Una prospettiva di osservazione giornalistica che più sbagliata non si potrebbe, per un'idea - con beneficio d'inventario ovviamente - a suo modo virtuosa del rapporto fra politica, sviluppo, ambiente e società. Corriere della Sera, 28 giugno 2014, postilla (f.b.)
Si chiamerà Jing-Jin-Ji. Sembra uno scioglilingua, ma è il nome della megalopoli da oltre 110 milioni di abitanti che nei disegni dei pianificatori cinesi servirà da modello per una nuova forma di urbanizzazione e di sviluppo dell’economia. Si tratta di fondere Pechino con Tianjin e lo Hebei, la provincia che circonda la capitale. «Jing» riassume Beijing; «Jin» sta per Tianjin e «Ji» è un’abbreviazione di Hebei. Il progetto Jing-Jin-Ji ha avuto la benedizione del presidente Xi Jinping, che lo dirige. Il nuovo agglomerato sta prendendo forma: intorno alla capitale è in fase avanzata di costruzione un anello autostradale che collegherà la super area urbana; Pechino è già contornata da sei tangenziali, che qui si chiamano anelli, a partire dal quadrilatero della Città proibita, ma questo settimo sarà lungo 940 chilometri per collegare e integrare la nuova regione cittadina. L’apertura al traffico è prevista nel 2015. Oltre all’impatto sociale e allo stupore per un progetto così enorme, la megalopoli ha un significato politico: i politologi cinesi dicono che Xi l’ha immaginata come impronta ed eredità della sua presidenza. Una tradizione che risale all’era imperiale: l’ordine di innalzare la Grande Muraglia venne dal primo imperatore, Qin, due secoli prima di Cristo; il Grande Canale d’acqua che collega Hangzhou nel Sud a Pechino fu fatto scavare dall’imperatore Sui Yang nel settimo secolo.
Nel nuovo impero globalizzato in cui si è trasformata la Repubblica popolare, Deng Xiaoping ha costituito la zona economica speciale di Shenzhen nel 1978, lanciando il «mercato con caratteristiche cinesi»; Jiang Zemin ha spinto l’industrializzazione del delta dello Yangtze designando Shanghai come il centro finanziario della Cina. E l’era Xi sarà segnata da Jing-Jin-Ji, che oltre a proporre una forma di urbanizzazione centrata sui trasporti ferroviari ultraveloci e le superstrade a otto corsie, dovrà servire da vetrina per la nuova riforma dell’economia. L’area intorno a Pechino interessata dal progetto si estende per 216 mila chilometri quadrati, circa due terzi della superficie italiana; con i suoi 110 milioni di abitanti (21 a Pechino, 14 a Tianjin, 73 nello Hebei) si avvicina alla popolazione del Giappone; ha un Prodotto interno lordo combinato di oltre sei trilioni di yuan, quasi mille miliardi di dollari, ossia il 10 per cento del totale cinese. Di Jing-Jin-Ji si è cominciato a parlare da anni, perché le gigantesche pianificazioni sono la specialità di questa Cina.
Ma ora la realizzazione rapida sembra vitale. Anzitutto bisogna trovare una cura per le malattie urbane che rischiano di rendere invivibile la capitale: il traffico pazzo di quasi sei milioni di automobili, gli ingorghi chilometrici, l’inquinamento cronico e il costante aumento della popolazione (Pechino sta crescendo di 600 mila abitanti l’anno). Anche Tianjin, con i suoi 14 milioni di anime, soffre su scala lievemente ridotta degli stessi mali. Per questo viene coinvolta la provincia dello Hebei. Il governo ha deciso che alcuni dipartimenti ministeriali, università e ospedali verranno spostati dalla capitale a Baoding, 150 chilometri a sudovest. E per convincere cinque milioni di abitanti a spostarsi subito almeno di qualche decina di chilometri, le autorità pechinesi hanno già cominciato ad abbattere dei grandi mercati di periferia che richiamavano decine e decine di migliaia di lavoratori migranti. Pechino e Tianjin distano 130 chilometri, ma in realtà si fa prima a muoversi tra le due città che da un capo all’altro della capitale. Con il treno superveloce, dalla modernissima stazione Sud di Pechino che somiglia a un aeroporto, si impiegano 33 minuti esatti per sbarcare nel centro di Tianjin, dove all’inizio del secolo scorso sorgeva la concessione italiana in Cina. Ora, intorno alle nostre vecchie palazzine coloniali (che vengono restaurate per ospitare sedi di società del terziario e locali pubblici) stanno sorgendo grattacieli di vetro e acciaio ispirati al modello Manhattan. Poi c’è la questione economica.
Xi ha detto che integrare e coordinare lo sviluppo della regione intorno a Pechino in termini di funzioni amministrative, di distribuzione delle industrie, trasporti, servizi urbani, eviterà doppioni, sprechi, inefficienze dovuti all’inutile concorrenza tra città vicine per gli stessi settori di business. Presentato così, il futuro di Jing-Jin-Ji sembra roseo. Ma naturalmente ci sono urbanisti che contestano l’idea, sostenendo che è una finzione. Le città dell’area intorno a Pechino sono già quasi contigue, i benefici reali della fusione saranno minimi, dice Ray Kwong del China Institute presso la University of Southern California: «Usando il criterio che i cinesi sostengono di voler inventare con “Jing-Jin-Ji” si potrebbe già chiamare l’area tra Boston e Washington “Bosington”».
Sia l'autore dell'articolo che il rappresentante del californiano China Institute dimostrano, usando quel termine “Bosington”, di non sapere nulla del tema con cui si stanno baloccando: la medesima regione urbana ha da oltre mezzo secolo un altro nome, ovvero “Bos-Wash”, coniato dal geografo Jean Gottmann a indicare (e qui arriva il vero svarione dei nostri eroi) non tanto un progetto insediativo, sul tipo per esempio delle utopie anni '30 alla maniera di pensare l'urbanistica di le Corbusier o la sua totale esplosione autostradale alla Wright, ma una prospettiva intelligente di osservazione di ciò che
sta gia' accadendo, e che è meglio considerare nel suo insieme, anziché decidere a pezzi e bocconi, col rischio di subirne contraccolpi inattesi che dureranno sull'arco di generazioni. Ed è giusto e corretto, almeno provare a conferire respiro politico di ampio raggio alle trasformazioni dell'ambiente e del territorio, nella scia di grandi programmi di fatto già attuati o pensati. Si pensi, solo per fare un paio di esempi, al programma britannico delle New Towns, di fatto proiezione territoriale dell'antica utopia sociale di Ebenezer Howard, declinata prima a sinistra dal Labour, ma poi sostanzialmente ripresa a destra dai governi Conservatori, a dimostrare la validità di questo concetto positivo di Megalopoli, lontano mille miglia dall'idea di città degenerata evocata originariamente dal reazionario Oswald Spengler (non a caso ispiratore dei nazisti). L'altro esempio, nostrano italiano, è quello del Progetto '80 e delle sue proiezioni territoriali, che intendevano non tanto imporre astratti assetti macro-progettuali alla penisola, ma al contrario dare respiro strategico a processi già in corso, e tentare di monitorarne in modo unitario gli sviluppi. Basta pensare ai passaggi che legavano ambiente, mercato del lavoro, e nascita di quello che allora si chiamava ancora elaboratore elettronico. Ripensarci, oggi, guardando alla Cina ma non solo, non pare così sciocco e fuori dalla realtà, anche se magari non piace alla vulgata contabile di gran voga (f.b.)