I giornali e la televisione si affannano a raccontare che l’affermazione dei pentastellati al Sud sarebbe derivata dalla loro promessa di adoperarsi per un reddito di cittadinanza, intendendo con questa espressione un reddito ottenuto senza lavorare. A noi sembra invece che... (segue)
Le opere e il lavoro necessari
Il lavoro da fare in Italia che il mercato non vede ma la società richiederebbe non è certamente poco. Pensiamo, da un lato, alla gigantesca impresa di risanare, riordinare, rendere abitabile il nostro territorio, squassato dai terremoti, dalle opere dissennate degli uomini, dalla mancanza di manutenzione delle terre e del reticolo acqueo, dai disboscamenti e le alluvioni, dalle cementificazioni a meri fini speculativi. Pensiamo poi alla necessità di renderlo più amichevole e adatto alle necessità della vita dei suoi abitanti, ivi compresi quelli più fragili per l’età o le condizioni fisiche o sociali: pensiamo alle scuole e ai trasporti, alla salute e alla ricreazione, alla mobilità e all’accessibilità.
E pensiamo poi, dall’altro lato, alle legioni di urbanisti e di architetti, di geometri e di ingegneri e, per non parlare dell’altro personale specializzato e generico, intellettuale o manuale, la cui attività sarebbe necessaria.
Le risorse
Ma il lavoro non basta, servono risorse per pagarlo: da dove prenderle? Le fonti sono molteplici: dai risparmi ottenibili rinunciando alle inutili Grandi opere, inventate solo per accrescere la potenza dei poteri forti; da una fiscalità conforme alla Costituzione: più tasse da chi è più ricco, in progressione del reddito e del patrimonio: altro che flat tax; e infine soprattutto dalla pesante riduzione delle spese militari.
Pochi sanno quanto paghiamo per preparare le guerre. Sono cifre che chi detiene il potere è interessato a tener celate, e così i suoi manutengoli. Ecco alcune cifre:
1. il totale della spesa militare nel 2018 è pari a 23 miliardi di euro (64 milioni di euro al giorno),
2. di questi, 15,5 miliardi vengono spesi per il rinnovo degli armamenti, ossia per avere armamenti idonei a uccidere meglio, più rapidamente e sicuramente, grandi quantità di “nemici”
3. Il 60% delle spese è assorbito da una struttura del personale elefantiaca e squilibrata fino al paradosso di avere più comandanti che comandati
A queste cifre vanno aggiunte quelle per le “missioni umanitarie”. Che spesso coprono vere e proprie missioni militari, come quelle in Afghanistan e nel Sahel, oltre alle spese per le basi Usa, e per il depositi per le armi nucleari in Italia.
Quasi nessuno - nella campagna elettorale da cui siamo reduci - ha affrontato questi problemi, né alluso alle strade da percorrere salvo l’esigua pattuglia di “potere al popolo”. Si sono ascoltate le promesse più ridicole, ma nessuna prospettiva seria per il lavoro come strumento per affrontare i giganteschi problemi del territorio e dell’habitat dell’uomo.
Così come, del resto, nessuno ha parlato della Pace: di questo dimenticato lemma, parola d’ordine e obiettivo strettamente legati alla de-militarizzazione, di cui è insieme causa ed effetto. ll che non può non sconcertare visto che parliamo dell’Italia, di un paese nel quale c’è la centrale del mondo cattolico, e in cui qualche decennio fa il popolo di sinistra, e non solo quello, scendeva in piazza per la pace.
Che cos'è il MoSE? Che cos'è il Consorzio Venezia nuova? Siete sicuri di saperlo? Proviamo a raccontarlo: sono storie non belle, nè per l'ambiente nè per il resto. Con riferimenti.
Il MoSE (Modulo sperimentale elettromeccanico) è noto all’estero come un meraviglioso sistema di alta tecnologia capace di salvare Venezia dall’acqua, ed è noto in Italia per essere l’emblema della Grandi opere inutili e dannose. Gli italiani, essendo più vicini alla realtà, sono più vicini al vero, ma neanche la maggior parte di loro sa bene quali sono i reali danni che il MoSE sta portando alla Laguna e alla città.
Meno ancora si sa che cos’è il Consorzio Venezia nuova (CVN), cioè l’attore cui sono stati affidati la progettazione, la costruzione e la gestione del MoSE. A dire il vero sul consorzio la stampa, soprattutto locale, si è soffermata con qualche attenzione a proposito di alcuni scandali individuati e colpiti dalla magistratura per quanto riguarda alcuni episodi di mazzette, o tangenti, distribuite con una certa larghezza ai possibili facilitatori dell’impresa. Scandali ben più limitati e modesti del gigantesco scandalo rappresentato dal MoSE nel suo complesso, sul quale vogliamo invece soffermarci.
Vogliamo occuparcene in riferimento a tre aspetti: (1) il profondo errore compiuto nella scelta di quel sistema per affrontare il problema della salvaguardia della città e della sua Laguna; (2) il pesante aggravamento dell’errore nel decidere a chi affidarne la progettazione e realizzazione; (3) l’esteso processo di corruzione della maggioranza degli attori, che hanno operato (e continuano ad operare) nella città.
Il Comune di Venezia aveva affidato nel 1982, a un gruppo di studiosi (con la direzione scientifica di Andreina Zitelli e il coordinamento politico-amministrativo di Luigi Scano) il compito di elaborare un progetto fortemente guidato sulla visione ecosistemica del problema. Da questo emerse il rapporto Ripristino, conservazione ed uso dell'ecosistema lagunare veneziano, che divenne da allora l’approccio di riferimento del Comune.
2. L'affidamento dei lavori alla banda CVN
Nello stesso anno, il 1982, mentre il Comune di Venezia lavorava in una direzione coerente con la natura e storia millenaria del suo governo, quattro imprese - variamente legate al mondo del cemento armato - si erano consorziate a formare il Consorzio Venezia Nuova (CVN): Italstrade, Grandi Lavori Fincosit, Società italiana per Condotte d'Acqua e Mazzi Impresa Generale di Costruzioni. E poco dopo, nel 1984, mentre il Parlamento discuteva ancora sulle modalità con qui affrontare il problema della salvaguardia della Laguna, il ministro Franco Nicolazzi affidava al CVN la concessione di tutte le opere e gli interventi necessari.Ecco dunque che tutto il potere (e i finanziamenti) vengono attribuiti al Consorzio Venezia Nuova.
Acquisito il potere, nel 1985, il Consorzio si adorna di un nuovo presidente, Luigi Zanda, persona garbata e accattivante, che si avvalse delle sue relazioni e della sua indubbia capacità di adoperare cultura e munificenza per rendere appetibile l’immagine del Consorzio, e quest’ultimo comincia a spendere.
3. I danni
Il primo danno, ne abbiamo già parlato su eddyburg ampiamente, è la devastazione ambientale e la rottura del legame ecologico tra l’habitat del mare e quello della Laguna, conseguente all’aver scelto la logica ingegneristico-tecnologica invece di quella olistica ed ecologica. Un danno irreversibile: nessuno potrà mai rimuovere le gigantesche strutture di calcestruzzo nelle quali sono innestate le paratìe mobili, corrispondenti a un edificio alto una decine di metri, inserite nei fondali in corrispondenza delle tre “bocche di porto”.
L’entità di questo danno è ulteriormente aggravato dal fatto che non è per nulla sicuro che il sistema progettato sia realmente attivabile senza rischi ancora maggiori di quelli dell’alta marea eccezionale. Esistono infatti notevoli dubbi, tecnicamente e scientificamente mai fugati, sulla tenuta delle cerniere che legano i portelloni mobili al basamento.
Il terzo danno, attualmente non comprovato da documenti, ma assai probabile in quanto sono innumerevoli gli episodi citati dai veneziani, è costituito dalla gigantesca azione di corruzione esercitabile (e certamente in gran parte già esercitata) sulla società veneziana. Certamente l'esuberante entità della somma in gioco e la discrezionalità nel maneggiare i cordoni della pingue borsa concorrono a rendere questa ipotesi una possibilità concreta. Il CVN non è concessionario dello Stato per il solo MoSE, il complesso degli interventi che gli sono stati attribuiti (ripetiamo, senza alcuna gara d’appalto o altra forma di pubblico confronto) è di circa 8.333 milioni di euro. A fronte di questi soldi, meccanismi non trasparenti, interessi enormi e racconti di favori; sono molti i dipartimenti universitari e le altre istituzioni culturali, gli istituti di ricerca, gli studi professionali, le testate giornalistiche e altri organi d’informazione che hanno goduto di benefici e contributi, diretti o indiretti, dal CVN.
Di seguito i link di alcuni articoli di approfondimento: Edoardo Salzano, Il Mose, storia di un conflitto tra interesse privato e natura, ottobre 2005; Eddytoriale 103, aprile 2007; ArmandoDanella, MoSE: prima che sia troppo tardi, luglio 2010. Vedi inoltre qui, nella cartella del vecchio eddyburg e qui, nella cartella dell'attuale archivio, tutti gli articoli pubblicati da eddyburg sul MoSE.
Nei media continua la polemica sulle Ong che raccolgono, nelle acque della tomba Mediterraneo, i profughi che tentano di raggiungere le mura della Fortezza Europa. Sono rare le voci che cercano di frenare la voglia dominante di rigettare in acqua i malcapitati, spesso dall’epidermide scura, che fuggono dai loro inferni. (segue)
Tutti sono concordi nel condannare i perfidi trasportatori, a pagamento, della carne umana in fuga. E nell’accomunare nella condanna (“ma ho solo indizi”, dice il terribile giudice Zuccaro di Catania) chi per caso osasse accordarsi con costoro per salvare i profughi. Non sappiamo se indignarci più per l’ipocrisia o per l’ignoranza che animano il coro. Sforziamoci ancora una volta di ricordare alcuni fatti ampiamente documentati
1.
Siamo noialtri europei, con gli altri abitanti del Primo mondo, i responsabili di aver trasformato in inferni le terre da cui fuggono i profughi. Siamo noi che abbiamo costruito il nostro benessere saccheggiando le loro terre. Lo raccontava già Vladimir Lenin quando scriveva, all’inizio del secolo scorso, che il capitalismo “esportava” le proprie contraddizioni (i più alti salari e il welfare concesso ai suoi lavoratori) occupando terre e impadronendosi di risorse altrui.
I vettori dei mercanti di profughi (i camion per l’attraversamento dei deserti e i gommoni per il Mediterraneo) rimarranno attivi finché i paesi del benessere non si saranno decisi a imboccare la strada giusta: (1) organizzare dei "corridoi protetti" che aiutino gli "sfrattati dallo sviluppo" a raggiungere i nostri paesi (come propone inascoltata da anni Barbara Spinelli), creando l’unica alternativa possibile ai mercanti di uomini; (2) realizzare nelle nostre terre le condizioni per un'accoglienza temporanea o definitiva, a seconda del nuovo progetto di vita dei nuovi abitanti delle nostre avare terre.
Nessuna forza politica, di quelle presenti nel nostro Parlamento, ha proposto qualcosa di simile. E il governo si è mosso nella direzione opposta. Le nuove regole per la sicurezza e il decoro (e per il respingimento) vanno platealmente nella direzione opposta. Salvini è già al potere.
Eppure, la pressione della realtà è così forte che non potranno alla lunga essere efficaci - oltre a essere inumani - neppure i tentativi di emulare i nazisti e indurre gli stati di transito (come la Libia) e quelli di provenienza (come la Nigeria) a trasformare i loro territori in giganteschi campi di concentramento; tentativi nei quali sembrano particolarmente impegnati, oltre ai renzisti di stretta osservanza, anche i suoi seguaci all’apparenza mansueta, come l’attuale premier Paolo Gentiloni.
Baffoni ha mandato la sua risposta. Vorremmo che il dibattito proseguisse. Scriveteci, non solo se siete donne. L’8 marzo, e la riflessione cui questa data ci sollecita tutti, dura tutto l’anno (e.s.) (segue)
Qui c'è verità. Inutile rivendicare primazie sul maschile. Quel che conta è il cambiamento, la crescita, l'aprirsi di possibilità. Non l'8 marzo, enclave dedicato e poi rapidamente dimenticato. Per mutare il proprio destino di sottomesse/i bisogna lottare tutti i giorni. Insieme rifondando la politica del futuro.
Sarebbe lungo elencare tutti gli elementi della marcia verso il totalitarismo che sta raggiungendo il suo culmine. Altro che “modernizzazione”! Siamo tornati indietro non solo rispetto ai principi definiti nelle costituzioni del secolo scorso (e rispetto alla nostra del 1948), ma addirittura rispetto a quelle individuate come principi essenziali dalla borghesia liberale alla fine del 18° secolo.
Le premesse
Si era già cancellato il principio della separazione tra i tre poteri (legislativo, giudiziario, esecutivo), concentrando tutto nelle mani di quest’ultimo. Si era già violato il principio dell’elezione diretta – da parte di un Parlamento eletto dai cittadini - del governo, del primo ministro e delle altre cariche rilevanti, concentrando tutti i poteri nelle mani del capo di un partito (cioè di una “parte" sola dell’elettorato), e del governo da lui scelto. Il capo dell’esecutivo non è stato scelto dal popolo secondo le regole della democrazia rappresentativa, che tendono a far rappresentare tutte le “parti”, ma è espressione di una sola di esse: il capo del governo, Matteo Renzi, è tale perché era diventato il capo di una “parte” del suo partito.
Si era proseguito con ferocia nel processo avviato dai governi della fine del secolo scorso, privilegiando il “privato” rispetto al “pubblico”, la “governabilità” rispetto alla democrazia, instaurando il decisionismo dei vertici a tutti i livelli istituzionali, riducendo il peso degli organi collegiali e pluralistici a vantaggio dei “capi” (le giunte invece dei consigli, i sindaci invece delle giunte, ecc.).
La riforma, perché (e come) la vuole JP Morgan
Si è infine avviata la riforma profonda della Costituzione in nome di una esigenza (la “governabilità”) sollecitata da un gruppo leader della finanza internazionale, JP Morgan[1] (come lo stesso ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, “padre” della riforma Renzi-Boschi, ha pubblicamente ammesso). Ciò al prezzo di una riduzione del tasso di democrazia e dello smantellamento delle conquiste sociali raggiunte dal 1948 alla fine degli anni Settanta del secolo scorso.
Si è cancellata la distinzione tra le regole permanenti (cioè la Costituzione), che devono valere per qualunque governo e qualunque maggioranza, e le leggi ordinarie, che spettano al lavoro del parlamento in carica per un periodo determinato. Per di più, il principio espresso da Piero Calamandrei sulla distinzione tra legge costituzionale e competenze del governo [2], è stato trasformato nel suo contrario: è il governo che ha dettato e imposto la sua volontà a un parlamento, eletto con una legge dichiarata incostituzionale e composto, nella sua maggioranza, da persone digiune di competenze istituzionali o timorose di perdere i privilegi acquisiti.
Con la trasformazione del Senato in camera dei nominati anziché degli eletti non si abolisce il bicameralismo (poiché l’intreccio tra competenze legislative dei due rami del parlamento rimane), ma si rende uno dei due rami del parlamento espressione dei partiti e non degli elettori.
Con la modifica della Costituzione si vuole cancellare del tutto il ricco sistema delle istituzioni elettive con lo stabilire la regola che “chi vince, anche con una minoranza di voti, piglia tutti i poteri”. Ciò anche in virtù della nuova legge elettorale che - non dimentichiamo - è già in vigore.
Bugiardi e truffatori
La menzogna e l’oscuramento di ogni posizione di argomentato dissenso regnano sovrani. Si arriva a chiedere il voto su un testo (il titolo della legge di riforma costituzionale) che non ne rispecchia affatto il contenuto ma è un elenco di intenzioni che, quando non sono incomprensibili, a nessuno verrebbe voglia di respingere. Alle argomentate critiche si risponde con insulti e sberleffi, alle articolate proposte con il silenzio, ai ragionamenti con gli spot alla Vanna Marchi.
Si giustifica la riforma con l’argomento del risparmio di risorse. La Ragioneria dello Stato ha rivelato che la minor spesa derivante dalla riforma è infinitesima rispetto ai mille sprechi compiuti ogni giorno dal governo. A testimoniare la malafede del governo si è osservato che un risparmio maggiore di quello prodotto dalla trasformazione del senato in organo non elettivo avrebbe potuto essere raggiunto dalla riduzione del numero dei deputati, come altri avevano proposto.
L’acquiescenza è totale. I mezzi d’informazione sono nelle mani del governo, o sono a esso legati da mille e uno interessi. Il primo ministro si avvale della sua carica istituzionale per imporre la sua presenza sulle televisioni al di là di ogni regola sulla parità di condizioni tra sostenitori dell’una o dell’altra opzione. Il servilismo prorompe dalle figure più impensate.
Il rischio per la democrazia è grave
In sostanza, dai principi e le regole della democrazia liberal-borghese, da quelli della democrazia popolare nata dall’antifascismo e la Resistenza, si vorrebbe trasformare l’ordinamento dello Stato in un regime feudale: la piramide del potere ha un vertice dal quale discendono via via tutti i poteri subordinati, i cui rapporti interni sono caratterizzati da obbedienza e convenienza. Nell’attesa della riforma costituzionale, l’ordinamento feudale ha cominciato a essere costituito nella realtà dei rapporti di tutte le componenti di rilevanza collettiva sulle quali il governo abbia la possibilità di incidere: dalla pubblica amministrazione, alla scuola, alla sanità, ai beni culturali, alle università, al mondo finanziario, al commercio.
In questa situazione di grave rischio democratico stupisce e preoccupa il fatto che una parte consistente di persone informate dei fatti, pur essendo critiche sul contenuto della riforma, siano ancora incerte, o propendano per il SI, in relazione a preoccupazioni di breve durata: quali la permanenza o meno del governo attuale (che nessuno ha votato), il convergere sul NO di interessi e moventi diversi, il timore di un rigurgito di fascismo nel caso di bocciatura della legge di riforma. Invitiamo tutti i lettori di eddyburg che non hanno già scelto il no a farlo entro il prossimo 4 dicembre.
Riferimenti
Su eddyburg un’intera cartella è dedicata al tema “difendere la Costituzione": raccoglie decine di testi critici scritti da esperti e altre personalità realmente democratiche come Michele Ainis, Lorenza Carlassara, Paolo Maddalena, Alessandro Pace, Stefano Rodotà, Valerio Onida, Nadia Urbinati, Gustavo Zagrebelsky, Salvatore Settis, Gaetano Azzariti, Paolo Prodi, Livio Pipino, Paolo Flores D’Arcais, Nino Di Matteo, Alfredo Reichlin, Luciano Canfora, Walter Tocci, Felice Casson, Sandra Bonsanti, Tomaso Montanari, Carlin Petrini, Rosetta Loy, e moltissimi altri. Se volete leggere una sintesi scorrevole , semplice e rigorosa delle ragioni critiche alla riforma scaricate il libretto di Tomaso Montanari, Così NO.
[1] JPMorgan, “The Euro area adjustment: about halfway there”, Europe Economic Research, 28 maggio 2013. «The political systems in the periphery were established in the aftermath of dictatorship and were defined by that experience. Constitutions tend to show a strong socialist influence, reflecting the political strenght that left wing parties gained after the defeat of fascism»: pag. 12)
[2] «Nella preparazione della Costituzione, il governo non deve avere alcuna ingerenza. Nel campo del potere costituente il governo non può avere alcuna iniziativa, neanche preparatoria. Quando l’Assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti».
. (segue)
È quello che ci accade oggi a proposito di una realtà che Ilaria Boniburini ha definito I nuovi dannati della terra: gli sfrattati dallo “sviluppo”, delineata in uno scritto che abbiamo pubblicato qualche giorno fa a seguito di un discorso iniziato su eddyburg con l’Eddytoriale n. 169 e la diffusione di materiali raccolti nelle cartelle EsodoXXI e La Guerra diffusa. Abbiamo poi inviato una lettera ad alcune delle persone che ci hanno aiutato a comprendere la pesantezza di questa realtà: innanzitutto a Barbara Spinelli e Guido Viale i quali, con un convegno internazionale che si è svolto a settembre a Milano, ci hanno aiutato a compiere qualche altro passo avanti rispetto alla complessità delle cause di questo fenomeno.
Dalla rabbia all’azione
Ecco la nostra lettera:
«Siamo pieni di rabbia per l’atteggiamento di rifiuto e negazione che caratterizza moltissimi, troppi, europei e italiani nei confronti dei migranti. Abbiamo imparato (soprattutto dal convegno internazionale promosso e organizzato da Barbara Spinelli a Milano) che ciò che noi vediamo sbarcare in Italia e in Europa è solo la dolorante punta del gigantesco iceberg formato dalla massa sterminata degli sfrattati della terra, cacciati dalle loro case e dalle loro terre dalle mille rapacità degli sfruttatori locali e globali. Sono solo pochi i “privilegiati” che hanno la forza e le risorse per rischiare la morte e “salvarsi in Europa” e noi li guardiamo con paura, o disprezzo, o con indifferenza (che forse è ancora peggio).
«A noi, che abbiamo la fortuna di conoscere e comprendere, il sapere non può bastare: dobbiamo agire. Come associazione eddyburg ci proponiamo di avviare una serie di iniziative volte a far conoscere ciò che è («dire ciò che è, è rivoluzionario», ha scritto Rosa Luxemburg).
«Non vogliamo limitarci a scriverlo sul sito per i suoi frequentatori. Vogliamo impegnarci in una serie di incontri diretti, conferenze o seminari con piccoli gruppi di persone, incluse le scuole di ogni ordine e grado. Vogliamo coinvolgere i pochi soci della nostra associazione, e i più numerosi che possiamo raggiungere col nostro sito in un’azione il più capillare possibile di sensibilizzazione alla solidarietà, alla responsabilità, alla partecipazione attiva».
Ci atterrisce, insomma, il baratro che si è creato tra la profonda condizione di miseria e disperazione in cui vive una parte dell’umanità (che si avvia a diventare maggioritaria), e l’inconsapevolezza di quella larghissima parte di abitanti della stessa Terra che ha goduto e continua a godere del benessere creato dallo sfruttamento degli “altri”, e vede le misere avanguardie di quella moltitudine qualcosa da allontanare, da reprimere, da ricacciare nell’inferno dal quale hanno tentato di fuggire.
Sappiamo bene che il percorso da compiere per riempire questo abisso è lungo, e ancora più lungo e difficile è quello necessario per fare fronte alle conseguenze di questa disumana iniquità, e soprattutto per eliminarne le cause. Ma assistere senza muovere un dito, o rifugiarci nel portare un contributo e una testimonianza solamente individuale non ci sembra sufficiente. La capacità d’impegno comune che l’arcipelago di cui eddyburg fa parte porterà sarà poco, ma è un inizio. Perciò, questo Eddytoriale è anche, e forse soprattutto, un appello.
E’ un appello a diffondere la consapevolezza che le politiche europee sui migranti sono sbagliate, che non rendono giustizia alla capacità di accoglienza, solidarietà e immaginazione che pensavamo fossero proprie della civiltà europea. E’ un appello a comprendere, e far comprendere a chi ci vive accanto, le complesse interazioni tra fenomeni migratori, degradazione ambientale, modello di sviluppo e i stili di vita che abbiamo abbracciato.
E’ un appello rendersi conto, e convincere gli altri, che un cambiamento radicale è necessario, per cercare soluzioni alternative alle politiche migratorie proposte, e per affrontare i problemi che affliggono i nostri territori e la nostra vita quotidiana, poiché il pianeta è un sistema - in cui le frontiere sono solo politiche - e noi siamo tutti legati dallo stesso destino. E’ un appello per immaginare un modo di convivere tra noi e con la natura profondamente differente da quello che oggi domina.
Avremmo voluto dedicare questo articolo alla dannosa legge cosiddetta “contro il consumo di suolo". Ma ci sembra che ciò che accade a Roma attorno a Ignazio Marino (e soprattutto al Campidoglio) meriti un’attenzione bruciante. Non si tratta di terrritorio, ma di democrazia, non di speculazione ma di fascismo. (segue)
Nel presentare su questo sito l’articolo di Norma Rangeri (il manifesto del 30 ottobre) abbiamo scritto che l'Italia è diventata un paese fascista. Non ci riferiamo solo all’odierna questione romana, poiché essa è l’epitome della questione italiana del XXI secolo. Antonio Padellaro ha ragione quando scrive che «su Ignazio Marino sindaco di Roma si può pensare tutto il male possibile: che sia stato gravemente inefficiente e troppo assente, che abbia chiuso un occhio o forse entrambi su Mafia Capitale, che sui famosi scontrini non l’abbia raccontata giusta».
Ma non è lì lo scandalo: lo scandalo è nel modo minuzioso, attento, abilissimo col quale il segretario (non eletto) di un partito, cioè di un’associazione che è “parte” della società, e contemporaneamente il presidente (non eletto) del consiglio dei ministri hanni orchestrato, diretto, propagandato e condotto a compimento l’eliminazione politica e istituzionale di un Sindaco democraticamente eletto, con grande maggioranza dei voti.
Ma quello che è ancora più grave per chi crede ancora nella democrazia e nelle sue istituzioni - così come sono state conformate dallo Costituzione - è la lesione compiuta con l’eliminazione di un Sindaco, eletto dal popolo, da parte un Presidente del consiglio dei ministri. Il mondo intero ha assistito alla defenestrazione del sindaco di una grande città compiuta senza motivarne le ragioni, semplicemente intimandogli di andarsene. Poi, alle sue resistenza, ordinando ai consiglieri membri del suo partito (meglio, suoi sudditi) di dimettersi, per ottenere così lo scioglimento del consiglio comunale cercando, e trovando, l’alleanza con la peggiore destra ottenendo cosi l’annullamento istituzionale del fastidioso critico. Il quale, udite udite, pretendeva soltanto che si discutesse pubblicamente sulle ragioni che spingevano a sfiduciarlo.
Numerosi i segnali, che ci arrivano ormai da molte regioni e molti ambienti (la scuola e l’università, le istituzioni del sistema delle autonomie e le fabbriche, gli studi professionali e le redazioni dei media) : la critica e la protesta non vanno al di là del mugugno tra quattro mura. Rarissimo, quasi eccezionale il caso di persone che abbiano il coraggio di esporre pubblicamente le loro critiche, per timore di perdere l’incarico, o il ruolo, o il posto. Il ricatto della pagnotta è la regola dominante nel regime feudale imposto dal ragazzo di Rignano - e, bisogna aggiungere, supinamente accettato da troppi italiani.
L’unico evento che potrà restaurare la democrazia in Italia è un allargamento della consapevolezza del fango nel quale siamo precipitati e, su questa base, una riscossa dello spirito di solidarietà e di ribellione, che sappia manifestarsi a partire dalle prossime elezioni. Decisivo è il ruolo degli intellettuali, cioè di quelle donne e quegli uomini che lavorano impiegando poco la forza, e la fatica, dei muscoli e molto gli strumenti del sapere. Avere la capacità di guardare al di là del presenta e nell’insieme un mondo miope e spezzettato è un privilegio che hanno acquistato grazie alla società che li ha alimentati: verso la società hanno un debito e una responsabilità forti, che devono onorare.
Due parole sul tema che abbiamo accantonato per soffermarci sulla democrazia: la legge sul consumo di suolo. La nostra fondata opinione è che questa legge è del tutto inservibile ai nobili fini che si propone. Chi ha la pazienza di analizzarla dal punto di vista dell’efficacia deve concludere, scoraggiato, che ha la stessa efficacia di un aratro senza vomere. Rinviamo in proposito agli articoli ….Così stando le cose rimane una domanda: come mai tante associazioni ambientaliste, tante persone sincere e oneste che militano nel mondo che condivide lo slogan “stop al consumo di suolo” non si sono accorte delìlla vacuità (se non dei rischi) di quella proposta. Non vorremmo che questo episodio debba ricollegarsi a quelli su cui ci siamo soffermati: l’illusione suscitata dall’accattivante immagine nasconde la miseria della sostanza, la velocità del cinguettio cancella la capacità di studiare.
Torneremo più ampiamente sull’argomento. Per ora invitiamo chi voglia capire perché quella legge se approvata, sarà una pietra tombale sull’argomento legga gli articoli di Vezio De Lucia del giugno 2013 (Consumo di suolo a un passo dal baratro) e del febbraio 2015 (A partire dalle buone intenzioni del ministro il Parlamento approda a una legge inservibile), di Eddyburg, febbraio 2015 (Eddyburg e il consumo di suolo), di Ilaria Agostini del maggio 2015 (Due leggi per il suolo).
Lo stormo di avvoltoi che si nasconde dietro al casco chiodato di Angela Merkel ha pensato di uccidere Alexis Tsipras, leader del popolo greco, e con esso la Grecia. Non crediamo che ci sia riuscito: la storia per Alexis e per la Grecia non è finita. Ma certamente Merkel e il suo partner Schäuble hanno ucciso l’Europa così come ce l’ha fatta immaginare la speranza nata a Ventotene a metà del secolo scorso. Possiamo dire che il tentativo di omicidio si è rivelato un suicidio: l’ "Europa reale" che è stata costruita su quella speranza è morta. Non è morta la speranza, né per la Grecia né per l’Europa.E molte cose sono diventate più chiare, nel male e nel bene. Eccone alcune.
L’Europa è stata trasformata da speranza in fortezza. Si è dimostrata incapace di esercitare qualsiasi influenza positiva sui grandi movimenti di redistribuzione delle risorse mondiali che stanno avvenendo. Anzi, ha volenterosamente collaborato alle nuove forme di sfruttamento dei paesi poveri, aggiungendo le nuove sofisticate forme del colonialismo (quello che papa Francesco ha definito “colonialismo ideologico”) a quelle dei secoli passati. Incapace di prevedere ieri e l’altro ieri e di gestire oggi l’esodo da un’area che è più vasta di un intero continente rischia di restare sepolta sotto l’onda di ribellione, ferocemente armata, che il Primo mondo ha contribuito a scatenare nel mondo maomettano. Un’onda che adesso fa tremare le vene e i polsi.
L’Europa di Bruxelles-Berlino, e con essa il mondo nordatlantico e parte dei paesi del BRICS, proseguono intanto allegramente nel predicare e praticare il forsennato consumismo che sta portando all’esaurimento le risorse essenziali del pianeta Terra. La vigorosa denuncia di papa Francesco, dopo un effimero passaggio nei grandi media di tutto il mondo, è stato rapidamente rimosso dalle coscienze di chi decide (se mai le ha toccate) e dalle immagini proiettate nelle teste dei loro sudditi.
Pochi si rendono conto che è in corso di dissipazione un’altra fondamentale risorsa dell’umanità che abita il pianeta Terra : il lavoro dell’uomo. Ridotto da bene in merce nelle prime incarnazioni del capitalismo, è stato progressivamente deprezzato e infine considerato inutile dal dio Mercato, e dovunque privato dei diritti che le sue organizzazioni economiche e politiche avevano faticosamente conquistato nel corso di due secoli. E’ completamente scomparsa dalla memoria collettiva (se mai c’era pienamente entrata) l’idea che il lavoro dell’uomo è lo strumento universale di cui l’umanità dispone per conoscere e trasformare il mondo – e non un utensile da impiegare per produrre congegni elettronici (o sistemi d’arma) sempre più sofisticati, e inutili o dannosi.
E’ in questo quadro che si collocano la vicenda della Grecia (e, domani, quelle della Spagna e dell’Italia). In Grecia Alexis ha salvato quello che poteva? Neppure il futuro potrà dircelo: la storia non si fa con i “se”. Non sappiamo quanti, tra quelli che criticano la scelta di Tsipras, hanno conosciuto e valutato tutti i dati disponibili. Per conto nostro rinviamo alle ragionevoli riflessioni di Giorgio Barberis. In ogni modo i mesi e gli anni che verranno saranno pesanti per i greci, chee avranno bisogno di tutta la solidarietà possibile di chi condividele loro speranze. Per ora sappiamo che hanno salvato la dignità, la democrazia, la presenza nelle attuali istituzioni europee (già poco guarnite di forze per il cambiamento) – e hanno evitato una più pesante crisi finanziaria per la Grecia e gli altri paesi “deboli”.
La storia non è finita. Non quella dei sognatori di Ventotene, e neppure quella di chi si è schierato con la Grecia diTsipras. Non è finita neppure la storia quella di Tsipras, di Varoufakis, di Tsakalotos, e di quelli che con loro hanno lavorato per un’altra Grecia in un’altra Europa. Essi hanno dimostrato che esistono già persone e idee, saperi e volontà di un nuovo gruppo dirigente per un’Europa sottratta agli avvoltoi. Ma questa Europa non sono certo loro, da soli, che potranno costruirla.
La risposta e il lavoro dovranno venire da un’area più vasta. Come avvenne nei secoli trascorsi dovranno venire dal mondo degli sfruttati, ove sappiano acquistare una coscienza dello sfruttamento, delle sue inumane ragioni e delle sue efficienti regole.
Il riferimento non può essere più solo la “sinistra” del secolo scorso. L’area sociale e geografica dello sfruttamento è divenuta oggi ben più estesa di quella della “fabbrica”. Essa copre territori che hanno goduto del benessere del sistema capitalistico, e territori che quel sistema hanno conosciuto solo come vittime del colonialismo. Copre il medio ceto impoverito ogni giorno di più nelle città del Primo e del Secondo mondo, come le mille povertà e miserie del Terzo mondo. Copre quella gigantesca parte dell’umanità alla quale si rivolge diuturnamente Jorge Maria Borgoglio, papa Francesco. Ma la risposta risolutiva non può venire dalla religione, deve venire dalla politica. Hic Rhodus, hic salta. Questo è il confine, intellettuale e pratico, che bisogna valicare per proseguire la lotta della Grecia di Syriza e di Tsipras.
Capitalismo ideologico http://www.eddyburg.it/2015/07/il-pontefice-incontra-i-movimenti-in.html
Giorgio Barberis http://www.eddyburg.it/2015/07/euroricatto-lattacco-finale-dei.html
Il 31maggio voteremo, in molte città e regioni. Nei giorni successivi i mass media daranno grande evidenza ai risultati, per lo più nello spirito binario tipico degli italiani: ha vinto il papa o l’imperatore, Coppi o Bartali, i Bianchi o i Rossi, Renzi o Grillo? Questa volta l’implacabile ascesa di Matteo Renzi ne fa il competitore designato a vincere. Agli organi di formazione dell’opinione pubblica nazionale importerà poco chi è diventato sindaco a Venezia o a Trento, chi è il presidente della Toscana o quello della Puglia. La domanda sarà: Renzi ha vinto o no? (leggi tutto)
Questa volta Renzi non ha un antagonista. La destra di Berlusconi l’ha disgregata assumendone valori, principi, e soprattutto interessi. La Lega è lacerata, il grillismo si sfalda ogni giorno. Sembra, in larga misura, che i giochi siano già fatti. Ma la speranza è l’ultima a morire. Forse basterebbe che gli elettori si rendessero conto di qual è il significato nazionale delle prossime elezioni, e che cosa accadrà se Renzi vincerà
Non c’è bisogno di zingare per immaginarlo, né di Cassandre. Basterebbe ricordare che cosa Matteo Renzi abbia fatto, come si sia impadronito di quel conglomerato a pasta molle che era il PD e lo abbia ridotto a partito personale, come abbia rovesciato i rapporti tra le istituzioni così come erano stati organizzati nella democrazia liberale, attribuendo cioè al potere esecutivo, dominato da se stesso, il potere legislativo. E come abbia infine “scavalcato a destra” la stessa Unione europea nell’applicare un’austerity a senso unico (premi ai ricchi e punizioni ai poveri).
Ma l’orizzonte che si apre per il nostro futuro nel caso che Renzi vinca è ancora più drammatico del recente passato. Eppure è anch’esso già scritto, in gran parte in quella nuova legge elettorale che meriterebbe il nome di Tirannicum, la quale governerà i rapporti tra i cittadini e il potere nei prossimi anni. Una sintesi efficace di ciò che Renzi potrà fare l’ha scritta Alberto Burgio. La riprendo.
Nel 2016, appena la legge sarà entrata in vigore, Renzi e la «grande stampa» troveranno facilmente un pretesto per indire nuove elezioni. Le liste dei candidati sono formate in modo che il capopartito è sicuro che la stragrande maggioranza degli eletti saranno persone da lui scelte: la formazione dei collegi e il privilegio assegnato ai capilista è fatto apposta. Nella situazione attuale gli unici due partiti che potranno partecipare al ballottaggio, e diventare padroni del Parlamento, saranno quello di Renzi (destra-centro-sinistra) e uno a guida razzista. La vittoria, per Renzi, sarà facile. Padrone del Parlamento, l’Eletto potrà tranquillamente modificare la Costituzione.
E' evidente quali leggi usciranno dal nuovo parlamento. Il territorio sarà ancora più pesantemente distrutto di quanto abbiano fatto la berlusconiana "Legge obiettivo", rilanciata dal suo erede, e il decreto "Slocca Italia", creatura del "piccolo Caudillo". Le conquiste del "ventennio della "speranza saranno erose a vantaggio del "mercato" , il lavoro ancora più subordinato alla rendita e al profitto, la forbice tra i più ricchi e gli altri sempre più aperta, e via piangendo.
Mi chiedo se a questo punto non sia possibile comprendere meglio quale sia il disegno che sta dietro alle iniziative di Renzi: quelle che attua come potere legislativo e quelle che attua come potere esecutivo. Il principio base è quello che è felicemente espresso nel Tirannicum: la governabilità è preferibile alla democrazia, questa è sacrificabile.
Per far vincere la governabilità sulla democrazia occorre però individuare un modello di rapporti tra governante e governati che sia diverso da quello inventato dai liberal-borghesi del XVIII e XIX secolo, e allargato nel XX. Dà voce a voci che sarebbe meglio tacessero, rivela conseguenze e risvolti che potrebbero non piacere a molti, e per di più richiede pazienza, argomentazioni, fa perdere tempo.
Ma non è dalle spoglie vuote dei vecchi “contenitori” della politique politicienne che potrà venire la salvezza. Per troppo tempo i suoi componenti hanno esitato a comprendere che cosa il dominio di Renzi significa. La speranza non viene da lì, viene dai servi della gleba, e dai pochi “liberi” che sono rimasti tali e sono disposti ad aiutarli.
La tragedia delle centinaia di migranti scomparsi nei flutti del Mare nostrum alle soglie della salvezza ha riproposto con forza un tema al quale i nostri tempi non possono sfuggire. I commenti spaziano dalla ragionevolezza preoccupata di molti osservatori che non hanno rinunciato a usare il cervello e il cuore, fino alle più barbariche espressione del “razzismo sociale” (se è lecito definire così il pregiudiziale disprezzo per i più poveri) di chi ragiona solo con le viscere. (segue)
Questi ultimi, è ovvio, chiedono che le barriere sul Mediterraneo siano le più ferme possibili, meglio se armate. L’italiano Salvini si schiera decisamente tra questi. Il nostro presidente del consiglio sembra distaccarsene, ma invoca anche lui, a botta calda, un blocco navale: portaerei, fregate e cacciatorpediniere schierati tra il piede della Penisola e le coste nord dell’Africa. Ma dai giornali di oggi apprendiamo che ha scoperto che il blocco navale è impossibile e ha individuato il suo obiettivo: bisogna colpire gli scafisti.
Qualche giorno fa ha detto che non conosceva Pompei. Oggi mostra che non ha capito che cos’è il fenomeno tragico delle migrazioni di questi anni. Come non sembrano averlo capito molti che da Bruxelles, dove si dovrebbe decidere, additano i trafficanti come la causa della tragedia. Costoro non si rendono conto che gli scafisti e gli altri trafficanti, come ha denunciato Barbara Spinelli qualche giorno fa,«non fanno che riempire un vuoto: non esistono vie legali di fuga, quindi l’illegalità si installa e prospera». Dovrebbe essere evidente a tutti che si riuscirà a eliminare il “servizio” criminale che gli scafisti forniscono alla disperazione dei migranti solo affrontando il problema alle radici. Senza un’analisi corretta nessuna soluzione è adeguata.
Occorre allora innanzitutto essere consapevoli che l’onda migratoria che spinge milioni di persone dalle aree a sud del Mediterraneo non è arrestabile nel breve periodo. Trasformare il Mediterraneo in una barriera (è la risposta che danno i neonazisti italiani ed europei) non significa solo diventare complici di uno sterminio di massa, di fronte al quale l’Armenia e la stessa Shoa impallidiscono. Che lo sterminio che avviene nel Mediterraneo non sia volontario e programmato come quello dei “giovani turchi” e quello dei nazisti trasforma il crimine dell’Unione europea da doloso a colposo, ma non ne riduce la gravità.
Occorre poi ricordare che, se l’Africa e il Medio Oriente sono diventate un inferno dal quale centinaia di persone tentano di fuggire a prezzo della vita, una responsabilità pesante risiede nelle politiche, antiche e recenti, del Primo mondo. A partire dal colonialismo dei secoli più lontani della storia europea, proseguendo con il colonialismo altrettanto rapace (sebbene camuffato nelle sue forme) della globalizzazione capitalista, concludendo - dopo l’attentato alle Twin Towers - con la destabilizzazione dei complessi equilibri politici e sociali nel Medio oriente. E come non mettere nel conto delle responsabilità anche il crescente squilibrio tra le grandi ricchezze e le profonde ed estese povertà provocato dal neoliberalismo, che ha spento in grandissima parte del mondo la speranza per un futuro migliore?
Le responsabilità del primo mondo richiedono un impegno serio e di lunga durata, non la recitazione di qualche giaculatoria. Non serve certamente assumere a bersaglio delle politiche europee i trafficanti di schiavi che noi stessi abbiamo contribuito a rendere tali. Così come serve a poco voler interporre (come sembrano proporsi i politici dell’UE) filtri alle frontiere dei paesi d’esodo per selezionare tra i fuggiaschi quelli che migrano perché soggetti al rischio di persecuzioni per ragioni politiche, o etniche o religiose, e quindi hanno diritto d’asilo, e chi fugge per la disperazione della miseria e della fame, e può essere ricacciato nel suo inferno quotidiano.
Occorre garantire vie d’accesso sicure a chi vuole evadere dal terrore e dalla miseria. E occorre creare condizioni di vita soddisfacente nelle regioni oggi sicure e consentire ai migranti di trovarvi la loro nuova patria. Il lavoro degli uomini e le donne è una risorsa preziosa per l’umanità. Se l’attuale sistema economico-sociale non è in grado di utilizzarlo, ecco una ragione in più per impiegare l‘intelligenza e la creatività nella costruzione di un sistema meno disumano.
Inseriamo questa volta comeeddytoriale il contributo del direttore di eddyburg al prezioso libro, RottamaItalia, inventato e curato da Tomaso Montanari e Sergio Staino, e gratuitamenteedito e distribuito da Altreconomia. Rispetto al testo riportato nel libro abbiamo aggiunto alcune note a pie' di pagina
L’ultimo episodio (dopo il risibile tentativo di giustiziare Barbara Spinelli per il presunto reato di assenteismo dalle sedute del Parlamento europeo) è una polemica sorta per il fatto che Nichi Vendola, uno dei sostenitore della lista "L’altra Europa von Tsipras” avrebbe espresso la sua disponibilità, in quanto Presidente della Regione Puglia, a in insediamento petrolifero a Taranto. Quest’ultimo episodio mi sollecita a esprimere qualche considerazione che da tempo vorrei condividere: con i lettori di eddyburg, con chi ha aderito alla lista “con Tsipras” e vorrebbe, come me, proseguire quel fecondo tentativo nel contesto nazionale, nonché con chiunque altro sia interessato.
1. Una premessa
Ho aderito con entusiasmo all’avventura della lista “L’altra Europa con Tsipras” e sono stato molto soddisfatto del suo successo – pur consapevole dei limiti, di qualche errore, e delle conseguenti difficoltà che si preannunciavano per la sua prosecuzione in un orizzonte non più europeo ma solo italiano. Non enuncerò le ragioni di questi sentimenti perché le ho trovate espresse in modo limpido e acuto nell’intervento di Marco Revelli del 19 luglio 2014, che proprio perciò ho inserito con evidenza in eddyburg.it.
Ho seguito, seppure con molte difficoltà e quindi con intermittenza, il dibattito che si è sviluppato successivamente, condividendone l’orientamento generale (come riprendere e consolidare l’esperienza europea nell’ambito nazionale), ma rimanendo spesso smarrito e perplesso per la sua confusione, per la frammentarietà, per la frequente presenza di accenti inutilmente polemici, inquinati da personalismi e sospetti a mio parere immotivati, spesso viziati da piccole faziosità di parte o di particina. In una parola, ho visto in quel dibattito l’espressione quella litigiosità che ha impedito che – dopo la scomparsa del PCI – nascesse in Italia di una nuova formazione politica antagonista di quelle dominanti (oggi sostanzialmente unite all’insegna delle “larghe intese” del renzusconismo).
Non c’era e non c’è solo questo, evidentemente, in quel dibattito nella mailing list L’Altra Europa. Se avessi pensato così mi sarei ritirato. C‘erano anche – e ci sono – perle non infrequenti di saggezza, di lucidità, di pazienza e di speranza. Soprattutto da parte di chi aveva promosso l’iniziativa europeista e vi era rimasto dentro, coraggiosamente, fino alla fine, chi l’aveva nutrita con la sua riflessione analitica e propositiva fin da prima che essa si concretizzasse “con Tsipras”, e chi aveva con volontà, spirito e capacità di sacrificio e apertura mentale, condotto concrete azioni di lotta e di organizzazione sul territorio.
2. Alcune sintetiche considerazioni sull’oggi
“L’altra Italia” non è ancora una formazione politica, e neppure un “soggetto politico”, se a questo termine vogliamo dare un significato diverso da quello di “nebulosa” o di “arcipelago”. E’, a mio parere, l’indicazione di un percorso difficile, accidentato, lungo, nel quale è indispensabile cimentarsi se si vuole che l’umanità sopravviva.
Questo percorso ha origine e speranza nel suo punto di partenza, che è appunto quella nebulosa (meglio, quell’arcipelago). Esso era (è ancora) composto da tre elementi: (1) un piccolo gruppo di intellettuali accomunati da un giudizio critico dell’attuale sistema economico sociale ( finanzcapitalismo, neoliberismo, neoliberalism…) e dalla volontà di individuare le tappe (teoriche e politiche) per costruire un’alternativa; (2) un insieme vasto e composito di “gruppi di cittadinanza attiva” (comitati, associazioni o parti di esse, movimenti dai contorni più o meno fluidi) spinti a critiche e proposte alternative rispetto ad azioni, progetti o proposte minacciosi nei confronti di beni ritenuti essenziali (risorse naturali o territoriali, salute, formazione, lavoro, democrazia, ecc.); (3) due partiti politici, residui del disfacimento dei grandi partiti della sinistra storica, entrambi caratterizzati, sia pur diversamente da una medesima tensione anticapitalistica.
La diversità tra queste tre componenti è la ragione principale sia degli aspetti positivi che di quelli negativi della prosecuzione dell’iniziative “con Tsipras”. La presenza di PRC e di SEL nella lista “con Tsipras” ha probabilmente scoraggiato molti a votare per essa; ma è certo che senza il contributo dell’organizzazione e dei militanti di quei partiti il risultato elettorale, e la stessa partecipazione al voto, non ci sarebbero stati. Lo stesso, ovviamente, si potrebbe dire per ciascuna delle altre componenti.
Ciò detto, peraltro, penso che il problema rimanga aperto. L’aspirazione a costruire un nuovo soggetto politico, e addirittura una nuova formazione politica (dotata perciò di una propria riconoscibile ideologia, una propria strategia politica, un proprio programma a lungo e a breve termine, una propria organizzazione) confligge con la presenza, all’interno della nuova formazione, di strutture da essa differenti. E la diversità tra le tre componenti non sopporterebbe lo scavalcamento del problema mediante la formazione di una “federazione”.
Se da una parte è auspicabile lo “scioglimento” di SEL e PRC nell’”Altra Italia” (ma allora perché non anche lo scioglimento delle altre strutture “non-partitiche” che hanno nutrito la lista “con Tsipras”), dall’altra parte, come si può ragionevolmente chiedere ai militanti di formazioni politiche esistenti di abbandonarle per aderire a una che ancora non esiste? Dobbiamo mantenere aperta la contraddizione, lavorare per risolverla, affrontarne con pazienza le conseguenze e, soprattutto, lavorare con coraggio per costruire le condizioni per superarle.
3. Quali sono le condizioni
La condizione essenziale è che si riesca davvero a dar vita a una nuova formazione politica. Per tale intendo un gruppo di persone che sia dotato di:
1. una propria riconoscibile ideologia, cioè, per dirla con A. Asor Rosa, di un «sistema di ideali e di valori grazie ai quali la politica si muove in vista di interessi generali e di obiettivi di largo respiro», oppure, per adoperare le parole di T.A. Van Djik, «un insieme di credenze condivise da un gruppo e dai i suoi membri, che guidano l’interpretazione degli eventi e che quindi condizionano le pratiche sociali».
2. Una propria strategia politica, cioè una visione chiara dell’obiettivo che su vuole raggiungere (il progetto di società) della distanza che c’è tra quel progetto e il contesto nel quale si opera, e dei passaggi che sono necessari per realizzarlo a partire dalla condizione data.
3. Un proprio conseguente programma a lungo e a breve termine, capace di precisare e via via realizzare nel tempo il proprio progetto, conquistando progressivamente le forze (ideali, culturali, materiali, sociali) capaci di condurre a compimento il progetto.
4. Una propria organizzazione, capace di seguire il percorso assicurando due necessità non eliminabili: quella di contrastare e prevalere su progetti di società alternativi; quella di durare nel tempo.
Sono convinto che fuori da un quadro siffatto non ci sia politica, ma solo testimonianza: quindi solo nobile espressione della volontà e necessità di cambiare il mondo, non reale capacità (o almeno speranza) di poterlo fare.
4. Che fare subito
La prima cosa da fare è non agire come se oggi già esistesse la nuova formazione italiana che vorremmo. L’altra Italia come soggetto politico in grado di competere con gli altri non esiste ancora, quindi è inutile chiedere che essa si pronunci su ciò che accade hic et nunc, e neppure su ciò che fanno, propongono, sostengono, difendono o contrastano i singoli componenti dell’avventura della lista "L’Altra Europa con Tsipras".
Possiamo – e anzi dobbiamo – chiedere alle persone che abbiamo eletto al Parlamento europeo di essere, loro si, fedeli al mandato che hanno ricevuto sulla base dei principi e interessi, delle analisi e sulle proposte strategiche e programmatiche che hanno dato vita e consensi a quella lista. Mi sembra che abbiano iniziato a farlo senza bisogno di sollecitazioni “dal basso” (le quali comunque sono sempre utili).
Possiamo e dobbiamo chiedere a loro, e a quanti hanno concorso a promuovere e a portare al suo risultato la lista “con Tsipras” di aiutarci con la loro azione e tutte le loro risorse a procedere nel programma di costruzione della nuova formazione politica. Ma anche questo mi sembra lo stiano già facendo egregiamente.
Dobbiamo essere più trasparenti nel nostro lavoro. Teniamo conto che “trasparenza” non significa solo esibizione senza veli di ciò che si pensa, dice, fa, ma è in primo luogo chiarezza, capacità di parlare con tutti e da tutti farsi comprendere. Da questo punto di vista mi sembra che la mailing list chiusa non sia un elemento positivo, ma che non aiuterebbe affatto il renderla “aperta” così com’è.
Occorre un nuovo strumento, strutturato, e costruito a partire da ciò che era il sito web della Lista con Tsipras, ristrutturandolo in funzione delle nuove esigenze, affidandone la responsabilità a una piccola squadra che dovrebbe lavorare a termine, essere valutata e, a secondo dei giudizi, confermata o rinnovata;magari, se vi è la disponibilità e il consenso, a partira da chi attualmente si occupa di comunicazione
La trasparenza dovrebbe far conoscere, a noi stessi e al mondo, tre ordini di questioni: (1) il lavoro che stanno facendo i nostri eletti della lista “con Tsipras” nel Parlamento Europeo e ciò che si prepara nelle cucine di Bruxelles e Strasburgo; (2) i documenti fondamentale del nostro percorso, a partire da quelli prodotti, in Europa e in Italia, in vista delle elezioni europee(3) i materiali che si stanno preparando e discutendo ne vari tavoli, laboratori, cantieri nei quali si sta lavorando per “L’altra Italia”, arricchiti dai commenti critici e propositivi formulati al loro riguardo; (4) quanto di interessante e utile si sta dicendo, scrivendo, facendo e proponendo in Italia e nel mondo, di positivo o di negativo, in relazione ai temi che ci interessano
Io vedrei il nostro sito come un elemento, per noi centrale, di una rete costituita utilizzando anche i numerosissimi strumenti di comunicazione informatica strutturati, gestiti da numerosi gruppi, comitati, associazioni ecc.Ve n'è un'infinità, molti anche ben strutturati, sistematicamente aggiornati, dotati di un target non sempre solo locale ma sempre strettamente legato al territorio e polarizzato sui diversi aspetti del disagio provocato da nostro comune avversario. Una simile rete (i cui nodi manterrebbero ovviamente la loro autonomia) servirebbe, al tempo stesso, come strumento di diffusione e di alimentazione del nostro sito web "L'altra Italia". (Per quanto riguarda eddyburg.it sono ovviamente disposto a collaborare. I 2mila clic al giorno che posso aggiungere agli altri sono pochini, ma è l’unione che fa la forza).
5. Concludo
Concludo tornando all’episodio che mi ha spinto a scrivere questo testo. Se L’Altra Italia non è oggi un soggetto politico, né un’associazione, né un club, né una testata giornalistica, ma solo una speranza e un percorso, che senso ha esprimersi come se fossimo qualcosa che non siamo? Con che senso giudichiamo le azioni di quelli tra i partecipanti all’avventura della lista “con Tsapris” che, secondo noi, sbagliano? E perché tenere sotto il mirino solo alcuni dei partecipanti a quell’evento e non tutti?
Dovremmo innanzitutto domandarci chi farà parte del futuro, costituendo nuovo soggetto politico, equali regole dovrà rispettare nei suoi comportamenti pubblici. Dobbiamo insomma innanzitutto concludere in modo chiaro la fase costituente in corso definendo - sia pure provvisoriamente e sperimentalmente - gli essenziali elementi di una formazione politica democratica. Cercando di essere in questa fase più inclusivi che esclusivi, visto che siamo ancora molto meno di quanti potremmo essere. Se, almeno, vogliamo fare politica e non solo testimonianza.
Questo ci renderà oggi più difficile, o addirittura impossibile, partecipare alle prossime scadenza politiche nazionali come espressione della lista “L’altra Europa con Tsipras”? Può essere. Ma se davvero vogliamo cambiare il mondo dobbiamo sapere che ciò richiede un lavoro di lunga lena, e che non abbiamo la forza di imporre alla storia, da soli, le accelerazioni che vorremmo.
P.S.
Potete commentare questo testo usando la finestrella "aggiungi un commento" che c'è in fondo a ogni articoli. Non prometto di rispondere a tutti (il tempo che mi lascia la gestione quotidiana di eddyburg è poco), ma di leggervi si; e magari potrò chiedervi di sviluppare le vostre argomentazioni. Grazie comunque dell'attenzione e.
corruzione, le Grandi opere, il nuovo sistema di potere. Esaminiamoli brevemente
La corruzione
Il primo versante, che ha avuto il maggiore peso nei mass media, è quello della corruzione. I risultati dell’indagine sono davvero strabilianti. Le somme di denaro distratte e impiegate per essere impiegate nelle varie forme, legittime e illegittime, è stupefacente. La pervasività della corruzione è un segnale preoccupante sull’ampiezza sociale del morbo: sembra che in Italia corrompere o essere corrotti sia la regola, e l’essere onesti l’eccezione. Già trent’anni fa Edoardo Detti, glorioso presidente dell’INU, diceva che «l’Italia è quel paese dove se vuoi rinnovare la carta d’identità devi portare al segretario comunale due polli». Per molti adempiere a un dovere d’ufficio non era un obbligo ma un piacere, che doveva essere ricambiato. Ma nell’ultimo trentennio quel “vizietto” originario è cresciuto in modo abnorme: come se fosse stato un effetto secondario della crescita della società opulenta e del disfacimento delle ideologie (cioè della capacità di credere in un progetto di società da costruire con gli altri). L’indagine giudiziaria Mani pulite svelò l’inferno in cui l’Italia era precipitata e condusse alla crisi di quella politica che aveva promosso e alimentato Tangentopoli.
Ma non riuscì a manifestarsi, contro la vecchia cattiva politica, una nuova buona politica. Poche novità positive furono introdotte per riparare i danni. Fra le poche, la buona legge Merloni per gli appalti delle opere pubbliche. Fu subito annacquata e, poco a poco, interamente rimossa. Il primo impegno che dunque si pone è, a livello nazionale, quello di restaurarla. Ma quale legislatore ha la forza, la competenza e la volontà di farlo? E quale istituzione a livello subnazionale compirà il primo passo necessario, quello di esautorare dal loro potere istituzionale quelli che sono fortemente indiziati di “complicità col nemico”, a partire dal sindaco di Venezia?
Il secondo versante è quello delle Grandi opere. Molti dicono oggi: le grandi opere sono necessarie, non si può rinunciare a farle. E dicono: non è la grandezza dell’opera che la rende necessariamente fonte di corruzioni. Quindi, avanti con le grandi opere limitandoci a colpire solo quelli che Benito Craxi chiamava “marioli”.
Ma bisogna uscire dalle affermazioni generiche ed esaminare i casi concreti. Se si farà così si scoprirà subito che c’è un nesso profondo tra corruzione e grandi opere: più grande e costosa è un’opera, più è complessa, più è necessario l’asservimento del decisore formale (il partito, l’istituzione) agli interessi dell’impresa (dispiace adoperare questa parola per indicare gli squallidi faccendieri cui è affidata la promozione e l’attuazione delle Grandi opere): è necessario ungere rotas, distribuire tangenti reali (moneta) o virtuali (assunzione di amici e parenti, viaggi e altri sollazzi). Ma le tangenti sono solo una determinata percentuale della somma incassata dall’”impresa”. Più l’opera cresce, più risorse ci sono per ungere le ruote. I due interessi del donato e del donatore s’incontrano: più l’opera è grande più ciccia c’è per i gatti.
Lo strumento che più spesso viene adoperato per rendere Grandi le opere è l’emergenza. Già lo si vide ai tempi di Tangentopoli. L’alibi sistematico è la rigidità del sistema delle garanzie, la conseguente lungaggine delle procedure, la sovrabbondanza di controlli. Invece di metter mano a una seria riforma delle procedure, e dei conseguenti apparati tecnici e amministrativi che devono gestirle, per scavalcare i controlli si inventano le deroghe. Anziché riformare lo Stato, che si è proceduto astutamente a imbastardire, se ne pratica lo smantellamento: “via lacci e laccioli”, “meno Stato e più mercato”, “privato è bello”.
In questa logica l’effettiva utilità dell’opera ai fini dichiarati non conta nulla, né contano i suoi “danni collaterali”, e neppure la sua priorità. L’unica utilità presa in conto è nella dimensione e nella possibilità di giustificare l’impiego di procedure eccezionali, dotate di due requisiti: l’opacità e la discrezionalità.
Basterebbe tornare alle analisi già fatte per le grandi opere per rendersene conto. Eddyburg gronda di documenti in proposito: dal Mose al Ponte sullo stretto, dalla Tav Val di Susa alle decine di autostrade, bretelle, tangenziali, raccordi, ai nuovi ospedali e parcheggi e stadi. In quasi tutti i casi l’analisi dimostra che la Grande opera provoca più danni che vantaggi, che essa è del tutto inutile oppure che quella esigenza cui l’opera finge di voler rispondere potrebbe essere soddisfatta con una spesa pubblica minore oppure che non è prioritaria rispetto ad altre più pressanti esigenze.
Una moratoria di tutte le Grandi opere in corso di esecuzione o decisione e un attento esame, a partire dalla legittimità, della necessità, del danno e delle alternative possibili: queste sono le decisioni che in un paese civile dovrebbero esser prese. Ma l’Italia è un paese serio? Da decenni le cassandre dicono di no; e Cassandra, come è noto, ci azzeccava sempre.
Il terzo versante sul quale lo scandalo veneziano deve essere valutato, e utilizzato per tentar di correggere le storture che ha reso evidenti, è il sistema di potere che ha svelato. L’indagine non è ancora conclusa e si spera che vada fino in fondo. Ma già da quanto ha svelato appare chiaro che le decisioni sugli interventi che trasformano il territorio, (la vita che su di esso si svolge, le stesse direzioni dell’economia, il sapere e la ricerca) non erano assunte dai poteri istituzionali, che avrebbero dovuto (è amaro dover adoperare il condizionale) esprimere l’interesse generale, o almeno quello della maggioranza degli elettori, ma da un gruppo di aziende private: aziende che, avendo abbandonato ogni spirito correttamente “imprenditoriale”, aveva sostituito al “libero mercato” una spietata oligarchia.
E’ interessante osservare che al centro di quella oligarchia c’era inizialmente un’ Azienda (la FIAT con la sua Impregilo) che, negli anni Settanta, era stata la prima ad abbandonare il suo impegno nel campo della ricerca e dell’innovazione – essenziale per una moderna politica industriale – per dedicarsi ai settori delle speculazioni immobiliari e finanziarie, trovando più facile raccogliere rendite che rischiare nella ricerca del profitto imprenditoriale. La FIAT-Impregilo, fu tra i primi e più potenti gruppi che costituirono, con il patrocinio dei ministri “riformisti” Nicolazzi e De Michelis, il Consorzio Venezia Nuova, ed è stata poi sostituita dalla Mantovani, oggi al centro della bufera giudiziaria.
L’indagine aperta dai magistrati veneziani illumina però una parte soltanto del gruppo potere politico-economico che domina lo scenario veneto. Sarebbe umiliante per loro non riconoscere il ruolo notevole che hanno svolto altri soggetti: altre grandi potenze pubblico-privato con i quali la politica ha dovuto spesso fare i conti: come l’ente Porto di Venezia, accanito promotore di una nuova Grande opera che sventrerebbe ulteriormente la Laguna di Venezia, e come la SAVE, padrona degli aeroporti di Venezia e Treviso e promotrice dell’operazione immobiliare Tessera city, sul bordo Nord-Est della Laguna.
Così come sarebbe difficile comprendere l’egemonia che il CVN ha conquistato nell’opinione pubblica veneziana e veneta, nazionale e internazionale senza indagare nella trama dei rapporti tra il mondo delle attività immobiliari, quello delle banche e relative fondazioni, quello dei mass media e – last but not least, quello della cultura e dell’università. Per costruire una mappa precisa del potere a Venezia e nel Veneto non sarebbe però giusto affidarsi solo al lavoro alla magistratura, la cui responsabilità si arresta al limite tracciato dalle azioni contrarie alla legge. Ora non sono solo le truffe e la corruzione diretta le uniche armi di cui dispongono i poteri economici per conquistare il consenso e impadronirsi del dominio.
Nel primo polo dominano l’ideologia e la prassi del neoliberismo tatcheriano e reaganiano, che ha pervaso grandissima parte della partitocrazia europea. Esso costituisce il puntello istituzionale di quei “poteri forti” che hanno provocato la crisi finanziaria e pretendono di uscirne estendendo il saccheggio dei beni comuni – dal lavoro all’ambiente, dalla cultura ai diritti personali.
Nel secondo polo, il Parlamento eletto direttamente dai cittadini europei, possono esprimersi posizioni ideali e pratiche diverse: possono ottenere visibilità e guadagnare consensi le voci nelle quali si manifesta il disagio per le condizioni materiali e morali che il neoliberismo ha provocato. Oggi i poteri del Parlamento europeo sono fortemente limitati. Rimuovere questi limiti significa anche dare peso alla dimensione politica dell’Europa che soffre e che vuol cambiare.
La terza ragione è che l’Unione europea ha poteri in molte materie che condizionano direttamente le condizioni d vita delle popolazioni di tutti i popoli dell’Europa – nonché quelli di molti popoli che verso l’Europa si affacciano, a partire dal Mediterraneo. Pensiamo a temi e materie come l’agricoltura e l’ambiente, le grandi reti infrastrutturali e l’energia, la difesa (lo stesso scandalo dei micidiali e costosissimi F35 è un programma targato Europa) e le politiche migratorie (oggi dominate dai due mostri della repressione e dello sfruttamento).
E pensiamo al tema, secondo me rilevantissimo, della formazione e della ricerca, campi nei quali l’orientamento delle politiche e dei finanziamenti europei ha un fortissimo peso. E’ perciò a cominciare dall’Europa che dobbiamo porci un interrogativo essenziale per il nostro futuro: vogliamo che formazione e ricerca siano orientati a facilitare, consolidare, propagandare, radicare ulteriormente l’ideologia e i meccanismi utili al finanzcapitalismo, oppure vogliamo che siano dirette a studiare, proporre e sperimentare i modi per costruire un mondo più buono e più giusto, più amichevole e più durevole?
Infine, le elezioni del 25 maggio ci danno una grande occasione per tentare di costruire, in un’Italia, meno chiusa tra i suoi confini nazionali, una nuova forza politica, nettamente alternativa a quelle che da trent’anni (diciamo da Craxi a Renzi) dominano incontrastate nel nostro Paese: una sinistra “radicale” perché vuole correggere i mali, le inequità, le distorsioni andando alle loro radici.
Il programma
Non ho intenzione di riassumere in poche righe il programma politico della lista “l’altra Europa con Tsipras”. Mi limito a commentarne alcuni punti
«Porre fine all’austerità e alla crisi» è la prima delle priorità politiche della lista Tsipras». Impossibile non essere d’accordo. Infatti nell’accezione neoliberista, fatta propria dai governi europei e da Bruxelles, “austerità” altro non significa che accrescere ed estendere il potere e la ricchezza dei poteri forti del finanzcapitalismo, proseguendo nel processo di privatizzazione, mercificazione, dissipazione dei beni comuni essenziali alla civiltà – e alla stessa sopravvivenza dell’umanità: dall’acqua alla cultura, dall’arte al lavoro, dalla salute alla sicurezza. Questa è l’austerity contro cui vogliamo combattere.
Ma nella cultura della sinistra radicale italiana c’è un’altra idea di austerità: quella proposta da Enrico Berlinguer. Un concetto di austerità che – per sintetizzarlo al massimo – significa sfuggire alla spirale infinita e mortifera dello sviluppo opulento, nel quale la produzione di plusvalore (di sfruttamento del lavoro) viene alimentato dall’induzione di bisogni sempre più lontani dalle reali esigenze delle persone, per poter in tal modo contribuire a sollevare dalla miseria i popoli dei “terzi mondi”.
La seconda priorità politica della lista Tsipras è «mettere in moto la trasformazione ecologica della produzione». Lavoro e ambiente sono i due beni comuni più direttamente minacciati dallo sviluppo capitalistico, e quindi la conversione della produzione (cioè dell’impiego del lavoro) per renderla compatibile con i limiti posti dalle risorse del pianeta Terra è un passo essenziale. Ma analoga conversione è necessaria sull’altro corno dell’economia: il consumo. E’ insomma l’economia nel suo complesso che deve essere resa compatibile con quei limiti.
La terza priorità politica della lista Tsipras è costituita dalla «riforma della struttura dell’immigrazione in Europa». Si apre qui una questione che mi sembra di grande rilievo per almeno due aspetti: il primo è quello dei diritti dei migranti, il secondo è quello dei confini dell’Europa.
Un ultimo punto vorrei toccare e riguarda la proposta programmatica di un «new deal europeo». Ciò di cui abbiamo bisogno è di qualcosa di analogo a quel Piano del lavoro che la CGIL, allora guidata da Giuseppe Di Vittorio propose nel 1948 . Se il lavoro, come credo, non è una merce ma un bene, se il lavoro è, come ha scritto Claudio Napoleoni, «lo strumento, peculiarmente umano, col quale l’uomo consegue i suoi fini», se è lo strumento mediante il quale l’uomo puà comprendere e trasformare il mondo in tutte le sue dimensioni, allora dobbiamo decidere oggi quali sono i fini che riteniamo oggi socialmente essenziali.
Dobbiamo proporre, in Europa e in Italia, un programma che consenta di impiegare tutta la forza lavoro disponibile per le opere necessarie per assicurare al nostro territorio, alla porzione dell’"habitat dell’uomo” che ricade sotto il nostro governo, la tutela e lo sviluppo delle qualità naturali, storiche, sociali già presenti. Autorevoli promotori della lista Tsipras, come Guido Viale e Luciano Gallino hanno reiteratamente argomentato e proposto i contenuti d’un nuovo Piano del lavoro, finalizzato al raccordo tra due grandi patrimoni: su un versante, la disponibilità di forza lavoro qualificata, a tutti i livelli e con tutte le articolazioni necessarie, sull’altro versante, la gigantesca fame di attività necessarie per affrontare i problemi impellenti della stabilità idrogeologica, della messa in valore dei nostri patrimoni naturali e culturali, dell’apprestamento delle opere e dei servizi necessari per la formazione, la salute, l’assistenza, il risanamento e l’utilizzazione equa del patrimonio immobiliare pubblico e privato.
Quali risorse utilizzare per realizzare un simile programma? Anche su questo argomento non mancano le proposte. Innanzitutto la drastica riduzione delle spese militari nel rispetto dell’art. 11 della Costituzione, a cominciare dall’arresto del programma degli F35, e delle nuove fregate multimissione. Poi la riconversione dei finanziamenti destinati alle grandi opere inutili e dannose. Last but not least, la realizzazione di una fiscalità conforme alla Costituzione, quindi realmente progressiva, estesa, che colpisca gli evasori piccoli e grandi, che tosi i patrimoni ottenuti con la speculazione immobiliare e finanziaria e ne impedisca l’ulteriore accrescimento.
Concludo con le parole di Alexis Tsipras:
Per rendere possibile il cambiamento che vogliamo «dobbiamo alterare l’equilibrio del potere politico. Il neo-liberismo non è un fenomeno naturale ne qualcosa di invincibile. È solo il prodotto di scelte politiche in un particolare equilibrio storico di forze. E’ questo equilibrio di forze che dobbiamo concorrere a mutare».
Merlo sostiene nel suo articolo che »la Provincia è come la coda della lucertola, quando la tagli ricresce. Nessuno è mai riuscito ad abolirla, è uno degli impossibili della politica italiana, come la riforma della Rai. L’ente inutile degli stipendi inventati, del nascondimento della disoccupazione e delle clientele, la piccola patria degli uscieri, il centro di spesa del keynesismo straccione ha questa misteriosa facoltà di resurrezione».
Vorrei ricordare molto sommariamente i fatti. Quando la Repubblica subentrò alla monarchia fascista già da tempo si sapeva che non esisteva più una contrapposizione netta tra città, - grandi, medie e piccole - paesi, e campagna, e che le relazioni tra città e paesi limitrofi stavano divenendo tali da richiedere strumenti, come si dice in gergo, di “area vasta”. Una serie di esigenze (dai trasporti locali allo smaltimento dei rifiuti, dalla localizzazione delle attività produttive e commerciali alla razionalizzazione dell’agricoltura, dalla tutela dell’ambiente, a quella del paesaggio dall’organizzazione scolastica a quella sanitaria e alla politica della casa) richiedevano che l’impiego del metodo e degli strumenti della pianificazione del territorio fosse praticato non solo alla scala urbana (e questo lo si era compreso da tempo, perfino in Italia) ma anche nella “dimensione d’area vasta”. I padri costituenti pensarono che l’istituzione delle Regioni avrebbe risolto il problema. Ma di fatto, grazie allo spntaneismo cui era stata lasciata la ricostruzione postbellica negli anni Cinquanta l’urbanizzazione aveva pesantemente modificato l’organizzazione e la vita dell’insediamento e la vita degli uomini sul territorio: le relazioni tra le varie parti dell'habitat dell'uomo erano diventate più fitte e intrecciate.
Per organizzare in modo efficace una serie le esigenze la dimensione della regione era troppo ampia e quella comunale troppo stretta. Si tentarono molte strade. Si cercava (questa era la logica di quegli anni lontani) la pianificazione che fosse “democratica”, quindi di titolarità pubblica e praticata da istituzioni elettive dai cittadini. Era necessario un livello intermedio” tra regione e comuni, soprattutto per quei problemi cui abbiamo accennato: dove trovarlo?
Si tentò la strada dei Comprensori, in varie versioni: o come articolazione tecnico-burocratica della regione, o come associazioni di comuni. Entrambe fallirono. Nel primo caso l’istituzione dominante era la regione, nel secondo caso era un ente elettivo di secondo grado (i membri del suo consiglio non erano eletti dai cittadini ma dai consigli dei comuni che erano compresi nel suo ambito). Ci si accorse che mentre i comprensori come emanazione delle regioni incontravano l’ostilità dei comuni, la forma associativa era inefficace perché ogni membro del consiglio rappresentava il proprio comune, e quindi l’accordo era di fatto impossibile. Del resto, modificare la Costituzione per inserire, accanto a regione, provincia e comune anche il comprensorio avrebbe richiesto troppo tempo. A qualcuno venne un’idea abbastanza ovvia: perché non "recuperiamo le istituzioni esistenti"? Esistono le province, inventate dall’ordinamento napoleonico proprio per risolvere quelli che nel XIX secolo erano i problemi d’area vasta (la riscossione dei tributi, la vigilanza contro l’ordine pubblico). Partiamo da questo
Negli ordinamenti di radice napoleonica si era proceduto in questo modo. Tenendo conto delle tradizioni locali e dei variegati legami tra città e contado, si erano tracciati i confini delle province sulla base di ragionamenti squisitamente territoriali: la distanza che può percorrere in un giorno un signore che deve recarsi in carrozza al capoluogo per pagare le tasse, uno squadrone di gendarmi a cavallo per ripristinare l’ordine turbato. Con la Costituzione repubblicana le province erano diventate istituzioni rappresentative elettive di primo grado, cioè elette direttamente dai cittadini, e le loro funzioni si erano già arricchite in vari settori, dall’agricoltura alla gestione del selvatico, dalla salute alla scuola.
Nell’ambito dello stesso ragionamento si affrontò un altro problema: quello delle aree metropolitane, parti del territorio dove la continuità edilizia, la prevalenza delle relazioni interne su quelli verso l’esterno, le caratteristiche dell’ambiente naturale richiedevano un potere più incisivo di quello affidato alle province: competenze non solo di pianificazione ma anche di gestione. Si arrivò così a definire l’istituto delle “città metropolitane”. Nuovi poteri alle province e istituzione città metropolitane: queste furono le principali riforme dei poteri elettivi sul territorio definiti dalla legge 142 del 1990, a conclusione di un dibattito durato vent’anni.
Perché quelle riforme non vennero attuate? Accadeva un tempo che i legislatori fossero più lungimiranti della politique politicienne: le leggi erano basate sulla convinzione che la politica seguisse direttive della legge ene rispettasse le prescrizioni. Così non fu. I politici erano diventati politicanti. Le province furono considerate istituzioni di secondo livello, dove collocare il personale cui non poteva, o non si voleva, assegnare un ruolo di sindaco o di legislatore regionale. Le città metropolitane avrebbero sconvolto equilibri di potere, tra i partiti e nei partiti, che era meglio non turbare. Tuttavia, le esperienze positive delle nuove province non mancano, sebbene nessuno specifico servizio d’informazione dell’opinione pubblica sia stato fatto.
Non è detto affatto che la soluzione maturata in quegli anni lontani fosse, e sia ancora oggi, la migliore. Altri paesi hanno praticato altre soluzioni. Esaminarle nei loro specifici contesti sarà certamente utile (proveremo a farlo nel prossimo seminario di eddyburg). Così come sarebbe utile misurare i costi della mancata attuazione dell’ordinamento provinciale, e della sua abolizione. Certo è che un governo democratico d’area vasta è oggi più che mai necessario. E’ un vuoto che, in assenza di una risposta democratica, altri poteri si apprestano a colmare.
Essenziale sarebbe oggi il ruolo delle province in ordine ad alcuni problemi essenziali: dal controllo e contenimento del consumo di suolo, alla politica della casa, alla promozione dei trasporti collettivi, alla tutela del paesaggio e dell’ambiente. Problemi che riemergono ogni volta che un disastro naturale, o l’accumularsi di situazioni di disagio (le ferrovie dei pendolari, la mancanza di abitazioni a prezzi e in luoghi sdegiati, l’esondazione di un fiume, o la constatazione di un danno irreversibile (il consumo di suolo, la cementificazione del paesaggio) fanno versare lagrime Le province saranno forse come la coda della lucertola, come sostiene Merlo. ma le lacrime di molti opinion makers ricordano quelle di animali di forma analoga ma distazza maggiore.
Non condividiamo perciò affatto chi critica l’evento del giorno perché la magistratura avrebbe occupato uno spazio non suo facendo ciò che sarebbe stato di competenza della politica. Quel tanto di liberale che è riuscito a sopravvivere nel nostro sistema istituzionale e nella Costituzione garantisce appunto quell’equilibrio tra i tre poteri (legislativo, esecutivo, giurisdizionale) distinti ma concorrenti nel garantire l’interesse generale, anche là e dove uno dei tre non svolge appieno il proprio ruolo.
Come nel caso dell’indagine “mani pulite” la magistratura ha svelato oggi la profondità e l’estensione dell’illegittimità che la malapolitica aveva provocato o tollerato nell’amministrazione della cosa pubblica: in quegli anni per opera di Craxi e del suo partito (e invano denunciato da Enrico Berlinguer), oggi per opera di quel Berlusconi che del Craxi fu beniamino e, di fatto, erede.
Se la magistratura ha potuto, com’ era suo dovere costituzionale, ripristinare il diritto non ha potuto però (e non è sua responsabilità farlo) sanare il danno compiuto dal trentennio craxiano-berlusconiano (squallida versione italiana del neoliberismo della globalizzazione capitalista. Ci ha liberati da Berlusconi per quel che quel personaggio rappresentava come incitazione e pratica di comportamenti illegittimi, non della pervasiva ideologia del berlusconismo. Questo è un compito che spetta – che non può non spettare - alla politica. Un compito immane, oggi ancora più che dopo lo svelamento di Tangentopoli. Riteniamo anzi che l’ultima fase della politica nazionale (quella della “pacificazione” e delle “larghe intese”) costituisca il momento di maggior trionfo del “berlusconismo”.
Quali tortuosi percorsi occorrerà scegliere e praticare per uscire, al tempo stesso, dalla crisi dell’economia e della società e dal morbo del berlusconismo? Non se ne vedono molti. Né fulgide appaiono le luci che vediamo all’orizzonte. Perciò commentiamo questo articolo con l’antica vignetta di Altan dove la sconsolata signora esclama: “ho avuto un incubo: c’era il dopo-Berlusconi e che a me mi toccava pulire e rimettere in ordine”.
Tre gli obiettivi della “Costituente dei beni comuni”, secondo il suo promotore Stefano Rodotà: «formulare una nuova disciplina del diritto di proprietà, già in parte elaborata dalla Commissione nel 2007, provando a definire la categoria dei beni comuni e a superare così la categoria tradizionale della proprietà; perfezionare alcune proposte di legge sui beni comuni, il reddito, il testamento biologico, il territorio e la disciplina delle proposte di legge di iniziativa popolare; e istituire quella che con Gaetano Azzariti definiamo una “convenzione per la democrazia costituzionale” che dovrebbe contribuire a rafforzare, appunto, la nostra democrazia costituzionale». (il manifesto). Ci sembra che in questo quadro non possano avere un ruolo marginale due diritti: il “diritto alla città” e il “diritto al lavoro”. Su questi (e soprattutto sul primo, vogliamo in questa sede soffermarci
Questa espressione nacque dalle analisi dello studioso marxista Henry Lefebvre e risuonò nelle piazze e nelle fabbriche come rivendicazione di massa nel biennio 68-69. Esprimeva la volontà che tutti gli abitanti (cittadini e non cittadini) potessero fruire dell’insieme di beni che la città costituiva. Accessibilità (non solo in senso fisico) e partecipazione erano i due cardini di quel diritto. In Italia la rivendicazione si arricchì grazie al contributo della classe operaia, che aveva compreso che lo sfruttamento del lavoro non si combatteva restando rinchiusi nella fabbrica, e del movimento per l’emancipazione della donna, consapevole che l’ingresso nel mondo del lavoro fuori dalla “casalinghitudine” comportava la necessità di un consistente ampliamento delle dotazioni collettive della città. Essa ebbe il suo momento più significativo e ampio nello sciopero generale nazionale del 19 novembre 1968 per la casa, i trasporti e i servizi sociali, il Mezzogiorno
E’ quella rivendicazione alla base dei successi che nel ventennio Sessanta-Settanta registrarono le numerose riforme (riforme della struttura del paese, e non della sua pelle istituzionale). Lii ho definiti "gli anni del cambiamento e della speranza" Ili cammino di quelle riforme fu ostacolato fin dall’inizio dalla stagione degli attentati dinamitardi che aprirono gli “anni di piombo”.
Nei decenni successivi slogan come “meno stato e più mercato, “privato è bello”, “via lacci e lacciuoli” fecero scomparire il “diritto alla città”. Questo tema rimase solo nella riflessione di alcuni autori (tra i quali David Harvey, John Friedmann, Don Mitchell) per riesplodere nei movimenti sociali che, a partire dall’America del Sud, si propagarono nella miriade di azioni di protesta e ricerca di alternative alla condizione urbana determinata dal capitalismo nella sua fase neoliberistica. In Italia esso è riemerso nell’azione che migliaia di comitati, associazioni e altri gruppi di cittadinanza attiva promossero per opporsi alla liquidazione degli spazi pubblici, alla devastazione del verde e dei beni culturali, allo smantellamento delle faticose conquiste del welfare urbano, al peggioramento delle condizioni. ambientali, dei trasporti e degli altri elementi che concorrono a garantire la vivibilità dell’habitat dell’uomo. Emerse e si affermò, in Italia come in numerose iniziative internazionali, il tema della “città come bene comune”. E’ opportuno precisare che oggi intendiamo com“città” non più solo quella caratterizzata dalla continuità edilizia ma l’insieme degli elementi, naturali e artificiali del territorio, necessari per offrire alla società condizioni analoghe a quelle della città che abbiamo conosciuto nel nostro mondo.
Riprendere oggi il tema del “diritto alla città” coniugandolo con quello di “bene comune” impone di affrontare alcuni aspetti nodali del nostro sistema giuridico, politico e amministrativo. Ma in primo luogo si tratta luogo di prendere atto della profonda deriva culturale che si è manifestata a partire dagli anni Ottanta ; li abbiamo ricordati, recentemete, nell'eddytoriale 156. In quegli anni infatti, quasi ad accompagnare l’ascesa delle pratiche del neoliberismo e il “trionfo della rendita”, si è propagandato e fatti entrare nel pensiero corrente parole come “diritti urbanistici”, “perequazione urbanistica”, “vocazione edificatoria”, presentandole come espressive di verità scientifiche giuridicamente fondate e perciò indiscutibili. E’ di questo ciarpame che occorre in primo luogo liberarsi per procedere oltre il presente.
Il punto dal quale ripartire è l’affermazione della circostanza (oggettiva) che l’incremento di valore della rendita immobiliare (aree ed edifici) deriva dall’azione storica della collettività, e che quindi la decisione conseguente è che tale incremento, dove e quando si manifesta, deve essere attribuito alla collettività. Che un suolo oggi impiegato per le attività agro-silvopastorali, diventi impiegato o impiegabile per funzioni urbane dipende da due ordini di azioni pubbliche: la realizzazione e trasformazione, nella storia e nell’attualità, delle infrastrutture fisiche e sociali che determinano la condizione urbana; la decisione politico-amministrativa di rendere quella parte del territorio trasformabile a funzioni urbane. Nell’Italia liberale, e perfino in quella fascista il riconoscimento del carattere pubblico di queste azioni era costituito dall’obbligo, per i proprietari beneficiati dalla realizzazione di opere pubbliche, di pagare i “contributi di miglioria specifica” e dal riconoscimento che, in caso di espropriazione prevista dai piani urbanistici, non dovesse essere riconosciuto ai proprietari il maggior valore derivante dalle decisioni del piano.
Dopo i tentativi compiuti negli anni Sessanta (tentativo del ministro d.c. Fiorentino Sullo) e le sentenze costituzionali 55 e 56 del 1968 (che ammisero la legittimità costituzionale di una legge ordinaria che avesse stabilito che la facoltà di edifcare non apparteneva al prioprietario ma alla collettività) si tentò di incamminarsi su questa strada con la legge 10/1977 (Bucalossi), stabilendo che la facoltà di edificare poteva essere concessa al proprietario del suolo: l’edificazione (e in generale la trasformazione urbana del territorio) non era quindi un attributo della proprietà che potesse essere esercitato sulla base di una semplice licenza, ma il risultato di una concessione che l’autorità pubblica poteva, appunto, concedere o non concedere.
La legge di fatto non fu applicata. Non solo per il clima culturale e politico completamente mutato, ma anche perché la C9orte costituzionale rilevò due gravi limiti di quella legge: (1) l’irrisorio livello degli oneri ci concessione, non equiparabili ai benefici che il proprietario ne conseguiva; (2) il fatto che si creava una disparità di trattamento tra i proprietari dei suoli non ancora edificati e quelli degli altri immobili, che potevano tranquillamente continuare ad appropriarsi dell’incremento di valore delle loro proprietà. Questi due punti deboli della legge Bucalossi indicano anche la direzione da percorrere per andare avanti, e per dare alla collettività il diritto di decidere come trasformare la città e la capacità giuridica ed economica per farlo.
Corollario importante di questa posizione è che occorre ribadire l’appartenza pubblica delle decisioni sulla città e le sue trasformazioni: contrastando le tendenze espresse dalla “legge Lupi (mai approvata definitivamente dal Parlamento ma riemersa con prepotenza nelle minacciose promesse del ministro Lupi) per la sostituzione dell’urbanistica “consensuale” o “concordata” (con la proprietà immobiliare) all’urbanistica “autoritativa” cioè pubblica.
Questo corollario ci porta al srcondo nodo che occorrerebbe, se non sciogliere, almeno rendere un pò meno soffocante: quello tra decisioni sulle trasformazioni del territorio e popolo. É la questione che nell’impostazione di Levebvre è espressa col termine “partecipazione”, che nella lezione di Harvey e sviluppata nell’affermazione diritto a trasformare (a concorrere alle trasformazioni, dato il carattere collettivo della città. Una questione che riemerge endemicamente nella pratica dell’urbanistica, in Italia e altrove.
Negli anni in cui il sistema dei partiti funzionava con una certa efficacia come cerniera tra società e istituzioni il problema era in qualche modo risolto da fatto che la pianificazione (il metodo indispensabile per governare le trasformazioni del territorio con la visione olistica che il territorio di per sé richiede) era compito e responsabilità delle isituzioni democratiche. La cultura urbanistica meno legata all’accademia e alla tecnica ha tentato spesso di sostituire, o integrare, l’urbanistica “democratica” con quella “partecipata”. I risultati sono stati scarsi: non è difficile a ottenere una partecipazione effettiva degli abitanti nell’elaborazione di un progetto che riguardi un’area limitata, o una dimensione di vicinato, ben più difficile è il coinvolgimento reale, e potenzialmente totale, della popolazione di una città o di un’unità territoriale ancora più vasta.
La questione, del resto, tende a coincidere con la questione stessa della democrazia. In questi tempi davvero difficili, quando, dopo il crollo del sistema dei partiti, dobbiamo preoccuparci a un tempo di difendere quel tanto di democrazia che non ci hanno strappato e di conquistare una democrazia più avanzata: di conquistare (per usare ancora le parole di Harvey in un suo recente scritto) una democrazia nella quale la dimensione verticale e quella orizzontale siano integrate.
Sul diritto al lavoro (il secondo tema sul quale avrei voluto soffermarmi) , la Costituzione repubblicana esprime un principio veramente, in sé, di grande rilevanza: «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Ma il contesto nel quale la Costituzione è stata elaborata (e lo stesso testo della Carta) non chiariscono che cosa si intenda per lavoro. E’ il “mercato” l’unico metro di valutazione dell’utilità sociale, e del reddito, attribuibile dalla società all’erogazione della forza-lavoro? L’equilibrio di forze che allora esisteva, il carattere che aveva assunto il compromesso storico tra capitale e lavoro non permettevano forse che si andasse oltre l’affermazione di alcuni diritti dei lavoratori rimanendonell’ambito della logica e delle regole della produzione capitalistica. Ma oggi ci sentiamo ancora entro quei limiti, almeno quando ragioniamo sui principi? Siamo oggi d’accordo con Luigi Einaudi, oppure riteniamo, con Karl Marx, che il lavoro sia «l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi genere»? E pensiamo, con Claudio Napoleoni, che il lavoro sia« per sua natura, lo strumento, peculiarmente umano, col quale l’uomo consegue i suoi fini; ed è strumento universale, nel senso che esso è a disposizione dell’uomo per ogni possibile suo fine». Le prospettive sono radicalmente diverse, e certamente quella liberale è ancora oggipiù radicata che quella di derivazione marxiana ma arebbe utile sviluppare un tema di di rilievo quale quello del diritto al lavoro senza partire dalla base. Soprattutto quando ci si propone anche ragionare, giustamente, di “reddito di cittadinanza”. E’ questo, una forma di sovvenzione a chi il “mercato del lavoro respinge”, oppure un prezzo che la società paga perché il lavoro è una risorsa, (anzi, un patrimonio) essenziale per l’umanità e lo sviluppo della sua capacità di comprendere il mondo e governarlo?
Riferimenti
In eddyburg, e soprattutto nell’archivio sulla vecchia piattaforma, c’è molto materiale. Due bozze di “visite guidate”, entrambe incomplete e non aggiornate, sono visibili qui per il “diritto alla città” e qui per il lavoro.
Maurizio Lupi
Maurizio Lupi è ben noto a chi frequenta eddyburg e, in generale, a chi si occupa dei temi cui questo sito è dedicato. E’ stato negli anni 90 l’ispiratore della politica urbanistica milanese fondata sulla privatizzazione delle decisioni e sul liberismo più sfrenato: quel modello di gestione urbanistica i cui germi Pietro Bucalossi aveva denunciato già negli anni 60 bollandoli con l’appellativo di “rito ambrosiamo”: un rito basato sulla deroga invece che sulla regola, sulla preminenza dell’interesse privato su quello pubblico. Con la “legge Lupi” si rovesciò il segno della faticosa ricerca di una nuova legislazione urbanistica compiutonel corso della XV legislatura proponendo una nuova disciplina.
La frase chiave della legge Lupi è la seguente: «Le funzioni amministrative sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi» (art. 5, comma 4). Di essa demmo a suo tempo il seguente giudizio sintetico: « una legge che privatizza l’urbanistica. Con essa si pone esplicitamente il bastone del comando nelle mani di quegli interessi che le amministrazioni pubbliche oneste (di sinistra, di centro o di destra che fossero) hanno sempre tentato di contrastare: quelli della proprietà immobiliare. Una legge, in sostanza, eversiva dei principi che non solo la sinistra e il centro, ma anche la sinistra liberale (non neo-) aveva definito e praticato.
Avevamo conosciuto gli anni dell’urbanistica contrattata che “Mani pulite” era riuscita a svelare ma non a sconfiggere (ma questo sarebbe stato compito della politica, non della giustizia). Anche il sistema capitalistico era cambiato: la rendita non era più un avversario del profitto imprenditoriale e del salario operaio, ma il fine stesso dell’economia. Invenzioni di apprendisti stregoni, come quello dell’esistenza di “diritti edificatori” inalienabili (se non a prezzi esorbitanti) e generalizzazione di pratiche ambigue e rischiose, come la “perequazione urbanistica” indussero le amministrazioni comunali e gli operatori dell’urbanistica, divenuti troppo spesso “facilitatori” degli interesse immobiliari, a modificare le loro scelte tecniche e amministrative. Tutto ciò trasformò il territorio, da habitat dell’uomo e patrimonio degli abitatori del pianeta, in macchina par fare quattrini. I tentativi di costruire la” "città dei cittadini" furono cancella da un progetto volto trionfalmente a costruire la “città della rendita. Di questetrasformazioni Maurizio Lupi fu l’attivo partecipe e la sua proposta di legge doveva essere il coronamento
L’Agenda urbana
Il corposo documento del Comitato interministeriale per le politiche urbane, intitolato “Metodi e contenuti delle priorità in tema di Agenda urbana” (d'ora in avanti: Agenda urbana)vuole essere, esplicitamente, il lascito in materia che il governo Napolitano-Monti lascia al governo Napolitano-Letta. Gli estensori non erano certamente consapevoli del carattere della continuità che lega i due gabinetti, né dell’egemonia che Silvio Berlusconi avrebbe esercitato nel tormentato passaggio. Non potevano quindi immaginare che tra i ministri più “pesanti “ ci sarebbe stato Maurizio Lupi. Ma tant’è. Peraltro se leggiamo con attenzione il documento, coordinato dall’ex Ministro per la coesione territoriale, Fabrizio Barca l’oggettiva coerenza nascosta dietro il succedersi apparentemente imprevisto degli eventi appare con l’evidenza dei fatti.
Un primo giudizio su quel documenti è stato espresso sinteticamente, anche su queste pagine da Maria Pia Guermandi, quando ha sottolineato che, secondo gli estensori di quel documento, « la maggiore innovazione che ha interessato l’urbanistica con riferimento al complesso della legislazione nazionale e a quella delle legislazioni regionali […] è la trasformazione del suo carattere fondamentale che è passato da una natura fortemente autoritativa-conformativa alla individuazione di modelli organizzativi basati sulla ricerca di accordi fra pubblico e privati e fra gli stessi soggetti pubblici letti, in alcuni casi, come derogatori della normativa vigente», osservando che siamo così «allo “sdoganamento” ufficiale della deregulation come pratica innovativa». In altri termini, l’innovazione alla quale si plaude e al cui rafforzamento si vuole tendere è una prassi in cui le decisioni sul futuro della città non sono più determinate dalle isituzioni democratiche elettive che determinano i limiti edificatori della proprietà (natura “autoritativa e conformativa”) ma dalla contrattazione tra pubblico e privato, nella quale il primo viene “letto” e usato, come l’attore che ha il potere di derogare la normativa vigente, cioè di infrangere le leggi che lui stesso (magari in periodi meno carezzevoli per la proprietà immobiliare) aveva stabilito.
Il documento non è privo di parti intelligenti e anche condivisibili, là dove ad esempio individua nodi problematici nell’attuale ordinamento dei poteri territoriali istituzionali (ma riduce il problema dell’”area vasta” alle sole dimensioni delle aree metropolitane e delle macro-regioni) e nella scarsa funzionalità dell’organizzazione territoriale e della mobilità. Ma i problemi sono visti tutti all’interno di una concezione della città (dell’habitat dell’uomo) che è diventata dominante: una concezione esclusivamente economicistica Capovolgendo il titolo dell’ultimo libro di eddyburg potremmo dire che per Agenda urbana la città è solo un affare.
La città ha come sua funzione principale quella di contribuire ad aumentare il PIL. « La potenzialità insita nell’esistenza di una grande concentrazione di capitale fisico, edilizio, intellettuale, sociale e di conoscenza nei centri urbani richiede di essere resa esplicita in un processo deliberativo ad ampia partecipazione»; ma ciò che alla fine conta è che «sia reso percepibile dai decisori economici e finanziari che devono insediare i segmenti delle loro organizzazioni disperse su base-mondo o garantire le necessarie aperture di credito.» (p. 3)
IL documento pone una questione che è certamente di massimo rilievo e definisce un obiettivò che non si può non condividere: «Un territorio deve puntare alla propria crescita economica attraverso la piena e sostenibile valorizzazione delle proprie potenzialità e prendendo in considerazione i bisogni di tutti i cittadini a cui, con riferimento a molteplici aspetti della propria vita (oltre e prima del reddito, la salute, il senso di sicurezza, l’istruzione, la qualità delle relazioni con gli altri, la qualità dell’ambiente, ecc.), deve esser garantito il raggiungimento e il superamento dei livelli socialmente accettabili e ambientalmente sostenibili». Si domanda poi: «Come è possibile declinare tale modello nelle città dove prevale la rendita urbana nemica dell’innovazione? Hic Rodhus, hic salta. E il salto, con qualche giravolta, è proprio nelle braccia di Maurizio Lupi.
Agenda urbana sintetizza gli ultimi anni del secolo scorso come caratterizzati da una doppia faccia: da un lato, «si produssero in quegli anni i primi tentativi di una politica delle città finalizzata all’obiettivo della qualità urbana, intesa come “rigenerazione” o, ancor meglio, come “riabilitazione urbana” finalizzata alla riqualificazione di parti di città caratterizzate da degrado fisico, economico e sociale, tenendo conto dei valori storici, ambientali e paesaggistici» Ma . «accanto a ciò si realizzarono pratiche di urbanistica negoziata in cui comuni con necessità di risorse finanziarie e privi di strumenti di programmazione strategica accettavano soluzioni edificative con dubbi effetti [sic]sullo sviluppo delle proprie città». Si prosegue riconoscendo che «gli anni successivi, dal 2000 in poi, sono stati caratterizzati, da un lato, dallo svuotarsi delle esperienze progressive e dal venir meno della partecipazione e del consenso sociale che le aveva accompagnate, dall’altro, dal prevalere della seconda tendenza. A questa dinamica ha contribuito senz’altro anche l’inadeguatezza del disegno di governance delle città» (p. 6). Governance (si veda la nostra analisi del termine) è un termine molto ambiguo, e forse per questo molto praticato nel linguaggio politico corrente. Ciò che è certo è che è alternativo rispetto a “government “: significa meno autorità e più accordo tra soggetti diversi; in teoria potrebbe addirittura significare, per adoperare il linguaggio gramsciano, meno forza e più consenso, “egemonia” invece che “dominio”. Ma nel concreto significa ben altro: significa che non contano più i vertici del potere formale ma l’insieme degli attori in quel determinato contesto: un contesto tutto pubblico (e allora la governance è il coordinamento tra i diversi settori delle pubbliche amministrazioni, in un contesto privato, oppure in un contesto pubblico/privato. E appunto a quest’ultimo tipo di contesto che ci si riferisce in Italia quando si parla di governance. Ma il contesto pubblico/privato (come del resto quello pubblico) non è, in Italia, un contesto nel quale tutti i soggetti siano dotati di uguali poteri e portatoreuguali interessi. Non mi sembra necessario spendere molte altre parole per affermare che nel campo della città e del territorio il potere che sono capaci di esercitare i grandi interessi immobiliari e quelli dei cittadini (o dei portatori di “interessi diffusi” sono di gran lunga minoritari.
E allora possiamo dire subito che il rilievo che nell'Agenda urbana vediamo una pericolosa risonanza dell’enfasi posta sulla governance con la franca dichiarazione del ministro Lupi di voler passare dall’urbanistica “autoritativa” all’urbanistica “negoziata”. Se la prima è l’urbanistica esercitata dalle istituzioni elettive della Repubblica, la seconda è quella per la quale il punto di partenza è costituito dalle decisioni d’investimento dei privati: di quei privati, ovviamente, che hanno l’interesse a ottenere una consistente e qualificata edificabilità nell’area di cui sono in possesso. Si tratta in sostanza di quella che ai tempi dell’indagine giudiziaria Mani pulite, che scoperchiò il pentolone di Tangentopoli, venne clamorosamente denunciata come “urbanistica contrattata”.
E’ proprio l’urbanistica contrattata che la legge proposta da Maurizio Lupi si proponeva di generalizzare e rafforzare. Ma il termine non piace neppure agli esensori del documento Agenda urbana. Essi infatti scrivono , proseguendo il testo che abbiamo sopra citato, «questa trasformazione dell’urbanistica è stata, in questo stesso periodo, fortemente avversata. Il superamento (della rigidità) delle prescrizioni del piano regolatore generale della legge fondamentale con il passaggio agli “accordi urbanistici” dell’urbanistica consensuale è stato qualificato con l’accezione negativa di “urbanistica contrattata” che, attraverso l’incremento della discrezionalità della pubblica amministrazione nell’esercizio del potere di trasformazione del territorio e della città costruita (una amministrazione ritenuta per definizione succube e ancillare degli interessi privati), si sia determinata verso l’ascolto e l’accettazione delle richieste private, ponendo in secondo piano, se non addirittura come scenario di sfondo, il conseguimento di più generali obiettivi di interesse pubblico.
«Non chiamiamola "urbanistica contrattata", non è smart»
Gli estensori del documento sanno che le parole hanno una storia e un senso. Essi perciò dichiarano, con disarmata innocenza, di scegliere i termini di urbanistica “concertata” o “consensuale” «piuttosto che quello di “contrattata”, proprio per evitare quel forte senso di negatività in esso contenuta. (p. 20).
Nel concreto, per regolamentare i rapporti tra pubblico e privato nello scegliere e premiare i progetti di trasformazione urbana da attivare bisognerebbe affidarsi- così invocano - al «rispetto del principio di lealtà che dovrebbe caratterizzare i rapporti pubblico-privato». Principio, che com’è noto alle cronache giudiziarie, domina nei rapporti tra immobiliaristi e gestori dei poteri pubblici; ciò si dovrà ottenere «contrattualizzando le modalità e le forme con cui amministrazioni pubbliche e soggetti privati individuano e pongono in essere progetti di trasformazione urbana». Passando cioè gioiosamente – ci sembra di capire – dal diritto pubblico al diritto privato.
Naturalmente «questo mutamento della prassi urbanistica, visto in termini positivi e innovativi (inizialmente avviato nell’ambito della produzione di edilizia residenziale pubblica), può rappresentare anche l’altra faccia della medaglia, quella della crisi dell’urbanistica, della sua incapacità di dare risposte convincenti alla necessità di modernizzazione della città, di tener conto, con analoga velocità, dei mutamenti socio-economici della realtà, delle diverse condizioni d’uso dello spazio urbano conseguenti al mutato rapporto tra politica e cultura»; e soprattutto, aggiungeremmo noi, tra economia e politica.
Definiti (ovviamente in modo più ampio di quanto abbiamo esposto nella nostra sintesi i cardini di una politica nazionale delle città si poneil problema di «individuare un luogo di allocazione di tale politica». La soluzione potrebbe essere una legge nazionale di principi sul governo del territorio: ma si porrebbe il problema di non contraddire le numerose legislazioni regionali «caratterizzate da un’attività legislativa più o meno intensa e sicuramente caotica rispetto agli esiti complessivi raggiunti». Forse la soluzione migliore potrebbe essere, suggerisce il documento, quella di «muovere dai reali processi di mutamento del territorio italiano, individuando i contesti più dinamici in considerazione della potenzialità competitiva del nostro paese nel contesto europeo e mediterraneo e concentrare su di essi sforzi di elaborazione, strumenti attuativi e risorse» Aumenteremmo quindi così, aggiungiamo noi, le differenze tra le diverse parti del territorio, premiando quelle più dotate e perciò “competitive” – parola magica, - nel quadro della concorrenza economica internazionale. Ci risiamo: in nome di una visione grettamente economicistica della città si sacrificherebbero i diritti( poiché di questo si parla quando si parla di legislazione) alle convenienze del mercato.
Una legge per salvare la perequazione
Abbiamo fatto un salto sulla sedia quando abbiamo letto “scorporo”. Con questa parola si alludeva, nel dibattito successivo alle sentenze costituzionali 55 e 56 del 1968, alla separazione dello jus edificandi dalla proprietà dell’area e dell’appartenenza del primo al potere collettivo. Al principio, cioè, introdotto dalla legge 10/1977 da Pietro Bucalossi: il principio, secondo il quale la facoltà di edificare appartiene al pubblico il quale può concederla a privato in cambio di determinate garanzie. Sarebbe bello e utile, e secondo noi determinante per il futuro della città, riprendere il dibattito da quel punto: completare il tentativo di Bucalossi riscrivendo il capitolo dei diritti e dei doveri della proprietà immobiliare per stabilire, in modo generalizzato, che gli aumenti del valore commerciale degli immobili (aree ed edifici) derivante dalle scelte pubbliche, a partire da quelle della pianificazione, non appartengono al proprietario ma alla collettività. Ma è bastato proseguire di poche parole nella lettura del testo per ripiombare nello sconforto: si vuol parlare dello “scorporo” per escluderlo. Infatti ciò che si vuole è «dare un fondamento legittimo alle leggi regionali sulla perequazione».
Vergogna perpetua ricada su chi ha proposto, praticato e diffuso questa parola e la pratica che ne è scaturita. É ls generalizzata aplicazione di essa che è infatti ritenuto oggi, dagli autorevoli responsabili di quel documento la ragione per la quale si deve gettare ai lupi (questa volta con la minuscola) la coraggiosa innovazione di Pietro Bucalossi. Si afferma infatti: la perequazione, «è ormai pratica diffusissima sia con finalità di incentivo alla qualità ambientale e architettonica (c.d. premialità edilizia) e ancor più con finalità di compensazione, cioè come mezzo di acquisizione di aree senza esproprio, mediante cessione gratuita ottenuta attribuendo nuova cubatura (o nuova superficie di pavimento) da utilizzare su altra area. A parte i dubbi di legittimità di queste operazioni, é incerta la natura di questi c.d. crediti edilizi (diritti obbligatori o reali?), la loro durata (sono soggetti a prescrizione?), la tutela (sono da indennizzare in caso di cambiamento di piano?), la individuazione delle cosiddette “aree di atterraggio” (é ben diverso “atterrare” al cento o in periferia)». (p.21).
E’ questo il punto chiave dell’intera opera prodotta dal Comitato interministeriale per le politiche urbane: santificare, consolidare e porre al riparo dalle contestazioni costituzionali (e dalle volontà di cambiamento politico) l’invenzione dell’appartenenza privata dei “diritti edificatori”.
Sed de hoc satis. L’analisi critica di quel documento meriterebbe altri approfondimenti. Speriamo che arrivino; ne daremo conto. Qui vogliamo limitarci, in conclusione, a rilevare la continuità tra il documento che il governo Monti ha consegnato come lascito al suo successore e le idee più volte espresse dal ministro Maurizio Lupi. Quante crisi di governo, e quanti tentativi di ricostruzione della sinistra, bisognerà attendere per veder interrotta quella continuità? Non lo sappiamo né riusciamo a immaginarlo, ma la speranza è l’ultima a morire.
Questa affermazione, espressa da Cristina Gibelli a proposito del nuovo PGT di Milano, ha una portata che travalica la dimensione, pur rilevantissima, della seconda capitale d’Italia. Quando si cimenta con le questioni che hanno a che fare con l’uso del suolo (e quindi con il ruolo della rendita immobiliare) anche la sinistra che ha la schiena dritta si rivela schiava della triade mattone-finanza- potere mediatico. Seppure in cuor suo (e nelle sue parole) prediliga “la città dei cittadini" o “la città come bene comune”, di fatto si limita ad addolcire, mitigare, depeggiorare la devastante realtà della “città della rendita”. Succede a Milano come a Napoli, a Cagliari come a Venezia (se quest’ultima può essere ancora definita di sinistra).
Abbiamo scritto in altra occasione della "vergogna napoletana” e non passa settimana senza che dobbiamo raccontare qualche ulteriore episodio della svendita dei patrimoni pubblici della Serenissima al Benetton o Cardin di turno, o al “libero mercato” che aspirerebbe a investire sulle sponde della Laguna. Questa volta parliamo di Milano, per tirare qualche conclusione di carattere più generale sulla sinistra al potere.
L’articolo di Cristina Gibelli, che compare qui accanto, documenta con efficace sintesi i passaggi e le scelte che hanno provocato forte delusione in chi aveva partecipato con speranzosa fiducia all’avventura elettorale di Giuliano Pisapia, e ai primi passi della sua giunta. Altri scritti ci sono giunti, da fonti diverse ma tutte meritevoli di credito, per documentare con dovizia di argomenti le ragioni di un giudizio profondamente critico del “nuovo” piano di governo del territorio ambrosiano. Spero che giungano anche altri scritti che argomentino le ragioni degli amministratori in carica.
Gli errori più gravi che emergono da ciò che abbiamo finora potuto esaminare sono, in sintesi, i seguenti:
- la pretesa di affrontare i problemi di assetto della città senza alcuna visione del sistema territoriale di cui è parte (quanti decenni sono passati invano dal generoso tentativo del Piano intercomunale milanese?);
- la sostanziale conservazione (qualcuno ipotizza addirittura un potenziale incremento) delle quantità della nuova edilizia rispetto alle immani dimensioni del piano Moratti;
- l’accettazione acritica delle infami pratiche di “perequazione” e “compensazione” urbanistica.
- l'oggettivo abbandono del principio, legittimato con tenaci lotte sociali negli anni '60 e '70, degli “standard urbanistici”, cioè di spazi pubblici come tali assicurati solidamente al possesso e all’uso della cittadinanza. Non ci sembrano “errori” da poco a fronte dei “depeggioramenti” sbandierati dalla giunta.
La “trahison des clercs”
E’ un dilemma che per fortuna non ci tocca personalmente, ma pensiamo che l’ultimo arbitro debba essere la coscienza di ciascuno. Se però dobbiamo dare (come vogliamo) una risposta politica, il nostro giudizio è chiaro. Chi ha ottenuto i voti necessari per governare in nome di scelte radicalmente diverse da quelle contro le quali è sceso nell’arengo, non può governare proseguendo la vecchia politica, per di più nascondendolo ai suoi stessi elettori. Se la presa sulla società della triade proprietà-banche-media è così forte da esercitare un’egemonia non contrastabile, cederle oggi significa cancellare anche i germi di controegemonia che l’inizio dell’avventura aveva fatto emergere, a Milano e altrove.
A Milano, cedere oggi e proseguire il progetto urbanistico Moratti Masseroli, per non rischiar di perdere il consenso ottenuto nella vicenda elettorale, significa propter vitam vivendi perdere causas. Significa, nel concreto della società, disperdere i germi di speranza: quei germi che oggi forse sono troppo deboli per prevalere, ma che da domani saranno del tutto cancellati, o sostituiti dalla rabbia non incanalata.
Su questa nostra posizione la discussione, naturalmente, è aperta.
Giorgio Nebbia, in una lettera cui con queste parole rispondiamo, ci invita a ricordare quei lontani avvenimenti anche in relazione a quelli di oggi: non solo agli analoghi disastri (nessuno osi più di definirli “naturali”), ma all’aiuto che affrontarli seriamente darebbe il problema del lavoro. E ci ricorda il modo in cui in quegli anni si comportarono i parlamenti e i governi (all’epoca erano istituzioni distinte): appassionato lavoro di commissioni composte da parlamentari capaci di studiare e pensare, mobilitazione di studiosi delle varie discipline coinvolte dotati di strumenti per lavorare efficacemente.
Ne nascevano proposte concrete, proposte di governo. Una di queste va particolarmente ricordata: la commissione De Marchi, così denominata dall’insigne studioso che ebbe la responsabilità di coordinarne il lavoro. È ad essa che si deve quella “legge per la difesa del suolo” (legge 183/1989) con la quale ci si proponeva di difendere, al tempo stesso, le acque in sé e il suolo dalle acque. Detto con le parole della legge, «assicurare la difesa del suolo, il risanamento delle acque, la fruizione e la gestione del patrimonio idrico per gli usi di razionale sviluppo economico e sociale, la tutela degli aspetti ambientali ad essi connessi» (art. 1).
Era una legge molto ben costruita (se ne veda una sintetica illustrazione nel testo indicato calce), i cui riferimenti essenziali sono: la scelta del bacino idrografiico come ambito specifico di pianificazione, programmazione e gestione; la costituzione di un organismo specializzato per la definizione e attuazio edelle scelte; la priorità delle determinazioni del “piano di bacino” rispetto a qualsiasi altra scelta definita da altri strumenti di pianificazione e programmazione, limitatamente a ciò che pertiene alla materia della “difesa delle acque e dalle acque”.
Se si fosse realmente attuata la legge e se si fossero finanziati gli interventi previsti dai piani sarebbe iniziato una fase di risanamento della strutturale fragilità del territorio italiano: si è fatto il contrario. Alla priorità della difesa del suolo e delle acque si è sostituita la priorità delle strade e autostrade, delle lottizzazioni residenziali, tristiche, industriali. Al governo pubblico del territorio (alla pianificazione urbana e territoriale) si è sostituita le derogolazione, privatizzazione, cementificazione a go go. Agli interessi degli abitanti di oggi e di domani si sono anteposti quelli dell’appropriazione privata della rendita. Paghiamo oggi il prezzo di quelle scelte (ahimè troppo spesso bipartsan) in termini di disastri, di vite umane, di disagi diffusi. E sebbene gran parte dell’intellettualità critica indichi oggi nella difesa del suolo una dei grandi temi di un programma economico per un’uscita responsabile dalla crisi attuali, troppo deboli – se non addirittura nulli – sono gli echi da parte di chi ha il potere di decidere e discute, nell’ambito del Palazzo, di come avviare una nuova stagione. E quanti hanno maggior potere si preoccupano anzi di reprimere, adoperando i cavilli di un diritto asservito alla proprietà e i lanciagas della polizia, le tensioni di resistenza e di cambiamento che nascono dai settori più sofferenti e più vigili dalla società civile: come testimoniano i tentativi di annullare i risultati dei referendum e di affogare nella violenza le ragionate proteste nella Vl di Susa.
Eppure, liberare risorse dagli impieghi improduttivi (a partire dalla socializzazione delle rendite finanziarie e immobiliari) e destinarle a un vasto programma di risanamento dei territori e delle città potrebbe dare un decisivo contributo proprio a quella ripresa delle attività economiche che tutti auspicano: rilanciandole però non in funzione di un’ulteriore crescita di consumi opulenti, ma del soddisfacimento di indifferibili esigenze sociali: di tutti. Nebbia ricorda in proposito qualcosa che successe – nell’ambito di una ben diversa fase del capitalismo – nel secolo scorso
Nel 1933, dieci giorni dopo essersi insediato alla Casa Bianca, Franklin Delano Roosevelt predispose, per uscire dalla “grande crisi” del 1929, un ampio progetto per impiegare un esercito di giovani disoccupati al lavoro nelle foreste. Nell'estate del dello stesso anno 300mila americani, celibi, dai 18 ai 25 anni, figli di famiglie assistite, erano nei boschi, impegnati nei lavori di difesa del suolo che da molti anni erano stati trascurati. Negli anni successivi, in varie campagne, due milioni di giovani lavoratori, complessivamente, piantarono 200 milioni di alberi, ripulirono il greto dei torrenti, prepararono laghetti artificali per la pesca, costruirono dighe, scavarono canali per l'irrigazione, costruirono ponti e torri antincendio, combatterono le malattie dei pini e degli olmi, ripulirono spiagge e terreni per campeggi. Nell'aprile 1935 fu creato il Soil Conservation Service col compito di difendere il suolo, anche se era di proprietà privata, per conto della collettività.
Né il ricordo di questi lontani avvenimenti (e di quelli analoghi nell’Europa socialdemocratica), né la memoria del “piano del lavoro” proposto nel 1946 dalla CGIL di Giuseppe Di Vittorio ha alimentato la ricerca di soluzioni ai problemi di oggi là dove si decide (o si fa finta di decidere). Intanto il paese si disgrega nella sua fisicità e nella sua società. Siamo costretti a celebrare l’anniversario delle alluvioni del novembre 1951 e 1966 sotto il segno dello sgomento, anzichè quello della speranza.
Una sintetica illustrazione della legge è nel libro E. Salzano, Fondamenti di urbanistica, Laterza 2003, nel paragrafo "La difesa del suolo" scaricabarile qui sotto. Una più ampia relazione sulla nascita e sull'attuazione della legge 183/1987 è quella di Passino (2005). Per il "Piano del lavoro" della CGL vedi l'editoriale n.
La legge urbanistica italiana compie oggi settant’anni (ma entrò in vigore il 16 ottobre 1942). Vide la luce quando infuriavano i combattimenti a Stalingrado, stava per cominciare la battaglia di El Alamein e a Roma si sarebbe dovuta inaugurare la grande esposizione universale dell’E42. I settant’anni li dimostra tutti ma continua a stare in buona salute e, per quanto si può capire, resterà in vita ancora a lungo. Ha resistito alla caduta del fascismo, alla costituzione repubblicana, all’istituzione delle regioni, alle modifiche costituzionali del 2001. Eppure, a chiedere di sostituirla o di modificarla radicalmente si cominciò negli anni Cinquanta. L’avventura più drammatica l’ha vissuta nell’estate del 1964 quando il presidente della Repubblica Antonio Segni e il comandante generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo, d’accordo con autorevoli esponenti del mondo politico ed economico, tentarono addirittura un colpo di stato per impedire che fosse approvata la proposta di riforma presentata nel 1962 (altro anniversario che cade quest’anno) da Fiorentino Sullo, ministro democristiano sconfessato dal suo partito. Le uniche modifiche importanti alla legge del 1942 sono dovute a Giacomo Mancini (abile nello sfruttare il consenso dell’opinione pubblica scossa dalla frana di Agrigento che aveva svelato di che malaffare grondava l’attività edilizia non solo nella sventurata città siciliana) e a Pietro Bucalossi (per quello che resta della sua maltrattata riforma del 1977).
I lettori eddyburg sanno che con gli anni Ottanta è cambiato tutto, nella politica e nella società italiane peggio che altrove. Soprattutto in urbanistica. Se fino al decennio precedente i tentativi di modificare o sostituire la legge del 1942 erano stati animati da idee progressiste – di sinistra se volete – negli ultimi lustri si è verificato un vistoso cambiamento di scenario e le modiche proposte sono state e sono di segno regressivo, volte cioè a peggiorare la legge, a depotenziarla, a renderla più che mai funzionale agli interessi privati e speculativi.
Il caso più noto e clamoroso è quello della cosiddetta legge Lupi che nel 2006 è stata a un passo dalla definitiva approvazione. Un disegno di legge micidiale che cancellava il principio stesso del governo pubblico del territorio, sostituito dalla negoziazione con gli interessi privati. Nella primavera del 2006 la proposta era stata approvata dalla Camera (dalla maggioranza di centro destra, più 32 voti a favore espressi dall’opposizione di centro sinistra) e se non fu approvata dal Senato fu anche per merito di eddyburg che si scatenò. Raccogliemmo centinaia di firme contro; a cura di Cristina Gibelli e di Edoardo Salzano fu pubblicato un volumetto, La controriforma urbanistica, subito esaurito, presentato in molte città, e in audizione anche al Senato della Repubblica (per merito del vice presidente Sauro Turroni) dove la legge stava per essere definitivamente approvata. I senatori del centro sinistra restarono muti e la discussione coinvolse in particolare gli esponenti di Alleanza nazionale che accusammo di prestarsi ad affossare una legge prodotta in una stagione di cui essi erano in qualche modo gli eredi, una legge comunque caposaldo di modernità e di tutela dell’interesse pubblico. Ne nacque un’aspra discussione, ma infine i senatori di An chiesero di rinviare la discussione, che non fu possibile grazie all’anticipato scioglimento delle Camere, e la proposta Lupi finì in archivio.
Quella fu per noi un’occasione angosciosa. Siamo stati più o meno degnamente protagonisti di decenni di impegno a favore della riforma urbanistica, per accantonare e superare la legge del 1942, per nuove norme più moderne ed efficaci. Abbiamo finito con il sentirci obbligati a difendere quella legge con le unghie e con i denti, sapendo che dalla politica e dalle istituzioni di oggi possono venire solo peggioramenti. Così sono andate le cose.
Ps. In un prossimo intervento m’impegno ad estendere la riflessione dalla legge urbanistica del 1942 a quella sul paesaggio 1939, anch’essa fondamentale e fortunatamente longevo strumento di garanzia per il nostro territorio.
Vezio De Lucia
Diciamo noi: non avete torto,né gli uni né gli altri, ma cerchiamo di capire la cosa più a fondo tenendo conto delle parole adoperate e del contesto in cui risuonano e prendono senso. E allora ci prende paura. Avevamo espresso il nostro timore già all’inizio della giostra postillando un articolo ragionevole, che vedeva alcuni difetti dell’annunciato provvedimento ma non ne individuava quello che a noi sembrava esserneil vizio di fondo: commentando, avevamo scritto: Il primo segnale di pericolo è nel titolo del nuovo strumento: “Contratto di valorizzazione urbana”. E prodeguivamo:
«Sappiamo fin troppo bene che, quando si parla di “valorizzazione” nelle politiche urbane e territoriali ci si riferisce all’aumento della rendita urbana e della quota di essa che ne viene a quelli che una volta si chiamavano speculatori, e oggi “investitori immobiliari. Sappiamo che dal pensatoio (si fa per dire) dal quale emergono questi strumenti, sono nati e proliferati quei progetti speciali, battezzati con accattivanti denominazioni, tutti orientati a facilitare gli affari degli “investitori immobiliari” derogando dalle regole di una corretta pianificazione urbanistica e di un’adeguata partecipazione sociale.» Oggi lo riconosce perfino l’INU.
Ponevamo infine una domanda che ci sembra cruciale per valutare qualsiasi intervento sul territorio: legge, piano, progetto, negozio che sia: chi ci guadagna e chi ci perde? Nello specifico, a chi serviranno i pochi spiccioli sottratti ad altri programmi pubblici. A migliorare la qualità dei quartieri investiti dalla valorizzazione” per i loro attuali abitanti, ad accrescere la quota dello stock di edilizia residenziale utilizzata da chi non può accedere al “mercato”? o a migliorare il “portafoglio titoli” dei soli noti?.
Aspettavamo un documento governativo un po’ più ricco dello striminzito articolo 12 del decreto legge 22-6-2012 n. 83, “Misure urgenti per la crescita del Paese”, pubblicato nella G.U. 26 giugno 2012, n. 147. Invano. Allora abbiamo cercato di capire basandoci sulla lettera della disposizione e su ciò che dai giornali e dall’aria che annusavamo (diciamo dal contesto) via via emergeva.
Ecco come si predispone il «piano nazionale per le città»: il responsabile istituzioale è «Il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Sarà quindi, pensiamo, il solito ufficio nel Palazzo di Porta Pia dove hanno elaborato quei “progetti speciali” mediante i quali, a partire dagli anni 80, si è scardinata la pianificazione urbanistica e si è aperta una strada più larga agli interessi immobiliari? E’ facile immaginare che lì sarà il pensatoio (e in qualche limitrofo “istituto d’alta cultura”). Ma dopo l’esperienza del passato oggi bisognapremunirsi nei confronti dei “lacci e lacciuoli” di cui altre istituzioni potrebero rivendicare la responsabilità”. Portiamo allora al vertice del meccanismo delle decisioni quello strumento della “conferenza” che è stato così utile nelle altre occasioni: istituiamo - hanno pensato - un concerto preventivo istituendo una Cabina di regia cui affidiamo il comando, e inseriamoci non solo di chi ha responsabilità istituzioali, ma anche con chi ha il potere dominante: quello dei soldi.
Ecco quindi la “cabina di regìa” «composta da due rappresentanti del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, di cui uno con funzioni di presidente, da due rappresentanti della Conferenza delle Regioni e delle province autonome, da un rappresentante del Ministero dell'economia e delle finanze, del Ministero dello sviluppo economico, del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, del Ministero per i beni e le attività culturali, del Ministero dell'interno, dei Dipartimenti della Presidenza del Consiglio dei Ministri per lo sviluppo e la coesione economica, per la cooperazione internazionale e l'integrazione e per la coesione territoriale, dell'Agenzia del demanio, della Cassa depositi e prestiti, dell'Associazione nazionale comuni italiani e, in veste di osservatori, da un rappresentante del Fondo Investimenti per l'Abitare (FIA) di CDP Investimenti SGR e da un rappresentante dei Fondi di investimento istituiti dalla società di gestione del risparmio del Ministero dell'economia e delle finanze».
Questo autorevole soggetto predispone il “Piano per le città”. Ma che cos’è questo “piano”? (comma 1 Il pensiero va ad altrettanto soggetti, luoghi e “piani”: a quello redatto dopo la crisi del 1929 dalla Tennessee Valley Authority, nell’ambito del roosveltiano New Deal, o a quello disegnato di Patrick Abercrombie per la Londra distrutta dalle bombe naziste, o a storie più nostrane come il piano “’Ina – Casa” di Amintore Fanfani o il “Progetto Ottanta” di Giorgio Ruffolo e Antonio Giolitti negli anni del centro-sinistra riformatore e non riformista.
Ma nell’Italia di oggi non si fanno piani né programmi, costruiti sulla base di studi e riflessioni, scelte politiche chiare, obiettivi enunciati e provvedimenti con essi coerenti. Si mobilitano le risorse dei potenziali finanziatori offrendo “premialità” e facilitazioni”: dove il primo termine indica cubature in più, o “spalmature” di cubature su terreni più vasti, o attribuzione alle cubature delle utilizzazioni più vantaggiose per il proprietario/promotore, e il secondo termine allude a deroghe ai lacci e lacciuoli derivanti dalla tutela di interessi non coincidenti con la “valorizzazione” dei portafogli privati.
In pratica, quindi, con il Piano città di Monti Lo Stato invita i comuni (l’anello più debole della catena delle istituzioni territoriali e più esposto alle tentazioni immobiliaristiche) a inviare alla cabina i progetti che intende favorire, raccogliendoli dai propri cassetti o dalle offerte dei proprietari/promotori presenti (con i loro suoli o edifici o “diritti edificatori, o “legittime aspettative”) nell’area della sua competenza amministrativa. Questi progetti hanno un nome, rivelatore: «Contratti di valorizzazione urbana costituiti da un insieme coordinato di interventi con riferimento ad aree urbane degradate» (comma 2)
La Cabina di regìa sceglierà, tra tutte quelle presentate, le proposte dalla cui sommatoria emergerà il “Piano per le città”e aggiungerà le proprie ulteriori “premialità” del primo (schei) o del secondo tipo (deroghe, “spalmature”, esondazione di cubature su terreni limitrofi.
Sulla base di quali criteri saranno scelti i beneficiari? Il provvedimento lo dice, con chiarezza, nel 3° comma. Naturalmente c’è il «miglioramento della qualità urbana, del tessuto sociale ed ambientale», come c’è la« riduzione di fenomeni di tensione abitativa, di marginalizzazione e degrado sociale» e il «miglioramento della dotazione infrastrutturale anche con riferimento all'efficientamento (sic - nella compagine dei professori non ce n’è uno di italiano) dei sistemi del trasporto urbano». Insomma, il buon cuore è salvo. Ma il portafoglio batte altrove. Criteri di cui, scommettiamo, si terrà molto più conto sono quelli elencati alle lettere a) e b): l’« immediata cantierabilità degli interventi» e la «capacità e modalità di coinvolgimento di soggetti e finanziamenti pubblici e privati e di attivazione di un effetto moltiplicatore del finanziamento pubblico nei confronti degli investimenti privati»: se il progetto di “valorizzazione economica” è pronto, sei vostri partner hanno i loro suoli ed edifici pronti a essere gratificati, e se alla gratificazione vogliono partecipare altri investitori, eccoci qua. Quello che conta è che aumenti il PIL, con buona pace di Bob Kennedy buonanima e di chi - oggi, domani o dopodomani- sarà danneggiato dall’ulteriore trasformazione del territorio: se il cemento e l’asfalto avrà seppellito un po’ più di terra, la città della rendita avrà prevalso una volta ancora sulla città dei cittadini di oggi e di domani, e qualche altro gruppo sociale sarà stato esplulso verso nuove, più lontane periferie.
Siamo troppo pessimisti? Ci facciamo accecare dalla soverchia attenzione che riserviamo all’ideologia dominante e alla previsioni dei suoi perniciosi effetti? Lo speriamo vivamente. Ma non ci fidiamo. Come non ci fidiamo del fatto che i soldi sono pochini e c’è molta fuffa. Il territorio da devastare, fisicamente e socialmente, è ancora vasto. Perciò rinnoviamo l’appello alla vigilanza.
Che sotto la fuffa della propaganda ci sia altro è confermato del resto, dal fatto che, proprio in questi giorni, i leader dell’immobiliarismo e i loro cantori stanno facendo fuoco e fiamme perché il Parlamento riprenda l’esame dei vecchi provvedimenti “lupeschi”: proprio quelli che si propongono di consolidare i nefasti principi e meccanismi dei “diritti edificatori, della “perequazione” e degli altri strumenti, probabilmente essenziali perché quel Piano città possa effettivamente decollare. Vecchi strumenti, molte volte denunciati su queste e altre pagine (vedi ad esempio l’ eddytoriale 119, e la cartelle che abbiamo dedicato alla Legge Lupi.
Cercheremo di vigilare. E ci piacerebbe che i nostri amici in giro per l’Italia vigilassero anch’essi e ci informassero su quali sono gli avvoltoi, e quali i loro progetti pronti per essere trasmessi, nelle città grandi piccole: a Roma come a Napoli, a Venezia come a Firenze, a Torino come a Milano, a Bologna come a Bari. Informateci, per favore.
Così come ci piacerebbe se la speranza di quelli che abbiamo definito “ottimisti” venisse nutrita dalla riproposizione di ciò che, per realizzare una vera politica delle città, sarebbe oggi necessario proporre agli uomini di buona volontà, là dove ancora ce ne sono. Nei palazzi e nelle piazze.