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Giampaolo Visetti
Super Pechino
27 Luglio 2015
Città quale futuro
La questione dei grandi sistemi insediativi, di riconoscerne l’esistenza in quanto tali e poi eventualmente di programmarne lo sviluppo, è vecchia quanto l’uomo. Ma anche il vizio di confondere un po’ i termini.

La questione dei grandi sistemi insediativi, di riconoscerne l’esistenza in quanto tali e poi eventualmente di programmarne lo sviluppo, è vecchia quanto l’uomo. Ma anche il vizio di confondere un po’ i termini. La Repubblica, 27 luglio 2015, postilla (f.b.)

La Cina vuole donare al mondo la nuova capitale del futuro. Sarà la megalopoli più vasta e popolata della storia e anche il suo nome sembra studiato su un pianeta alieno, dove è vietato perdere tempo: “JJJ”, ossia “Jing-Jin-Ji”, da pronunciare “tre gi”, o “gei-gei-gei”. Già la sigla rivela un progetto colossale: fondere Pechino (Beijing), con il porto di Tianjin e con l’intera regione dell’Hebei, che i cinesi chiamano rapidamente «Ji». Le dimensioni appaiono oggi disumane: oltre 100 mila chilometri quadrati e 130 milioni di abitanti. Per capire: la capitale cinese conta oggi 21,5 milioni di persone, New Delhi 14, Tokyo 13,3, Città del Messico 9,1, New York 8,4, Londra 8,3. La nuova mega- city globale avrà un po’ meno di un terzo degli abitanti degli Usa, quasi quanti l’intera popolazione russa, oltre il doppio di quelli in Italia. Roma ha 2,6 milioni di residenti, Milano 1,5: non rappresenteranno nemmeno un quartiere della metropoli con cui il presidente Xi Jinping è deciso a sconvolgere il profilo di quella che punta a diventare la prima super- potenza del secolo.

Pure l’obiettivo tradisce un’ambizione senza precedenti: creare un nuovo concetto di urbanizzazione, per chiudere l’era delle città industriali dell’Occidente, nate nell’Ottocento, e aprire quella delle regioni hi-tech, che segneranno il Duemila dell’Oriente. La spaventosa “Big-Bei”, appellativo con cui la propaganda di Stato cerca già di rendere simpatica la prossima capitale tra i cinesi, è investita della missione di dominare il pianeta, ma prima di salvare la Cina socialista, costretta a convertirsi realmente alle leggi del libero mercato. Pechino ha il problema di essere un innesto incompiuto e arretrato: la metropoli del potere maoista è cresciuta sulle rovine di quella imperiale, lo stile è quello squallido sovietico, la qualità della vita prossima allo zero, i residenti sempre più vecchi. L’antica bellezza di pietra è soffocata dai palazzoni di cemento, bunker del partito-Stato e delle sue “industrie del popolo”. Traffico, congestione e smog sono un incubo che gli stessi cinesi, dopo gli occidentali, si sono rassegnati a definire «condizioni inadatte alla vita umana».

Il “nuovo Mao”, deciso a non farsi schiacciare nella funzione burocratica del moralizzatore anti-corruzione, così ha deciso: il mondo ha bisogno di una capitale-simbolo del futuro, la Cina di una giovane metropoli- immagine del cambiamento e questa vetrina globale del “sogno cinese” sarà Pechino, rifondata come “JJJ”. La leva della rivoluzione, oltre agli affari, è la tecnologia. Per connettere una città-regione vasta come un terzo dell’Italia, entro dieci anni verranno ultimate decine di linee ferroviarie ad alta velocità, di autostrade, di canali fluviali e di ponti, di metropolitane, di aeroporti e di tunnel. L’attuale Pechino, ricostruita nei villaggi imperiali rasi al suolo dalle Guardie rosse, resterà uno spot di storia, arte e ambiente, consacrato al business del commercio e del turismo internazionale. La nuova metropoli, estesa tra il mare di Tianjin, le montagne che confinano con la Mongolia e le pianure dello Yangtze che conducono verso Shanghai, inghiottirà centinaia di villaggi rurali e di città di seconda fascia, trasformate in dormitori, distretti industriali, poli della ricerca e del potere, tutti satelliti del pianeta principale.

Già oggi è in parte così. Più del 60% dei pechinesi abita al di là del quinto anello delle circonvallazioni, muro ufficiale che divide il centro dalla periferia. Per questa massa di persone, costituita da 8,1 milioni di migranti interni, la vita quotidiana è un calvario. I vecchi si alzano all’alba e raggiungono le stazioni dei bus prima delle cinque, per fare la coda al posto dei figli che lavorano in città. Questi arrivano alle sei e grazie al sacrificio dei genitori pensionati possono sperare di raggiungere l’ufficio, o la fabbrica, dopo tre ore di viaggio. Il tragitto medio del pendolare metropolitano tocca in 50 chilometri, per coprire i quali si impiegano anche cinque ore, condanna da scontare due volte al giorno.

L’onnipotente Commissione per lo sviluppo e per la riforma (NDRC), ha ora annunciato che grazie all’alta velocità i futuri abitanti di “JJJ” non dovranno perdere oltre un’ora al giorno sui mezzi di trasporto, percorrendo al massimo 100 chilometri. Il segreto, secolare eredità nazionale, è la pianificazione forzata. Ad ogni area metropolitana il governo assegnerà un compito preciso: l’attuale Pechino punterà su cultura e terziario hi-tech, Tianjin su ricerca, distribuzione ed energia, l’Hebei sulla manifattura delle piccole e medie imprese. Anche i sobborghi riceveranno l’ordine di una vocazione. Il quartiere-fantasma di Tongzhou, una spianata con centinaia di prefabbricati tutti uguali alti venticinque piani, sarà trasformato nella nuova cittadella del potere rosso.

Dopo oltre mille anni il cuore dell’impero traslocherà dalla Città Proibita, affacciata su piazza Tiananmen, alla periferia nord, su cui sorgerà pure un secondo aeroporto, subito candidato ad essere «il più trafficato del pianeta». A Tongzhou verranno trasferiti i ministeri, il cosiddetto parlamento, la sconfinata burocrazia cinese, i colossi dell’economia di Stato, ma pure gli ospedali, le università, i tribunali e le caserme dell’armata di liberazione. L’obiettivo dichiarato è alleggerire il centro dal traffico e dall’inquinamento più terrorizzanti dell’Asia. Quello taciuto è circoscrivere la roccaforte del potere comunista, per renderla più controllabile, interconnessa e difendibile. Treni- missile e metrò, grazie a convogli da oltre 300 chilometri all’ora, faranno sì che entro il 2025 trasferimenti che oggi impegnano tre ore vengano ridotti a non più di 40 minuti.

Riordinare la Cina in un’unica megalopoli verde e hi-tech, con Pechino centro del Nord, Shanghai del Centro e Guangzhou del Sud, è la missione a cui la nuova generazione dei leader affida non solo il destino delle riforme economiche, ma anche la sopravvivenza dei cinesi e quella del partito. Una super-città da 130 milioni di abitanti, fondata su treni, auto elettriche, energie verdi e colletti bianchi, rappresenta una sfida titanica per i servizi, dall’acqua al cibo, dall’istruzione ai rifiuti. L’urto del boom immobiliare sfonda però anche i limiti conosciuti della convivenza sociale, mescolando un decimo della popolazione nazionale. «La mobilità veloce — dice Dong Zuoji, direttore dell’ufficio centrale di pianificazione territoriale — rivoluziona gli spazi politici, economici e vitali: ma prima di tutto apre prospettive inimmaginabili al sistema adottato dall’umanità per distribuirsi sulla terra. Il fenomeno dell’immigrazione ad esempio, presto sarà superato».

Per bruciare le tappe “JJJ” punta ancora una volta sulle Olimpiadi. Il 31 luglio il Cio assegnerà i Giochi invernali 2022 e Pechino contende alla kazakha Almaty l’opportunità di diventare la prima località al mondo ad aver ospitato le gare olimpiche sia estive (2008) che bianche. Il punto forte della candidatura cinese, oltre al low cost e agli sponsor, è proprio l’eco-compatibilità e la connessione rapida con i campi di gara, sulle montagne di Zhangjiakou, vicino alla Grande Muraglia. Da mesi, per vincere la sfida del cielo blu, le autorità hanno fermato fabbriche, centrali a carbone e traffico. Milioni di migranti, grazie a un sistema a punti, sperano di strappare i diritti di cittadinanza nella capitale, miraggio rurale dai tempi di Mao.

Se tra dieci giorni Pechino coronerà il secondo sogno olimpico in un quindicennio, il segnale sarà inequivocabile per tutti: il conto alla rovescia della megalopoli-Paese del futuro è cominciato, il mondo ha trovato la sua prossima capitale.

postilla
In fondo la verità pura e semplice ce la racconta nei fatti anche l’articolo: centomila chilometri quadrati sono un terzo del totale della superficie italiana, e anche quei 130 milioni di abitanti (specie se non si concede troppo al caso o allo sprawl «di mercato») organizzati per nuclei di grandi e medie dimensioni ci stanno relativamente comodi, lasciando spazio a ottime e pure visivamente abbastanza «a perdita d’occhio» distese verdi. Insomma l’idea originaria e autentica di megalopoli, complice l’urbanizzazione planetaria e i problemi creati dalla crescita a casaccio, pare stia iniziando a uscire dal cosiddetto «libro dei sogni», così come si chiamava da noi in Italia con linguaggio sprezzante esattamente qualcosa del genere, circa mezzo secolo fa. Sarebbe ora che qualcuno, come auspicano ogni tanto geografi o urbanisti in qualche estemporanea intervista sulla vita e dintorni, si accorgesse che nominarla, la megalopoli, non significa fare paura ai bambini, ma iniziare a riconoscere il problema, e magari affrontarlo per tempo coi criteri adeguati. Invece a volte dobbiamo sorbirci sequele di sciocchezze, come quelle pubblicate tempo fa da un noto architetto e ascoltato maître à penser locale, riportate nello Stupidario (f.b.)

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