, all’alba, si occupavano delle pulizie. O i direttori dei musei sconvolti dalla polvere che si accumula ovunque, i medici degli ospedali privati di colpo di un personale disposto a qualsiasi genere di servizio pur di rimanere ospitato in qualche sottoscala.

Per anni la maggioranza dei russi ha mugugnato, perfino protestato in piazza contro l’invasione degli ex cugini della defunta Unione sovietica. Mal tollerate le adunate di preghiera islamica, gli sguardi penetranti degli ”omini spazzaneve dagli occhi a mandorla”, perfino la “fastidiosa musica orientale” che si può sentire uscire a “palla” dagli angusti finestrini dei container che circondano le case da rimettere a nuovo nel centro storico. Ma adesso l’emergenza cambia le cose.

In pochi giorni a Mosca sono scomparsi sguatteri da cucina, parcheggiatori, guardiani, addetti alle pulizie, giardinieri, meccanici. Promesse di straordinari e qualche ordine perentorio sono serviti a tirare fuori dagli uffici un centinaio di impiegati (russi doc) attempati e inadatti a questo genere di lavori. Li vedi con la pala in mano scivolare sulla neve maledicendo gli stranieri e la loro fuga: «Queste cose non dovremmo farle noi».

postilla
Forse non sarà sfuggita al lettore (oppure si, chissà) l'analogia del caso specifico di Mosca, con quello di tante altre città piccole e grandi che vedono scappar via gli “immigrati che fanno lavori utili” di cui sino a quel momento non si accorgeva quasi nessuno. E forse però serve allargare il campo, e rileggere da questione sul versante del metodo, allargandola: se a Mosca si tratta di immigrati, altrove accade a normali cittadini, che subiscono gli effetti economici non solo di qualche crisi o svalutazione, ma più semplicemente e normalmente del metabolismo urbano determinato dalle forze di mercato. Per esempio quando una famiglia di lavoratori dei servizi alla persona non può più in alcun modo trovar casa abbordabile ragionevolmente vicino al luogo in cui eroga quei servizi, e se ne allontana sempre più, sino ad abbandonare il lavoro: nuova povertà da disoccupazione, e meno servizi, o servizi assai più cari, per chi se ne avvantaggiava. Centrale anche il ruolo incrociato delle politiche della casa e dei trasporti pubblici: se anche in un contesto di riduzione del centro a terreno di caccia di ricchi e attività terziarie, esiste comunque (come accadeva nella seconda metà del '900) una politica pubblica dei trasporti collettivi e della casa economica, pur in quartieri periferici ma serviti, i servizi indispensabili a far funzionare la città saranno assicurati. In mancanza di questi due interventi coordinati, fasce di reddito sempre più comprensive, di tutti coloro che non sono davvero ricchi, verranno allontanate dalla città, con impoverimento da mancato reddito, oppure da spese per trasporti privati, e relativi impatti ambientali. Ecco cosa ci dice, fuori dal contesto specifico, anche il caso di Mosca (f.b.)

Due articoli del tutto indipendenti sull'edizione nazionale e milanese del Corriere della Sera, 4 gennaio 2015, accostano senza volerlo un panorama internazionale di realizzazioni attraverso le nuove reti tecnologiche, e una lacuna forse tutta italiana, con postilla (f.b.)

LA RISCOSSA DI MEDELLIN, LE RETI SOLIDALI DI BOSTON: MAPPA A SORPRESA DELLE CITTA' DEL FUTURO
di Giampiero Rossi


Parigi, Boston, Melbourne, ma anche Medellin e Milano. Secondo l’architetto Carlo Ratti — progettista e docente al Mit di Boston — sono queste, tra conferme e novità, le città in cui nel 2015 potrebbe manifestarsi con maggiore evidenza la «primavera urbana». Il punto di partenza è una non-novità: l’uso delle reti. Però, come spiega Ratti, «le possibilità di interconnessione stanno innescando nuove dinamiche collaborative, dal basso. Lo abbiamo visto in modo eclatante durante le cosiddette primavere arabe e credo che, in modo analogo, sia un concetto che possiamo applicare a una prossima primavera urbana».

Ma dove e come saranno più visibili i frutti di questa nuova stagione metropolitana? Ratti, che nell’ateneo del Massachusetts dirige il Senseable City Lab segue diversi progetti che, a suo giudizio, potranno diventare modelli per la crescita della qualità della vita e delle relazioni nelle grandi città. «Qualche settimana fa, a Parigi, ho incontrato il vicesindaco con delega all’urbanistica, Jean-Louis Missika, che ha lanciato un programma molto interessante per lanciare progetti di innovazione. Lo hanno chiamato “Reinventer Paris”, l’idea è proprio quella di usare il crowdsourcing , cioè una sorta di asta di idee per grandi operazioni di trasformazione urbana. La città ha messo a disposizione oltre venti siti, alcuni di grande valore e in pieno centro, che verranno assegnati non al miglior offerente, ma a chi presenterà l’idea di più innovativa, usando un processo di candidatura dal basso che quindi può partire da qualsiasi cittadino, sebbene sia richiesta anche la presentazione di un progetto di finanziamento. È interessante osservare come questo meccanismo stia scompigliando i giochi dei grandi sviluppatori nella capitale francese. Perché questo modello implica come obiettivo finale un guadagno in termini di qualità urbana».

Sulla sponda opposta dell’Atlantico, un altro esempio il professor Ratti ce l’ha proprio sotto gli occhi, perché si sta sviluppando nella «sua» Boston. «L’amministrazione ha creato la piattaforma “New Urban Mechanics”, un sito web che raccoglie le segnalazioni di qualsiasi tipo di problema, guasto o inefficienza in città e permette ai cittadini di proporre soluzioni, o anche di agire, magari coalizzandosi, sempre grazie alla possibilità di fruire di informazioni in rete. Insomma, tutti possono trasformarsi in “meccanici della città” invece di rimanere alle vecchie procedure di segnalazione e attesa di un intervento dall’alto. Un po’ come accade nell’organizzazione degli spalatori per le grandi nevicate».

Una città da tempo considerata campione nei sistemi di condivisione è Melbourne, in Australia, «dove il sindaco Bob Adams ha creato un perfetto equilibrio tra residenze e uffici in ogni zona, in modo da rendere più efficienti ed economici i servizi pubblici. Non è un caso che la città risulti sempre ai vertici delle classifiche mondiali sulla qualità della vita…». Poi c’è sempre l’esempio di Medellin, in Colombia, «che già da un po’ si sta trasformando da uno dei posti più violenti del mondo a un modello di integrazione tra i quartieri, a partire dalle favelas più emarginate, ora collegate con il centro con teleferiche o scale mobili». Mentre Copenaghen ambisce a diventare entro 5 o 10 anni al massimo la prima città carbon free , senza inquinamento da monossido di carbonio. Ma il 2015 è l’anno di Milano: «In fin dei conti — spiega Carlo Ratti — sul tema dell’alimentazione l’Expo è una forma di crowdsourcing : ci sono tante persone che convergono in un posto e mettono insieme le proprie esperienze. È così che si cresce».

UNA SMART CITY DI CARTELLO
di Massimo Sideri

Chi si avvicina alla città percorrendo le autostrade trova dei cartelli con su scritto: «Milano, Industria, Commercio, Cultura, Arte». Al nostro distratto occhio da milanesi probabilmente il cartello non trasmette nessuna informazione e appare un elemento scontato del panorama. Ma vale la pena ragionare su quale possa essere il messaggio sintetico dell’enorme «bigliettino da visita» della città per tutti gli altri. Ora su arte e cultura non si può eccepire nulla. Milano non è certo più la città di Giovanni Testori o del teatro di Giorgio Strehler ma sarebbe come dire che Parigi non è più la città di Édith Piaf. Il successo dell’offerta annuale di mostre di respiro internazionale è nei numeri e negli ultimi giorni dell’anno la fila per entrare a vedere i capolavori di Van Gogh, Chagall e Segantini occupava un intero lato di piazza del Duomo. Per fare un altro esempio il calendario del Teatro alla Scala, nonostante le polemiche, riesce sempre ad attrarre i grandi solisti. Sul commercio nulla quaestio : Milano è culturalmente un crocevia commerciale fin dal Medioevo e l’anima dei commercianti viene colpita ma non piegata dalla crisi.

Ma veniamo alla prima parola che dovrebbe rappresentare la città: l’industria. Il tessuto socio-economico risente ancora della presenza delle fabbriche e della cultura operaia. Ma il declino industriale dell’Italia passa anche da Milano come testimoniano le ex fabbriche trasformate in loft. Insomma, l’industria è un’immagine forte ma che potremmo anche pensare di rottamare. L’alternativa c’è. Ora che nel 2015 l’Expo offrirà alla città un’occasione irripetibile di visibilità potrebbe essere il momento giusto per imporre anche una nuova declinazione che, nella sostanza, è già a buon punto: Milano come smart city e centro dell’innovazione.

Come documentato questa è la città della mobilità intelligente, della rete in fibra ottica più estesa d’Europa. È un hub di Internet e Banzai, Libero e Jobrapido — tanto per citare le più importanti esperienze di società digitali — non a caso sono sorte a Milano. Non si consiglia solo di fare marketing che pure non sarebbe un’idea così peregrina (Israele ha da tempo istituzionalizzato una vera campagna di propaganda internazionale per imporre la propria immagine, del tutto legittimata dai fatti, di «Start up Nation»), ma di mostrare che il cambiamento non ci spaventa. Sindaco Pisapia, non so quanto possa costare cambiare i cartelli di ingresso nella città, ma vogliamo scrivere «Milano: smart city, commercio, arte e cultura»?

postilla
Il caso di Milano, che casualmente chiude l'articolo sull'edizione nazionale ma “riapre” sui medesimi temi quella locale, è solo emblematico di tante tante altre città italiane dove sostanzialmente il tema smart city, variamente declinato, lo è assai malamente. E in fonda basta scorrere quell'elenco di iniziative sfiorate negli esempi del MIT per cogliere una differenza sostanziale: dove il termine ha assunto senso compiuto, con effetti concreti sulla qualità della vita degli abitanti, è perché lo si è interpretato correttamente, come mezzo, non come fine. Ovvero non come un modo come un altro per far girare risorse economiche, pasticciando con reti e apps anziché con infrastrutture o promozione di vaghe innovazioni varie, ma come strumento di cambiamento, dopo aver fissato obiettivi ambientali, sociali, di mobilità, e via dicendo. Altrimenti il bello slogan è destinato a rimanere tale, salvo per chi lo sventola a pubblicizzare i fatti propri (f.b.)

Due articoli del tutto indipendenti in sezioni diverse del giornale, convergono nell'evitare accuratamente un tema chiave della città futura: lo spazio pubblico e la sua gestione, ben oltre la forma fisica del progetto. Massimo Gaggi e Luca Molinari, Corriere della Sera 6 dicembre 2014, postilla (f.b.)

NEL GRATTACIELO DEI RICCHI
di Massimo Gaggi


Salirci in cima adesso che è ancora uno scheletro di cemento armato vuoto, dà un certo batticuore. L’ascensore del cantiere che si arrampica lungo la parete esterna impiega sei lunghissimi minuti ad arrivare al 96esimo piano. Attesa ripagata dalla vista mozzafiato. A 425 metri di altezza è come essere in aereo: Central Park è un rettangolino verde, l’Empire State Building e tutti gli altri grattacieli di Manhattan li guardi dall’alto in basso. Solo il World Trade Center è ufficialmente più alto (ma c’è il «trucco»: una lunghissima antenna).

Unico dettaglio che non consente di rilassarsi: le finestre, tre metri per tre, che arrivano fino al pavimento, non sono state ancora montate, ci sono solo reti e funi di protezione. E il vento di dicembre è micidiale. Ma presto questa penthouse diventerà un accogliente trionfo di marmi, cristalli e legni pregiati. Un appartamento di un piano, circa 800 metri quadrati, già venduto.

Cim Group e Macklowe Properties, le imprese che stanno completando la più alta torre d’appartamenti dell’emisfero occidentale, non danno informazioni sui clienti e sui prezzi pagati. Ufficialmente gli appartamenti di 432 Park Avenue, appena 104 unità immobiliari — e quindi molte di un intero piano per viste sconfinate senza vicini della porta accanto — in un edificio di 96 piani (ma quelli bassi sono destinati ai servizi comuni: club esclusivo, ristorante, palestra, piscina), sono in vendita a prezzi variabili tra i 17 e gli 83 milioni di dollari. In realtà l’attico che sto attraversando con passo incerto è stato pagato 95 milioni. E non è nemmeno un record. Nel mondo globalizzato della polarizzazione dei redditi e della formazione di grandi fortune, si moltiplicano, dal Medio Oriente alla Russia, i super-ricchi pronti a spendere decine di milioni, magari anche cento, per una residenza davvero esclusiva.

Londra, Singapore, Montecarlo, Dubai, ma soprattutto New York: quello di isolarsi in un «nido delle aquile» sopra Manhattan sembra il sogno di molti miliardari. Ed è proprio questo mercato che alimenta la febbrile attività dei costruttori newyorchesi impegnati a realizzare a Midtown, negli isolati attorno alla 57esima strada, una decina di nuovi grattacieli di appartamenti che stanno cambiando ancora una volta la skyline di New York. Torri che sembrano matite, sottilissime e altissime. Passati di moda i grandi palazzi per uffici dalla facciata piatta che richiedono molti ascensori per il gran traffico di gente, adesso si guadagna con le residenze esclusive: gli ascensori sono diventati velocissimi (quelli di 432 Park impiegheranno appena 55 secondi per arrivare al 96esimo piano), ne bastano due o tre per ogni torre. E poi le nuove tecniche costruttive consentono di realizzare edifici sottilissimi. Come il condominio al 111 West della 57esima. La costruzione è iniziata da poco: sarà alto quando 432 Park, ma ancora più sottile. Una base di appena quindici metri, una vera lama che taglia il cielo.

Chi ci abiterà? Industriali indiani e cinesi, sceicchi ancora pieni di petrodollari, oligarchi russi, ma anche imprenditori e finanzieri americani, a giudicare dalle facce di chi entra ed esce dai condomini di extralusso già costruiti nella zona. Una concentrazione di ricchezza che ha ispirato al sindaco de Blasio l’immagine delle due New York, i ricchi e gli esclusi. In realtà quella che si sta formando nel centro di Manhattan, tra Central Park e il Rockefeller Center, è una concentrazione impressionante di opulenza in poche mani. Un fenomeno che la rivista Fortune ha cercato di rendere in cifre: il costo dei 104 appartamenti della torre di Park Avenue, 3,12 miliardi di dollari, supera il valore di tutti gli edifici residenziali della città di Trenton, la capitale del New Jersey, ed è il doppio dell’intero patrimonio immobiliare di Juneau, la capitale dell’Alaska. Tony Malkin, capo dell’azienda familiare che gestisce l’Empire State osserva le nuove torri con sufficienza: «Postmoderne? A me sembrano medievali: i ricchi che si proteggono isolandosi dalla città sottostante come 700 anni fa». Siamo o non siamo nella San Gimignano del Ventunesimo secolo?

COME RIDARE L'ANIMA
AI PALAZZI-MONSTRE
di Luca Molinari

Da qualsiasi direzione si guardi il Corviale, la grande astronave in cemento armato planata alle porte di Roma alla fine degli anni Sessanta per ospitare almeno ottomila persone, offre una sensazione di straniamento che raramente un’architettura riesce a dare. Da quando è stata costruita e solo parzialmente abitata, quest’opera ha avuto il potere di calamitare una serie di «leggende metropolitane» e luoghi comuni che esprimono molto bene l’impatto simbolico che opere di questa dimensione hanno avuto sulla comunità dei suoi abitanti. C’è chi diceva che il Corviale aveva fermato con la propria sagoma il delicato vento Ponentino, mentre altri affermavano che in quel labirinto ci si sarebbe potuti perdere senza salvezza.

Ma la storia è purtroppo molto più semplice e triste perché l’edificio venne abitato solo parzialmente e, soprattutto, gli spazi immaginati per ospitare tutte le funzioni pubbliche e collettive vennero subito abbandonati all’occupazione più selvaggia generando in poco tempo un degrado diffuso che non lasciava alcuna speranza . Non si tratta di un caso unico ed estremo, perché la storia del Corviale è uguale a quella di altre «mega strutture» sognate dagli architetti durante gli anni Sessanta per cercare di risolvere il problema drammatico delle nuove periferie urbane. Di fronte alla pressione migratoria fortissima e alla necessità di rispondere a una domanda crescente di alloggi l’architettura moderna più evoluta cercò di dare forma a vere e proprie strutture urbane di nuova generazione capaci di raccogliere in un unico, enorme organismo le diverse funzioni che prima si cercava di tenere separate come l’abitare, i servizi educativi e sanitari di base, alcuni spazi pubblici e le strutture commerciali primarie. Queste nuove, imponenti strutture nate in molte delle periferie delle nostre città tra Europa, Stati Uniti e Giappone abbinavano i sistemi costruttivi rapidi prefabbricati a un uso dei linguaggi moderni più severi e avanzati illudendosi che i suoi abitanti si sarebbero presto ambientati in un diverso frammento di città del futuro.Quello che invece nessuno di questi progettisti poteva immaginare è che, invece, queste visioni di un domani radioso sarebbero diventate rapidamente pezzi di città dormitorio e simboli di un’alienazione sociale devastante.

Ma da almeno un decennio è in corso un processo interessante che, abbandonata la demonizzazione di questi luoghi, li considera come frammenti di vita di comunità di abitanti da aiutare a migliorare la qualità degli edifici e la possibilità di trasformarli. E così si sono avviate demolizioni parziali, nuove costruzioni che s’integrano con l’esistente, definizioni di strategie partecipate per usare i luoghi in maniera differente, cambi di destinazioni d’uso che stanno mutando l’identità di questi luoghi sparsi in tutto il mondo (all’estero da ricordare gli esperimenti di Amsterdam Nord e di Bijenkorf a Rotterdam), al punto che non sarà difficile, tra qualche anno, entrare al Corviale e trovare un chilometro verde capace di trasformarlo in un luogo pieno di vita.

postilla
Ci sono due punti di vista complementari ed essenziali per capire quanto sia elusa la questione centrale: quello esplicitato del rischio cittadella fortificata nel grattacielo di lusso, e quello sfiorato degli ambienti inutilizzati dentro l'unità di abitazione razionalista. Temi che evidentemente non riguardano solo i due esempi specifici,
highrise newyorchese o mega-steccone romano, trattati dai due articoli, e lasciano inevasa la questione pubblico/privato, che invece salta davvero all'occhio a un secondo sguardo. Nel complesso di lusso o gated comunity che dir si voglia, lo spazio pubblico è umiliato ad ambiente condominiale, ovvero si compra insieme all'appartamento e al diritto di entrarci. In quello razionalista, che vorrebbe riassumere in sé tutta la città, da sempre quegli ambienti risultano fallimentari, per un motivo o l'altro. Il che metterebbe in primo piano sino a che punto la sola progettazione spaziale e architettonica (su cui si soffermano in esclusiva questi articoli, e non solo loro), NON sia il problema. E implicitamente rilancia, insieme al corrente dibattito sulla densificazione urbana e il contenimento di consumo del territorio, la bistrattata progettazione razionalista, proprio quella degli ambienti comuni interni agli edifici multipiano. Perché? Perché forse, oltre gli studi tecnici spaziali degli architetti novecenteschi, è rimasto scoperto tutto il campo della gestione, di quegli spazi, chi deve farsene carico, quale qualità minima debbano possedere e mantenere e via dicendo. Se si vuole discutere della città del futuro, insomma, e non continuare inutilmente a guardare a un mitico passato, forse è il caso di riconsiderare in positivo anche questo lascito del '900, riconoscendone e colmandone le lacune (f.b.)
Su Today, vedi l'idea (sbagliata) di le Corbusier

La frammentazione dell’insediamento dell’uomo in un insieme di recinti privatizzati, di moda in tutto il mondo, è oggi per la città l’equivalente di ciò che per Pompei ed Ercolano fu l’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. La Repubblica, 31 ottobre 2014

Gli amanti del genere li chiamano quartieri vip, zone premium, aree a cinque stelle. Ma il solo fatto che la destra di governo, il Partito Popolare di Rajoy, abbia proposto di importare anche in Spagna un modello di gestione pubblico-privata dei centri cittadini, conosciuto in altri paesi con la sigla Bid (Business improvement districts) ha subito provocato un putiferio politico e reazioni contrastanti nella società. Perché il timore di fondo è che si possano creare città “a due velocità”, con barrios di prima categoria e altri condannati a un ruolo più marginale, forse persino a un progressivo degrado.

L’idea, ad altre latitudini, non è nuova. Il primo esperimento, datato 1969, venne fatto a Toronto. Poi i Bid hanno preso piede nelle grandi metropoli Usa, proliferando in seguito in una ventina di paesi, dal Regno Unito all’Olanda, dalla Germania alla Nuova Zelanda. Con risultati a volte soddisfacenti, ma non senza polemiche. Tutto dipende, in realtà, dai limiti più o meno ampi imposti alla gestione privata dello spazio pubblico. Nel modello spagnolo, che si profila simile a quelli britannico e americano, si prevede che i commercianti di una determinata zona versino un’imposta supplementare nelle casse dell’amministrazione comunale, per riceverne a cambio servizi extra, destinati a migliorare l’aspetto, la pulizia, la sicurezza, l’arredo urbano del quartiere. Il quale, si suppone, potrà così attrarre più visitatori, nuovi possibili clienti per i negozi che vedranno compensato lo sforzo economico supplementare con un incremento dell’attività. Tutto grazie a un radicale make-up: migliore manutenzione e pulizia, iniziative di marketing, informazione turistica, eventi. Per ora, sono stati avviati progetti per la creazione di Bid a Madrid e Barcellona.

L’iniziativa parte in genere dei commercianti, che propongono un business plan e organizzano un referendum tra loro. Ma il “sì” definitivo alla costituzione dell’ente spetta all’amministrazione locale, i cui rappresentanti fanno parte del consiglio di gestione. Il Comune riscuote la tassa supplementare e fornisce i servizi di prima qualità che permettono la realizzazione del piano.

Una condivisione di competenze, che si traduce in una gestione parzialmente privata dello spazio pubblico. Con vantaggi indiscutibili ma anche alcune controindicazioni: Izquierda Unida ricorda che le imposte dovrebbero servire «per correggere le disuguaglianze, non per aumentarle». In realtà, se è vero che la fornitura di risorse supplementari a beneficio di un barrio non significa la sottrazione di fondi destinati agli altri, la sperequazione provoca squilibri pericolosi. A cominciare dalla possibile “gentrificazione”: la riqualificazione rivaluta anche il valore degli immobili, determina l’impennata degli affitti e si conclude con l’inevitabile espulsione di una parte degli abitanti e la chiusura di alcuni negozi. Da qui la nascita di quartieri di prima e seconda categoria.
Con un’aggravante. Dove esiste un Bid, la vigilanza è estrema e la gestione privata del territorio può favorire abusi. L’esperienza americana insegna, in particolare quella di New York. A Times Square sono arrivati a proibire manifestazioni e proteste, in quanto sconvenienti per gli obiettivi commerciali del Bid. A Midtown Manhattan hanno espulso gli artisti di strada e i venditori ambulanti perché creavano un presunto danno d’immagine. Uno dei punti più controversi è la sicurezza. Anche questa potrebbe essere in parte privatizzata, con conseguenze prevedibili come l’espulsione di mendicanti, prostitute e ambulanti.

Nota: per capirne un po' di più, Eddyburg Archivio: Il concetto di Business Improvement District insegnato al MIT (2005)

Una riflessione ambiental-comportamentale-generazionale che apre un intero mondo ricco di prospettive anche e soprattutto per chi si occupa di politiche urbane e territorio, ben oltre la pura mobilità dolce. Corriere della Sera, 12 ottobre 2014, postilla (f.b.)

Un terzo dei bambini e dei ragazzi fino a 13 anni va a scuola a piedi. Un terzo degli studenti fa lo stesso per raggiungere istituti superiori e università. Gli adulti che arrivano a piedi sul luogo di lavoro sono tre volte di meno. Solo l’11,5 per cento del totale. Nel dato diffuso dall’Istat in occasione della Giornata nazionale del camminare (oggi) è contenuta una lezione interessante. Questa: i nostri figli e nipoti sanno trarre insegnamenti utili da tempi grami. Provate a pensare: perché un ragazzo sceglie di andare a scuola a piedi? Ha ragionato sulla riduzione dell’inquinamento e la qualità della vita nelle aree urbane? Possibile, ma non probabile. Se va a scuola a piedi è perché si fa più presto ed è più divertente: meglio chiacchierare con gli amici che sopportare un genitore nervoso imbottigliato nel traffico. Zaini pesanti? Si adotta il trolley. Logico, se ci pensate.

Quella logica di cui noi adulti, spesso, non siamo capaci. Molti miei coetanei non sanno camminare: se muovono i piedi, devono correre. Una splendida attività, sia chiaro, per cui è bene tuttavia consultare tendini, mogli e cardiologi. Camminare è un’azione antica come l’uomo. Quando si è alzato in piedi, nella notte dei tempi, non ha ballato la rumba o chiesto se qualcuno gli dava un passaggio. È andato da un posto all’altro. Se non è stato divorato, è pure tornato indietro.
I ragazzi camminano, e arriveranno lontano. La generazione nata alla fine del XX secolo sta recuperando abitudini antiche: andare a piedi è una di queste. Anche andare in bicicletta. Usare i mezzi pubblici. Non acquistare un’auto, condividerla («car sharing», in milanese moderno): da Enjoy a BlaBlaCar è tutto un fiorire d’iniziative. Tempi economicamente impegnativi e genitori psicologicamente fragili hanno compiuto il miracolo. I ragazzi inventano attività nuove, grazie a Internet. E reinventano cose vecchie: lavorare insieme, iniziare un’impresa, camminare.

Non è un’apologia della decrescita felice: essere più poveri non è mai bello. È, invece, una constatazione ammirata. Gli italiani di domani usano anche le idee di ieri per affrontare le difficoltà di oggi. Chiamare «vintage» l’usato, per esempio, è geniale: una spolverata di modernità sul giubbotto dello zio. La parsimonia dei giovani clienti ha portato produttori e distributori a ragionare di più su quello che vendono. Alimentarsi con attenzione ha costretto l’industria a essere meno opaca (ai tempi dei social network gli errori si pagano, dall’amministratore delegato in giù). Molti di questi comportamenti sono legati alla necessità. Ma non possiamo farcene un merito, noi che siamo nati negli anni Cinquanta e Sessanta. Aver tollerato l’espansione di una generazione di precari — senza tutele, con pochi soldi, con scarse prospettive di impiego tradizionale — non è un motivo di merito. Resta un fatto: alcuni buoni comportamenti sono figli (illegittimi) delle nostre cattive decisioni.

I ragazzi sono avanti, anche quando sono indietro. Una generazione tanto poco teorica, e così pratica, non si vedeva in Italia da cinquant’anni. Come abbia fatto a crescere nelle nostre case — ideologicamente cariche, inutilmente dogmatiche — non si sa. Ma sta accadendo. E il grande aiuto che possiamo darle è: lasciamola fare. Lasciamola camminare da sola, e decidere dove vuole andare. Per tornare da dove siamo partiti. Non accompagniamo i ragazzi a scuola in auto, se è possibile evitarlo. Non portiamo i figli all’università sul sellino dello scooterone. È un errore educativo e un azzardo stradale. Ma avete visto come guidano la moto, certi cinquantenni?

postilla

L'Autore non ce lo dice, forse non interessa cogliere per motivi professionali il legame diretto, ma quello che ci sta raccontando altro non è se non lo scontro campale in corso fra conservatori e progressisti a proposito di strategie di sviluppo urbano-territoriali (ed economico-sociali) del futuro. La parola chiave sono quelli che gli statistici chiamano Millennials, cioè la generazione che va dai ragazzini a chi inizia ad affacciarsi ora ad una vita adulta e pienamente autonoma: cosa vogliono, si chiedono istituzioni e mercato, e soprattutto cosa vogliamo offrirgli? In termini di spazio dentro cui “camminare” in senso lato, ovvero di città e territorio, pare che destra e sinistra ancora si distinguano. La destra, quella che conosciamo bene anche dalle nostre parti (indipendentemente dalle etichette e colore di bandiera) vuole la dispersione insediativa, la frammentazione familista, i consumi individuali compulsivi e coatti. La sinistra, o schieramento davvero progressista che dir si voglia, dovrebbe promuovere condivisione, sostenibilità, socialità e relazioni non competitive. In fondo è la differenza tra andare a scuola a piedi in un quartiere integrato, e farsi accompagnare dai nonni lungo una eterna Bre.Be.Mi. col quarto Suv di famiglia, da un baccello chiuso monofunzionale all'altro, magari con le sentinelle in piedi in mezzo all'unico spazio pubblico del sagrato. Per restare al tema mobilità affrontato da Severgnini, su Città Conquistatrice qualche riflessione su domanda, offerta, Automobile di Destra e Automobile di Sinistra (f.b.)

Alcune parzialmente condivisibili riflessioni sullo spazio urbano auspicabile del futuro, che però affrontano il problema a valle di nodi del tutto irrisolti. La Repubblica, 1 ottobre 2014, postilla (f.b.)

La città che smette di crescere. E che addirittura si contrae. Ne dibattono architetti e urbanisti che da tempo si misurano con l’espressione inglese shrinking city. La discussione fa tappa a Tokyo, quindici milioni di abitanti, trentaquattro considerando l’intero agglomerato: Hidetoshi Ohno, professore all’università della capitale giapponese, ha messo a punto uno studio che prefigura per il 2050 una Tokyo ridimensionata, con un terzo degli abitanti che ha oggi. Ohno è oggi a un convegno al Maxxi di Roma (organizzato dal Formedil) e domani alla Triennale di Milano. Il suo programma — «uno studio accademico», precisa, «non un piano urbanistico » — si chiama FiberCity: la città come un tessuto, un insieme di fibre, più compatta di come l’espansione tumultuosa degli ultimi decenni l’ha dispersa. Una città che riutilizza i suoi spazi, che porta il verde dove il cemento non serve più. «La città che cresce fa pensare a una macchina », spiega Ohno, «se si rompe un pezzo, la macchina non cammina. La città che non cresce è simile a un fazzoletto di stoffa: se una fibra si buca la si può riparare, ma intanto l’insieme continua a essere utilizzabile».

Il tema riguarda Tokyo, ma la musica si diffonde da Oriente a Occidente, sfiorando appena le immani megalopoli africane, sudamericane e asiatiche, dove l’urbanesimo non ha sosta. Prima negli Stati Uniti, poi in Europa e anche in Italia si è imposto nei decenni il modello della città diffusa: dispersione abitativa, consumo di suolo, trasporto privato, costi ambientali. Contemporaneamente la crisi industriale, prima di quella finanziaria, ha svuotato zone delle città. I dati nei quali si imbatte Ohno valgono per il Giappone, ma non solo: la riduzione di abitanti, dai centoventisette milioni di oggi agli ottanta previsti per il 2050, l’invecchiamento, i redditi bassi soprattutto del ceto medio. «La città compatta risponde alle esigenze della società cui andiamo incontro», insiste Ohno, «le strutture pubbliche, i servizi funzionano se concentrati in aree ristrette». La Tokyo del 2050 dovrebbe essere strutturata per agglomerati densi, intorno ai quali si distende una maglia di aree verdi ( green finger) e di reti del trasporto su rotaia. Le abitazioni di ogni agglomerato non possono distare più di ottocentometri da una stazione metropolitana. Inoltre al trasporto pesante deve affiancarsi una struttura molto piccola e leggera. Aggiunge Ohno: «Una società democratica deve assicurare accessibilità a tutti e dovunque ».

L’incubo che turba Ohno e molti suoi colleghi è l’aumento delle parti di città dismesse. Un tempo erano le fabbriche ad abbandonare aree periferiche esterne ai centri storici. Grandi stabilimenti venivano lasciati vuoti. La riconversione di questi luoghi, negli Stati Uniti e in Europa, è proceduta negli ultimi decenni scontando spesso la pressione di interessi speculativi che li trasformavano assecondando la rendita piuttosto che i bisogni della città. Ma con la crisi finanziaria, generata dall’esplosione di bolle immobiliari, sono stati svuotati anche quartieri residenziali. A Detroit prima la crisi dell’auto poi quella dei mercati finanziari hanno trasformato zone della città in luoghi morti, con le finestre sbarrate da assi di legno. E le case, tornate in mano alle banche, si vendevano a poche centinaia di dollari. A Baltimora il sindaco ha chiamato in giudizio la Wells Fargo, grande società erogatrice di mutui, perché con la sua politica di prestiti facili ha incentivato acquisti di case che i proprietari, a causa dei tassi divenuti insopportabili, hanno lasciato facendo degradare i quartieri.

La crisi consegna un altro insegnamento, conclude Ohno: non si possono affidare al solo mercato le trasformazioni nella città, la rigenerazione complessiva dell’organismo urbano. Devono intervenire sempre un’amministrazione pubblica efficiente e le comunità di cittadini. «Il rischio, altrimenti, è che aumentino i buchi, le sacche di degrado, come un pezzo di formaggio aggredito dai vermi».

postilla


Se non fosse che, ovviamente, quel modo di dire evoca inutili e vetusti sofismi da pianerottolo, qui sarebbe quasi spontaneo commentare: “ma il problema è un altro”. Ovvero che se non si supera l'idea della produzione di spazi privati come finalità economica a sé, della città merce le cui forme sono totalmente slegate da qualsiasi funzione, della stessa funzione ridotta a feticcio, ideologicamente contorta per cercare di darle un senso qualsivoglia, poi risulta esercizio accademico ragionare con tanto ampio respiro sulle specificità progettuali. La città ex industriale classica, e conseguentemente anche post-terziario-amministrativa, diventa “shrinking city” proprio anche grazie al fatto di escludere teoricamente dal campo le megalopoli africane e asiatiche marginalmente citate dall'articolo. E in questa città che si ritira, salvo pur vistosi esempi come la sempre stracitata Detroit, gli spazi dismessi non sono affatto tali, se non da una prospettiva funzionalista un pochino datata: lì dentro si concentrano comunque interessi, speculazioni, attese, indipendentemente dal riuso materiale o no. Che dire ad esempio della proliferazione incredibile di spazi a uffici, o delle chilometri che fasce produttivo-commerciali lungo le grandi arterie, la cui effimera vitalità, sempre che si manifesti prima o poi, corrisponde semplicemente alla strumentale dismissione di altre non lontanissime superfici e contenitori? Insomma, giusto timore, quello che lo spazio urbano, nella sua marcia trionfale alla conquista del pianeta, si sleghi da un rapporto lineare con le funzioni, ma forse la questione va affrontata a monte, ad esempio, come in parte si sta già facendo, attraverso varie riflessioni su tendenze demografiche, stili di vita, consumi, mobilità (f.b.)

Una prospettiva di osservazione giornalistica che più sbagliata non si potrebbe, per un'idea - con beneficio d'inventario ovviamente - a suo modo virtuosa del rapporto fra politica, sviluppo, ambiente e società. Corriere della Sera, 28 giugno 2014, postilla (f.b.)

Si chiamerà Jing-Jin-Ji. Sembra uno scioglilingua, ma è il nome della megalopoli da oltre 110 milioni di abitanti che nei disegni dei pianificatori cinesi servirà da modello per una nuova forma di urbanizzazione e di sviluppo dell’economia. Si tratta di fondere Pechino con Tianjin e lo Hebei, la provincia che circonda la capitale. «Jing» riassume Beijing; «Jin» sta per Tianjin e «Ji» è un’abbreviazione di Hebei. Il progetto Jing-Jin-Ji ha avuto la benedizione del presidente Xi Jinping, che lo dirige. Il nuovo agglomerato sta prendendo forma: intorno alla capitale è in fase avanzata di costruzione un anello autostradale che collegherà la super area urbana; Pechino è già contornata da sei tangenziali, che qui si chiamano anelli, a partire dal quadrilatero della Città proibita, ma questo settimo sarà lungo 940 chilometri per collegare e integrare la nuova regione cittadina. L’apertura al traffico è prevista nel 2015. Oltre all’impatto sociale e allo stupore per un progetto così enorme, la megalopoli ha un significato politico: i politologi cinesi dicono che Xi l’ha immaginata come impronta ed eredità della sua presidenza. Una tradizione che risale all’era imperiale: l’ordine di innalzare la Grande Muraglia venne dal primo imperatore, Qin, due secoli prima di Cristo; il Grande Canale d’acqua che collega Hangzhou nel Sud a Pechino fu fatto scavare dall’imperatore Sui Yang nel settimo secolo.

Nel nuovo impero globalizzato in cui si è trasformata la Repubblica popolare, Deng Xiaoping ha costituito la zona economica speciale di Shenzhen nel 1978, lanciando il «mercato con caratteristiche cinesi»; Jiang Zemin ha spinto l’industrializzazione del delta dello Yangtze designando Shanghai come il centro finanziario della Cina. E l’era Xi sarà segnata da Jing-Jin-Ji, che oltre a proporre una forma di urbanizzazione centrata sui trasporti ferroviari ultraveloci e le superstrade a otto corsie, dovrà servire da vetrina per la nuova riforma dell’economia. L’area intorno a Pechino interessata dal progetto si estende per 216 mila chilometri quadrati, circa due terzi della superficie italiana; con i suoi 110 milioni di abitanti (21 a Pechino, 14 a Tianjin, 73 nello Hebei) si avvicina alla popolazione del Giappone; ha un Prodotto interno lordo combinato di oltre sei trilioni di yuan, quasi mille miliardi di dollari, ossia il 10 per cento del totale cinese. Di Jing-Jin-Ji si è cominciato a parlare da anni, perché le gigantesche pianificazioni sono la specialità di questa Cina.

Ma ora la realizzazione rapida sembra vitale. Anzitutto bisogna trovare una cura per le malattie urbane che rischiano di rendere invivibile la capitale: il traffico pazzo di quasi sei milioni di automobili, gli ingorghi chilometrici, l’inquinamento cronico e il costante aumento della popolazione (Pechino sta crescendo di 600 mila abitanti l’anno). Anche Tianjin, con i suoi 14 milioni di anime, soffre su scala lievemente ridotta degli stessi mali. Per questo viene coinvolta la provincia dello Hebei. Il governo ha deciso che alcuni dipartimenti ministeriali, università e ospedali verranno spostati dalla capitale a Baoding, 150 chilometri a sudovest. E per convincere cinque milioni di abitanti a spostarsi subito almeno di qualche decina di chilometri, le autorità pechinesi hanno già cominciato ad abbattere dei grandi mercati di periferia che richiamavano decine e decine di migliaia di lavoratori migranti. Pechino e Tianjin distano 130 chilometri, ma in realtà si fa prima a muoversi tra le due città che da un capo all’altro della capitale. Con il treno superveloce, dalla modernissima stazione Sud di Pechino che somiglia a un aeroporto, si impiegano 33 minuti esatti per sbarcare nel centro di Tianjin, dove all’inizio del secolo scorso sorgeva la concessione italiana in Cina. Ora, intorno alle nostre vecchie palazzine coloniali (che vengono restaurate per ospitare sedi di società del terziario e locali pubblici) stanno sorgendo grattacieli di vetro e acciaio ispirati al modello Manhattan. Poi c’è la questione economica.
Xi ha detto che integrare e coordinare lo sviluppo della regione intorno a Pechino in termini di funzioni amministrative, di distribuzione delle industrie, trasporti, servizi urbani, eviterà doppioni, sprechi, inefficienze dovuti all’inutile concorrenza tra città vicine per gli stessi settori di business. Presentato così, il futuro di Jing-Jin-Ji sembra roseo. Ma naturalmente ci sono urbanisti che contestano l’idea, sostenendo che è una finzione. Le città dell’area intorno a Pechino sono già quasi contigue, i benefici reali della fusione saranno minimi, dice Ray Kwong del China Institute presso la University of Southern California: «Usando il criterio che i cinesi sostengono di voler inventare con “Jing-Jin-Ji” si potrebbe già chiamare l’area tra Boston e Washington “Bosington”».


postilla
Sia l'autore dell'articolo che il rappresentante del californiano China Institute dimostrano, usando quel termine “Bosington”, di non sapere nulla del tema con cui si stanno baloccando: la medesima regione urbana ha da oltre mezzo secolo un altro nome, ovvero “Bos-Wash”, coniato dal geografo Jean Gottmann a indicare (e qui arriva il vero svarione dei nostri eroi) non tanto un progetto insediativo, sul tipo per esempio delle utopie anni '30 alla maniera di pensare l'urbanistica di le Corbusier o la sua totale esplosione autostradale alla Wright, ma una prospettiva intelligente di osservazione di ciò che

sta gia' accadendo, e che è meglio considerare nel suo insieme, anziché decidere a pezzi e bocconi, col rischio di subirne contraccolpi inattesi che dureranno sull'arco di generazioni. Ed è giusto e corretto, almeno provare a conferire respiro politico di ampio raggio alle trasformazioni dell'ambiente e del territorio, nella scia di grandi programmi di fatto già attuati o pensati. Si pensi, solo per fare un paio di esempi, al programma britannico delle New Towns, di fatto proiezione territoriale dell'antica utopia sociale di Ebenezer Howard, declinata prima a sinistra dal Labour, ma poi sostanzialmente ripresa a destra dai governi Conservatori, a dimostrare la validità di questo concetto positivo di Megalopoli, lontano mille miglia dall'idea di città degenerata evocata originariamente dal reazionario Oswald Spengler (non a caso ispiratore dei nazisti). L'altro esempio, nostrano italiano, è quello del Progetto '80 e delle sue proiezioni territoriali, che intendevano non tanto imporre astratti assetti macro-progettuali alla penisola, ma al contrario dare respiro strategico a processi già in corso, e tentare di monitorarne in modo unitario gli sviluppi. Basta pensare ai passaggi che legavano ambiente, mercato del lavoro, e nascita di quello che allora si chiamava ancora elaboratore elettronico. Ripensarci, oggi, guardando alla Cina ma non solo, non pare così sciocco e fuori dalla realtà, anche se magari non piace alla vulgata contabile di gran voga (f.b.)
p.s. Sulla megalopoli originaria Bos-Wash si veda in Eddyburg Archivio l'estratto da Jean Gottmann, Funzioni e relazioni di una pluri-città (1960)
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