Una riflessione ambiental-comportamentale-generazionale che apre un intero mondo ricco di prospettive anche e soprattutto per chi si occupa di politiche urbane e territorio, ben oltre la pura mobilità dolce. Corriere della Sera, 12 ottobre 2014, postilla (f.b.)
Un terzo dei bambini e dei ragazzi fino a 13 anni va a scuola a piedi. Un terzo degli studenti fa lo stesso per raggiungere istituti superiori e università. Gli adulti che arrivano a piedi sul luogo di lavoro sono tre volte di meno. Solo l’11,5 per cento del totale. Nel dato diffuso dall’Istat in occasione della Giornata nazionale del camminare (oggi) è contenuta una lezione interessante. Questa: i nostri figli e nipoti sanno trarre insegnamenti utili da tempi grami. Provate a pensare: perché un ragazzo sceglie di andare a scuola a piedi? Ha ragionato sulla riduzione dell’inquinamento e la qualità della vita nelle aree urbane? Possibile, ma non probabile. Se va a scuola a piedi è perché si fa più presto ed è più divertente: meglio chiacchierare con gli amici che sopportare un genitore nervoso imbottigliato nel traffico. Zaini pesanti? Si adotta il trolley. Logico, se ci pensate.
Quella logica di cui noi adulti, spesso, non siamo capaci. Molti miei coetanei non sanno camminare: se muovono i piedi, devono correre. Una splendida attività, sia chiaro, per cui è bene tuttavia consultare tendini, mogli e cardiologi. Camminare è un’azione antica come l’uomo. Quando si è alzato in piedi, nella notte dei tempi, non ha ballato la rumba o chiesto se qualcuno gli dava un passaggio. È andato da un posto all’altro. Se non è stato divorato, è pure tornato indietro.
I ragazzi camminano, e arriveranno lontano. La generazione nata alla fine del XX secolo sta recuperando abitudini antiche: andare a piedi è una di queste. Anche andare in bicicletta. Usare i mezzi pubblici. Non acquistare un’auto, condividerla («car sharing», in milanese moderno): da Enjoy a BlaBlaCar è tutto un fiorire d’iniziative. Tempi economicamente impegnativi e genitori psicologicamente fragili hanno compiuto il miracolo. I ragazzi inventano attività nuove, grazie a Internet. E reinventano cose vecchie: lavorare insieme, iniziare un’impresa, camminare.
Non è un’apologia della decrescita felice: essere più poveri non è mai bello. È, invece, una constatazione ammirata. Gli italiani di domani usano anche le idee di ieri per affrontare le difficoltà di oggi. Chiamare «vintage» l’usato, per esempio, è geniale: una spolverata di modernità sul giubbotto dello zio. La parsimonia dei giovani clienti ha portato produttori e distributori a ragionare di più su quello che vendono. Alimentarsi con attenzione ha costretto l’industria a essere meno opaca (ai tempi dei social network gli errori si pagano, dall’amministratore delegato in giù). Molti di questi comportamenti sono legati alla necessità. Ma non possiamo farcene un merito, noi che siamo nati negli anni Cinquanta e Sessanta. Aver tollerato l’espansione di una generazione di precari — senza tutele, con pochi soldi, con scarse prospettive di impiego tradizionale — non è un motivo di merito. Resta un fatto: alcuni buoni comportamenti sono figli (illegittimi) delle nostre cattive decisioni.
I ragazzi sono avanti, anche quando sono indietro. Una generazione tanto poco teorica, e così pratica, non si vedeva in Italia da cinquant’anni. Come abbia fatto a crescere nelle nostre case — ideologicamente cariche, inutilmente dogmatiche — non si sa. Ma sta accadendo. E il grande aiuto che possiamo darle è: lasciamola fare. Lasciamola camminare da sola, e decidere dove vuole andare. Per tornare da dove siamo partiti. Non accompagniamo i ragazzi a scuola in auto, se è possibile evitarlo. Non portiamo i figli all’università sul sellino dello scooterone. È un errore educativo e un azzardo stradale. Ma avete visto come guidano la moto, certi cinquantenni?
postilla
L'Autore non ce lo dice, forse non interessa cogliere per motivi professionali il legame diretto, ma quello che ci sta raccontando altro non è se non lo scontro campale in corso fra conservatori e progressisti a proposito di strategie di sviluppo urbano-territoriali (ed economico-sociali) del futuro. La parola chiave sono quelli che gli statistici chiamano Millennials, cioè la generazione che va dai ragazzini a chi inizia ad affacciarsi ora ad una vita adulta e pienamente autonoma: cosa vogliono, si chiedono istituzioni e mercato, e soprattutto cosa vogliamo offrirgli? In termini di spazio dentro cui “camminare” in senso lato, ovvero di città e territorio, pare che destra e sinistra ancora si distinguano. La destra, quella che conosciamo bene anche dalle nostre parti (indipendentemente dalle etichette e colore di bandiera) vuole la dispersione insediativa, la frammentazione familista, i consumi individuali compulsivi e coatti. La sinistra, o schieramento davvero progressista che dir si voglia, dovrebbe promuovere condivisione, sostenibilità, socialità e relazioni non competitive. In fondo è la differenza tra andare a scuola a piedi in un quartiere integrato, e farsi accompagnare dai nonni lungo una eterna Bre.Be.Mi. col quarto Suv di famiglia, da un baccello chiuso monofunzionale all'altro, magari con le sentinelle in piedi in mezzo all'unico spazio pubblico del sagrato. Per restare al tema mobilità affrontato da Severgnini, su Città Conquistatrice qualche riflessione su domanda, offerta, Automobile di Destra e Automobile di Sinistra (f.b.)