Il consumo di suolo è la misura dell’espansione delle aree urbanizzate a scapito dei terreni agricoli e naturali. Il suo monitoraggio è un tema di estremo interesse per l’urbanistica, poiché investe appieno alcune tra le principali questioni che la pianificazione è chiamata ad affrontare: la forma della città, la distribuzione sul territorio delle funzioni, il conflitto tra usi alternativi del suolo. Attraverso numerosi articoli che la redazione di eddyburg.it ha raccolto da tutto il mondo, è possibile compiere un vero e proprio itinerario di riflessione sui fattori che alimentano il consumo di suolo, sulle modalità di crescita delle aree urbanizzate, sui costi collettivi procurati dalla mancata regolazione dello sviluppo urbano, sui rimedi che possono essere apportati attraverso la pianificazione territoriale e urbanistica.
1. Cause
Una prima serie di articoli indagano il rapporto tra consumo di suolo, economia e stili di vita. Edoardo Salzano ( Consumo e città) sottolinea le patologie di questo rapporto e vede nell’esasperazione del consumo di suolo uno degli effetti di un modello socio-economico che tende a disgregare progressivamente polis e urbs. Due articoli dall’America ( La città densa, Se non ci piace lo sprawl) forniscono alcuni spunti di riflessione sul legame tra modelli insediativi e preferenze delle famiglie e sul modo attraverso cui si alimenta il motore della crescita urbana (urban gowth machine, secondo la definizione del Sustainability Institute).
2. Sostegni
Una lucida analisi del giornalista Francesco Erbani inquadra il mancato controllo del consumo di suolo in un contesto nazionale di preoccupante regressione dell’urbanistica. ( L’Italia maltrattata). Alcuni meccanismi di pianificazione contrattata favoriscono l’espansione urbana: ad esempio, quando la “compensazione” viene utilizzata come metro per giudicare le proposte di edificazione e si baratta la possibilità di urbanizzare nuove aree con opere o contribuiti monetari, in America ( Ettari per Wal-Mart), come in Italia ( I numeri, i diritti e la compensazione). Il caso esemplare del PRG di Roma testimonia l’incidenza elevata dell’espansione urbana all’interno dei piani regolatori. ( Troppo consumo di suolo nel nuovo PRG). Talvolta, anche la pianificazione territoriale alimenta l’espansione, come accade in Campania ( Raffinate strategie verso l’ignoto) o come viene auspicato in Friuli Venezia Giulia ( Ragionando di terre a nord-est), regioni entrambe amministrate dal Centro-Sinistra.
3. Modelli
Sprawl, diffusione, dispersione insediativa: il consumo di suolo si accompagna ad un uso sempre più estensivo dello spazio, alla perdita dei confini della città, alla progressiva formazione di un magma di costruzioni, infrastrutture e aree relitte ( Come si sfascia una città; Diffusione, dispersione e anarchia urbanistica; Allarme. Il Veneto scoppierà), per descrivere il quale si ricorre a nuove parole ( Oltre Suburbia_ ascesa del Tecnoburbio; Punti di crescita - Esurbio). Il legame tra espansione e crescita di popolazione sembra essersi spezzato: il fabbisogno di spazi per infrastrutture e aree urbanizzate non diminuisce anche laddove la popolazione è stabile o in calo, in Italia ( Roma Sempre meno residenti nei centri storici) come in Germania ( Crescita e decrescita). Il territorio rurale è protagonista di un cambiamento epocale, schiacciato da un lato dalla pressione della città, dall’altro dalle modificazioni indotte dall’abbandono delle coltivazioni e dalle politiche agricole, come dimostrano gli studi condotti da Antonio Di Gennaro ( Prefazione). Un rapporto pubblicato sulla rivista Science conferma la drammatica portata ambientale del consumo di suolo ( Un rapporto rivela).
4. Misure
Quali sono le misure principali del consumo di suolo? Quali aspetti, oltre all’entità delle superfici urbanizzate, conviene misurare e mettere in relazione? Un articolo di Frisch illustra come questo tema viene trattato in Germania ( Trenta ettari al giorno). Altri articoli segnalano diversi studi prodotti in Europa ( Da campo coltivato a supermercato, Immagini europee delo sprawl; Lo sprawl visto dall’Olanda).
5. Costi
Il mancato controllo del consumo di suolo e la dispersione degli insediamenti generano una serie di costi collettivila cui entità è stata stimata, in Italia, per la prima volta in una ricerca condotta da Camagni, Gibelli e Rigamonti, della quale Salzano presenta gli esiti ( A proposito della città dispersa). Uno studio americano ci porta a riflettere anche sui costi sostenuti dalle famiglie ( Comparazione dei costi).
6. Rimedi
Il rimedio più semplice ed efficace, e forse per questo difficile da introdurre, consiste nel porre un limite alla crescita della città, un confine invalicabile che possa essere superato solamente quando tutte le alternative possibili sono state praticate. Tuttavia, stabilire un confine duraturo tra territorio urbano e rurale è un’operazione ardua da imporre e difficile da mantenere anche in paesi tradizionalmente più sensibili alla protezione del paesaggio, come testimonia la cattiva salute delle green-belt in Gran Bretagna, ( Sotto la cintura).
Una serie di articoli mostrano come sia necessario sostenere la regolazione della crescita attraverso un “pacchetto” di misure i cui pilastri sembrano essere: iniziativa intercomunale o sovracomunale, riequilibrio dei costi-benefici attraverso la fiscalità, integrazione e interscalarità delle politiche urbanistiche, coniugando visioni generali e soluzioni dettagliate.
Tale impostazione accomuna diverse proposte in Gran Bretagna ( Come fermare lo sprawl), negli Stati Uniti ( A lezione di matematica, L'urbanizzazione diffusa e i danni per l'ambiente costiero negli USA; Stato dello sprawl; Il piano della contea di Charles), in Germania ( Trenta ettari al giorno) e in Italia ( A proposito della città dispersa).
Il percorso è assai arduo. In America, paese notoriamente avverso alla pianificazione pubblica, i tentativi di imporre forme di “Smart growth” in alcune contee hanno incontrato opposizioni tenaci: consultati con un referendum, i cittadini dell’Oregon hanno chiesto il risarcimento dei vincoli all’edificazione imposti dal governo statale (Smart growth). Seguiremo questo esempio, con la nuova legge nazionale?
Infine, un articolo di Caudo sulle Green Belt Town (Politiche pubbliche e sviluppo economico), pianificate in America negli anni ’30 – all’epoca del New Deal - ci rammenta quanto difficile sia sempre stata la strada della pianificazione e di quanti viaggiano in direzione ostinatamente contraria...
Città. Architettura e società è il bellicoso titolo prescelto dal direttore Richard Burdett per la X Biennale di Architettura di Venezia: un manifesto contro le archistar e l’estetismo imperante nella disciplina, è stato detto, un monito a dare priorità al contesto fisico e sociale degli edifici progettati rispetto all’ossessione di lasciare un “segno” tangibile del proprio genio in ogni centro abitato.
Tanto è bastato, in un contesto come quello italiano, per scatenare la piccata reazione di quanti rivendicano il primato dell’estetico e la potenza simbolica dei grandi oggetti architettonici. Massimiliano Fuksas, peraltro presente con un saggio nel catalogo, ha immediatamente dichiarato che musei, memoriali, biblioteche, teatri, stadi, grattacieli e palazzi monumentali sono catalizzatori della rinascita urbana di incomparabile efficacia di fronte allo squallore degli interventi di edilizia popolare e alla piattezza degli strumenti urbanistici.
Per afferrare pienamente il carattere grottesco di questa polemica basta mettere piede nelle Corderie dell’Arsenale, dove è allestita la mostra di Burdett sulle sedici megalopoli globali in trasformazione (San Paolo, Caracas, Bogotà, Città del Messico, Los Angeles, New York, Cairo, Istanbul, Johannesburg, Milano-Torino, Barcellona, Berlino, Londra, Mumbai, Tokyo, Shanghai): tutti i timori e le aspettative riguardo a un’esposizione che si preannunciava pesante, dura, ad altissima densità di contenuti, si dissolvono nello spazio di un momento. La presenza dei dati, delle statistiche, dei grafici che avrebbero dovuto condensare anni di ricerche condotte dallo stesso Burdett con Saskia Sassen, Richard Sennet e altri alla London School of Economics è ridotta al minimo, come supporto ai grandi slogan formulati per ogni città, mentre una messe di fotografie, video e proiezioni comunica senza soluzione di continuità una sola idea: la città è bella.
Il “mostro” indigeribile, destinato con l’autorevolezza della scienza a imporre una svolta concettuale al sempre più hollywoodiano mondo dell’architettura, si rivela a sua volta un trionfo dell’estetica, un lunghissimo spot sulle “magnifiche sorti e progressive” delle metropoli contemporanee. Nulla a che vedere, tuttavia, con le scenografie barocche di Italo Rota in Good N.E.W.S. alla Triennale, o con la visualizzazione “sporca” dei designer nordeuropei: le splendide immagini – quasi tutte a volo d’uccello o addirittura fotopiani, rese più seducenti da luci dorate o biancori diffusi o morbidi bianchi e neri – allignano ordinate in un allestimento quasi inesistente, limitato alla composizione di grossi pannelli parietali. È una mostra ampiamente didascalica, in cui a fare la parte del leone è la grafica chiara ed elegante dell’art director Mario Trimarchi, a capo dello studio Fragile.
Il primo obbiettivo di Burdett è quello di ribaltare l’aura negativa associata al dato della popolazione urbana mondiale, cresciuta nello spazio di un secolo dal 10 al 50% e destinata a raggiungere il 75% entro il 2050. Gli scenari catastrofici comunemente evocati da queste cifre – espansione ad infinitum degli agglomerati urbani, traffico ingovernabile, emissioni, consumo energetico, barriere sempre più alte tra ricchi e poveri – non incrinano minimamente la ferrea convinzione che le città globali offrano soprattutto un «enorme potenziale democratico», e addirittura che «la loro forma può determinare il futuro del pianeta».
Un ottimismo fondato sul presupposto che l’intensificazione dei flussi globali di persone, merci e capitali che attraversano le grandi metropoli sia sempre e comunque una risorsa, che può e deve poi essere “gestita”, se non dominata, per mezzo di politiche locali sostenibili.
In questa ottica Londra, che grazie alla densificazione dei tessuti urbani compresi all’interno della green belt potrà accogliere 700000 nuovi abitanti stranieri nei prossimi dieci anni, è accomunata a Bogotà, che in dieci anni di buongoverno locale – partecipazione, nuove scuole, il miracoloso sistema di autobus e navette pubblici Transmilenio, le oramai notissime piste ciclabili – ha più che dimezzato il tasso di criminalità e sensibilmente migliorato la qualità di vita degli abitanti. Tokyo, la più grande megalopoli del mondo (35 milioni di abitanti) ad alta densità, è riuscita con una politica lungimirante a ottenere che l’80% della popolazione usi i mezzi pubblici, mentre a New York, dove vige la “maggioranza delle minoranze” (i bianchi non ispanici ammontano solo al 30%) dopo più di vent’anni si ricomincia a costruire case popolari.
L’entusiasmo per questi modelli di sostenibilità cede il passo a un senso di inquietudine quando l’ennesimo progetto di metropolitana o di realizzazione di scuole e palestre viene trionfalmente annunciato per città disperse come Los Angeles o per i barrios di Caracas, oppure quando Mumbai, con i suoi milioni di lavoratori informali, viene definita “Porto di opportunità?” e il Cairo “Caos e armonia”. A un tratto la percezione confusa individua con certezza l’oggetto della propria insofferenza: la totale rimozione del conflitto operata da Burdett.
Qua e là compaiono un grafico estemporaneo sulla criminalità o l’abusivismo a Città del Messico o una didascalia sull’urbanistica della segregazione a Johannesburg, ma la loro presenza non interferisce con l’incredibile equazione stabilita dal curatore tra crescita economica e sostenibilità urbana e sociale, tra le forze della globalizzazione e le politiche democratiche del welfare. Nel mondo dipinto da Burdett l’eterna contrapposizione tra interessi pubblici e privati, e tra i modelli urbani che ne discendono, viene completamente cancellata. Gli attori dell’economia globale, del tutto alieni da quelle meschine logiche speculative che determinavano in passato un atteggiamento di vorace appropriazione di beni e servizi della collettività, contribuiscono zelanti ai programmi di sviluppo delle amministrazioni locali, elaborando con architetti e sociologi le migliori strategie per creare spazi pubblici, trasporti pubblici, istituzioni e manifestazioni culturali e favorire il più alto tasso di coesione e giustizia sociale.
Fin dall’enorme fotografia di uno svincolo di Shanghai (Site Specific, 2004,di Olivo Barbieri) stampata sull’intera facciata del Padiglione Italia ai Giardini, colonne comprese, appare chiaro che la seconda parte della mostra, affidata a una dozzina di prestigiosissimi centri di ricerca internazionali, è organizzata secondo criteri di frammentarietà, problematicità e densità completamente estranei alla sezione delle Corderie.
Alcune delle ricerche trattano argomenti perfettamente complementari alla mostra di Burdett, dedicata alle sole città in crescita: come Shrinking Cities, un progetto coordinato da Philipp Oswalt sulle numerosissime città (alcune decine nella sola Italia) interessate da un processo di spopolamento e contrazione, oppure Fiction Pyongyang, di Domus, che si interroga sul destino di una città comunista concepita dai sogni deliranti del dittatore Kim Il Sung, oppure una riflessione sulle città del golfo arabo, di OMA (Office for Metropolitan Architecture, di Rem Koolhaas). Tre progetti di cui è facile riconoscere la comune matrice culturale grazie alla natura incalzante dei quesiti che pongono e al rilievo geopolitico delle trasformazioni urbane e territoriali che analizzano: l’evoluzione (solo in parte dissoluzione) dei paesi postcomunisti, il surreale uso dello spazio in un regime totalitario per molti aspetti misterioso, le reazioni dell’Occidente di fronte all’atteggiamento misto di emulazione e disprezzo per la cultura architettonica modernista manifestato dai ricchissimi paesi arabi a Dubai.
Il padiglione irlandese, infine, è l’unico che pone il problema del consumo di suolo, mettendo l’accento su una questione fondamentale: con ogni probabilità non c’è niente di più futile che affidare le sorti del mondo a una rete, seppure popolosa, di venti città. Il territorio è di gran lunga più importante.
John Ochieng ha perso il conto delle persone che bussano alla porta della sua baracca di una stanza nello slum di Kibera, nella capitale kenyana Nairobi, cercando un posto dove stare. Attirati dal sogno di una vita migliore, centinaia arrivano ogni mese in questo ammasso di baracche dai tetti di lamiera che già ospita 600mila persone in un corridoio di tre chilometri, probabilmente il più grande slum africano. «A volte quattro persone in una sola settimana bussano alla mia porta chiedendo se ho spazio o se so di qualche altro posto», dice Ochieng, 26 anni, macellaio, che in quella baracca vive con la moglie e quattro figli. Ogni giorno nuove persone arrivano portando i propri averi, traversano rigagnoli di fogna e montagne di spazzatura e si sistemano in qualche modo. Molti resteranno senza elettricità, dovranno pagare per qualche secchio d'acqua e useranno buche straripanti come latrine. Slums come Kibera solo il volto orribile dell'urbanizzazione dell'Africa, le cui città sono sopraffatte dalla crisi degli alloggi, dalla criminalità, e da infrastrutture inadeguate alla crescita tumultuosa di questi anni. «Negli anni '70 Nairobi era una città verde. Era tranquilla, andare in giro era sicuro, non c'erano buche per strada né mercati selvaggi», spiega un libraio che si presenta come Chan.
La pianificazione urbana sarà al centro di un vertice di 5 giorni, la settimana prossima a Nairobi: « Africities», organizzato dall'unione Panafricana dei governi locali in collaborazione con il governo del Kenya, metterà a confronto enti locali, imprenditoria pubblica e privata, forze sociali, Ong, università, sui problemi delle grandi città del continente. Anche perché il trend di crescita continua. Mentre alcune grandi città hanno visto l'immigrazione stabilizzarsi, molte continuano a ricevere ondate di persone che abbandonano la tradizionale agricoltura di sussistenza a causa di conflitti, o degrado ambientale, o per il collasso delle strutture familiari provocato dall'Aids. Secondo le Nazioni unite l'Africa subsahariana, dove il 72% della popolazione urbana vive in slums (baraccopoli, bidonvilles), ha il più alto tasso di crescita urbana al mondo. A questo ritmo si calcola che nel 2030 oltre metà degli africani vivranno in città - una popolazione urbana superiore a quella di tutta Europa.
Lagos, la metropoli nigeriana, con una popolazione stimata di 17 milioni di abitanti, è la più grande città africana e continua a crescere tra il 6 e l'8 percento annuo: ovvero, 600mila persone ogni anno si aggiungono alla popolazione urbana, provenienti da un po' tutta la Nigeria e dall'intera Africa occidentale. Ma la sordida realtà della città fa beffe del motto ufficiale di Lagos, «terra di acquatico splendore». L'intera città ha appena 67 camion funzionanti per la raccolta della spazzatura. Poliziotti e gangster gestiscono checkpoints dove estorcono soldi ai passanti, e la vista di cadaveri scaricati in pubblico è frequente. Milioni di abitanti di Lagos cucinano su fuochi di legna, non hanno acqua corrente e trascorrono le serate nell'oscurità in mancanza di luce elettrica. Circa due terzi degli abitanti della città vivono in estrema povertà in un centinaio di slum, ma anche gli alloggi per i benestanti sono scarsi, non tengono dietro alla domanda. Così i danarosi expat arrivano a pagare 60mila dollari all'anno per un appartamento di tre stanze nelle zone residenziali del centro.
Anche Algeri, capitale di un relativamente ricco paese produttore di petrolio, ha penuria di spazio, con i suoi oltre tre milioni di persone e un milione di automobili; anni di conflitto in terno nelle zone rurali e suburbane hanno spinto milioni di persone a emigrare nelle città sulla costa. «Nessuno può essere orgoglioso di Algeri», dice il ministro dell'interno Noureddine Yazid Zerhouni, lamentando il declino della città famosa per i suoi edifici bianchissimi sulla collina, una vista che conserva ancora un po' del suo antico fascino. «Con i problemi dell'acqua, la nettezza urbana, i trasporti, l'insicurezza... con tutto questo, non possiamo dirci una delle capitali mondiali». Certo, ci sono in vista investimenti che potrebbero migliorare le cose. Ad Algeri alcune società straniere hanno firmato contratti per costruire una linea di tram e la prima metropolitana. All'altro capo del continente la capitale angolana Luanda, costruita per una popolazione di circa 400mila persone, ora conta 5 milioni di abitanti, in gran parte arrivati dalle regioni rurali a causa della guerra civile durata 27 anni e finita solo nel 2002. «A Luanda pochissimi sono tornati indietro nelle campagne (alla fine della guerra), e pochissimi lo faranno», dice l'architetto Allan Cain.
Nota: per chi fosse interessato, qui di seguito anche scaricabili direttamente il programma e il fascicolo stampa di Africities (f.b.)
Titolo originale: Change on the high street – Traduzione per Eddyburg Mall di Fabrizio Bottini
Lo Office of Fair Trading [autorità per la libera concorrenza] ha fatto benissimo ieri a raccomandare una nuova indagine sul potere di mercato dei supermercati britannici, anche se essi sono stati analizzati solo nel 2000. Sono successe tante cose da allora – come la marcia inarrestabile di Tesco e l’esplosione dei negozi di beni di prima necessità posseduti dalle grandi catene nei centri città – che una nuova inchiesta era più che necessaria da tempo. Anche l’atteggiamento della politica rispetto al mondo commerciale si è modificato, il che appare dal fatto che sia i Liberaldemocratici che i Conservatori hanno accolto con favore la decisione: i Tories hanno richiesto addirittura una indagine più approfondita sul futuro delle high streets, auspicio ripreso dalla New Economics Foundation che descrive i negozi di quartiere come “il collante sociale delle nostre comunità”.
Secondo lo OFT, il settore dei beni di prima necessità è cresciuto del 31% negli ultimi cinque anni (contro il 24% del commercio alimentare in genere) con i quattro giganti – ma principalmente Tesco e Sainsbury's – che hanno spinto i propri punti vendita a un’esplosione da 54 a 1.306. I supermercati ne escono molto bene. Lo OFT ha rilevato che c’è stato un significativo incremento nella varietà di prodotti venduti (il che non ha impedito che godessero di un boom i piccoli negozi di cibi naturali). Più in particolare, è emerso che i prezzi, al netto dell’inflazione, sono diminuiti del 7,3% negli ultimi cinque anni, a prima vista quindi nessun segno di abuso di monopolio. Ma questa è solo una parte della cosa, perché i supermercati sono accusati di price flexing (prezzi più alti dove la concorrenza è più debole) e vendite sottocosto per acquisire quote di mercato. Le imprese locali, che già trovano impossibile concorrere col sistema globale di approvvigionamento di entità come Tesco, non meritano di subire anche questi tagli di prezzo predatori. Lo OFT ritiene anche che il sistema di pianificazione urbanistica agisca contro i nuovi ingressi nel settore e che i grandi supermercati con le loro scorte di terreni rendano difficile l’insediamento a nuovi soggetti. I supermercati rispondono che le proprie scorte di terreni sono vaste solo perché i pubblici poteri non li lasciano crescere.
Cosa succederà ora? Il governo deve accogliere queste raccomandazioni, ma ampliare il campo. I supermercati non sono solo negozi alimentari, vendono un ventaglio sempre più ampio di prodotti di consumo, elettronici, farmaceutici, servizi finanziari, giornali, che stanno colpendo la vitalità di altri negozi delle vie commerciali. I poveri sono i soggetti colpiti più duramente, dato che non possiedono automobili per raggiungere i nuovi superstores. La questione centrale è se gli indubbi benefici e popolarità dei superstores siano superati dai gravi effetti che essi hanno su modi di vita che, una volta persi, saranno persi per sempre.
Nota: su queste pagine, anche estratti dal citato rapporto del New Economics Forum sulla "morte della diversità" e le Città-Clone, indotti dai monopoli della grande distribuzione in Gran Bretagna (f.b.)
Titolo originale: Corporate Retailers and the American Ghetto: How Starbucks May Help Save South Central – Traduzione per Eddyburg Mall di Fabrizio Bottini
La recente apertura di uno Starbucks nel famigerato quartiere suburbano di Compton a Los Angeles può offrire agli abitanti moto più di un caffèlatte a tre dollari. Si tratta, naturalmente, di un altro esempio della tendenza che dura da un decennio, di rivolgersi da parte delle grandi catene commerciali americane ai “mercati urbani” delle minoranze più povere. Ma questo progetto, una joint venture con l’ambiziosa Johnson Development Corporation di Magic Johnson, può anche rappresentare la traccia per un modo completamente nuovo di pensare la rivitalizzazione della inner-city: un metodo che pone l’accento sull’aspetto civico tanto quanto usa percorsi più tradizionali di rivitalizzazione, come lo sviluppo economico.
Storia economica recente
Sin dagli anni ‘60, i decisori attenti ai gravi problemi degli afroamericani e alte minoranze hanno cercato di estendere sia le occasioni di lavoro che quelle di nei ghetti urbani. Ma, quattro decenni di iniziative benintenzionate per l’occupazione, a livello federale e locale, non sono riuscite a rallentare il declino della disponibilità di posti di lavoro dignitosi nei quartieri popolari.
A South Los Angeles, tradizionale zona della popolazione nera di L.A., questo declino è particolarmente evidente con la scomparsa di migliaia di posti di lavoro regolari nell’industria siderurgica e automobilistica nella regione. Se la base manifatturiera a South L.A. continua a crescere, non lo fa in modi che sappiano portare ad una rinascita economica regionale. Ben oltre la metà degli occupati nel settore manifatturiero dell’area lavora in imprese nel settore tessile e abbigliamento, posti non sindacalizzati e a bassi salari, e altre migliaia faticano negli impianti del settore alimentare. Molto peggio del livello inferiore dei lavori, la loro scarsità: il tasso di disoccupazione fra gli afroamericani ora è circa il doppio degli altri lavoratori, e molto più alto fra i giovani neri.
Sino a tempi recenti, le cose non andavano molto meglio per i consumatori della inner-city. Qui il commercio ha iniziato a declinare in tutta l’America negli anni ‘50, quando la dipartita dei bianchi e la decadenza urbana resero instabile il mercato. A Los Angeles, gli anni ’60 sono caratterizzati da violente rivolte, che spaventano molti dei commercianti bianchi rimasti. Quelli che resistevano tendevano a caricare il rischio di lavorare nel ghetto sui clienti, che non avevano la possibilità di far compere altrove. Questo problema colpì in modo particolarmente duro gli abitanti senza automobile, visto che Los Angeles storicamente offre poco trasporto pubblico per aumentare le occasioni di shopping nella periferia.
Non sorprende allora che gli abitanti di Watts, una delle comunità più difficili di South L.A., abbiano sempre lamentato l’inadeguatezza della scelta di consumi per tutta la zona. Né sorprende che furono i piccoli commercianti i bersagli principali delle distruzioni, sia nella rivolta del 1965 che in quella del 1992. Ma la situazione potrebbe cambiare, per gli abitanti di South L.A. e alte comunità di minoranze povere in tutto il paese. Un nuovo modello di intervento ha iniziato a modificare il modo in cui imprese, urbanisti e amministrazioni si avvicinano alla inner city. Una trasformazione necessaria da tempo, che ha il potenziale per modificare definitivamente il significato della parola “ ghetto”.
Uno sguardo alla Inner City
A partire dalla metà degli anni ‘90, le grandi catene di distribuzione hanno rivolto la propria attenzione alla “ultima frontiera commerciale”, il ghetto americano. Si trattava di un buon affare: secondo un “prudente” calcolo del 1998 effettuato dal Boston Consulting Group e della Initiative for a Competitive Inner City, queste inner cities rappresentano oltre 85 miliardi di dollari di potere d’acquisto annuo: l’equivalente di quello totale nazionale del Messico. Gli operatori sono stati incoraggiati dalla diminuzione generale della criminalità e dall’aumento di attrattiva delle città per le famiglie agiate, i gay, i frequentatori regolari. Tutti i giorni, Target, Home Depot, Wal-Mart, e dozzine di piccoli operatori iniziano a infiltrarsi negli storici ghetti neri.
Egualmente importante per questi quartieri nell’attirare le grandi catene verso la inner city è stata la fenomenale crescita e avanzamento economico della popolazione latina. Riflettendo una tendenza nazionale, la famosa “comunità nera” di South Central Los Angeles ora è per oltre il 55% latinoamericana. Cresce la popolazione latina e cresce anche il suo potere d’acquisto: una recente stima nazionale ha calcolato questo mercato per una valore di 400 miliardi di dollari. Nella California meridionale, questo potere d’acquisto si è reso evidente nel mercato della casa, dove la proprietà da parte di latini è lievitata di oltre il 50% nell’ultimo decennio.
Il marketing delle imprese si è messo sulla lunghezza d’onda di questa nuova demografia della inner-city: nel 1998, Target ha lanciato una rivista per la popolazione latina, Familia, inviata per posta a oltre 750.000 nuclei familiari latinoamericani in California. Un recente spot pubblicitario televisivo di Wal-Mart presenta una giovane donna afroamericana assunta da poco dal gigante commerciale, e che emozionata esprime la propria gratitudine.
L’ingresso delle grandi catene nel mercato della inner city, ad ogni modo, non è stato senza contrasti. In tutto il paese le minoranze – in particolare gli afroamericani – hanno protestato per quanto vedono come “colonialismo da ghetto”: grossi complessi che sviscerano i caratteri dei quartieri, sfruttano la povertà locale, sostituiscono all’assenza di lavoro cattivi lavori, colpiscono il sindacato, aggirano le tutele ambientali, aumentano la congestione da traffico. Dal South Side di Chicago all’est di Oakland, gli abitanti hanno sfilato, fatto picchetti, inviato petizioni ai consigli municipali per tenere lontano il commercio “big-box”.
Una discussione recente a Inglewood, suburbio prevalentemente di minoranze a sud di Los Angeles, esemplifica queste tensioni. Nell’aprile 2004, Wal-Mart ha speso 1 milione di dollari per una campagna a convincere gli elettori a sostenere una delibera cittadina favorevole a uno dei propri Super Centers (dimensioni: 17 campi da football) per aprirlo senza valutazione di impatto ambientale, studi sul traffico, assemblee pubbliche. Il referendum ha confermato la diffidenza di molti residenti, che clamorosamente lo hanno respinto dopo settimane di arroventate proteste. “Devono venire qui entrando dalla porta principale, alla luce del giorno” ha detto la consigliera di Inglewood Judy Dunlap, “non sgattaiolare dal retro di notte”.
La speranza in California meridionale
La sconfitta a Inglewood di Wal-Mart, comunque, non deve irrigidire decisori, urbanisti, attivisti sulle prospettive di investimenti di impresa nel ghetto. Come rivela il caso di Starbucks, alcuni investimenti possono rappresentare un ottimo affare sia per le compagnie che per gli abitanti.
Il nuovo Starbucks di Compton è una delle quasi settanta “ Urban Coffee Opportunities” (o UCO) aperte in tutto il paese dall’inizio della singolare collaborazione fra Starbucks e la Johnson Development Corporation nel 1998. oltre a fungere da attività anchor in zone commerciali difficili, la UCO offre disperatamente necessari posti di lavoro per giovani e disoccupati. E si offre qualcosa di più di un magro stipendio. A differenza di altre grosse compagnie, Starbucks fornisce copertura sanitaria completa anche ai dipendenti part-time. Insieme alla stock option dei nuovi dipendenti, il pacchetto previdenziale costituisce la base di una dignitosa, per quanto modesta, esistenza.
Due anni fa, ha aperto uno Starbucks in un nuovo centro commerciale da 60 milioni di dollari su 10 ettari chiamato Chesterfield Square, fra la Slauson e Western Street nel cuore di South Central. A circa un chilometro dal famigerato incrocio della Florence con Normandie Street, dove il camionista Reginald Denny fu brutalmente picchiato durante le rivolte del 1992, il nuovo centro commerciale offre anche un Home Depot, un Food 4 Less, e un punto vendita dei panini Subway. Il giorno dell’apertura, Starbucks ha ricevuto oltre duecento domande di assunzione: segno della grande richiesta di lavoro della zona.
Poco dopo l’inaugurazione del mall, Helen Wilkins, afroamericana da lungo tempo residente a South Central, ha detto a un giornalista del New York Times, “Ha davvero cambiato molto il quartiere. Da lavoro – molto lavoro – ai giovani, e li tiene lontani dalla strada”. Qualche tempo fa un sabato mattina neri e ispanici abitanti della zona di Chesterfield Square si sono affollati all’entrata di Home Depot, riempiendo i carrelli di attrezzi, ferramenta, piante in vaso. Significativamente, lo shopping potrebbe presto diventare uno dei pochi passatempi americani dove la razza non conta.
Ma vedere l’apertura della UCO Starbucks a Compton in soli termini economici significherebbe perdere molto del suo significato. Il coffee shop è importante anche per la semplice e non visibilissima ragione che è uno spazio sicuro, quasi pubblico, dove si può parlare. In California meridionale, la cronica carenza di spazi pubblici e l’uso eccessivo dei mezzi di locomozione privati ha lasciato la regione con una cittadinanza gravemente divisa e lontana. In alcune zone di Compton e più ampie aree di South Los Angeles, questo isolamento si unisce alla criminalità violenta. Qui, spazi verdi pubblici e strade sono il monopolio dei componenti delle bande che li considerano e difendono come “loro” territorio provato. Caffè e librerie sono una delle soluzioni a questo problema. Molto più di Wal-Mart o Target, il coffee shop – nei casi migliori – non è solo uno spazio per scambi di tipo commerciale, ma anche luogo dove si scambiano idee.
Tendenze nazionali
Gli abitanti sono sciamati volentieri verso i progetti della fondazione di Johnson, almeno in parte, perché li percepiscono come qualcosa che viene dall’interno della comunità, e la concreta presenza di Magic alle cerimonie del taglio del nastro lo riafferma ai potenziali clienti. Ma ci sono segni che gli afroamericani non abbiano bisogno dell’ imprimatur di celebrità nere, per accogliere i progetti delle imprese nelle proprie comunità. Chesterfield Square non è di proprietà nera, e nemmeno lo è l’impressionante complesso Harlem USA nell’omonimo quartiere, con un multisala nove schermi Magic Johnson, negozio di abbigliamento Old Navy, e parecchi altri punti vendita. Nè i consumatori neri sono interessati soltanto al commercio “pratico”, di beni esenziali per la casa. Nel 2003, le librerie Borders hanno aperto un nuovo negozio nel centro gravemente depresso di Detroit. Gli ottimi affari hanno sorpreso i gestori.
Dietro le quinte, ci sono anche organizzazioni che spingono per il tipo di investimento che ha reso di nuovo famoso Magic Johnson. Una delle più importanti è The Initiative for a Competitive Inner City (ICIC) di Boston, gruppo non-profit fondato dal professore della Harvard Business School Michael E. Porter. Porter e i suoi colleghi hanno condotto ricerche e sostenuto iniziative sull’investimento nella inner-city a livello nazionale sin dalla fondazione. Insoddisfatto dal persistere dell’ineguaglianza e dal fatto che “troppi nostri concittadini [non] godevano della ricchezza dell’America in quanto economia complessiva”, Porter ha fondato questa struttura per aprire un nuovo percorso nel 1994. “Senza una solida base economica” continua a predicare Porter dieci anni dopo” [non si può] avere una comunità sana e stabile”.
A San Francisco, Business for Social Responsibility (BSR), una associazione non-profit dedita a stimolare pratiche economiche etiche, lavora a portare sviluppo nelle comunità della inner-city dai primi anni ‘90. Matt Hirshland, direttore anziano per la comunicazione di BSR, è rincuorato da quanto vede nelle attività di Starbucks e Borders. Queste iniziative sono riuscite, premette, “perché fanno sentire agli abitanti di partecipare davvero all’attività”. È un investimento comune presente nel suo lavoro: “Aiutiamo le attività ad essere responsabili rispetto alle domande, ai valori, all’ambiente delle comunità dove operano”.
Forse è troppo presto per chiamare questi interventi “il futuro”, e non è per niente sicuro che gli investimenti nel ghetto saranno al centro della città americana a venire. Ma una cosa sembra chiara: Starbucks sta facendo di più per South Central di quanto chiunque si aspettasse. Oltre a portare attività commerciale in posti troppo a lungo abbandonati o sfruttati, questi interventi possono aiutare a porre fine alla sensazione debilitante di isolamento politico, sociale, economico, che ancora minaccia la vita del ghetto.
Nota: un ruolo analogo, della struttura commerciale privata con un funzioni fortemente "pubbliche" per lo sviluppo sociale e urbanistico dei quartieri con problemi anche gravissimi, è quello che ho riassunto su Eddyburg nel caso di Soweto (f.b.)
Titolo originale: In the Shadow of Disaster – Traduzione di Fabrizio Bottini
L’inondazione è stata vorace: ha inghiottito interi quartieri e messo fine a centinaia di vite. Ma gli argini danneggiati sono stati riparati. Si ergono ancora fra New Orleans e la catastrofe, tenendo sotto controllo il Mississippi e il lago Pontchartrain. Anche il vecchio sistema di drenaggio, è ancora in piedi. Ogni goccia d’acqua che cade in città, ogni lacrima versata, alla fine scorre via attraverso i canali sin quando viene pompa al di sopra degli argini dentro il lago. Questo è il modo in cui è stata congegnata New Orleans: controllare le acque ribelli, marcare il confine tra la città e ciò che la circonda.
È stata una battaglia persa. Eppure, per quanto suoni particolarmente strano dopo l’uragano Katrina, tutto lo sviluppo della città si basa sull’idea che la natura la favorisce. Dalla fondazione di New Orleans alla bocca del Mississippi nel 1718, la città ha investito sulla geografia per costruire la propria grandezza. Molto prima che le tecnologie potessero superare i capricci della geografia, i suoi cantori affermavano che avrebbe regnato su un impero commerciale. Ma l’ambiente locale ha raramente collaborato a queste visioni imperiali. Lago e fiume incombono sulla città. La maggior parte di New Orleans giace sotto il livello del mare, e non ha drenaggio naturale. Le epidemie fioriscono, nel delta fumante. Gli studiosi definiscono questo uno scollamento fra “sito” – lo spazio reale occupato dalla città – e “situazione” – i vantaggi relativi di un’area urbana su altre. New Orleans, col suo accesso al fiume e al golfo, gode di una situazione quasi perfetta. Ma ha un sito quasi perfettamente orribile.
Il geografo Peirce Lewis la riassume così: New Orleans è “impossibile” e pure “inevitabile”. Intende dire che se la situazione di una città è sufficientemente buona, la gente migliorerà il sito: non importa quanto costa. Gli abitanti di New Orleans storicamente hanno fatto ciò segregando gli spazi: in un primo tempo non da punto di vista socioeconomico o razziale, ma da quello ambientale. A New Orleans ci sono spazi per la natura: al di fuori degli argini o nei canali che si dipartono dalla città. E ci sono spazi per le attività umane: dentro la città. La gente qui, la natura lì. L’idea è semplice, la realizzazione impossibile.
Per adesso, l’acqua in città sembra di nuovo sotto controllo, tornata nei posti dove la gente la vuole: nelle docce per grattar via lo sporco che attacca, nel caffè nero, e confinata dietro gli argini. Ma c’è ancora pericolo. Di fronte alla sfida della ricostruzione, New Orleans sembra bloccata nel fango: non semplicemente impantanata in quello che incrosta la città, ma anche intrappolata da secoli di errori di strategia, specialmente quello di fantasticare sulla separazione da quanto la circonda. Questa idea è stata tanto distruttiva quanto la peggiore alluvione, e altrettanto difficile da evitare.
I responsabili della ricostruzione di New Orleans sembrano incantati da questo miraggio. Partecipano alle varie commissioni – quella dei sindaco Ray Nagin e del governatore Kathleen Blanco – che hanno compiti sovrapposti e dubbia autorità. Ma nonostante le rivalità, le commissioni sono d’accordo almeno su un punto: la priorità assoluta sono gli argini. Scott Cowen, preside della Tulane University e componente della commissione di Nagin, ritiene che senza migliori argini altre proposte – “un’istruzione pubblica di livello mondiale” case migliori, un rilucidato “ambiente culturale” cittadino – saranno senza senso. Andy Kopplin, direttore esecutivo del gruppo del governatore, concorda: “Dobbiamo per prima cosa ricostruire gli argini, così che le persone si sentano al sicuro”. A chiunque abbia familiarità con la storia ecologica della città, questo suona come una ricetta per nuovi disastri.
Sin dall’inizio, gli abitanti di New Orleans hanno innalzato argini. I progetto si sono accelerati dopo che un’inondazione del 1849 aveva lasciata inzuppata la città per mesi. Le autorità federali, allarmate dall’inattività del porto più importante del paese, sostennero due studi sul fiume. Il primo auspicava un controllo delle acque su vari fronti: argini, scolmatori e “riserve”, ovvero distese di aree umide ad agire come spugne. Il secondo, steso da un futuro capo del Genio Militare, era più gradito in un’epoca in cui le zone umide venivano considerate discariche. Iniziò così una strategia nota come “solo argini”. Entro il 1900 New Orleans aveva argini più alti della case vicine. Fiume e lago erano scomparsi dietro a montagne in miniatura.
Solo un problema: non funzionava. Il fiume divenne più pericoloso, e New Orleans meno sicura. Con l’acqua intrappolata dagli argini, il Mississippi saliva più in alto che mai. Ma non lo si poteva dire agli abitanti di New Orleans. Nemmeno l’enorme inondazione del 1927 gli fece cambiare completamente idea. Quell’anno la città fece saltare con la dinamite un argine venti chilometri a valle della corrente, facendo calare il fiume ingorgato e distruggendo le frazioni di Plaquemines e St. Bernard. La città si era comprata la salvezza sacrificando i suoi vicini più poveri (un evento che ha alimentato voci nella zona della Ninth Ward, dove alcuni abitanti ed evacuati credono che l’argine di fronte al loro distretto sia stato distrutto dopo Katrina per proteggere zone bianche più ricche).
Eppure, gli argini sono ancora cresciuti dopo il 1927, nonostante le inchieste federali dove i conservazionisti testimoniarono che la diminuzione delle zone umide aveva esasperato gli effetti del disastro. Il Genio Militare rifiutava ancora di aggiungere le aree umide al proprio arsenale. Invece, costruì per New Orleans uno scolmatore per deviare parte del fiume nel lago Pontchartrain: e per tutti gli anni ’50 continuò a sollevare gli argini.
Contemporaneamente, la città si lanciò in una sbornia edilizia favorita dal sistema di drenaggio realizzato all’inizio del ventesimo secolo. Per 200 anni New Orleans era stata intrappolata: una città lunga e magra su una stretta striscia di terreno relativamente alto sul fiume. Il Mississippi su un lato, e un’area umida di cipressi, la “ backswamp” sull’altro. Ma dopo il 1900, la città iniziò a bonificare terreni e a espandersi su zone più basse. Entro gli anni ’60 la backswamp era stata sostituita da quartiere Lakefront, dalla Lower Ninth Ward e da altri insediamenti. I limiti ecologici avevano ancora ceduto di fronte all’ambizione di una città prigioniera della propria situazione. Con gli argini torreggianti e le aree umide sparite, la segregazione dei paesaggi sembrava completa.
Dividere spazi generava altri due prodotti collaterali. Primo, altra segregazione: stavolta razziale e socioeconomica. Prima degli anni ’50 New Orleans era una città mista. Ricchi, poveri, bianchi e non-bianchi, erano tutti vicini. Non era per scelta, ma per necessità; con l’edificazione confinate nelle zone più elevate vicino al fiume, non c’era spazio per chiudersi dentro énclaves di segregazione sociale. Ma quando i costruttori iniziarono a realizzare lottizzazioni di casette sui terreni prosciugati, in città e nei suburbi, gli abitanti di New Orleans si stratificarono, coi più poveri e di colore spesso concentrati nelle zone basse, e i bianchi agiati ad occupare tipicamente le aree più elevate, o i “borghi”.
Seconda conseguenza: il controllo della natura divenne più difficile. Le paludi scomparivano, sia a causa delle bonifiche urbane, sia perché gli argini facevano diminuire le aree umide impedendo alle acque la ricarica dell’ecosistema. Le ricerche petrolifere causavano l’erosione delle coste, che si mangiava migliaia di ettari di aree paludose. Ogni metro in più di altezza degli argini, rendeva più difficile pompare l’acqua fuori dalla città. Alla fine, New Orleans iniziò a sprofondare quando le sue fondamenta d’acqua furono rimpiazzate da terreni bonificati spugnosi che si compattavano sotto il peso della città. L’anello di retroazione urbano-ambientale replicava i medesimi problemi che gli abitanti di New Orleans avevano tentato di allontanare con la tecnica dalla città per secoli.
In questa situazione, atterra Katrina. L’ondata di tempesta è troppo per gli argini. L’acqua ne scavalca qualcuno; altri crollano. Le pompe non riescono a mantenere il ritmo, e New Orleans si riempie d’acqua. Soprattutto poveri, gente di colore, malati e anziani, sono lasciati indietro. Molti muoiono, sulle terre basse. La Brookings Institution riporta che 38 su 49 dei quartieri più poveri nell’area metropolitana di New Orleans si sono allagati. Nella città vera e propria, l’80% dei quartieri allagati sono a maggioranza non-bianca. La segregazione – ambientale, socioeconomica e razziale – produce sofferenza segregata.
Ora, è prevedibile la richiesta di migliorare gli argini. Joe Canizaro della commissione del sindaco si preoccupa perché nessuno ritornerà finché non si “sentirà al sicuro”. Ha ragione. Ma cosa succede se ci si sente al sicuro e non lo si è? Prima di Katrina, l’amnesia dei disastri e la loro negazione ha consentito alla gente di ignorare il pericolo. Gli eventi del passato, dice l’ingegnere Robert Bea dell’Università di Berkeley, sono stati “campanelli d’allarme, ma New Orleans ha continuato a spegnere la suoneria”. Ora la città deve ripensare al governo delle acque.
Come la maggior parte degli ingegneri, Bea è sicuro che si possano realizzare argini che sopportino una tempesta di Classe 5. “È solo un problema di volontà politica e finanziamenti” dice. Ma i finanziamenti non sono spiccioli; il progetto richiede miliardi. Nessuno sa da dove potrebbe venire quel denaro. Anche se il Presidente Bush ha promesso che il governo federale pagherà le riparazioni degli argini, non ha fatto la medesima promessa per quanto riguarda i loro miglioramenti. E se si trovano i soldi, la volontà politica deve durare per quindici anni, il tempo necessario per costruire argini con uno standard di Classe 5.
E anche se alla fine si costruiranno, non funzioneranno, da soli; gli ingegneri dovranno imparare a collaborare con una particolare ecologia urbana anziché tentare di dominarla. “Le zone umide devono essere una parte della soluzione” dice Bea. Se non si reintroducono gli acquitrini, le ondate di tempesta supereranno anche i migliori argini. E se gli oceani continuano a salire e New Orleans a sprofondare, la città annegherà di nuovo.
Craig Colten, geografo alla Louisiana State University, concorda. Insiste sul fatto che le zone basse della città non vengano ricostruite. La sua proposta è molto discussa, coi residenti allontanati che invocano il proprio “diritto al ritorno”, e la maggior parte dei membri dei comitati per la ricostruzione riluttanti a reintegrare le zone umide in città, dopo che il sindaco Nagin è rimasto scottato per aver suggerito che si potesse non ricostruire la zona Ninth Ward. Ma Colten crede ancora che si possa far filtrare un po’ di backswamp dentro a determinate zone basse. Un metodo equo, ritiene, sarebbe quello di “prendere superfici da molti quartieri – Lakefront, Ninth Ward, Gentilly – e ricollocare ricchi, poveri, ceto medio, in zone più dense su terreni elevati”. La “Nuova Nuova Orleans” di Colten così assomiglierebbe a quella vecchia, dell’epoca prima della scomparsa degli acquitrini. Eliminerebbe anche le lotte su quali quartieri abbandonare.
Danielle Taylor, decana di discipline umanistiche alla Dillard University, è sicura che il risultato di queste lotte sarà a favore dei potenti. Restituire aree urbane all’acquitrino, sostiene, distruggerà il tessuto urbano, facendo a pezzi le comunità che hanno reso la città quello che è. Riecheggia il punto di vista degli abitanti della Ninth Ward, i quali pensano che le élites urbane abbiano visto le onde della tempesta come le prime di un processo di rinnovo urbano. Senza case popolari, la ristrutturazione non lascerà spazio ai poveri e alla gente di colore, dice la Taylor. New Orleans diventerà un centro commerciale sterilizzato – e bianco – col Quartiere Francese a fare da anchor. Colten simpatizza con questo punto di vista, ma dice che consentire alla gente di tornare nelle zone basse sarebbe “irresponsabile”.
Quello che è certo, è che gli spazi segregati non hanno funzionato. Come dimostra Katrina, è impossibile separare le questioni ambientali e sociali in questa città. New Orleans non è solo un artefatto umano. E naturalmente non è nemmeno del tutto naturale. È entrambe le cose: una rete di umano e non umano mescolati, che dondola sul limite natura/cultura. La città si deve ricostruire su fondamenta più solide: la comprensione del fatto che non lasciar spazio alla natura è sia controproducente che improbabile da realizzare.
Un approccio nuovo potrebbe produrre spazi urbani sostenibili e giustizia ambientale. Ma ciò richiede scelte drastiche, poco probabili da parte delle commissioni. È triste, ma New Orleans sembra destinata a ritrovarsi dove è sempre stata: sulla strada del pericolo.
Titolo originale: Housing above retail . Creating incentives for the replacement of single-story retail sites with mixed-use projects – Traduzione di Fabrizio Bottini
L’occasione
C’è l’occasione per realizzare una città più pedonale, accessibile, diversificata, a buon mercato, sostituendo agli spazi commerciali sottoutilizzati sparsi per tutti quartieri di San Francisco, complessi a funzioni miste ben concepiti, che uniscano commercio rivolto agli abitanti con residenza ai piani superiori.
In totale, i grandi spazi commerciali sottoutilizzati coprono quasi 40 ettari di terreni: in una città dove i terreni adatti a nuova residenza sono sempre più scarsi questa è una enorme occasione. Con un inserimento di abitazioni relativamente modesto (diciamo 100 alloggi ettaro) a livello cittadino si potrebbero realizzare sino a 4.500 nuove unità.
Questi spazi, che comprendono grossi supermercati alimentari, filiali di banche, fasce a negozi, e altri grossi complessi, sono caratteristici del periodo fra 20 e 50 anni fa, realizzati secondo il modello suburbano: vaste superfici per i parcheggi a livello attorno ad un edificio commerciale a un piano. Questi insediamenti occupano le nostre poche risorse di terreni, e alcuni sono brutti a vedersi, o posti poco sicuri, e ospitano vagabondi, soprattutto nei parcheggi. Se realizzato con attenzione, il riuso di questi siti può trasformarsi in un miglioramento dei quartieri, e in migliaia di nuove abitazioni, urgentemente necessarie.
Al momento, esistono numerosi ostacoli alle realizzazioni mixed-use a San Francisco, che rendono dubbiosi proprietari e commercianti. Questo documento prende in considerazione sia il punto di vista dei quartieri che quello dei commercianti sui riuso degli spazi, esamina le difficoltà, e propone alcuni incentivi che possano incoraggiare gli operatori a spostarsi verso formati più tradizionalmente urbani. Sono idee che possono essere immediatamente inserite nei piani di quartiere, e diventare specificazioni delle norme urbanistiche [ zoning overlay] per tutte le aree simili della città. Ci concentriamo qui sui negozi alimentari, ma le norme potrebbero applicarsi anche ad altri usi monopiano, come le sedi di filiali di banche.
Le possibilità per i quartieri
Il riuso attento di uno spazio commerciale obsoleto può trasformarsi in notevoli benefici per il quartiere circostante. Un nuovo insediamento a funzioni miste può aggiungere identità spaziale. Diventa possibile:
• Migliorare l’ambiente stradale allargando i marciapiedi, aumentando l’illuminazione, costruendo nuove piazze, piantando alberature, mettendo panchine all’aperto
• Attenuare i problemi del rumore tanto comuni attorno alle grandi superfici a parcheggio
• Aggiungere nuovi spazi aperti pubblici e visuali
• Realizzare strutture architettonicamente attraenti al posto degli scatoloni commerciali di tipo suburbano
• Ampliare le possibilità di scelta commerciale locali offrendo più spazi ai negozi
Dal punto di vista dei componenti la comunità, le proposte di nuove funzioni miste a densità superiore possono suscitare preoccupazioni riguardo alla qualità e dimensioni del progetto, degli impatti sul traffico e i parcheggi. La sfida è quella di individuare linee coerenti di progettazione e urbanistiche per rispondere a questi timori e assicurare che questo tipo di riuso degli spazi sia di beneficio per le comunità locali. Gli abitanti dei quartieri sono spesso diffidenti rispetto ai nuovi insediamenti, ma avere più negozi e di migliore qualità rappresenta un beneficio per la zona.
Le possibilità per i negozianti
I commercianti hanno le idee molto chiare su cosa funziona e cosa no, nella progettazione dei loro negozi. La complessità dei progetti mixed-use con abitazioni sopra gli spazi commerciali rende la realizzazione di un piano adatto sia al commercio, che alla residenza, che al quartiere una sfida: difficile, ma possibile.
Se l’obiettivo è di convincere i negozianti a costruire case, vanno compresi nella loro importanza gli ostacoli. In alcuni casi l’amministrazione municipale può aiutare i commercianti a superare l’ostacolo, in altri dobbiamo semplicemente riconoscere che ci dovranno essere forti incentivi per convincerli a spostarsi verso formati in cui non si trovano a proprio agio, attraverso:
• Controllare superfici ed edificazione significa entrare nella rete complessa di esercizi e affitti, i tempi di un progetto necessitano un coordinamento fra molti operatori, il che non sempre risulta fattibile. In modo simile, la proprietà di terreni e immobili in uno shopping center può essere frazionata, fra proprietari diversi che hanno diverse motivazioni, che possono richiedere ampio coordinamento e aggiustamenti.
• Alcuni proprietari possono non essere interessati all’investimento, ai rischi, oppure semplicemente percepire problemi in relazione ai progetti mixed-use, e possono non desiderare di vendere la proprietà a chi invece è interessato. Se c’è un negozio di successo nella loro proprietà, magari non risultano interessati a vendere o a cambiare.
• Alcune delle caratteristiche progettuali importanti per il commercio sono diverse da quanto considerato importante per la progettazione urbana. Per esempio, i commercianti di solito vogliono grandi dimensioni per i negozi, una buona visibilità, insegne evidenti, parcheggi ampi e visibili, una buona circolazione e un ambiente commerciale sicuro e accogliente.
• Dato che moltissime persone fanno gli acquisti alimentari in grandi quantità e usano l’auto per trasportare la spesa, la maggior parte dei commercianti rileva che un parcheggio facile è elemento di grossa attrazione per i clienti. Una delle tecniche promozionali utilizzate nei classici formati commerciali suburbani – il negozio alle spalle del parcheggio – serve a “pubblicizzare” la disponibilità di parcheggio ai potenziali clienti. La maggior parte del commercio alimentare, tende a innervosirsi molto facilmente all’idea di “nascondere” i parcheggi in un garage.
• Un esercizio di successo è riluttante a chiudere per il lungo periodo necessario a creare un complesso mixed-use perché il commerciante così perde in vendite, profitti, e rischia che il cliente si sposti in modo definitivo verso un altro esercizio.
• I costi di costruzione per i commercianti impegnati in una trasformazione verso il mixed-use sono elevati. Ciò significa che il costruttore dovrà chiedere in prestito più denaro e assumersi maggiori rischi. Lo farà solo se ci sono probabilità di profitti più alti di quanto accada rimanendo solo un esercizio alimentare. Pianta e planimetria nei progetti mixed-use sono rese complesse dalle necessità edilizie e di circolazione.
• Si possono verificare conflitti fra le funzioni di residenza e commercio, come i clienti che parcheggiano negli spazi per gli abitanti, o rumori o odori (in particolare per le consegne mattutine e la rimozione dei rifiuti). Questi e altri problemi connessi probabilmente preoccupano i promotori riguardo alla gestione dei complessi, e i commercianti per le questioni legali.
La maggior parte dei costruttori sono specializzati o in residenza, o in commercio. Molto pochi sanno come si gestiscono entrambe le funzioni. L’amministrazione cittadina deve trovare modi per indurre proprietari e commercianti a trasformare i propri spazi con abitazioni al di sopra dei negozi (o a costruire i nuovi negozi in questo modo), anche nonostante questi ostacoli. Dobbiamo rendere l’occasione tanto attraente da far loro desiderare di adottare nuovi formati, architettonici e commerciali.
Le pratiche del commercio nelle città stanno cambiando, e i progetti mixed-use possono rappresentare una strategia attraente per il grande commercio, specie alimentare. I negozi possono avere ciò di cui hanno bisogno – visibilità, parcheggi, sicurezza – e le comunità locali ottenere una migliore progettazione urbana e servizi commerciali per il quartiere.
Una buona progettazione urbana
Perché qualunque di questi aspetti possa svilupparsi, è fondamentale che gli aspetti architettonici e urbanistici vengano affrontati in modo corretto. Oltre a introdurre la residenza ai piani superiori, i nuovi interventi dovranno offrire parcheggi sotterranei (o comunque fuori vista) e spazi pubblici – come marciapiedi più larghi o piazze – oltre alle attività commerciali a livello strada. Questi spazi rivitalizzati dovrebbero essere altamente pedonalizzati, con un sistema commerciale molto inserito nel contesto. Nel caso ideale, il rinnovamento insieme all’incremento dell’attività commerciale che innesca dovrebbe incoraggiare interventi di rivitalizzazione delle vie commerciali adiacenti.
Le sfide maggiori per la progettazione urbana sono quelle che riguardano i grandi spazi. Per rendere operante questo formato mixed-use, sono necessarie altezze di almeno 15 metri. Allo stesso tempo, i negozi alimentari devono avere una pianta spaziosa per poter contenere spazio per le merci. (vedi Appendice I sulle linee guida progettuali per il mixed-use che propone alcuni spunti sull’argomento).
Modelli
Nelle città di tutta la costa occidentale – soprattutto a Portland, Seattle, e Vancouver – i grandi operatori commerciali si associano alle municipalità per ristrutturare spazi attraverso miscele di funzioni più complesse e attive, comprese notevoli quantità di residenza. Recentemente, San Francisco ha iniziato a trarre vantaggio dalle occasioni che questi siti offrono. Per esempio, il progetto Petrini Place all’angolo Fulton e Masonic comprende un supermercato Albertsons, parecchi altri negozi, e 135 alloggi in condominio a prezzi moderati. Tra poco saranno iniziati altri due interventi: residenze sopra a Faletti’s Market tra Fell e Baker, e altre case sopra un negozio alimentare al 450 di Rhode Island.
Questioni urbanistiche
Le attuali norme di zoning di San Francisco in generale non incoraggiano il riuso a funzioni miste su questi spazi. Ad esempio:
• Eccetto in luoghi a forte pendenza come Petrini Place , il limite dei 12 metri che prevale nelle zone commerciali di quartiere esterne al centro è troppo basso per poter contenere un ampio pianterreno commerciale con soffitto alto, e i tre piani residenziali in genere necessari a rendere economico un progetto.
• I limiti alle densità residenziali creano ostacoli inutili al numero di alloggi realizzabile, indipendentemente dai caratteri specifici del quartiere.
• Le norme urbanistiche per i progetti mixed-use significano incremento dei tempi, dei costi, delle incertezze nel riuso degli spazi. Allo stesso tempo, non abbiamo linee guida per il progetto che possano orientare architetti, urbanisti, cittadini rispetto ai caratteri che consentano agli interventi di migliorare i quartieri, oltre ad aumentare l’offerta di case.
Come risposta a tali difficoltà e alle preoccupazioni dei cittadini, la Housing Action Coalition e SPUR hanno tenuto delle charettes il 23 luglio 2003 e il 10 febbraio 2004 con architetti, costruttori, commercianti, urbanisti, funzionari comunali e altri per esaminare i problemi e proporre soluzioni che incoraggino i proprietari a prendere in considerazione l’intervento sui propri immobili, e rendano desiderabili e auspicabili per i vicini i vari progetti. Proponiamo che vengano sviluppate nuove norme di zoning e linee guida progettuali mirate a creare incentivi per proprietari e affittuari, a creare spazi mixed-use ben concepiti, in modo tale che quando si interviene sui siti per il rinnovo non vada persa l’occasione di creare nuove case (per maggior dettagli sulle proposte di nuove norme di zoning vedi Appendice II).
La nostra proposta
Abbiamo tentato di riflettere su una buona progettazione urbana, i caratteri dei quartieri, cosa potrebbe indurre i negozianti a spostarsi verso un formato mixed-use. Quelle che seguono sono le modifiche richieste alle norme urbanistiche e di zoning, per incoraggiare residenza sopra commercio. Le nuove norme e linee guida progettuali si applicano a qualunque spazio commerciale di grandi dimensioni (2.000 mq e oltre) nelle attuali zone omogenee Neighborhood Commercial (NC) – con l’eccezione di quelle classificate NC-1 - quando:
• il sito ospita un edificio commerciale a un solo piano (o è vuoto) e il proprietario propone un incremento del 20% o superiore di superficie commerciale
• il proprietario volontariamente sceglie di promuovere un progetto mixed-use con almeno due metri quadrati di residenza per ogni metro di commercio.
Se una proposta comprende residenza in un rapporto di 2:1 (residenza/commercio), suggeriamo i seguenti incentivi e modifiche alle norme urbanistiche esistenti:
• Aumentare di 3 metri l’altezza massima consentita nelle zone col massimo di 12 metri, se necessario a contenere un pianterreno a soffitti alti e tre piani residenziali al di sopra. Le funzioni di grande commercio abitualmente necessitano di uno spazio di 6 metri floor-to-floor al pianterreno. I tre livelli di residenza (tre metri ciascuno) sono necessari a rendere un progetto fattibile ed economico.
• Utilizzare le norme di controllo masse ed altezze per conformare i contenitori anziché limitare il numero degli alloggi. Al costruttore deve essere concessa flessibilità riguardo a quanti alloggi siano necessari entro quegli spazi.
• Consentire in qualche modo più parcheggi rispetto alla norma, per i grandi negozi. Più parcheggi sono di grande vantaggio per i commercianti, anche se devono accoppiarsi ad una buona progettazione urbana. Suggeriamo anche la rimozione della dotazione minima, in modo tale che sia il mercato a determinare quanti spazi sono necessari in una certa posizione, rimuovendo l’obbligo degli accessi indipendenti e incoraggiando il car-sharing.
• Consentire una maggiore flessibilità per le insegne. Ad esempio, se oggi il negozio ha un marchio visibile da molte direzioni, consentire una visibilità equivalente o una moltiplicazione dell’insegna.
• Consentire l’approvazione dei progetti anche senza la clausola del conditional-use se si tratta di un esercizio alimentare, oppure se nessun altro negozio non alimentare supera i 500 mq e non si tratta di un ristorante fast-food. Senza la clausola del conditional-use, i nuovi progetti potranno evitare il lungo e costoso iter delle audizioni. Per tutte le altre tipologie di commercio a grande superficie e i ristoranti fast-food restano invariate le norme esistenti.
• Emanare nuove norme sugli spazi aperti pubblici (interni o esterni al complesso). Oltre agli spazi aperti privati delle residenze ne devono essere realizzati anche entro o attorno ai complessi commerciali, sotto forma di interventi sull’ambiente stradale, spazi di sosta con posti a sedere, aree per il tempo libero. Un’altra possibilità per gli spazi esterni potrebbe essere il versamento di una cifra equivalente al costo stimato di acquisizione, allestimento e manutenzione di spazi, previsti nei pressi dell’intervento.
• Sviluppo di linee guida progettuali mixed-use per assicurare che gli interventi di maggiori dimensioni rappresentino un contributo positivo alla strada. Attualmente il Planning Department è dotato di linee guida per gli interventi residenziali, ma non per il mixed-use.
Se il progetto proposto non comprende una componente residenziale, e si tratta semplicemente dell’ampliamento di funzioni non residenziali esistenti (o di nuove costruzioni monofunzionali non residenziali) si applicano le norme attuali di zoning: riteniamo tuttavia che a chi fa domanda per un intervento non residenziale si debba richiedere di provare che è stata esaminata in buona fede la possibilità di un progetto mixed-use e concluso che tale progetto non è architettonicamente e/o economicamente fattibile. Questa dimostrazione non deve richiedere alla proprietà di fornire alcuna informazione finanziaria.
Sollecitiamo queste modifiche alle norme di zoning e la loro adozione da parte della Planning Commission e Board of Supervisors , insieme a linee guida obbligatorie per il mixed-use da utilizzarsi nell’iter di approvazione dei progetti. Perché queste modifiche urbanistiche possano applicarsi efficacemente in tutta la città, si deve aver cura di mantenere e sottolineare caratteri e rapporti spaziali delle zone circostanti. Le modifiche allo zoning devono accompagnarsi anche alla possibilità di intervento da parte di costruttori e cittadini, ad assicurare che i progetti aggiungano valore, sia da punto di vista dei promotori che del quartiere, e che il medesimo processo venga incoraggiato anche in altri casi.
È importante che i progetti mixed-use siano ben progettati. Una parte di ciò riguarda lo sviluppo delle linee guida. Un’altra parte è il contributo costruttivo dei quartieri.
Conclusioni
Le grandi città del mondo, compresa San Francisco, hanno fatto un attento uso del proprio spazio sovrapponendo le varie funzioni. Se esistono già piccoli e grandi esempi di magnifici progetti mixed-use in città, è nostra intenzione con questo documento incentivare le eccezioni (il commercio isolato su un solo piano) a spostarsi verso questo schema tradizionale. È tempo che queste eccezioni si allineino con la pratica consolidata dal tempo di costruire la città collocando le abitazioni sopra i negozi.
[Questo documento è stato redatto dallo Housing Committee dello SPUR: Martin Gellen e George Williams, co-presidenti; Kate White, direttore esecutivo della Housing Action Coalition,e principale autrice. Il documento è stato studiato, discusso e modificato dall’intero gruppo dello SPUR Board, e adottato come linea ufficiale dal 18 febbraio 2004]. here English version
APPENDICE 1: LINEE GUIDA PER LA PROGETTAZIONE DI SPAZI MIXED-USE
Allo scopo di assicurare una buona progettazione, il Planning Department deve sviluppare una serie di linee guida specifiche e diverse da quelle per le sole funzioni residenziali già disponibili. Le abitazioni sovrapposte al commercio pongono sfide particolari. Proponiamo alcune soluzione: altre devono ancora essere individuate. Di seguito, le nostre indicazioni per queste nuove linee guida mixed-use:
• Inserimento. Gli spazi aperti comuni residenziali devono essere collocati lungo il previsto affaccio posteriore del complesso. Proponiamo nuove norme per spazi aperti nella zona commerciale, accessibili dal quartiere.
• Altezze, masse e distribuzione. Per i progetti nelle zone omogenee con altezza massima 12 metri, il piano superiore adiacente a aree residenziali con edifici bassi dovrà essere arretrato, a garantire una transizione graduale.
• Fronti commerciali. Il commercio, in genere, sarà al limite del lotto. I parcheggi saranno sviluppati lungo le vie commerciali, evitando pareti cieche più lunghe di 25 metri. Aggiungere ai punti vendita più grossi dei negozi minori “appesi” all’esterno, o aprire i negozi alla strada con vetrine e attività all’esterno come chioschi per la frutta o i fiori, può migliorare l’ambiente pedonale.
• Fronti residenziali. Si devono incoraggiare ingressi multipli alle abitazioni, ad esempio le townhouses, per rendere più attiva la strada.
• Ambiente stradale. Lo spazio pubblico circostante gli interventi deve comprendere elementi quali piazze, alberature, spazi di sosta con possibilità di sedersi, caffè all’aperto, un’illuminazione migliore, marciapiedi più ampi.
• Materiali. I materiali costruttivi devono essere compatibili con quelli delle zone circostanti residenziali, commercio e residenza devono integrarsi in senso verticale, e l’organizzazione generale dell’edificio deve corrispondere ai rapporti dimensionali del quartiere.
• Parcheggi – Carico-scarico. I parcheggi devono essere interrati, o avvolgenti rispetto ad altri spazi, l’ingresso al garage della funzione commerciale deve essere libero, le ribalte di carico recintate, le interruzioni del bordo stradale limitate, i posti a parcheggio possono essere condivisi fra clientela e residenti.
• Insegne. Le insegne devono essere di dimensioni e quantità limitate ma offrire una chiara individuazione dei negozi.
APPENDICE II: PROPOSTA DI NORME URBANISTICHE PER MIXED-USE SU GRANDE DISTRIBUZIONE
Per spazi di superficie superiore ai 2.000 mq nelle zone omogenee NC (eccetto le NC-1) e proposte di aggiunta del 20% di nuovo commercio, o consistenti quantità di nuove abitazioni.
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Nota: questa tabella riguarda solo le norme di zoning: le indicazioni progettuali e architettoniche possono essere trattate approfonditamente nelle linee guida per progetti mixed-use.
La Biennale di Architettura di Venezia promette nel titolo (Città, architettura e società) e nelle interviste al suo coordinatore, di occuparsi in modo temerario del serissimo problema della grande città.
Metropoli, megalopoli, città mondiali, città regione. Non si tratta solo del fatto che più del 50% della popolazione del globo è oggi insediata nelle città; una quota sempre più rilevante si va concentrando in complessi urbani sempre più vasti o in sistemi urbani composti da più insediamenti connessi da campagne urbanizzate sempre più ampie.
E un fenomeno fatale, logico ed inarrestabile o solo una fase dello sviluppo? La nozione di città, che risale a più di 5000 anni, in questi casi è per esse ancora utilizzabile? Perché la fine della città nella dispersione promessa dalle comunicazioni immateriali ed annunciata più di trent´anni or sono si è invece ribaltata nel gigantismo o nelle città infinite assai di più che nelle megalopoli in quanto sistemi urbani vasti e complessi preannunciati dagli studi di Gottman ormai mezzo secolo fa? Perché invece le città medie (specie quelle europee) perdono progressivamente popolazione residente ed identità e si trasformano in meccanismi di servizio di «city users» o in «entertainment city»? Le ragioni, è ovvio, sono assai diverse, anche se sovente sovrapposte in diversa misura, nelle distinte aree del globo e la bibliografia intorno ad esse di varie discipline, dalla sociologia all´antropologia dall´ecologia ambientale alla politica urbanistica è vastissima ma in gran parte constatativa piuttosto che propositiva; se non nelle forme dell´utopia architettonica tecnologica o fumettistica.
La povertà poi espelle cittadini dai centri urbani e ne attira dalla campagna nelle periferie disperse o concentrate quantità rilevanti: rilevantissime e sovente incalcolate nei paesi del Terzo Mondo. L´estensione delle periferie ha quasi ovunque travolto in termini di dimensioni quella della città consolidata.
La globalizzazione seleziona e concentra in poche città (le «global cities» descritte da Saskia Sassen) il potere decisionale e finanziario, cioè oggi economico che decide sugli stessi spostamenti localizzativi della produzione ormai deterritorializzata, cioè scissa dall´area urbana di origine.
Peraltro Max Weber scriveva in La Città più di ottant´anni or sono: «Oggi più che mai percentuali preponderanti degli utili delle imprese circolano in luoghi diversi rispetto al luogo di origine dell´impresa che li realizza».
Ma occuparsi della città significa anche tentare di capire il ruolo delle architetture che la costruiscono e ne formano l´assetto visibile abitabile con le proprie articolazioni identificabili ma anche cercare di correggere la centralità dell´estetica dell´oggetto che ha occupato purtroppo negli ultimi anni la cultura architettonica a dispetto della costituzione di un disegno urbano.
Anche se nessuno parla più di «grandeur conforme», anche se il demone dell´espansione infinita ha travolto ogni riflessione sulla scala e sui limiti ragionevoli delle città e sulla sua distinzione dalla campagna, resta, messa in evidenza proprio dalle grandissime città, la questione della forma urbana e del ruolo delle architetture dentro di essa, e che da essa dovrebbero prendere senso.
La città dura assai di più delle motivazioni che hanno prodotto le sue parti e quindi la sua forma dovrebbe fondarne il significato nel tempo. Forse perché l´incessante è diventato un valore che ha messo in questione quello della durata, il disegno urbano è diventato un´attività tanto dimenticata quanto ideologicamente avversata: al massimo si pratica come una mimesi della transitorietà, della rapidità dello sviluppo che nega ogni principio di stratificazione, una somma di oggetti di design ingranditi e concorrenziali che sembrano opporsi volontariamente ad ogni decifrabilità per chi ne percorra gli spazi pubblici aperti, concepiti ormai come spazi residuali. Ma proprio l´estensione quantitativa della grande città, il moltiplicarsi infinito dell´eccezione come la ripetizione meccanica della pura produzione edilizia impediscono la riconoscibilità delle cose: se si costruiscono, come a Shanghai, 4500 grattacieli in pochissimi anni, ogni variazione del tipo edilizio diventa irrilevante come l´edificio nell´estensione deregolata dello «sprawl» delle periferie esterne o il rumore indistinto dell´uniformità monofunzionale dei quartieri residenziali della prima periferia.
Sia la moltiplicazione meccanica del prodotto edilizia che la ripetizione capricciosa delle differenze sono sospese nel vuoto della mancanza di ogni principio insediativo che le fondi e le organizzi in modo necessario verso una forma urbana e le sue regole. La regola insediativa è il contrario dell´uniformità e ciò che permette al ritmo della città, alle sequenze ed alla gerarchia delle parti ed alla varietà di istituirsi; è ciò che rende visibile l´identità del sito, che permette all´immagine sociale di espandersi.
Tutto questo è messo da parte: non se ne trova traccia nello stato attuale dello sviluppo delle grandi città; nessuna istituzione è riuscita a dare risposte all´impeto dell´ammassamento, all´aumento vertiginosamente quantitativo delle iniziative, alla religione dello sviluppo (quasi sempre a vantaggio di pochi). Di principi capaci di organizzare in modo comprensibile i nuovi materiali delle città se ne trovano solo tracce velleitarie o elisioni totali proprio anche nella cultura architettonica che ne dovrebbe avere la responsabilità, una cultura che non è stata in grado di produrre risposte convincenti e non nominalistiche intorno alla forma urbana del presente.
Nel 1960 Lloyd Rodwin insieme a Kevin Lynch raccolse in un libro dal titolo “Il futuro della metropoli” una serie di contributi di diverse discipline intorno al tema che, anche se essenzialmente volte alla cultura degli Stati Uniti, hanno costituito per molti anni un punto di riferimento. A distanza di quasi mezzo secolo, è quindi importante confrontarsi con i nuovi dati a disposizione e cercare di riflettere sul vasto, globale cammino percorso dalle cose e su quello breve delle idee dell´architettura della forma urbana.
Mi auguro quindi che la prossima Biennale di Architettura, che promette nel titolo di lasciare da parte i vuoti formalismi delle ultime due o tre edizioni tutte concentrate sulle bizzarrie estetiche dell´oggetto-edificio, non dimentichi le questioni della forma della città e delle sue parti, questioni che in quanto architetti ci competono pur con tutto il peso delle contraddizioni del presente ma che sono cruciali per il senso stesso della cultura architettonica.
Titolo originale: The Cul-de-Sac Safety Myth: Housing Markets and Settlement Patterns – Scelto e tradotto per eddyburg_Mall (http://mall.lampnet.org) da Fabrizio Bottini
Nelle ricerche sui compratori di casa, nelle assemblee di quartiere sui nuovi progetti, nelle critiche degli architetti a partire dagli anni ‘20, la sicurezza dal traffico di quartiere è stata una fonte costante di ansietà. Il cul-de-sac, letteralmente “fondo della sacca”, ne ha rappresentato la risposta progettuale più diffusa negli Stati Uniti.
L’effetto del cul-de-sac è simile a quello di un corsetto. Cambia l’aspetto e esteriore. Chi lo indossa, l’abitante, si sente superficialmente meglio, ma le condizioni base di pericolo rimangono. Forse, il pericolo è anche maggiore (si tratti di traffico o sovrappeso) grazie alla falsa sensazione di controllo.
I pericoli, dopo tutto, vengono da cose inevitabili: mangiare, e spostarsi da casa. Quello che dovrebbe preoccupare chi sta attento è il come ci si alimenta e come ci si muove da casa per andare al lavoro, a scuola, a divertirsi, a casa di amici, a fare shopping, per aventi culturali, per attività religiose, per la vita civile. Corsetti e cul-de-sac non aiutano in questi casi. Ne presente capitolo, cerchiamo di capire come si è arrivati a questa eccessiva fiducia nella sicurezza dei cul-de-sac. Forse, come a suo tempo è avvenuto con il corsetto, anche il cul-de-sac diventerà una cosa passata nell’epoca dell’automobile.
LA QUESTIONE
Si dà di solito la colpa ai modi dell’insediamento suburbano per la congestione da traffico, lo spreco in infrastrutture, i prezzi delle case, la separazione fra i luoghi della residenza e del lavoro. Questo tipo di insediamento suburbano tanto criticato resta la norma, all’inizio del XXI secolo. Il suburbio si merita le occasionali lodi di qualche accademico urbanista. Di solito questi commenti positivi delle pratiche attuali comprendono il fatto che esse rispondano alle preferenze del consumatore. Uno dei motivi per cui il consumatore preferisce il sistema suburbano è la ricerca di un rifugio sicuro dai pericoli, specie da quelli corsi dai bambini piccoli a causa del traffico automobilistico. I sistemi stradali che terminano in cul-de-sac sono lo strumento principale con cui i quartieri hanno offerto rifugio dai pericoli del traffico.
I modi dell’insediamento suburbano riflettono l’interazione fra le dinamiche del mercato della casa e le politiche pubbliche. I costruttori edificano dove prevedono di poter realizzare guadagni sufficienti. I profitti dipendono dal portare a termine e vendere con la rapidità sufficiente a limitare i costi. Devono esserci acquirenti a sufficienza. Per chi compra, la scelta di un alloggio rappresenta una mega-decisione: una decisione con parecchie articolazioni di lungo periodo per i membri della famiglia.
La quantità di acquirenti potenziali è piuttosto ampia. Per esempio, assumendo che un’area metropolitana abbia una popolazione di un milione di abitanti, una dimensione media del nucleo familiare di 2,6 (media nazionale al 2000), 385.000 famiglie, e 258.000 proprietari di casa sulla base del fatto che due terzi delle famiglie sono proprietarie (media nazionale al 2000). Se c’è una media del 50% di proprietari che trasloca ogni otto anni (media nazionale al 1990), ogni dieci anni ci saranno oltre 130.000 acquisti. La posizione fisica di queste vendite e acquisiti avrà probabilmente conseguenze sociali, economiche e politiche superiori a quelle di qualunque politica di costruzione o per l’abitazione delle amministrazioni locali. Da queste cifre, è evidente che le opinioni dei proprietari di case, che influenzano la localizzazione, possono avere ramificazioni enormi per quanto riguarda i modi dell’insediamento e le loro conseguenze: sprawl suburbano, disparità economiche, reinvestimento non adeguato nei quartieri consolidati, concentrazione della povertà.
Qui, prendiamo in esame la convinzione che i sistemi stradali a cul-de-sac siano più sicuri di quelli interconnessi, che permettono il traffico di attraversamento lungo più strade residenziali, e la storia di parecchie organizzazioni professionali e pubbliche che hanno promosso lo schema del cul-de-sac per via della sua presunta sicurezza. Queste prospettive professionali possono avere enormi impatti cumulativi sui modi dell’insediamento, specialmente quando molte professioni, essenziali per le decisioni che riguardano l’urbanizzazione, hanno idee convergenti su come essa debba realizzarsi.
Miti e realtà
Chi costruisce o crede nei miti, crede che siano veri, in qualche modo. I miti semplificano la realtà, e si ritiene incarnino la sua essenza. Usiamo qui il termine mito così come suggerito da Judith I. De Neufville and Stephen E. Barton. Essi hanno sostenuto che “dietro ampiamente accettate definizioni di problemi ci sono miti, storie che attingono dalla tradizione e che diventano conoscenze scontate. Questi miti, che possono essere o meno veri in senso stretto, risultano importanti nella definizione del problema perché collegano questioni collettive a modalità ampiamente accettate di comprensione del mondo e a valutazioni morali condivise su condizioni, fatti, possibili soluzioni ai problemi”. La convinzione sulla sicurezza dei cul-de-sac è un esempio di mito, che ha influenzato l’organizzazione fisica delle città e dei suburbi partire dagli anni ‘30.
Il suburbio dove si torna dopo la giornata di lavoro rappresenta in parte una fuga dai problemi della città, e una ricerca di sicurezza, controllo, il piacere di un giardino nella natura. Il tipo di sviluppo residenziale del dopoguerra è dominato dalle strade curvilinee che terminano in un cul-de-sac. Si tratta di una variante della strada a fondo cieco, con un rigonfiamento all’estremità per offrire uno spazio di inversione senza manovra alle automobili, talvolta largo a sufficienza per mezzi spazzaneve o antincendio. Il cul-de-sac incarna il desiderio degli abitanti di controllare il proprio ambiente fisico. Impedendo il traffico di attraversamento, sono gli abitanti, gli ospiti invitati, il personale delle consegne o delle manutenzioni occasionali, l’unico traffico veicolare con un motivo legittimo per percorrere la strada. Il fondo chiuso, dunque, reduce al minimo la presenza di veicoli in movimento. Limita anche le velocità dei relativamente pochi mezzi che usano la strada, impedendo l’attraversamento.
Questa idea sulla relativa sicurezza dei sistemi stradali a cul-de-sac è ampiamente condivisa. Non solo il concetto ha dominato le pratiche costruttive ed è stato inserito in molte indicazioni e norme tecniche, ma è anche ritenuto sicuro da chi critica il tipo di insediamento entro cui si inserisce. I professionisti architetti e urbanisti, ad esempio, sono spesso scettici sulle conseguenze di larga scala dell’accumulare reti curvilinee di strade a cul-de-sac. Ma questi professionisti sono più timidi ad esprimersi contro il cul-de-sac, specie nelle assemblee pubbliche, perché probabilmente ritengono che il modello sia più sicuro delle alternative.
Di fronte a convinzioni del genere, negli incontri pubblici i professionisti che criticano il cul-de-sac possono essere sulla difensiva e insicuri nel sostenere organizzazioni diverse con più strade collegate, che vengono ritenute pericolose. Se condividono la fiducia nel mito della sicurezza dei cul-de-sac, devono sostenere che altri obiettivi delle forme di insediamento superano i vantaggi della sicurezza. Costruttori e investitori, acquirenti e residenti, probabilmente hanno la medesima fiducia nel mito della sicurezza del cul-de-sac. Anche loro possono prevedere che insediamenti di questo tipo si venderanno più in fretta e a prezzi più elevati, quindi opporranno resistenza a progetti alternativi. Come affermato da Ted Danter, consulente immobiliare per l’area di Columbus, Ohio: “La realtà che la gente paga di più per avere uno spazio in un cul de sac”. Anche se vengono offerte raramente prove di questa realtà, essa spesso viene affermata tranquillamente, come nel caso di Danter, come indiscutibile.
La convinzione che i sistemi stradali a cul-de-sac siano più sicuri delle forme alternative è un mito, nel senso che viene sostenuta senza alcuna dimostrazione. I sostenitori di questo sistema per motivi di sicurezza non sanno in realtà come essi funzionino, dopo che si sono imposti all’interno della crescita graduale che ha dominato le pratiche di urbanizzazione. L’assenza di giustificazioni teoriche o empiriche per i sistemi a cul-de-sac continua sino ai nostri giorni. Ci sono motivi teorici per ritenere che il sistema possa essere più pericoloso, o almeno altrettanto pericoloso, di quanto non siano la scacchiera tradizionale o altri tipi di organizzazione stradale, che si focalizzano sui collegamenti fra le strade a facilitare l’accesso veicolare e pedonale degli abitanti in tutte le direzioni.
Il sistema a griglia per isolati rettangolari o quadrati in cui le strade sono allineate su angoli retti è stato definito sin dagli anni ’20 come il più pericoloso. Queste argomentazioni anti-griglia si sono radicate negli anni ’30 fra molti esperti. Poi sono state inserite nelle linee guida federali per l’abitazione e in altre influenti fonti ufficiali. Dopo la seconda guerra mondiale, la fede nel fatto che i sistemi a cul-de-sac fossero più sicuri e ambiti migliori di investimento divenne senso comune.
Questo senso comune è rafforzato da considerazioni etiche. I potenziali acquirenti-residenti possono ritenere che un’etica personale richieda di prendere in considerazione questa scelta. Se il cul-de-sac è più sicuro, specie per i bambini, molti genitori sentiranno l’obbligo morale di soppesare questo elemento, nella scelta dell’abitazione. Per esempio, discutendo con la mamma di un bambino piccolo sulla possibilità di spostarsi dal centro città al suburbio in una collocazione cul-de-sac, l’abbiamo informata che per varie ragioni questo tipo di assetto poteva anche essere pericoloso. La signora è sbottata, senza neppure aspettare altre spiegazioni, “Sono tanto contesta di sentire questa cosa. Pensavo fosse una mia responsabilità morale, trasferirmi in un cul-de-sac”. Se dei genitori credono ad altri genitori che fanno considerazioni del genere, allora anche i potenziali acquirenti penseranno se ci siano altre possibilità, oltre al cul-de-sac, in grado di offrire altrettanta sicurezza con proprio investimento finanziario.
Nota: oltre all’intervista su questo tema di William Lucy e Jeff Speck alla National Public Radio, tradotta qui su Mall, per le origini “nobili” dell’idea di quartiere a sistema interno chiuso si veda anche lo studio sulla “Unità di Vicinato” allegato al Regional Plan of New York degli anni ’20 ; di seguito scaricabile una versione PDF di questa traduzione, con qualche immagine (f.b.)
Titolo originale: Advantageous Fragmentation? Reimagining Metropolitan Governance and Spatial Planning in Rhine-Main – Traduzione per Eddyburg Mall di Fabrizio Bottini
INTRODUZIONE
La regione Rhine-Main rappresenta in qualche modo un paradosso tra le sei agglomerazioni urbane definite come “Regioni Metropolitane Europee” nella politica spaziale strategica tedesca a metà anni ‘90. In quanto città-regione più collegata globalmente centrata sull’altamente visibile Francoforte (Freytag e altri, 2006), è probabilmente l’agglomerazione coi confini esterni più indefiniti (Hoyler 2005) e un’identità regionale relativamente debole (Blatter 2005). Le relazione fra la città di Francoforte dominante la regione e le municipalità circostanti vedono una prolungata storia di competizione locale e cooperazione regionale, che ha prodotto una modifica dell’organizzazione istituzionale e una pletora di ipotesi per la riforma del governo metropolitano (Scheller 1998, Freund 2003).
In questo studio, rileggiamo l’ultimo ciclo di tentativi per istituire un nuovo tipo di governance metropolitana nella regione urbana policentrica del Reno-Meno. Per prima cosa, delineiamo il contesto nazionale delle politiche e della pianificazione spaziale discutendone i recenti orientamenti strategici, che si allontanano dalla tradizionale concentrazione sull’equilibrio interregionale, ponendo maggior enfasi sul rafforzamento di alcune regioni metropolitane chiave. Secondo, mostriamo come gli attori politici ed economici nella frammentazione amministrativa della regione policentrica abbiano prodotto varie discutibili e geograficamente divergenti regionalizzazioni del Rhine-Main. Conflitti e tensioni sottese sono stati ampiamente riferiti (Bördlein 1999, 2000; Esser 2001; Falger 2001); qui indaghiamo come diversità funzionale e molteplicità delle prospettive nella regione Reno-Meno siano state ripensate come aspetti positivi negli ultimi documenti e iniziative di strategia regionale. Concludiamo con una valutazione critica sullo stato della pianificazione spaziale nel Rhine-Main.
IL NUOVO DISCORSO METROPOLITANO NELLO SPATIAL PLANNING STRATEGICO TEDESCO
La pianificazione spaziale del dopoguerra in Germania è stata per lungo tempo guidata dalla premessa di un equilibrato sviluppo economico, per assicurare condizioni di vita equivalenti in tutto il territorio nazionale. Fissata dalla Legge sulla Pianificazione del 1965, l’idea di “equilibrio spaziale a scala nazionale” (Brenner 2000, p. 323), perseguita attraverso una trama regolare di città a seguire la teoria delle località centrali di Christaller, ha dominato il dibattito sulla pianificazione territoriale in Germania sino alla fine degli anni ‘80. Dalla riunificazione tedesca del 1990, con l’accelerazione del dibattito interno ed europeo sui modi per assicurare competitività in un’economia globalizzata, si è reso evidente un “graduale mutamento di paradigma” (Blotevogel and Schmitt 2005) nella pianificazione spaziale strategica. Neil Brenner ha sostenuto che il mutamento alla base delle politiche costituisce un passaggio “da una sistema di politiche per alleviare uno sviluppo geografico ineguale, a un quadro che attivamente lo intensifica promuovendo la continua polarizzazione della crescita entro regioni urbane centrali specializzate” (Brenner 2000, 332). Centrale in questa nuova cornice è l’assunto secondo cui siano le grandi aree metropolitane anziché le singole città, o l’economia nazionale come un tutto, ad agire come “motori per lo sviluppo delle imprese, economico, sociale e culturale” (BBR 2005, p. 188) e che dunque meritino particolare attenzione (BBR 2005, p. 174). Questo punto di vista è stato sviluppato per la prima volta autorevolmente in due fondamentali documenti strategici della Conferenza Permanente dei Ministri Statali e Federali responsabile della Pianificazione Spaziale ( Ministerkonferenz für Raumordnung, MKRO), lo Raumordnungspolitischer Orientierungsrahmen (1993) e il Raumordnungspolitischer Handlungsrahmen (1995). Il secondo individua le sei agglomerazioni urbane di Berlino/Brandeburgo, Amburgo, Monaco, Rhine-Main, Rhine-Ruhr e Stoccarda come “Regioni Metropolitane Europee” (EMR) con intense correlazioni internazionali attraverso i confini. Questo elenco fu ufficialmente adottato nel 1997, aggiungendo la EMR “ Sachsendreieck” (Triangolo Sassone: Chemnitz, Dresda, Halle, Lipsia, Zwickau), e nel 2005 è stato conferito stato di EMR a Brema/Oldenburg, Hanover-Brunswick-Göttingen, Norimberga e Rhine-Neckar (MKRO 2005).
La trasformazione retorica evidente nelle linee guida nazionali per la pianificazione e indicazioni spaziali, è stata accompagnata da un rinnovato dibattito sulle forme più appropriate di governo metropolitano entro le EMR individuate. L’ultimo rapporto federale sullo spatial planning ripete i primi auspici per la creazione di un nuovo forte livello di governo regionale nelle aree metropolitane per aumentare la competitività internazionale (BBR 2005, p. 188), argomento che segue in qualche modo i discorsi dominanti e in qualche modo neoliberisti sulla globalizzazione e la competizione spaziale che hanno informato tante delle discussioni sulle politiche metropolitane dell’Europa occidentale negli anni recenti (Brenner 2003, p. 18). Ad ogni modo, la realizzazione di strutture efficaci di pianificazione e governo entro le specifiche agglomerazioni varia notevolmente fra le regioni metropolitane tedesche (Blatter 2005, Fürst 2005, Hesse 2005), dato che l’attuazione di queste riforme dipende dalla cooperazione di una molteplicità di attori politici ed economici all’interno dei vari contesti istituzionali. La diversità delle forme di governance regionale si deve in parte ai contrastanti percorsi storici e strutture socioeconomiche delle regioni metropolitane, e all’organizzazione del sistema federale tedesco, costruito sui principi di sussidiarietà e forte autonomia regionale ( Länder) e municipale. Ciò trova espressione, ad esempio, in un sistema di pianificazione a livelli multipli in cui lo stato federale offre solo una legislazione quadro e linee guida per la pianificazione regionale (Kunzmann 2001).
Ciascuno dei Länder esercita autorità sulla pianificazione spaziale nel proprio territorio e redige linee guida di pianificazione regionale, i cosiddetti piani di sviluppo ( Landesentwicklungsplan). Le leggi sulla pianificazione spaziale del Länder suddividono il territorio in regioni di piano ( Planungsregionen), entro ciascuna delle quali i raggruppamenti di pianificazione regionale preparano un piano ( Regionalplan). Le municipalità costituenti tali raggruppamenti partecipano allo sviluppo del piano regionale attraverso un’assemblea. A livello delle singole municipalità, la pianificazione dello spazio diventa concreta e legalmente vincolante attraverso l’attuazione dei piani urbanistici ( Flächennutzungsplan) comunali o intercomunali ( Regionaler Flächennutzungsplan). In genere, le municipalità hanno diritti di pianificazione in esclusiva sul proprio territorio, il che significa che la redazione di un piano urbanistico non può essere influenzata direttamente da una autorità superiore, ma è tenuta ad aderire alle sue linee guida generali. Questo sistema multilivello di pianificazione spaziale, basato sul principio dell’influenza reciproca dei differenti ambiti ( Gegenstromprinzip) si affianca alla pianificazione di settore con effetti spaziali stimolata da vari ministeri federali e di Länder, la quale si aggiunge alla complessità dei processi di piano in Germania (Figura 1).
Se la cooperazione fra le varie grandi città tedesche e le municipalità circostanti ha una lunga storia in termini di pianificazione regionale collaborativa e altre forme specifiche di associazione per scopi particolari ( Zweckverband; ad esempio per i trasporti pubblici o la gestione dei rifiuti), la forte autonomia costituzionalmente garantita del governo locale ha spesso rallentato lo sviluppo di modalità unificate di governo metropolitano (Fürst 2005). In più, la frammentazione territoriale delle entità regionali e la competizione a livello statale nel sistema federale pone questioni specifiche per le regioni metropolitane che si estendono oltre confini statali, il che è particolarmente rilevante nel caso della Rhine-Main.
UNA FRAMMENTAZIONE MULTIPLA: PIANIFICAZIONE SPAZIALE E GOVERNO METROPOLITANO NELLA RHINE-MAIN
In quanto seconda agglomerazione urbana dopo quella del Reno-Ruhr, la Reno-Meno è politicamente suddivisa fra i tre stati di Assia (che copre la maggior parte della regione), Renania-Palatinato e Baviera. Deve ancora emergere una specifica consapevolezza regionale, in un’area le cui fedeltà sono conformate da una lunga storia territoriale di frammentazione politica e amministrativa, di localismo competitivo (Bördlein e Schickhoff 1998). Di conseguenza, esistono varie regionalizzazioni “Rhine-Main” – con Francoforte sempre al centro – che coprono zone diverse di un’ampia regione. La definizione geografica più comprensiva della Reno-Meno in quanto una delle EMR tedesche comprende un’area di oltre 13.000 chilometri quadrati con una popolazione di 5,3 milioni di abitanti (Planungsverband 2005) (Figura 2). Questa regione transfrontaliera coincide più o meno con i confini scelti dagli attori economici rappresentati dal Forum delle Camere di Commercio e Ufficio Sviluppo Economico di Francoforte Rhine-Main. Contiene una larga parte di distretti rurali, non compresi nelle delimitazioni funzionali basate sul pendolarismo quotidiano verso i centri urbani principali della regione: Francoforte, Offenbach, Wiesbaden, Mainz, Darmstadt, Hanau and Aschaffenburg. Un’altra definizione di regioni urbane funzionali contigue che formano la “mega-città-regione” Reno-Meno (Interreg IIIb progetto “Polynet”: Fischer e altri 2005a, Freytag e altri 2006) comprende un’area di circa 8.000 chilometri quadrati e 4,2 milioni di abitanti (Figura 2). Comunque, nessuna di queste due concettualizzazioni trans-confini costituisce l’agglomerazione metropolitana unificata in quanto organismo politico o amministrativo. Nonostante occasionali iniziative di cooperazione intergovernativa, i dibattiti sulle riforme istituzionali si sono generalmente concentrati sulla parte della Rhine-Main dell’Assia, e in particolare sulla relazione fra la città di Francoforte e le municipalità circostanti.
Nuove istituzioni nel cuore della regione
Il dibattito attuale sulla pianificazione spaziale e il governo metropolitano in Rhine-Main nasce da una lunga storia di tentativi di riformare il quadro istituzionale delle relazione città-regione di Francoforte e dei comuni vicini (Scheller 1998, Freund 2003). L’ultimo ciclo di modifiche istituzionali fu iniziato nel 1999 dall’allora appena eletto governo statale conservatore dell’Assia, attraverso leggi per la propria parte dell’agglomerazione, Ballungsraumgesetz (BallrG 2000). Creò un raggruppamento di pianificazione per la conurbazione di Francoforte nel 2001, il Planungsverband Ballungsraum Frankfurt/Rhein-Main, come successore ufficiale dello Umlandverband Frankfurt, associazione obbligatoria multiscopo istituita dal un governo socialdemocratico nel 1975, per Francoforte e 42 comuni circostanti. Geograficamente più vasto ma con meno competenze il nuovo Planungsverband integra – per la prima volta in Germania – i due livelli di pianificazione regionale (insieme al Regionalversammlung Südhessen) e la pianificazione urbanistica in 75 municipalità al centro della zona di competenza dell’Assia della regione Rhine-Main (Figura 3). Un Rat der Region (Consiglio della Regione) con rappresentanti delle città maggiori (oltre 50.000 abitanti) e distretti amministrativi ( Landkreise) venne istituita insieme al Planungsverband a coordinare la cooperazione inter-municipale (Langhagen-Rohrbach 2004). Nonostante le responsabilità di piano geograficamente estese, la nuova Planungsverband è solo una delle numerose autorità a questo scopo che coprono la regione Rhine-Main funzionalmente definita. Soprattutto, non esiste nessun organismo che si estenda oltre i confini statali. I Länder Assia, Renania-Palatinato e Baviera hanno tutti una propria politica di piano e relative istituzioni per le loro parti della regione Rhine-Main e aree adiacenti.
Parallelamente all’istituzione del Rat der Region, fu iniziato un quadro di cooperazione politica volontaria per la pianificazione regionale dal sindaco conservatore di Francoforte nel 2000, non ultimo nel tentativo di compensare la carenza di cooperazione fra Planungsverband (dominato da Socialdemocratici e Verdi) e Rat der Region (maggioranza conservatrice) (Blatter 2005, p. 146). La Regionalkonferenz RheinMain, incontro regolare di sindaci a elezione diretta e capi di distretto, copre un’area equivalente alla definizione economica territoriale più ampia (transfrontaliera) di Rhine-Main (Figura 2). Mira a stimolare la cooperazione municipale e alla consultazione su questioni settoriali come lo sviluppo economico, cultura, turismo, trasporti. Comunque, per conseguire questi obiettivi, la Regionalkonferenzha difficoltà simili a quelle del Rat der Region, ad esempio istituzionalizzazione debole, mancanza di legittimazione democratica diretta, dissensi politici e competizione fra le varie municipalità, che facilmente superano i fini di cooperazione (Blatter 2005).
Il ristretto ambito di responsabilità della nuova associazione di piano politicamente indebolita, lascia molta della cooperazione tra Francoforte e i comuni confinanti ad accordi intermunicipali, che non restano confinati all’ambito amministrativo del Ballungsraum. Sono stati lenti a svilupparsi e i critici temono che le conseguenze della nuova legislazione possano essere di de-solidarizzazione regionale, anziché di rafforzamento (Schultheis 2003). Al contrario, lo stato dell’Assia può forzare le municipalità della conurbazione a collaborare entro associazioni obbligatorie per scopi particolari, se non riescono a stringere accordi volontari nei campi seguenti (BallrG 2000): gestione e riciclo dei rifiuti, fornitura d’acqua, gestione degli scarichi fognari, strutture sportive e per il tempo libero di scala regionale, infrastrutture culturali, sviluppo economico e promozione di mercato, tutela degli spazi aperti verdi, pianificazione dei trasporti e gestione del traffico a scala regionale. Con varie dimensioni territoriali e partecipazioni, si sono sinora formate nuove strutture inter-municipali, come: “FrankfurtRheinMain GmbH – Promozione Internazionale della Regione”, ente a responsabilità limitata per la promozione localizzativa e la pubblicizzazione delle opportunità a scala internazionale del Rhine-Main; “Kulturregion Rhein-Main-GmbH”, fondata nel dicembre 2005 da 20 municipalità e distretti (comprese due città bavaresi) per organizzare e proporre eventi culturali di importanza regionale e internazionale. Ulteriori collaborazioni sono cominciate per la gestione del traffico regionale (‘ivm GmbH': Integriertes Verkehrsmanagement Region Frankfurt RheinMain) da parte di parecchie città e distretti, e gli stati di Assia e Renania-Palatinato (ma senza la partecipazione bavarese). Un certo numero di città e distretti dell’Assia ha sviluppato e collegato spazi aperti verdi della regione entro vari progetti uniti nel “Regionalpark RheinMain”. Il quadro che emerge è di riduzione delle responsabilità politiche dal livello regionale a quello municipale. E la creazione piuttosto riluttante di accordi cooperativi specifici a scopi singoli con partecipazioni variabili e territori solo in parte coincidenti.
Iniziative regionali nella Grande Rhine-Main
Dagli anni ‘90, vari reti intensive e flessibili composte da vari attori politi ed economici hanno giocato un ruolo chiave nell’attivare forme volontarie di cooperazione nella regione vasta, oltre i confini statali (Figura 4). Nel 1991, il IHK-Forum Rhein-Main (Forum delle Camere di Commercio) è stato istituito come alleanza regionale per rivolgersi principalmente a bisogni e interessi delle piccole e medie imprese. Oltre 200 municipalità e parecchie camere di commercio locali, istituti di istruzione superiore e società di infrastrutture, collaborano nel Wirtschaftsförderung Region Frankfurt/Rhein-Main e.V. (Consiglio per lo Sviluppo Economico Francoforte/ Rhine-Main), fondato nel 1995 per attirare investimenti e informare sulle disponibilità di spazi e immobili industriali e per uffici nella regione. La mancanza di un’immagine regionale unica è stato uno degli incentivi perché i grandi attori economici del Rhine-Main istituissero nel 1996 la Wirtschaftsinitiative Frankfurt RheinMain, iniziativa promozionale che comprende al momento oltre 150 imprese. La Wirtschaftsinitiativemira a costruire una identità regionale comune, sostiene progetti di prestigio e alta visibilità, migliorare l’immagine pubblica della regione Reno-Meno per promuoverla a livello nazionale e internazionale. È un fattore di grande peso nello sviluppo di una “politica estera regionale” (Fichter 2002, 315) per il Rhine-Main. Alla Wirtschaftsinitiative si è aggiunta nel 2003 un’altra iniziativa con scopi simili, Metropolitana. Questa organizzazione era stata fondata un anno prima da cinque grosse imprese mondiali, gli uffici regionali per l’Assia della Deutsche Bundesbank, la Wirtschaftsinitiative, l’associazione per i trasporti pubblici della Rhine-Main e Messe Frankfurt, per iniziare progetti regionali innovativi (Blatter 2005, p. 147). Anche se i progetti previsti non si sono realizzati a causa del mancato sostegno finanziario da parte delle imprese partecipanti a Metropolitana (Blatter 2005, p. 148), la rafforzata Wirtschaftsinitiative si è recentemente impegnata nella “costruzione della regione dal basso” lanciando il primo Regionalwerkstatt nel 2004, laboratorio regionale che raccoglie diversi attori politici ed economici e il pubblico per sviluppare collettivamente idee sul futuro di Rhine-Main. Il primo incontro, con parecchi laboratori organizzati tematici ha trovato una forte risonanza nella regione, attirando oltre 600 partecipanti, ma il successivo sviluppo dei progetti da parte di esperti è stato lento, e in gran parte nascosto alla pubblica opinione (Langhagen-Rohrbach e Fischer 2005). Resta da vedere se il secondo Regionalwerkstatt, previsto nel marzo 2006 per discutere i risultati di queste idee, otterrà un riconoscimento ed entusiasmo pubblico simile al primo, e se si tradurrà in qualche azione concreta.
Questi recenti tentativi da parte di iniziative pubbliche e private di superare i confini amministrativi territoriali e rafforzare una regionalizzazione funzionale e le relazioni interne di varie reti, sono stati fortemente sostenuti da molti attori economici della Rhine-Main (Fischer e altri 2005b). Le imprese regionali più piccole si impegnano in questo processo sia attivamente in progetti specifici, sia come membri delle organizzazioni imprenditoriali locali e regionali. Le grandi compagnie internazionali giocano un ruolo importante nell’iniziare e sostenere Leuchtturmprojekte a visibiità internazionale e campagne di immagine, sia per interessi propri che come parte delle proprie strategie di partecipazione . L’idea di una regione metropolitana Rhine-Main funzionalmente integrata corrisponde alle prospettive ed esperienze dei decisori economici che operano in spazi flessibili, strutturati su flussi che attraversano i confini, e su reti di relazioni di impresa (Fischer e altri 2005b). Comunque, una delle questioni chiave resta sino a che punto la spesso breve esistenza dei progetti e la loro principale prospettiva di tipo economico rappresenti la vasta popolazione della regione. Processi partecipativi come il Regionalwerkstatt potrebbero sviluppare una prospettiva di maggiore inclusione per un più ampio Rhine-Main.
PROSPETTIVE POLICENTRICHE? LA VISIONE STRATEGICA “FRANKFURT/RHEIN-MAIN 2020”
Mentre le idee iniziali del Regionalwerkstatt continuano ad essere elaborate, nel 2005 è stato pubblicato un documento politico, la “Visione Strategica per un Piano Territoriale Regionale e Regionalplan Südhessen”, per l’area del Ballungsraum e la regione di piano più vasta del sud-Assia (Planungsverband e Regierungspräsidium 2005). Si estende più a sud delle comuni delimitazioni del Rhine-Main ma, a causa delle competenze limitate dal punto di vista dell’autorità urbanistica, è confinato allo stato dell’Assia, anche se si riconoscono (brevemente) ampie relazioni funzionali oltre i confini. In quanto altra iniziativa in cui attori chiave pubblici e privati del Rhine-Main si sono messi insieme, la Visione Strategica mira allo sviluppo di una grossa parte della regione nei prossimi 15 anni rispetto a un’ampia gamma di tematiche. Come “visione ideale” collettiva di chi è impegnato nella costruzione regionale dal punto di vista istituzionale e delle reti, offre un punto di riferimento chiave per lo sviluppo futuro del Rhine-Main, ma al tempo stesso rivela le tensioni interne fra la logica territoriale della pianificazione spaziale e il dibattito su base economica dei legami trans-confine.
Lo sviluppo di una visione
In quanto linea guida di lunga prospettiva per i piani urbanistici normativi attualmente in corso di sviluppo per l’Assia meridionale e la conurbazione di Francoforte, la Visione Strategica è il risultato di una cooperazione fra le due istituzioni responsabili della pianificazione spaziale regionale, Planungsverband Ballungsraum Frankfurt/Rhein-Main, e Regierungspräsidium Darmstadt. Non si tratta in alcun modo di una prospettiva imposta solo dalle autorità di piano, ma redatta dopo un’ampia consultazione, di circa 280 attori regionali provenienti dai campi della politica, degli affari, amministrazioni municipali, cultura, istruzione superiore. Nonostante si stato invitato a partecipare anche il vasto pubblico, attraverso una piattaforma internet, la risposta (109 partecipanti attivi; Salz e altri 2004, p. 7) è stata meno significativa che nella prima fase del Regionalwerkstatt; un esempio per le spesso innovative ma non sempre coordinate iniziative regionali in Rhine-Main (Langhagen-Rohrbach e Fischer 2005, p. 79). La Visione Strategica è stata approvata nel 2004 come linea guida per la futura pianificazione spaziale della regione, da parte dell’organismo decisionale Planungsverband e dall’Assemblea Regionale del sud-Assia, che ne rappresenta città e distretti.
Promuovere il policentrismo?
Centrale per la Visione Strategica è il tentativo di promuovere diversificazione e specializzazione funzionale urbana in Rhine-Main come fatto positivo anziché ostacolo alla comunicazione e al successo economico regionale (vedi Box 1). Molteplicità, complementarità and sinergia sono le parole ricorrenti del documento che in modo esplicito collega competitività e strutture regionale policentrica. La Visione Strategica riconosce la complementarità funzionale dei vari centri urbani della regione - Francoforte “centro della vita economica e culturale della regione”, Darmstadt “principale centro di ricerca”, Hanau “città delle scienze applicate”, Offenbach “città del design”, Wiesbaden “capitale del Land Assia” – ed esplicitamente incoraggia le municipalità a sviluppare e rafforzare il proprio singolo profilo economico per coinvolgerle in “concorrenza produttiva” (Planungsverband e Regierungspräsidium 2005, p. 11). L’equilibrio fra concorrenza e cooperazione è visto come di potenziale beneficio per la regione. In più, il documento sottolinea le potenziali sinergie di città organizzate in rete densa su varie dimensioni: sia all’interno della regione che dei sistemi transnazionali europei. Vista questa retorica, è ironica nel documento l’assenza di un’autentica visione policentrica per Rhine-Main : le funzionalmente connesse ma amministrativamente separate città di Mainz (Renania-Palatinato) e Aschaffenburg (Baviera) (Freytag e altri 2006, Fischer e altri 2005c) non compaiono per niente in una Visione Strategica che non può uscire dalla propria logica territoriale istituzionale. Se la Visiona ha adottato il dibattito sulla competizione economica globale, le mani dei suoi estensori sono vincolate ai confini amministrativi che tagliano le relazioni funzionali sottolineate come elementi chiave nel documento.
Box 1: Il policentrismo come fattore di competitività: Rhine-Main nella Visione Strategica 2020 (Planungsverband e Regierungspräsidium 2005)
La particolare forza della regione Francoforte/Rhine-Main sta nella molteplicità di centri urbani e municipalità […]. Intendiamo utilizzare questa straordinaria qualità in una regione metropolitana sviluppando i vari particolari punti di forza e potenziali delle varie cittadine e zone rurali. Intendiamo assicurare lo sviluppo dei centri urbani, fare un uso ottimale delle zone urbanizzate esistenti e, in casi specifici, predisporne di nuove. (p. 5)
La regione Francoforte/Rhine-Main deve perseguire due scopi fondamentali. Primo, deve presentare al mondo un’immagine di sé stessa, creando un profilo in quanto regione con buone strutture educative, posti di lavoro attraenti, e alta qualità della vita: una regione dove è gradevole abitare e lavorare. Secondo, le singole municipalità devono, come parte del ruolo di governo locale, sviluppare i propri fattori di forza. Senza rinunciare agli effetti positivi delle sinergie con altri centri e municipalità. In questo modo devono sviluppare una concorrenza produttiva che sia di beneficio alla regione, e giocare il proprio ruolo nel crearne un profilo. (p. 11)
Nessuno è un’isola, e oggi, il mondo è più vicino e connesso che mai. Ciò rappresenta sia una sfida che un’occasione. Per questo motivo, comunicazione e scambio di informazioni rappresentano la base del successo regionale. Un singolo organismo o centro urbano non può, da solo, rispondere alle varie domande che gli vengono poste. Ma la regione, in quanto cooperazione fra un vasto numero di diversi agenti, può assicurare che ciascuno tragga profitto dalla, e partecipi alla, rete generale.
Questo vantaggio competitivo è di beneficio sia ai singoli che alla regione nel suo insieme. In tendiamo collaborare più strettamente con altre regioni metropolitane livello nazionale ed europeo per aumentare l’efficienza e rappresentare in modo congiunto i nostri interessi in Europa. […]
La regione Francoforte/Rhine-Main è già uno dei principali punti nodali nelle reti finanziarie, di trasporto e informative, sia a livello nazionale che internazionale. Intendiamo consolidare questa posizione e svilupparla ulteriormente. […]
La struttura insediativa della regione può essere vista come una rete di ambienti urbani in cui le diverse municipalità, coi diversi punti di forza, sono complementari l’una all’altra ma, allo stesso tempo, dipendono l’una dall’altra. (p. 12)
In assenza di qualunque affermazione netta su questioni controverse per la regione, come l’ampliamento aeroportuale, l’individuazione di nuove aree industriali o l’integrazione delle popolazioni immigrate, si può supporre che la Visione Strategica sia poco più che un esercizio di promozione e costruzione di immagine regionale, guidata da un percorso imprenditoriale che l’ha conformata secondo i propri obiettivi. La pubblicazione contemporanea di entrambe le versioni, in tedesco e inglese, sembra confermare la supposizione che si tratti di un documento rivolto a un uditorio esterno (Figura 5). Una visione del genere, comunque, sottovaluta il potenziale valore di coesione di una prospettiva regionale condivisa, in una regione tradizionalmente divisa. La Visione Strategica è tanto un tentativo di ricomporre gli interessi delle élites regionali, spesso confliggenti – almeno nel cuore della regione appartenente all’Assia – quanto di proporre un’immagine coerente al mondo esterno.
[...]
Nota: la Bibliografia (e un breve Abstract e altrettanto breve Conclusione) nella versione inglese); questa traduzione è disponibile anche in file PDF scaricabile, dove forse le immagini appaiono più chiare (f.b.)
Titolo originale: Urban myths – Traduzione di Fabrizio Bottini
Londra, con la sua lunga e illustre storia, coi suoi infinitamente vari paesaggi urbani, è una delle più grandiose città del mondo. È anche una delle meno addensate è più diffuse [ sprawling]. Quest’ultima affermazione farà senza dubbio accigliare qualcuno. Dopo tutto, la parola “ sprawl” nella mente di molte persone evoca le immagini del suburbio americano del dopoguerra. La Gran Bretagna, d’altra parte, in particolare nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, ha adottato alcune delle più rigide leggi di regolamentazione dello sviluppo territoriale del mondo, ed è di solito considerata all’avanguardia nella lotta allo sprawl.
Ma molto di quanto crediamo di conoscere a proposito dello sprawl, è sbagliato. Nel caso di Londra, è chiaro che la città alla fine dell’ultima guerra si era già allargata prodigiosamente per secoli. Anche il termine “ sprawl” nella sua attuale accezione corrente sembra essere di conio britannico, e non americano. Di fatto la Gran Bretagna è stata pioniera sia nel produrre sprawl che nel tentare di arrestarlo. Le conseguenze, qui come nel resto del mondo sviluppato, sono state ambigue.
Oggi una coalizione di architetti, urbanisti, accademici, funzionari pubblici e altri in tutto il mondo ricco ritiene che lo sprawl sia economicamente inefficiente, socialmente iniquo, ambientalmente dannoso, e brutto. Lo sprawl, affermano, è il fattore principale determinante qualunque cosa, dall’obesità degli abitanti del suburbio al riscaldamento globale. Ritengono anche che lo sprawl sia un fenomeno recente, peculiarmente americano, spinto da un eccessivo uso dell’automobile, e risultato di insufficienti politiche pubbliche. Vista la diagnosi, la cura appare chiara. È necessario modificare le politiche in modo tale da poter fermare lo sprawl e orientare la nuova crescita verso insediamenti meglio progettati e più compatti.
Questo insieme di diagnosi e prescrizioni è diventato tanto diffuso che anche i giornali distribuiti sugli aerei, sempre sensibili alla possibilità di urtare qualunque potenziale cliente, hanno pubblicato articoli di biasimo allo sprawl e celebrazione della “ smart growth”. Quando persone oneste raggiungono un simile livello di unanimità di opinione su qualunque argomento, forse è il caso di iniziare a sospettare. Nel caso dello sprawl, anche solo un po’ di riflessione fa pensare che il grande edificio delle opinioni di seconda mano poggi su fondamenta traballanti.
L’idea che lo sprawl porti con sé necessariamente un maggior consumo di energia, un incremento degli spostamenti in auto, viaggi pendolari più lunghi e più traffico e inquinamento, ad esempio, è difficile da sostenere. Se ciò fosse vero, i tempi di pendolarismo sarebbero ridotti nelle città più dense e più lunghi in quelle diffuse. La realtà si avvicina invece di più al contrario. I tempi pendolari nelle città americane sono notevolmente più ridotti che nelle città europee. E l’area ad alta densità di Tokyo, nonostante uno dei migliori sistemi di trasporto pubblico del mondo, ha tempi fra i più lunghi.
Non c’è alcun paradosso. Mentre le città si diffondevano, anche i posti di lavoro si muovevano dal centro insieme alle case. Non c’è alcun motivo intrinseco per cui una vita in ambiente a bassa densità debba portare ad un maggior consumo energetico o produrre più inquinamento dell’alta densità. In realtà, a densità sufficientemente basse è possibile immaginare gli abitanti suburbani che si producono quasi tutta la propria energia tramite impianti solari, eolici, geotermici, prelevando acqua e restituendo localmente quella utilizzata al terreno, tutto senza i grandi sistemi centralizzati che erano necessari a sostenere le città industriali dense del XIX secolo, che noi spesso confondiamo con la condizione urbana naturale.
Storicamente la maggior parte delle città ha preso la propria forma non perché qualcuno riteneva fosse quella ideale, ma per le necessità della difesa, dell’accessibilità, dell’energia. Ora che le nuove tecnologie ci hanno allentato il guinzaglio, non c’è motivo per cui le città non possano avere un aspetto molto diverso da quello che avevano nel XIX secolo. Ed è esattamente questo che in realtà sta avvenendo nelle città del mondo, con le densità in centro che cadono e gli insediamenti esterni che fioriscono, portando superstrade, centri commerciali, lottizzazioni di case unifamiliari. Come è possibile, che lo sprawl stia accelerando in tutto il mondo, di fronte a tutti gli sforzi per arrestarlo? È la storia a fornire alcuni interessanti indizi.
Uno dei problemi, dell’attuale idea condivisa dello sprawl è il fatto che i crociati anti- sprawl non siano mai stati in grado di mettersi d’accordo su cosa significhi esattamente il termine. Ciò non sorprende. Esattamente come quella che per alcuni è un’erbaccia per altri è un’apprezzata pianta locale, così ciò che per qualcuno è sprawl, per altri è l’amato quartiere. Sprawl, come molte parole utilizzate dai riformatori di tutte le risme, allo stesso tempo conferma gli orientamenti di chi la usa e condanna chi non è d’accordo. Non sentirete ma qualcuno usarlo per descrivere il proprio quartiere: sprawl è dove abitano gli altri, prodotto di scelte sbagliate e mancanza di discernimento da parte di altri.
Usando una definizione più neutrale di sprawl, ovvero insediamento a bassa densità con poca pianificazione generale, è possibile affermare che lo sprawl è antico quanto la città stessa. Era già in gran voga nel mondo antico, ad esempio quando i ricchi Romani uscivano verso le località marine.
Questo sprawl avveniva perché le città dense, dall’inizio della storia umana sino a tempi piuttosto recenti, erano posti terribili da abitare. Non semplicemente sgradevoli, ma spesso malsani e insicuri. Per questo motivo nel corso della storia, quando un gruppi di cittadini raggiungeva un’agiatezza sufficiente, molti di loro si procuravano case in zone a bassa densità attorno alle città. E in ogni caso saliva un grido di allarme dal “club dei veri credenti”.
Dato che Londra era ricca, e la tranquillità della campagna inglese le aveva consentito di fare a meno delle mura difensive prima delle altre città del continente, sperimentò il più vasto decentramento d’Europa. Già nel XVIII secolo, la spinta dei ceti agiati verso quelle che erano le piazze residenziali a bassa densità di Westminster aveva fatto di Londra una delle aree urbane meno dense d’Europa.
Durante il dominio dell’industrializzazione nel XIX secolo il tessuto urbano esplose all’esterno, spingendosi per chilometri verso la campagna circostante, coi costruttori che tiravano su migliaia di casette per famiglie di possibilità relativamente modeste. Là dove in pochi avevano obiettato, quando una manciata di famiglie agiate si era costruita grandi case in campagna, ci fu costernazione da parte dell’ élite intellettuale, ora che migliaia di famiglie erano in grado di godere un po’ della stessa privacy, mobilità e possibilità di scelta. Gli osservatori descrivevano le nuove zone suburbane come brutte e monotone, prodotto di avidi speculatori senza cura per la civiltà e la bellezza. Naturalmente, ora questo sprawl del XIX secolo è considerato universalmente una parte del centro di Londra, e l’antitesi di tutto ciò che non funziona negli insediamenti contemporanei alla periferia urbana.
Il termine “ sprawl” diventa per la prima volta comune in Gran Bretagna negli anni first successivi alla prima guerra mondiale. Viene utilizzato per denigrare le casette in linea che stavano iniziando a crescere in gran numero attorno a Londra. L’area della città negli anni ’20 aumentò solo del 10% in popolazione, ma raddoppiò la sua superficie. La reazione era prevedibile. “Stiamo facendo dell’Inghilterra un ridicolo pasticcio” iniziò la classica geremiade.
Ma, ancora una volta, condizioni urbane e norme estetiche da quei tempi si sono così modificate che molti interventi degli anni tra le due guerre, se realizzati oggi, potrebbero facilmente passare in molti casi per “ smart growth”. A causa di queste continue ridefinizioni, il termine è sopravvissuto per essere utilizzato in ciascuna epoca successiva come etichetta della nuova offesa perpetrata al paesaggio, che si tratti delle ranch houses di Los Angeles negli anni ‘50, delle “ McMansions” su grossi appezzamenti nell’esurbio americano degli anni ’90, o dei negozi big-box che compaiono oggi ai margini di ogni città europea.
Nello stesso modo in cui la Gran Bretagna è stata all’avanguardia del mondo nel produrre sprawl, ha anche guidato il mondo nei tentativi di combatterlo. L’episodio più rilevante ebbe luogo dopo la seconda guerra mondiale. Con le città del paese in rovina e l’economia decimata, il governo del Labour riuscì ad attuare alcune delle misure da tempo richieste da urbanisti come Thomas Sharp, la più famosa delle quali fu il piano regionale per la Grande Londra redatto da Patrick Abercrombie nel 1944. Per dare agli urbanisti il potere di mettere in atto questo e altri piani il governo del Labour approvò una serie di leggi culminate nella scelta draconiana di nazionalizzare tutti i diritti edificatori.
Come ha dimostrato lo storico dell’urbanistica Sir Peter Hall, il sistema che ne risulta era al tempo stesso radicale e conservatore. Radicale era il tentativo da dare una forma definitiva alla metropoli diffusa tramite un atto di governo. Ciò fu ottenuto imponendo una greenbelt attorno all’area urbanizzata e, ad accogliere la popolazione in eccesso in una città considerata ancora troppo densa, un’area di “traboccamento” oltre la fascia verde, dove lo sviluppo era organizzato entro “ new towns” accuratamente pianificate. La gran parte della nuova edificazione sarebbe stata realizzata dal governo. Quella privata avrebbe dovuto più o meno fermarsi.
Ad un livello più elementare, però, questo progetto era conservatore. Presumeva che la forma della città non sarebbe stata lasciata ai capricci del mercato o determinata dalla somme delle scelte delle singole famiglie, ma imposta da urbanisti ben preparati dagli uffici centrali di Londra. E sarebbe stata una trasformazione definitiva. Una volta che l’area centrale si fosse ridimensionata e le new towns satellite consolidate, tutto si sarebbe fermato.
Abercrombie non aveva previsto l’aumento di popolazione nell’area di Londra, o l’aumento di ricchezza e incremento nella proprietà dell’auto o nella domanda di casa in proprietà.
Le conseguenze dell’offensiva britannica anti- sprawl del dopoguerra sono state vivacemente contestate. Secondo alcuni osservatori il piano di Londra imbrigliò lo sprawl e conservò la preziosa greenbelt. Ma, la greenbelt fu conservata solo al prezzo di forzare più popolazione oltre ad essa verso l’esterno, di fatto urbanizzando l’intero sud-est d’Inghilterra, causando uno sprawl molto più esteso di quanto sarebbe accaduto se la greenbelt non fosse mai stata istituita, e portando ai più alti tempi di pendolarismo d’Europa. E ciò che conta di più, sostengono molti economisti, la limitazione nella disponibilità di terreni necessaria a far funzionare il sistema ha causato una lievitazione dei loro prezzi, che a sua volta ha reso più costoso per gli abitanti della Grande Londra accedere alla casa.
Non sorprende, visto l’ampio incremento dei redditi negli scorsi decenni, in particolare negli anni ’90 del boom, che ci sia stata un’accelerazione dello sprawl in tutto il mondo sviluppato. Sia in Nord America, che in Europa, Giappone o Australia, la densità nei nuclei centrali è in caduta, fiorisce l’edificazione periferica ed esplode l’uso dell’auto privata. Eppure, vista la sua lunga posizione di avanguardia nel decentramento, la densità dell’area di Londra, pur superiore a quella di qualunque zona urbana americana, è di gran lunga inferiore a quella della maggior parte delle grandi città del mondo, il più delle quali sta nei paesi in via di sviluppo.
E, nonostante l’impegno degli urbanisti, lo sprawl attorno a Londra continua. Sir Richard Rogers, che veste il mantello del crociato anti- sprawl crusader, ha scritto dell’Inghilterra negli anni ‘90: “Continuiamo a credere che il futuro sia del suburbio, o meglio dello sprawl suburbano. Negli ultimi 20 anni – in un regime di urbanistica del libero mercato e del laissez-faire – l’area urbanizzata d’Inghilterra è raddoppiata, e abbiamo consentito di costruire 400.000 metri quadrati di centri commerciali extraurbani”.
E tutto questo, nel paese all’avanguardia del mondo per la crociata anti- sprawl!
Ciò non vuol lasciar intendere che lo sprawl non abbia causato problemi. Come qualunque tipo di forma insediativa, chiaramente ne ha creati. Comunque, la storia dello sprawl sembra indicare che la sua permanenza e sviluppo si devono al fatto che ha dato a molte persone comuni qualcosa che apprezzano.
E quale futuro, per lo sprawl? È possibile che il tipo ideale di residenza per la maggior parte delle persone sarà la casa unifamiliare su un grosso pezzo di terreno in campagna. Ma potrebbe anche darsi che, con sufficienti mezzi, la maggioranza possa proferire un appartamento in un quartiere molto denso, come a Islington, vicino ai musei e ai posti di incontro sociale più alla moda. La città è sempre stata il luogo del cambiamento, spesso delle trasformazioni sconcertanti, e ciò rende difficile prevedere il futuro.
Uno di principali ostacoli al tentativo di immaginare tutte le possibilità che si apriranno ai futuri abitanti urbani, è che il concetto di sprawl sia tanto impantanato dentro a presupposti discutibili, su cosa siano state e siano ora le città. Sembra scoraggiare un’analisi più attenta del modo in cui le gente vive davvero, dei modi in cui vorrebbe vivere, e quindi qualunque esplorazione delle azioni politiche che potrebbero consentire alla massima quantità di persone le massime possibilità di scelta, senza danneggiare inutilmente nessun gruppo particolare.
Nota: Robert Bruegmann è professore di Storia dell’arte, dell’architettura e dell’urbanistica alla University of Illinois di Chicago, autore di Sprawl: A Compact History , edito dalla University of Chicago Press. Un libro che è già stato presentato su questo sito in un paio di occasioni attraverso i commenti (di solito molto benevoli) della stampa americana. Lascio però da questo punto di vista ai lettori l’eventuale ricerca di questi contributi, proponendo invece un link a un testo che considero indebitamente e faziosamente bistrattato da Bruegmann (che forse non lo conosce direttamente). Si tratta del Greater London Plan coordinato da Patrick Abercrombie, che non è affatto lo strumento rigido di cui si parla qui sopra, e di cui anni fa ho messo a disposizione il “Preambolo” in originale e tradotto sul mio vecchio sito. Per un'opinione recentissima e un po' più articolata su questi temi consiglio anche il testo inedito, pubblicato qui in forma provvisoria, del pure citato Peter Hall (f.b.)
here English version
[l'intervento della Senatrice Rodham Clinton alla Brookings non aveva titolo, quello proposto qui è semplicemente deduttivo; traduzione per Eddyburg Mall di Fabrizio Bottini]
Buon giorno, sono particolarmente lieta di essere di nuovo qui alla Brookings, per avere ancora una volta l’occasione di partecipare allo sviluppo del lavoro di quello che è un tesoro, nazionale e internazionale.
E voglio davvero ringraziare Bruce Katz. Bruce ha sviluppato l’idea che sta alle spalle di questa nostra riunione, ma più ancora, il lavoro di analisi e ricerca che è stato fatto a sostegno delle molte conclusioni e raccomandazioni, organizzando qui alla Brookings il Metropolitan Policy Program con queste poderose capacità. Quindi grazie, Bruce. Poco tempo fa ero presente alla cerimonia di giuramento del nuovo presidente del municipio di Brooklyn, e stava parlando di secessione in modo da poter diventare un sobborgo autonomo dall’altra amministrazione, quella di Manhattan.
Voglio anche congratularmi con Robert Puentes e David Warren per il loro impegno.
Ascolterete tra pochi muniti, da alcuni straordinari rappresentanti da tutti il paese, da persone che sono state davvero in prima linea, cosa vuol dire la sfida dei “primi sobborghi”. Si tratta di Margaret Keliher di Dallas, Dan Onorato della Allegheny County, Ron Sims dalla King County, e Chris Zimmerman dalla Arlington County. Certo dal mio punto di vista, il relatore che mi fa più piacere sia presente perché abbiamo lavorato molto insieme su questi temi, è Tom Suozzi, County Executive dalla contea di Nassau. Tom è stato una vera avanguardia nel primo movimento della smart growth del suburbi, e credo dalla Nassau County ci sia anche qui Howard Weitzman, il nostro Comptroller. Si, ciao Howard. Insieme loro e i loro gruppi hanno tentato di far emergere alcuni problemi negati o ignorati per un lungo periodo di tempo, hanno iniziato a concentrarsi and sulle ragioni per cui tanti di noi amano i sobborghi, ci sono cresciuti, siamo sotto pressione perché li amiamo troppo. Li stiamo stipando e soffocando, e c’è bisogno di una strategia di cui questo convegno fa parte per cominciare a riconoscere cosa accadrà andando avanti.
Sono cresciuta in un sobborgo. Nata a Chicago, e rapidamente trasferita nel suburbio quando mio padre, veterano della seconda guerra mondiale, più o meno seguì la sua generazione verso i sobborghi. Quindi sono cresciuta in mezzo a tutte quelle meravigliose caratteristiche che lì andavamo a cercare, e che davamo per scontate, come ottime scuole, favolose occasioni per il tempo libero, facilità di spostarsi a piedi o in bicicletta da un posto all’altro. Avevamo un diritto di passaggio per la Eugene Field Elementary School, e quando si arrivava all’età giusta bisognava sostenere una prova e vedere se si era giudicati in grado di guidare la bicicletta fino alla scuola. Era una bella cosa.
Dove vivo adesso, in un sobborgo un po’ più esterno, non un “primo”, diciamo che potremmo definirlo di seconda generazione, c’è una grande discussione in corso a Chappaqua perché molti pensano sia troppo pericoloso per i loro figli andare a scuola in bici. Quindi il suburbio, dove la gente abita, come ci si adatta a stili di vita in trasformazione, non potrebbe essere argomento più tempestivo.
Cominciando a parlare delle sfide che ci attendono, è importante capire cosa ci ha portato sino a questo punto. Il boom post-bellico di 60 anni fa si definiva attorno a tre cose, investimenti nell’istruzione, un’attenzione alla middle-class, un impegno condiviso a tutti i livelli di governo per lo sviluppo e la crescita economica. Alla base di tutto c’era il patto secondo cui se si lavorava sodo, si rispettavano alcune regole, singoli e famiglie potevano prosperare, si poteva diventare proprietari della casa, si poteva avere un piccolo pezzo d’America, non importa quanto grande, nel proprio cortile. E la legge per i reduci [ GI Bill], l’esplosione nella costruzione di scuole, colleges e università che aprivano le loro porte a un numero sempre crescente di americani, tutto questo faceva esplodere la società delle occasioni, e si creava un potenziale di benessere senza confronti e senza precedenti. La middle-class fioriva e i sobborghi trionfavano.
Fra il 1950 e il 2000, quelli che ora chiamiamo “primi suburbi”, sono cresciuti a velocità doppia rispetto al resto del paese. La Nassau County a New York, per esempio, ha quasi raddoppiato la popolazione. Quello che è cominciato in posti come Levittown a Long Island si è trasformato in una tendenza nazionale che si è intrecciata con la stessa idea e promessa di benessere americana.
Avvenne tutto nel nulla? Beh, no, naturalmente no. Ci fu bisogno di leadership, e ci fu molto a spingere verso un complessivo ethos del suburbio, cosa ci si aspettava da chi ci cresceva dentro. Ricordo di quando andò in orbita lo Sputnik, e che pochi giorni dopo l’insegnante di quinta ci disse che dovevamo fare più matematica e scienze perché il Presidente Eisenhower voleva così, e ci pareva perfettamente ovvio che i Presidente fosse da qualche parte a Washington nella Casa Bianca a pensare ai ragazzi della Field School di Park Ridge, Illinois, che avrebbero fatto a studiare più matematica e scienze. C’era questa sensazione di non stare fuori dalle città, ma di contribuire a rifare l’America.
Il sistema autostradale interstate era chiaramente pensato per collegare tutti questi luoghi e aprire nuove aree all’edificazione di molti altri suburbi. Avevamo leaders che investivano davvero incredibilmente in direzione della middle-class e capivano l’importanza di un ceto medio forte, di dare alle famiglie gli strumenti di cui avevano bisogno per riuscire, e così il suburbio diventò sinonimo dell’ American dream.
Oggi siamo qui perché, come accade spesso nella vita, bisogna fare il punto. Cinquant’anni dopo, mi muovo un po’ più lentamente, impiego un po’ più tempo ad alzarmi la mattina. Come dice un mio amico, tutte le mattine ci sono buone notizie e cattive notizie. Quella cattiva è che hai dolori dappertutto. Quella buona è che ti stai alzando. Quindi penso che per i suburbi, la cattiva notizia sia che hanno dei problemi, quella buona che abbiamo molte strutture e persone intelligenti, impegnate, che capiscono come ci sia bisogno di un cambiamento.
I primi sobborghi in termini di reddito medio familiare rimangono al di sopra della media nazionale. Le contee di Nassau e Westchester Counties a New York hanno entrate superiori di oltre il 50%. I livelli di istruzione in media restano superiori a quelli nazionali. Le percentuali di studenti che concludono con un titolo, ad esempio, sia per le superiori che per il college. I primi suburbi hanno livelli inferiori di povertà e disoccupazione e tendono ad avere concentrazione maggiore di lavoratori qualificati. Quindi hanno attirato ricchezza, crescita, investimenti, in un ciclo autopropulsivo di mobilità sociale.
Centri un tempo etichettati come quartieri dormitorio ora si sono trasformati nel proprio motore economico. Quasi l’80% delle persone che abitano a Long Island, in gran parte insediamento suburbano di primo tipo, lavora lì. Non sono pendolari verso la città, come lo erano i loro genitori. Quindi i sobborghi più vecchi d’America rimangono vitali, ma le modalità di sviluppo sono cambiate, la demografia è cambiata, e la prosperità economica futura non è per niente assicurata.
Il primo suburbio ora è molto più eterogeneo di quanto non fosse prima. Io andavo in una scuola superiore enorme, quasi 5.000 studenti, tutti bianchi. C’era diversificazione etnica, ma eravamo tutti bianchi. Le contee di Nassau e Westchester lottano contro gli alti costi della vita. Sempre più persone cresciute lì, i cui genitori sono pure cresciuti lì, trovano difficile permettersi di restare nella propria comunità e far crescere i figli. Il prezzo di una casa media a Long Island, dove sta la contea di Nassau, la più grossa delle due, l’altra è Suffolk, è di quasi 400.000 dollari. Ed è il prezzo medio, più del doppio della media nazionale. Il 71% degli abitanti di Long Island in un recente sondaggio dice di temere che i prezzi delle case possano obbligare un membro della famiglia ad andarsene.
Altre zone del mio stato come le contee di Erie, Monroe e Onondaga, stanno lottando contro il declino della propria base produttiva, che offriva lavori ben pagati e previdenza a migliaia e migliaia di abitanti dello stato di New York. Molti suburbi della fascia interna, quelli più vicini alle città, affrontano la competizione crescente dei cosiddetti esurbi, dove l’edificazione è meno costosa del rinnovo urbano ei terreni sono più prontamente disponibili. Rispetto a questa galassia di problemi il problema è che per quanto siano importanti, il modo migliore per affrontarli è quello di guardare alle sfide comuni. Ad una prima occhiata potrebbe sembrare che la Nassau County di New York non abbia gran che in comune con la Dallas County in Texas o la King County nello stato di Washington, ma sotto la superficie credo che troveremmo che abbiamo molto in comune, e dovremmo lavorare per un’agenda in comune, una voce comune con cui presentarci alla scena politica americana.
Questo rapporto presentato oggi rivela una infrastruttura di trasporti invecchiata, costruita per i pendolari. Con l’economia locale sempre meno dipendente dalle città centrali, questo è diventato un problema per molti suburbi. Ciò implica maggiore diversificazione. Fra il 1980 e il 2000, la quota di minoranze razziali e etniche che risiede nei primi sobborghi è più che raddoppiata. Questa aree ospitano anche sempre più immigrati, immigrati regolari e altri senza documenti. I primi sobborghi ora hanno anche più residenti nati all’estero di quanto avvenga nelle città.
La demografia sta anche cambiando dal punto di vista degli anziani. Il numero di abitanti anziani è aumentato nei sobborghi di quasi il doppio di quanto avvenuto nel paese nella seconda metà del XX secolo. E i seniors, naturalmente, hanno una propria serie di sfide, come in molte zone trasporti pubblici inadeguati e il costo crescente dell’abitazione.
Spesso le rosee medie statistiche nascondono sacche invisibili di degrado, disoccupazione, bassi livelli di istruzione. Aumenta la concentrazione della povertà, nei primi suburbi, ed essi sono anche diventati il luogo di disparità razziali che si ampliano, sia nel campo dell’istruzione che in quello del reddito.
Credo che dovremmo rinnovare il patto sociale fondamentale. Possiamo guardare al nostro passato per alcune lezioni, ma saranno necessarie nuove azioni e nuove idee, e un onesto riconoscimento delle particolari sfide che abbiamo di fronte. È importante iniziare a lavorare, ed è per questo che il convegno e il rapporto sono tanto tempestivi. Oltre 50 milioni di americani, il 20%, vivono in un primo suburbio, come nel mio stato di New York quasi 5 milioni ovvero una percentuale superiore, quasi un quarto della popolazione. Così come possiamo dare il sostegno di cui hanno bisogno a persone come quelle che ascolteremo oggi, come daremo una risposta di servizio alle particolari domande dei primi suburbi?
Voglio parlare di quale dovrebbe essere il ruolo federale. Visto che identifichiamo le comunità suburbane come archetipi della prosperità nazionale, suburbia nel suo insieme non ha attirato molta attenzione da parte federale, e penso che sino a tempi relativamente recenti andasse bene così. C’erano altri problemi, che meritavano davvero priorità. Quindi le risorse per lo sviluppo e gli investimenti, le idee per il suburbio, sono state messe in secondo piano, o addirittura su nessun piano.
Un esempio. Il Federal Emergency Food and Shelter Program. Un programma che ha funzionato con successo e necessario per molti anni a Long Island, specificamente nella Suffolk County. La Suffolk è un suburbio più recente, ma Long Island è di prima generazione. La Suffolk County storicamente aveva diritto ad accedere al programma sin dall’inizio, per finanziare mense locali e rifugi, o altre attività di tipo non-profit a servizio di famiglie in periodi difficili.
In anni più recenti, il governo federale ha deciso che la Suffolk non aveva i requisiti, anche se il bisogno in realtà era aumentato. Perchè? Disoccupazione, povertà, e problema dei senza casa erano cresciuti, ma le medie nazionali erano cresciute più in fretta. E mentre alcune parti della Suffolk County avrebbero avuto i requisiti per i finanziamenti diretti, erano aggregate a zone più agiate. C’era East Hampton e c’era un altro posto, e le persone guardavano a quelle cifre in media e dicevano no, certamente non c’è bisogno di continuare ad aiutare la Suffolk County.
Abbiamo lavorato insieme all’amministrazione della Suffolk County insieme a Steve Levy e al suo gruppo, per progettare una nuova formula e spingere per le modifiche, e ci siamo riusciti, ma c’erano un governo locale molto capace e un concreto e crescente bisogno che è stato presentato molto bene ed efficacemente.
La soluzione, comunque, non si trova in nuove formule, ma in un nuovo impegno generale a livello federale. In primo luogo, dobbiamo fare di più per sostenere collaborazione e cooperazione, aiutare a definite una quantità maggiore di obiettivi condivisi. Dobbiamo promuovere buone pratiche. Quello che funziona nella Allegheny County può essere qualcosa che possiamo sperimentare anche nella Westchester County, ma dobbiamo avere una migliore condivisione di pratiche ed esperienze.
Dobbiamo appoggiare la smart growth. Earl Blumenauer è deputato alla camera eletto a Portland, Oregon, è stato molto impegnato sulla smart growth e ha sostenuto molte delle idee che si sono affermate in strategie locali. E dobbiamo fornire incentivi al cambiamento.
La Brookings ha collaborato a mettere in contatto il mio ufficio con molte comunità locali che stanno intraprendendo azioni decise per rafforzare i propri territori suburbani. La Montgomery County, Maryland, dove gli amministratori locali stanno lavorando in modo aggressivo sul tema della casa economica. La casa popolare è stata un tabù in moti dei primi suburbi. La gente non ha l’idea che ci sia bisogno di case popolari. Ma quando gli agenti di polizia o i vigili del fuoco, insegnanti e infermieri, gli anziani, non possono più permettersi di abitare nelle nostre comunità, si tratta di un problema che non possiamo più ignorare, a nostro rischio. Stiamo perdendo la forza lavoro che di fatto mantiene i suburbi in funzione, che offre i servizi che chi ci vive si aspetta di trovare.
C’è Arlington, Virginia, un insediamento coordinato attorno a nodi di trasporto pubblico, e qui voglio ringraziare il vicepresidente della contea Chris Zimmerman per il suo lavoro di collaborazione col mio ufficio. La Allegheny County in Pennsylvania ha proposto alcune possibilità di recupero urbanistico creative su zone degradate, so che il loro County Executive è qui e voglio ringraziare anche lui.
Un’altra grossa questione con cui dobbiamo misurarci, anche se politicamente rischiosa, è la frammentazione amministrativa. In alcune delle nostre contee a New York, abbiamo centinaia di giurisdizioni. Non sono sicura, Tom, ma credo che la cifra esatta delle giurisdizioni separate a Long Island sia 902, la grande maggioranza delle quali dotata di autonomia fiscale, e credo sia una cosa paragonabile ad altre situazioni. Ciò conduce alla frammentazione, alla ridondanza, alla concorrenza anziché alla cooperazione. Fondamentalmente spinge le persone ad agire con risultati a somma zero anziché lavorare insieme, progettare il modo per ingrandire la torta anziché stare attaccati alle fettine in cui è frammentata. Il First Suburbs Consortium fuori da Cleveland, Ohio, può servire da esempio. Le municipalità hanno unito le forze per sviluppare collettivamente soluzioni, raccogliere dati e pianificare a scala regionale.
Nel febbraio dello scorso anno ho organizzato un convegno a Long Island e abbiamo radunato esponenti locali come il County Executive Suozzi, rappresentanti delle attività non-profit, del mondo degli affari, consiglieri eletti, per discutere l’evoluzione dei primi suburbi. Abbiamo parlato di trasporti, sviluppo economico, case popolari, sprawl, tutela degli spazi aperti, rivitalizzazione dei centri urbani. Una delle grandi occasioni che non è stata ancora sfruttata sino in fondo come dovrebbe, è la rivitalizzazione dei nuclei urbani centrali dei primi suburbi. Le strutture già ci sono, le reti di trasporto vicine, i marciapiedi ci sono, i negozi non sono lontani, e invece di spostarsi sempre più lontano occupando zone verdi e aree agricole, tentiamo di incoraggiare le persone a guardare a quello che già abbiamo nei centri dei nostri primi suburbi. White Plains a New York nella Westchester County ha rivitalizzato il suo centro, e si tratta in gran parte di una vicenda positiva, con tante nuove case in costruzione, ma purtroppo si tratta di case piuttosto costose. Sempre più persone comperano appartamenti costosi in condomini di lusso nei grossi complessi che si stanno realizzando, e dunque dobbiamo equilibrare ciò assicurandoci che chi vive e lavora a White Plains, e non solo chi è attratto da quel tipo di vita, abbia un posto dove abitare.
Dobbiamo assicurarci che il governo federale affianchi alla retorica anche le risorse. Dobbiamo cercare i modi di reinventare i primi suburbi, e credo che le norme SCORE citate da Bruce siano uno sforzo da parte mia e del deputato King per mantenere aperto il dibattito. Chiaramente, i primi sobborghi non hanno i requisiti per accedere a programmi come il Renewal of Communities, che è stata l’ultima iniziativa nell’amministrazione di mio marito, se non proprio l’ultima, uno degli ultimi provvedimenti che ha firmato, e l’abbiamo usato a New York per intervenire in zone interne a Buffalo, Rochester, Niagara Falls e Schenectady, posti che hanno subito enormi pressioni economiche, e si tratta di un buon strumento per zone che necessitano di un intervento davvero radicale.
Ma non abbiamo niente di paragonabile in termini di assistenza preventiva per i primi sobborghi, ed essi hanno bisogno di aiuto prima che il degrado si sviluppi dalle zone che già ne stanno soffrendo. Attraverso parecchi dei nostri suburbi costosi a New York mentre vado a vedere o incontrare persone, e spesso si vedono interi isolati di case abbandonate, negozi con le vetrine inchiodate, scuole senza bambini, poi si arriva in posti che sembrano le scene delle serie televisive. Sono magnifici, e ovviamente ricchi. Si tratta di posti che esistono l’uno di fianco all’altro, ma potrebbero stare su pianeti diversi, e il cominciare a riconoscere alcuni dei bisogni che stanno letteralmente davanti alla nostra porta nei primi sobborghi, è una grande necessità politica.
Ho parlato della cosiddetta legge SCORE [ acronimo per Suburban Core Opportunity, Restoration, and Enhancement, n.d.T.] insieme a persone come Bruce Katz e Robert Fuentes e altri qui alla Brookings, e riconosco davvero la loro disponibilità a lavorare su questi temi perché vorrei segnare un punto fermo e continuare a far avanzare il dibattito, e sia Peter King da parte Repubblicana che Carolyn McCarthy, la mia collega Democratica da Long Island, stanno portando questa legge alla Camera dei deputati. Lo SCORE Act offre aiuti economici e incentivi fiscali alla rivitalizzazione dei quartieri nelle zone suburbane, a creare occasioni di lavoro, a realizzare case popolari, a sviluppare le imprese. La componente chiave della legge è la richiesta di un fondo da 250 milioni di dollari amministrato dallo Housing and Urban Development per concedere prestiti rivolti ai vecchi suburbi e finanziare progetti smart growth come quelli che ho citato, e di cui sentirete ancora tra pochi minuti.
La cosa nuova in questa proposta è che chiede la collaborazione a livello locale. Il progetto di legge chiede che tutti i soggetti coinvolti raggiungano preventivamente un consenso sul modo migliore di sviluppare l’economia locale. Richiede assemblee pubbliche e uno specifico piano che proponga strategie di tipo smart growth come aumentare la gamma di scelta per le case economiche, la tutela degli spazi aperti, delle zone agricole e di sensibilità ambientale, promuovere la creazione di nuove aree pubbliche condivise, edifici o intere zone mixed-use, incrementare e promuovere i trasporti pubblici compreso il miglioramento dell’accessibilità alle stazioni e fermate dell’autobus, creazione di insediamenti commerciali e a funzioni miste attorno ai nodi di trasporto, disponibilità per pedoni e ciclisti di più strade e percorsi. Alcuni di voi lo sanno, Earl Blumenauer lo sa, la sua immagine per la campagna è una grossa bicicletta di plastica, e tutti i suoi sostenitori portano orgogliosamente quel distintivo sul bavero perché sta a simboleggiare quello che propone. E vorrei toccare un tema collegato alla salute. Vorremmo che le persone dei primi suburbi, esattamente come lo vogliamo per chi sta in campagna o in città, iniziassero ad uscire, a cominciare di nuovo a muoversi, se non lo facciamo le prospettive per diabete, obesità crescente e tutte le malattie correlate e causate da queste condizioni, sono terribili da immaginare, quindi c’è anche un aspetto sanitario in quello che stiamo tentando di fare qui oggi.
Una quota delle entrate generate dalla crescita economica saranno inserite in un fondo di reinvestimento destinato allo sviluppo futuro, a riprodurre un ciclo entro il quale le persone possono accedere al prestito. Lo SCORE Act è quello che dovrebbero essere i programmi federali per lo sviluppo economico, investimenti iniziali e una traccia che fornisce alle comunità impulso e potere per aiutare sé stesse. L’amministrazione federale non deve e non può dettare priorità per ciascun caso, ma può essere di orientamento, di incentivo, e questo immaginiamo che diventi.
Abbiamo imparato molto da quanto accaduto negli anni ’60 e ’70 quando ci fu un’esplosione dei programmi di rinnovo urbano, e non vogliamo tornare a quel tipo di piani imposti alle persone. Vogliamo che siano le persone stesse ad elaborare ciò che vogliono per il proprio futuro. Collaboro da parecchi anni con una comunità di Long Island che ha avuto parecchie tensioni economiche, e abbiamo aspettato, aspettato fin che si è attraversato tutto il ciclo, a New Castle, New York, e questo è un perfetto esempio del tipo di collaborazione che speriamo lo SCORE Act portarà avanti.
Nel 2002, abitanti, imprese e proprietari immobiliari, organizzazioni civiche, esponenti sindacali, sacerdoti, anziani, proprietari della propria abitazione e chi vive in affitto, funzionari pubblici, giovani, tutti si sono messi insieme a costruire un piano per rivitalizzare New Castle. Cercavano aiuto e gli è stato detto tornate con un piano. Non chiedete semplicemente aiuto. Diteci cosa volete fare e assicuratevi che la gente abbia capito. L’idea era di ricostruire le vie principali di New Castle, creare una zona centrale a funzioni miste che fosse attraente per nuovi investimento commerciali e terziari, e siamo riusciti ad ottenere alcuni sostegni federali per attuare concretamente il piano, ma è il loro piano, e si sono tenute assemblee arroventate su cosa dovesse essere, poi lentamente si è arrivati a una conclusione. Mi conforta questo tipo di esempi, ed è quello che speriamo le persone verranno incentivate a fare sia da questo convegno, stimolando più collaborazione, che con lo SCORE Act come modello.
Dunque c’è molto lavoro da fare, ma ho buone speranze, sono ottimista. Le persone amano abitare dove vivono. Ci sono dei motivi per cui i suburbi hanno avuto una crescita esplosiva, e sappiamo che gli esurbi stanno seguendo in qualche modo le stesse orme. Fra 50 anni avranno di fronte i medesimi problemi. Quindi una parte del problema è andare oltre l’ostacolo, tirar fuori idee che possiamo cominciare ad attuare nel paese, creare buone pratiche, assicurarsi che i caratteri della vita suburbana così come molti di noi li ricordano, o certamente capiscono, che rappresentavano l’ American Dream, siano rinvigoriti, ricreati dove necessario, confermati là dove sono cominciati.
Quindi aspetto di lavorare con voi su questi problemi, perché mi sono davvero cari e vicini. Voglio vedere molte delle idee che proponete qui iniziare a dare dei frutti a livello locale, statale e federale, e mi impegno a sostenervi con continuità.
E concluderei dicendo che quando pensiamo ai suburbi, a quella specie di mitologia del suburbio, c’era un motivo per cui attraevano tanto gli americani, e lì si è costruita la mappa della seconda metà del XX secolo con la crescita e lo sviluppo della cosiddetta Baby Boom Generation. Le persone della mia generazione invecchiano, i suburbi dove abitano ora ne dovranno ospitare sempre di più. Possiamo farlo in un modo sensibile, pratico, oppure reattivo, ma dobbiamo fare qualcosa, perché ci sono troppi di noi che saranno dispersi altrove nelle comunità di riposo.
La gente vorrà stare nelle proprie comunità. Vorranno, anche, restare nelle proprie case. E non dobbiamo pensare solo alle strutture fisiche, ma anche a quelle sociali. Come possiamo fornire servizi a persone che amano il luogo dove vivono e vogliono restarci finché sono fisicamente e mentalmente in grado di farlo? Come sviluppiamo l’idea di quella che si chiama NORC, Naturally Occurring Retirement Community? Come possiamo farlo evitando di mettere un cartello che dice indesiderati alle giovani famiglie con figli? Come possono i sobborghi continuare a fornire un’istruzione di alta qualità mentre invecchiano e una quota crescente della popolazione – come io e Bill – non ha più figli che frequentano le scuole pubbliche?
Queste sono tutte questioni che dobbiamo sviluppare perché le abbiamo di fronte, e potremmo ignorarle a nostro rischio. Ma sono ottimista, e lo sono in modo particolare perché credo che il lavoro fatto qui alla Brookings abbia il potenziale di far aprire gli occhi a molti, a mettere le persone insieme a collaborare e cooperare sino a qualche soluzione caratteristicamente americana, al caratteristicamente americano modo di vivere. Con questo, vi saluto e spero di continuare a lavorare con voi. Molte grazie.
Nota: come i lettori avranno certamente intuito, l'occasione del convegno da cui è tratto questo discorso introduttivo è la presentazione di uno studio della Brookings Institution: One-Fifth of the Nation: A Comprehensive Guide to America's First Suburbs, di Robert Puentes e David Warren, allegato di seguito. La sintesi giornalistica del rapporto proposta dal New York Times èdisponibile qui su eddyburg_Mall; allegato scaricabile anche il disegno di legge SCORE (f.b.)
Titolo originale: Can't Smart Growth And Sprawl Just Get Along? Traduzione di Fabrizio Bottini
Scorriamo la lista delle cose che fanno aggrottare la fronte alle persone. I serial killer. Di sicuro i terremoti. La dissenteria. E, naturalmente, abitare ad alte densità.
Dimentichiamoci dell’articolo isolato sui giornali di tutto il paese che presenta entusiasticamente i “nuovi” complessi mixed-use che spuntano qui e là. Il fatto stesso che gli insediamenti ad alta densità e a funzioni miste compaiano sulla stampa – in altre parole il loro “fare notizia” – serve a mostrare come siano solo un elemento di novità. Sono nuovi perché sono diversi. E non entusiasmiamoci per i periodici istituzionali, i siti web o le newsletters per urbanisti che si concentrano su questi temi e li fanno diventare di moda. Sono cose lette soltanto da gente come noi.
Nonostante tutto questo parlarne, i progetti mixed-use e ad alta densità sono ancora l’equivalente, urbanisticamente parlando, del fenomeno da baraccone alla fiera di paese. Forse non a livello di “ freak-show, ma certo piuttosto lontani dal rappresentare una corrente principale. L’idea resta relegata nel campo del riuso urbano, spesso considerato soltanto come modo accettabile e sicuro per rivitalizzare aree sottoutilizzate e degradate.
La parte del leone, nel risentimento e diffidenza rispetto all’alta densità, tende ad essere attribuita ad una cultura NIMBY. Ma di recente a un incontro di urbanisti statali e regionali sul futuro della California, sono stato colpito dalla generale neutralità rispetto a questi tipi di progettazione, in particolare per la loro applicabilità agli interventi su aree non urbanizzate.
Parte del problema sta nel fatto che le questioni che ruotano attorno ai progetti mixed-use o ad alta densità sono state risucchiate in un vortice di denominazioni. Anziché semplicemente promuovere i molti benefici di questo tipo di interventi – ridurre gli spostamenti in auto, offrire varietà e prezzi inferiori per le abitazioni, migliorare la qualità dell’aria, dare più possibilità di spazi aperti e tutela paesistica, creare nuovi centri, solo per dirne alcuni – abbiamo passato molto tempo ad evitare di pronunciare “alta densità”, incorporando il concetto dentro a “progettazione orientata al trasporto pubblico”, “neotradizionalismo”, “città vivibili”, e poi “ new urbanism”, “ smart growth”, o “villaggi urbani”. Uno sforzo che ha prodotto risultati dubbi, se si considerano le varie interpretazioni che questi modi di dire hanno generato negli anni recenti.
In alcuni casi possiamo solo dire che è colpa nostra. Sono stato a più di una riunione dal titolo Smart Growth, solo per sentire relatori concentrati sull’uso delle linee di confine alla crescita urbana, per incanalarla o rallentarla. E se gli urbanisti non hanno strumenti per interpretare i termini, immaginiamoci cosa può fare in un colpo solo l’opinionista di un quotidiano a diffusione nazionale. George Will una volta ha scritto che “ Scopo della smart growth coordinata è di impedire alla masse di produrre liberamente alcuni effetti collaterali: disordine e anche volgarità. E l’innocuo concetto di pianificazione è quanto nasconde l’espressione governativa delle proprie preferenze e profezie - ovvero spesso arroganza ed errori – rese operanti”. Grandioso.
Troppo spesso urbanisti, cittadini e decisori sembrano considerare la smart growth un’opzione “tutto o niente” nelle discussioni sullo sviluppo. Nella loro forma più semplice, invece, i concetti smart growth dovrebbero essere tra i molti approcci possibili ed accettabili da parte delle amministrazioni locali per prevedere e organizzare lo sviluppo futuro. Nella zona occidentale della Riverside County, California, ad esempio, sappiamo dai sondaggi che l’85% dei potenziali acquirenti di case desidera una casa unifamiliare in un ambiente di tipo suburbano. Gli attuali modi di intervento nella regione corrispondono a questi desideri, e non c’è niente di sbagliato in ciò. Non c’è bisogno di usare la smart growth a cambiare le preferenze dell’85% che vuole decisamente il suburbio. Non sarebbe meglio concentrarsi su quel 15% degli intervistati che cerca qualcos’altro?
Urbanisti e amministratori devono trovare il modo di portare mixed-use e alte densità nella pratica corrente per rispondere a questi bisogni, sia nella ricostruzione delle aree esistenti, sia e specialmente nell’urbanizzazione di nuove. I progetti a funzioni miste e alte densità meritano uno spazio nelle nuove realizzazioni, e non devono essere considerate solo per rivitalizzare le parti di città abbandonate.
Titolo originale: Sprawling into controversy – Traduzione di Fabrizio Bottini
[Il professore e saggista Robert Bruegmann sfida il senso comune sostenendo che la suburbanizzazione strisciante non solo è fenomeno antichissimo, ma anche benefico]
Ad una prima occhiata Robert Bruegmann – accademico senza figli il cui appartamento in stile moderno sta in un quartiere borghese di Chicago ad alta densità – sembra proprio il tipo di persona che odia il suburbio. Il suoi simili e predecessori hanno, per decenni, gridato contro la crescita a bassa densità e auto-dipendente di centri commerciali e lottizzazioni residenziali.
Ma lui si sta invece affermando come improbabile sostenitore di quello che chiamiamo, almeno dagli anni ’50, lo “ sprawl”. Il suo nuovo libro controcorrente, Sprawl: A Compact History, ricostruisce una mappa della città diffusa a partire addirittura dalla Roma del primo secolo: e giudica questo processo non solo profondamente naturale, ma spesso benefico per le persone, le società, e addirittura le città.
Il Boston Globe ha definito Bruegmann “il Jane Jacobs dei suburbi” paragonandolo alla storica delle città che aveva celebrato la serendipity delle conigliere ad alta densità del Greenwich Village e di altri vecchi quartieri.
”Lo sprawl compare sia in Europa che in America” scrive, “e ora si può dire che si tratta del tipo di insediamento preferito ovunque nel mondo esista un determinato livello di benessere e dove i cittadini abbiano la possibilità di scegliere dove vivere”.
Le discussioni sullo sprawl e l’urbanizzazione tendono ad essere di tipo emotivo e caratterizzate da giudizi morali, al limite del moralismo. Un altro libro recente, Sprawl Kills: How Blandburbs Steal Your Time, Health and Money, di Joel S. Hirschhorn, da’ la colpa allo sprawl non solo per l’isolamento sociale, ma anche per gli incidenti stradali e le morti premature a causa di una vita sedentaria. Dall’altra parte della barricata, alcuni libertari spesso scherniscono gli avversari dello sprawl definendoli del “ liberal elitari”.
Nonostante Bruegmann – professore di Storia dell’arte, dell’architettura e dell’urbanistica alla Università dell’Illinois di Chicago – stia sostenendo una tesi ardua e anche controversa, la presenta col distacco dello storico.
Si è da sempre interessato di ambiente costruito e trasformazioni urbane. “Quando ho cominciato queste ricerche” racconta al telefono da Chicago, “Mi sono trovato in un dipartimento di storia dell’arte, perché è lì che si parla di architettura. Probabilmente non era il posto più logico per me, dato che quando mi ci sono trovato ho dovuto imparare molto sulle raffigurazioni della Natività o le Madonne nella Firenze del XV secolo”.
”Comunque questo mi ha dato qualcosa di valore incalcolabile: un vasto panorama di quello che si pensava sull’estetica negli ultimi duemila anni. E visto che la maggior parte degli scienziati sociali non hanno questa consapevolezza, spesso vengono ingannati da argomentazioni che sono in realtà estetiche e metafisiche, ma travestite in modo da apparire pragmatiche e obiettive”.
È uno storico del bello, che documenta qualcosa spesso considerato il culmine del brutto. E il problema, sostiene, è essenzialmente estetico. “I giudizi estetici non sono molto suscettibili di spiegazioni o giustificazioni. Ecco perché è tanto difficile parlarne”.
In parte ciò che stupisce di più nel libro è il suo contestare l’idea che lo sprawl sia qualcosa che nasce negli USA del dopoguerra: non solo una cosa cattiva, ma una cosa “americanamente cattiva” come ha scritto di recente il critico di architettura Witold Rybczynski in un articolo sulla rivista Slate, accusandolo di tutto, dalle cosiddette McMansions alla scomparsa della campagna, fino alla Guerra del Golfo determinata dal petrolio. “Come la pancia che cresce, si offre a tutto il mondo ad esempio della nostra dissipatezza e spreco nazionali”.
Ma il libro di Bruegmann è solidamente ancorato a una lezione di storia: che trova le radici delle Houston, Atlanta o Los Angeles dei nostri giorni, nella Roma Augustea e nella Londra della Restaurazione. L epersone dotate di mezzi, scrive, hanno sempre cercato di spostarsi a qualche distanza dai centri urbani, spesso in ville fuori dalle mura.
”Sono sicuro che si possano trovare anche nella città più antica mai fondata” sostiene. “Vivere in città è quasi sempre stato poco piacevole e salutare: certo non qualcosa di desiderabile. Stare nella Roma imperiale, affollata e buia, nei suoi squallidi e sporchi edifici ad appartamenti, era un incubo. La maggior parte delle città che ho studiato avevano una densità stritolante sino a circa il XVII secolo”.
Nel Medio Evo, le città dell’Europa continentale avevano mura che le proteggevano da guerre e invasioni, le mantenevano concentrate e segnavano una netta distinzione fra città propriamente detta e suburbium, come lo chiamavano i Romani, esterno.
Ma un guizzo della geografia insieme all’unità politica nazionale portò Londra a diventare la prima metropoli diffusa in modo massiccio. L’essere la Gran Bretagna circondata dal mare proteggeva la sua capitale dagli invasori stranieri, e così la città si estese oltre le mura medievali coi nobili e borghesi a costruire palazzi di campagna e gli un tempo remoti distretti occidentali a intrecciarsi nel tessuto urbano. Londra diventava la città più dinamica e popolosa d’Europa, crescendo orizzontalmente.
Come Londra, la cui crescita incontrollata fu denunciata degli intellettuali dell’epoca, anche Los Angeles è stata definita un attaccaticcio disastro diffuso costruito dall’uomo. Norman Mailer, per esempio, descriveva la “monotonia a colori pastello ... delle infinite distese di Los Angeles ... costruite da apparecchi televisivi che danno ordini agli uomini”.
Ma L.A. stava diventando una città densa, e ora l’area metropolitana con oltre 2.700 abitanti per chilometro quadrato, è la zona urbana più densa degli Stati Uniti (a differenza della gran parte delle città sulla costa orientale, a L.A. anche le fasce esterne sono molto compatte).
”Los Angeles è la cosa più incredibile” dice Bruegmann a proposito della sua crescita verticale a partire dagli anni ‘70. Da allora, sostiene, città come San Francisco, L.A. o San Diego sono diventate ciò che chiama “una versione iper del resto del paese”.
E anche se traffico inquinamento e prezzi delle case possono scoraggiare gli abitanti, Bruegmann insiste che “il problema di Los Angeles è un problema di successo: è diventata così attraente che tutti vogliono abitare qui”. E l’ha fatto, continua, senza pagare i prezzi estetici e ambientali di città più diffuse, come Atlanta o Houston.
Per contro, sostiene, le politiche “ smart growth” di Portland, Oregon, hanno avuto risultati ambigui. Portland è eccezionalmente vivibile, ma non ha ridotto il proprio sprawl e resta un centro a bassa densità. Appena la densità aumenta, dice, vanno su anche i prezzi delle case.
Una delle affermazioni più scioccanti è quella secondo cui la diffusione suburbana aiuterebbe le città e i loro centri: baste guardare al modo in cui poveri e immigrati sono usciti da Lower Manhattan, per esempio, solo per vedere la zona rinascere come ambiente di vita chic per artisti e giovani. Ciò non sarebbe accaduto, dice, se strade e case al di fuori delle aree centrali non avessero risucchiato popolazione, consentendo a questi quartieri di riprendersi.
Anche i più appassionati del libro di Bruegmann sono impalliditi all’idea.
”È certamente vero che la deindustrializzazione di alcuni centri città offre delle occasioni” ha scritto il giornalista Alan Ehrenhalt in una positiva recensione sulla rivista di settore Governing. “Ma per ogni quartiere della inner-city svuotato e recuperato, molti altri sono stati solo svuotati, e disperatamente aspettano ancora che inizi una nuova vita. L’abbandono è un prezzo spaventosamente alto, per la possibilità di ripartire. Non credo che le amministrazioni di Detroit o di St. Louis troveranno molto consolante la lunga prospettiva di storia urbana di Bruegmann”.
Ma Bruegmann indica il centro di L.A., dove nota come questo processo, nonostante gli ultimi anni difficili, stia dando frutti. Nutre qualche simpatia istintiva per i critici anti- sprawl, così come ne ha per gli ambientalisti. Ma ritiene che entrambi i gruppi abbiano una prospettiva un po’ troppo ristretta per quanto riguarda i veri costi del proprio programma.
”Cercare di fermare lo sprawl, significa beneficiare un determinato gruppo” dice. “Significa arrestare la trasformazione e rendere più difficile per le persone arrampicarsi sulla scala sociale dei ceti medi. In definitiva ha degli effetti sulla mobilità sociale ed economica”.
Lo sprawl può non essere inevitabile ma, dice, è “totalmente essenziale” al funzionamento di una società libera. “Va direttamente al cuore delle aspirazioni delle persone: quello che vogliono essere, come vogliono vivere”, racconta Bruegmann. “E interferire può essere molto, molto rischioso”.
Nota: qui il testo originale in inglese ; il libro di Bruegmann era già stato presentato in una rassegna del Boston Globe sulle "Virtù dello Sprawl" (f.b.)
Titolo originale: More of the young and hip fight urban urge– Traduzione di Fabrizio Bottini
I giovani non sposati di solito amano le folle delle grandi città, la vivace vita notturna, il rumoroso e frenetico ritmo dell’esistenza urbana. Lo amano così tanto da essere disponibili a pagare cari prezzi per alloggi stipati e vita in comune.
Per qualcuno, il prezzo sta diventando troppo caro. L’attrazione delle mille luci della grande città si sta attenuando, ora che i prezzi delle case hanno raggiunto quote esorbitanti. Qualcuno che è cresciuto fantasticando della vita nella “grande città” si sta adattando in qualche centro meno fascinoso, o addirittura nel suburbi.
”Per molti giovani, soprattutto quelli cresciuti nel nord-est, ci sono due sole città: New York e Boston”, dice Nick Lentino, 31 anni, originario del Massachusetts occidentale.
Ma dove abita, Lentino? Hartford, Connecticut.
È un bel po’ distante dall’ambiente cosmopolita, dal ritmo rapido di New York o Boston: ma molto più buon mercato. Lentino si è appena comprato un alloggio di una camera, da 60 mq in un condominio ad appartamenti degli anni ’50 ristrutturato a meno di un chilometro dal centro. Prezzo: 95.000 dollari.
”Devo essere onesto. In certi momenti mi piacerebbe, essere a Boston o a New York” racconta Lentino, assistente del direttore per le iscrizioni al Goodwin College di Hartford. Ma anche così, ogni volta che ha qualche attacco di rimpianto, va a New York per un fine settimana in visita da amici, i quali spendono il doppio di quanto lui paga di mutuo per affittare uno spazio che è la metà del suo.
”Non riesco a immaginare come la gente riesca: a) a risparmiare soldi oppure b) sopravvivere da uno stipendio all’altro per tutto l’anno” dice Lentino. “A Boston è lo stesso. I miei amici sono arrivati al punto di non potercela fare più appena i genitori hanno tagliato i rifornimenti”.
Alcune ricerche stanno cominciando a documentare le difficoltà di alloggio per i giovani a New York e in alte aree metropolitane ad alto numero di ottani. Il Center for an Urban Future, gruppo di ricerca di New York, e la Mt. Auburn Associates, società di consulenza per lo sviluppo economico, hanno reso noto recentemente un rapporto che conclude: “L’alto costo di spazi per lavoro e alloggi a New York ha spinto un numero crescente di artisti e lavoratori creativi a decidere che semplicemente non vale la pena di stare lì: in particolare quando altre città offrono incentivi per spostarsi”.
Il rapporto cita il progetto del sindaco Michael Bloomberg per nuovi 65.000 alloggi in tutta la città e il sostegno alla creazione di spazi per gruppi culturali.
Robin Keegan, co-autrice del rapporto, dice che New York può ancora attirare persone giovani e creative appena uscite dal college, ma il problema è dove andranno a stare. “Si arriva ad un punto in cui il costo della vita è davvero cruciale” sostiene.
Filadelfia, talvolta oggetto di battute per la sua mancanza di attrattiva se paragonata alla vicina New York, ora viene promossa da alcuni ex residenti della Grande Mela come “un nuovo quartiere”. Sta attirando piccole quantità di giovani del mondo artistico dalle zone costose di Manhattan e Brooklyn.
Le città diventano di tendenza, e costose
I giovani non hanno smesso di sciamare verso gioielli urbani come San Francisco, Chicago, Boston o New York. Uno studio recente condotto da CEOs for Cities, un gruppo con base a Chicago di leaders urbani, mostra come i giovani da 25 a 34 anni nelle 50 principali aree metropolitane siano tre volte superiori a quanti fossero negli anni ’80, entro cinque chilometri dal centro città. La ricerca si basa sul dati del censimento 2000, rilevati prima che lievitassero i prezzi immobiliari.
”Sono molto importanti per le città” dice Joe Cortright, economista di Portland, Oregon, che ha condotto la ricerca per CEO. “Sono il sogno demografico dei settori HR ( human resources) delle imprese in rapida crescita”.
Anche i residenti suburbani più radicati stanno riscoprendo le gioie della città. I costruttori convertono vecchie fabbriche e uffici in costosi loft, e i pensionati coi fondi più ricchi o le famiglie senza figli li prendono la volo. I quartieri urbani operai vengono ristrutturati e elevati di livello.
La rinascita della moda urbana fra le persone di tutte le età sta rendendo l’abitare in città meno alla portata di giovani e non agiati.
”Diciamocelo, le mille luci non brillano così tanto come quando questi erano centri terziari” dice William Frey, demografo alla Brookings Institution, un think tank. “La priorità assoluta è di avere una casa a prezzi accessibili”.
Ma molti elementi spingono nella direzione opposta.
• Il costo delle case. Il prezzo medio USA per un alloggio unifamiliare era in ottobre di 218.000 dollari, secondo la National Association of Realtors. È più del triplo di questa cifra nell’area di San Francisco ($ 721.900), più del doppio a New York ($ 461.100, senza contare Manhattan), e circa il doppio a Boston ($ 430.900). Sono in aumento anche i prezzi degli affitti.
Le persone che guadagnano un reddito medio possono permettersi solo il 2% delle case nell’area di Los Angeles e il 24% a Boston.
”Il peggior nemico di un vero rinascimento urbano è stata la spinta eccessiva in alto e la speculazione sul mercato delle zone centrali” afferma Joel Kotkin, ricercatore anziano alla New America Foundation, un think tank [piuttosto di destra e notoriamente pro- sprawl n.d.T.], autore di The City: A Global History. “Costruiscono questi condomini, e sono così supervalutati ... Molti di questi posti non sono certo costruiti per giovani”.
Laris Kreslins, che pubblica Arthur, rivista di arte, politica e cultura, sostiene di essersi indebitato per vivere a New York. Se ne è tornato a casa, nel seminterrato della abitazione dei genitori a Gaithersburg, Maryland, suburbio di Washington, D.C.
”È un modo per rimettermi in piedi” dice. Lavorava a tempo parziale in una scuola privata e gestiva la rivista. Poi insieme alla sua ragazza Kendra Gaeta hanno scoperto Filadelfia. Hanno comprato una casa da quattro camere all’inizio del 2005 vicino al Philadelphia Museum of Art. Ora gestiscono un sito web - movetophilly.com – che propone occasioni di alloggi e quartieri di tendenza.
”Tra le persone della mia età e ceto, quello che sento è che la maggior parte lavora molto, ma non riesce a risparmiare perché vive e paga affitti in posti come L.A. o New York” racconta Kreslins, 30 anni. “Si chiedono, 'Perché sto in affitto quando potrei spendere gli stessi soldi in un mutuo?'”
• Flessibilità nel lavoro. Le imprese che si collocano all’interno di mercati della casa difficili stanno in qualche modo rispondendo. Bill Trenchard, direttore generale di LiveOps, compagnia di teleservizi a Palo Alto, California, nell’area della baia di San Francisco, dice che vuole avere dipendenti in ogni parte degli USA.
”Cervelli, talenti, ovunque si trovino” dice. “È la vera trasformazione di atteggiamento rispetto a cinque anni fa, o anche solo due, quando pensavamo che ci fossero enormi vantaggi ad aver gente dentro l’edificio”.
La LiveOps ha dipendenti che stanno anche in Ohio. Si tratta tendenzialmente di dipendenti giovani, molti ventenni e trentenni.
Ci sono mercati della casa completamente fuori dalla realtà” sostiene Richard Florida, professor alla George Mason University di Fairfax, Virginia, e autore di The Rise of the Creative Class. “Non esiste più un punto di ingresso per i giovani”.
Florida ritiene che la creatività giochi un ruolo tanto importante nell’economia del 21° secolo che le città devono adattarsi ai bisogni del pensiero creativo: si tratti di artisti o di ingegneri. Uno dei modi è lasciare che la gente lavori dove può permettersi di vivere.
Elizabeth Howie, originaria di Seattle di 27 anni, era determinata a vivere una vita di città. Quale posto migliore di San Francisco? Laureata in scienze alla UCLA, ha trovato lavoro in una impresa di biotecnologie nella zona a sud di San Francisco. “Era molto importante abitare in città, essere un giovane in città ... vivere in una zona che aveva molti ristoranti, bar” racconta.
Era disposta a pagare il prezzo: 4.200 dollari al mese per l’affitto di un appartamento da tre camere che condivideva con altre due persone. Impiegava 30 minuti per andare al lavoro.
”Era pazzesco, ma sapevamo che si doveva pagare per vivere in città” ricorda la Howie.
Poi se ne andò, da San Francisco. Il mercato degli affitti ribassò con l’esplosione della bolla high-tech nel 2000, ma pagava ancora 1.100 dollari al mese, e condivideva lo spazio con altre due persone.
”Vedevo molti miei amici che non abitavano a San Francisco comperare casa” dice. “Io a San Francisco non poteva farlo” anche con un salario attorno ai 60.000 dollari. “Se avessi continuato ad abitare in città, non so se sarei stata in grado di comprare casa”.
La Howie lasciò il suo posto di account manager alla LiveOps è si spostò di 150 km sino a Sacramento, capitale dello stato e non particolarmente nota come luogo di tendenza. Ha comprato una casa da tre camere con giardino a 390.000 dollari. L’edificio è aumentato di valore per 50.000 dollari in sei mesi. Ci abita col suo compagno, che ha aperto un ristorante rivolto ai palati raffinati di Sacramento, quegli abitanti che sono fuggiti dagli alti prezzi della costa della California.
La LiveOps le ha ridato il lavoro. Opera da casa sua a Sacramento e va negli uffici di Palo Alto ogni settimana.
• Suburbi urbani. La maggior parte dei posti di lavoro si trova a più di 5 chilometri dai centri città, nei suburbi e negli esurbi. Con più gente a lavorare dove abita, i quartieri dormitorio iniziano ad assumere l’aria di città vive 24 ore al giorno. “Se lavori nella cintura esterna di Houston, abitare in centro diventa meno attraente” sostiene Kotkin.
Nei sobborghi più lontani di Washington, D.C., vicino al Dulles International Airport, imprese high-tech come America Online, Oracle e altre hanno creato migliaia di posti di lavoro per giovani qualificati.
”Ora esistono nel suburbio possibilità che non si sono mai verificate prima” dice Kotkin. “Chi è nomade nel mondo dell’alta tecnologia, di fatto si sposta da un suburbio all’altro”.
Condomini, appartamenti e case di città crescono attorno alle zone centrali nelle aree più lontane dei sobborghi di Washington; a Naperville in Illinois, a ovest di Chicago; o a Long Beach, la cittadina porto della California a sud di Los Angeles. Bar, ristoranti, caffè, cinema – ritrovi ubiqui vuoi per la bohéme che per lo high-tech – spuntano ovunque nel suburbio. Alcuni dei negozi alternativi o dell’usato più di tendenza sono ora nelle vecchie fasce commerciali suburbane, dove gli affitti sono più alla portata.
”Si vede qualche fettina di bohéme dappertutto: non solo nei sobborghi ma anche in cittadine di seconda o terza fascia, come a Utica (N.Y.)” dice Robert Lang, direttore del Metropolitan Institute alla Virginia Tech.
• Voglia di andarsene da casa. Jill Markward, 25 anni, è cresciuta a Long Island, all’ombra di Manhattan. Dopo il college, ha lavorato nelle ricerche di mercato, ma “Dovevo vivere ancora coi miei perché era tropo caro”.
La Markward ama l’ambiente artistico e di musei di New York, ma sapeva che avrebbe dovuto vivere dai suoi se fosse rimasta nell’area. Quando ha trovato un altro lavoro alla JetBlue Airways, si è trovata con due possibilità di collocazione: il John F. Kennedy International Airport, a 20 minuti da casa dei suoi, oppure il Fort Lauderdale-Hollywood International Airport.
Markward ha scelto la Florida. Ora condivide un appartamento di due camere con una coppia in un complesso vicino all’aeroporto con piscina, idromassaggio e palestra. La sua quota è di 400 dollari al mese.
”Se fossi a Long Island, potrei trovare un appartamento da due camere a 1.200 dollari, ma sarebbe nel seminterrato di qualcuno in un quartiere suburbano” racconta Markward. Sarebbe solo una stanza, senza lavatrice o asciugatrice”.
Un’indagine dei ricercatori della Stony Brook University di New York, ha rilevato che il 70% degli abitanti di Long Island con età dai 18 ai 34 anni stanno considerando la possibilità di andarsene, contro il 62% dello scorso anno. I motivi comprendono gli affitti costosi a causa della mancanza di appartamenti, e case tanto care da non poterne comprare una.
La percentuale di chi vive in famiglia è salita dal 31% dello scorso anno al 45% di ora.
”Certo non è New York City” racconta la Markward della sua nuova casa a Hollywood, Florida. “Ma posso guidare fino a Miami in 30 minuti. ... C’è meno traffico. Il tempo è magnifico”.
Nel nostro paese c’è un opera di cui si parla da alcune decine di anni: la Nuova Romea; la discussione periodicamente si accende sulla stampa locale dei vari territori interessati, che sono vasti. Quest’opera nasce per fornire un’alternativa all’attuale collegamento Ravenna-Mestre costituito dalla S.S. 309 Romea, una delle “peggiori” strade d’Italia; l’esigenza di questo collegamento viene recepito sia nel Piano Generale dei Trasporti che nel Piano Regionale. A Ravenna, fin dall’ apparire delle prime ipotesi, il progetto incontra l’opposizione, a dire la verità tiepida, di alcune Associazioni ambientaliste e di alcuni partiti (Rifondazione Comunista e Verdi) che contestano il tracciato di quella che, in quel momento, doveva essere una super strada. I motivi della temperatura bassa della contestazione erano dovuti a due motivazioni: la prima è legata all’incontestabile esigenza di un miglioramento delle connessioni fra il nostro territorio con l’area veneta, la seconda è dovuta al fatto che nel territorio ravennate l’opera coincide con i progetti di rifunzionalizzazione della viabilità statale esistente; i veri problemi si incontrano subito a Nord quando la strada esce dal corridoio della viabilità esistente andando ad interessare ambiti importanti dal punto di vista paesaggistico e naturalistico, in fregio alle valli di Comacchio.
Negli ultimi anni lo scenario ha subito una modificazione sostanziale dovuto al nuovo quadro legislativo nazionale, in particolare con l’introduzione dei Project Financing.Il CIPE in coincidenza con la pubblicazione della Legge Obiettivo (443/2001) approvò, con delibera 121 del 21 dicembre 2001, il programma delle infrastrutture strategiche che prevedeva, tra le altre opere, la realizzazione dell’autostrada E 55 Nuova Romea. Per la realizzazione di tale infrastruttura, il Governo individuò quale strumento attuatore dell’appalto il “project financing”. Si presentarono diversi soggetti interessati alla realizzazione dell’opera, ottenne la meglio il gruppo capitanato dall’ ineffabile On. Vito Bonsignore. Ma il nuovo “Corridoio di viabilità” raddoppia la lunghezza, diventa Orte-Mestre, in quanto gli viene appiccicato il tratto Orte-Ravenna, per il quale si propone l’adeguamento dell’attuale E45; e questo è dovuto alla sua nuova natura: il collegamento sarebbe interamente autostradadale, e quindi ovviamente a pedaggio. Il prolungamento diventa così fondamentale per far crescere gli introiti, così come è necessario che il sistema sia quanto più possibile “chiuso”, e quindi si riducono le relazioni con i territori che attraversa e si propongono nuovi tratti funzionali atti esclusivamente a garantire continuità al sistema chiuso, quale ad esempio la bretella Ovest di Ravenna o l’ulteriore sovrapposizione a tratti di viabilità di cui è già previsto l’adeguamento. Nonostante tutte queste attenzioni i flussi di traffico (riportati nel progetto) che potrebbero essere interessati dall’opera sono bassissimi, a dimostrazione che non è questo l’intervento che il territorio attende; ma al tempo stesso la dice lunga sulla logica economica dei “progetti di finanza” (in italiano rende meglio), modalità spacciate quali sostegni del mercato alle difficoltà della finanza pubblica, ma che in realtà spesso non sono altro che esempi di ulteriore sciacallaggio, con operazioni che possono trovare convenienze indipendentemente dall’utilità dell’opera e a prescindere dalla sua realizzazione, dove i costi e gli eventuali rischi economici dell’operazione vengono completamente garantiti dal Pubblico; alla faccia del mercato! Il caso del Ponte sullo Stretto è emblematico.
Riteniamo quindi utile il dibattito sul tema della Programmazione delle opere Pubbliche (al riguardo ci permettiamo di segnalare l’interessante l’articolo di Marco Ponti sul Sole24 ore del 9 agosto) così come crediamo ci si debba impegnare per cambiare la cultura che sta alla base della loro progettazione. Questo nostro intervento non ha la pretesa di affrontare questi temi ma di attirare attenzione su di una delle opere più vaste del nostro paese: attraversa 6 regioni, 12 Provincie, 49 Comuni; tutti legati, e vincolati, da un Progetto Preliminare che potrebbe essere approvato nei prossimi mesi, con una discussione che nel migliore dei casi si è risolta in qualche Assemblea pubblica organizzata dalle Amministrazioni interessate. Forse l’opera non ha l’appeal del Ponte sullo Stretto ma dovremmo cercare di evitare di trovarci a discutere quando si aprono i cantieri, come purtroppo spesso succede.
Gino Maioli, Assessore ai Trasporti della Provincia di Ravenna
Fabio Poggioli, Assessore all’Urbanistica del Comune di Ravenna
Titolo originale: As Israeli barrier goes up, views harden on all sides – Traduzione di Fabrizio Bottini
GERUSALEMME – Appena a nord della città, si può salire su un promontorio che guarda su parte della scura barriera di cemento che serpeggia verso nord lungo la West Bank.
Per ora, si interrompe bruscamente in una nebulosa di polvere a un improvvisato posto di blocco a qualche centinaio di metri da qui. Ma al crepuscolo, il suo percorso futuro è segnato da una collana di luci. Seguendo le strade percorse dagli israeliani, le luci voltano verso est, a tracciare i contorni di spoglie colline prima di arrotolarsi strettamente attorno all’insediamento di Kochav Yaakov. Il territorio circostante, abitato da palestinesi, è avvolto dall’oscurità.
Per chi si era immaginato la nuova barriera di sicurezza di Israele come una semplice linea su una mappa, l’immagine è illuminante.
Per certi aspetti, la progettata barriera di 725 chilometri è un modello di pianificazione ridotto ai termini più primitivi: il desiderio di distinguere il bianco dal nero, noi da loro. Concepita nel 2002 per proteggere Israele dai terroristi, è stata presentata come strumento necessario di autotutela. È stata anche attaccata in quanto formula di ghettizzazione e simbolo di colonialismo.
Ma su un piano fondamentale, è anche un oggetto di architettura. E la sua costruzione ha generato un dibattito architettonico acceso come qualunque altro in ambito politico.
Questo dibattito ha posto gli strateghi, che considerano le teorie architettoniche di sinistra degli anni ’60 come idee per la guerriglia urbana contemporanea, contro gli architetti che vedono la barriera come una perversione di quelle idee, insieme alle visioni utopiche del Modernismo che credeva di risolvere i problemi della società attraverso il cemento, l’acciaio e il vetro. Non si sta svolgendo solo nelle sale dell’accademia, ma nei circoli militari di Israele e America. E presenta un’immagine del muro come sistema complesso di spazi interrelati – alcuni materiali, altri invisibili – che è lontano dalla nostra normale percezione di confine internazionale.
Al centro di questo dibattito sta Eyal Weizman, architetto israeliano e attivista, figura discussa in madrepatria dal 2002, quando ha pubblicato un rapporto per un’organizzazione locale sui diritti umani, che essenzialmente accusa gli architetti di Israele di collaborare alla colonizzazione della West Bank.
Costruire non è mai un gesto neutro, ovviamente, e Weizman, 35 anni, non distingue fra architettura e politica. Per decenni, sottolinea, gli architetti di Israele si sono guadagnati da vivere in gran parte progettando gli insediamenti nei territori occupati. Molti ritenevano che il proprio lavoro fosse quello di realizzare spazi più funzionali, umani, esteticamente piacevoli. Ma così facendo, sostiene Weizman, essi rendevano tollerabile l’intollerabile, stendendo su una politica oppressiva un sottile strato di buon gusto.
”Abbiamo mostrato come il crimine sta nel tracciare la linea – nello stesso disegno – e non solo nel principio della realizzazione di un insediamento” dice Weizman.
Questo punto di vista ha toccato un nervo scoperto fra gli architetti, ma il suo vero obiettivo è la barriera: specialmente gli enormi lastroni di cemento che serpeggiano attraverso i densi quartieri urbani.
Snodandosi lungo un percorso che la Corte Suprema di Israele ha ordinato di ridisegnare molte volte, il muro è solo un elemento di un sistema elaborato di controllo che comprende tecniche avanzate di sorveglianza, a terra e nell’aria.
Weizman, che ora lavora a Londra, definisce la barriera “troppo pazzesca per funzionare: alla fine, cadrà sotto il suo stesso peso”.
Fra le risposte più provocatorie all’analisi di Weizman c’è quella di Shimon Navez, brigadiere generale in pensione dell’esercito israeliano. Navez, che si esprime compiaciuto nel tipo di gergo che si sente negli studi di architettura, dirige lo Operational Theory Research Institute della difesa israeliana, che addestra gli ufficiali superiori in tattiche di guerra innovative.
”Stavamo cercando nuove forme di pensiero che fossero adatte alle strategie militari” dice. “Gli americani cercavano soluzioni tecnologiche; noi volevamo capire il problema in profondità. Ci ha colpito il fatto che l’architettura potesse essere una metafora molto utile”.
Navez ha poca fiducia nella barriera, che definisce “troppo semplicistica, troppo banale” per riuscire allo scopo. “È una tragica regressione in termini di strategia” osserva. “Discende da una necessità, ma nel lungo periodo creerà molti danni: molto antagonismo. È una enorme violazione di spazio che sarà difficile da rimuovere”.
Navez parla di spazi “striati” e “levigati”: di un mondo formato da pareti solide e di un altro più fluido virtualmente privo di barriere. Nella sua visione, la West Bank è un esempio di spazio levigato.
È segregata in zone chiaramente definite, alcune di esse controllate dai militari israeliani e altre in modo congiunto con l’Autorità palestinese. Sorveglianza aerea e satellitare sono diventate ubique.
E una impresa israeliana sta sviluppando uno strumento di rilevazione termica portatile che consentirà ai soldati di individuare figure umane attraverso il cemento.
Navez non dirige la politica militare israeliana. Ma le sue opinioni hanno esercitato una certa influenza su un piccolo gruppo di generali che lui chiama i suoi “discepoli”.
Si è anche incontrato con funzionari del Pentagono e di ricerca per l’esercito americano, gruppi come la Rand, per discutere di guerriglia urbana in Medio Oriente, dove “sciamare” – il concetto dei soldati che si infiltrano nello spazio nemico come “nuvole” in gruppi piccoli a coordinamento variabile – è diventato uno slogan. In uno scenario del genere, la struttura di comando tradizionale non si applica. I soldati urbani comunicano direttamente l’uno con l’altro in un ambiente fluido e amorfo, liberi di reagire a qualunque situazione si presenti.
Se paragonata a questa visione distopica, una barriera di cemento eretta a separare israeliani da palestinesi appare come un’apparizione dall’antichità, una replica della barriera di legno grezzo costruita da Traiano per tener fuori le tribù bellicose: a separare la civiltà dalla barbarie.
E pure, secondo Weizman, si tratta semplicemente di due forme dello stesso male. Navez, dice, “sta semplicemente tentando di sostituire una forma di controllo con un’altra meno visibile”.
Il cosiddetto spazio levigato che compone la visione militare di Navez contrasta vivamente con l’esperienza dell’israeliano o palestinese medio. Nel quartiere di Abu Dis a Gerusalemme Est, per esempio, la vecchia strada per Gerico ora termina su una sezione di muro dipinta a bombolette con graffiti anti-israeliani e anti-americani. Lungo la barriera scorre una strada asfaltata di fresco che porta a un insediamento israeliano.
Sull’altro lato, lungo quello che era un tempo un oliveto si ammucchia la spazzatura. La disparità fra il lato palestinese e quello israeliano è rafforzata dal forte investimento pubblico in servizi nella parte israeliana, dalle fogne alle strade ben illuminate.
La segregazione forzata di due mondi che erano sino a tempi recenti intrecciati, ha prodotto alcune bizzarre soluzioni di progetto. Vicino a Betlemme, una sezione del muro devia bruscamente a seguire il lato di una strada che collega il territorio israeliano alla Tomba di Rachele, dove si dice sia sepolta la matriarca biblica. Alla fine, il muro devia ancora sino a seguire l’altro lato della strada, un tempo attiva striscia commerciale per turisti: ora la zona su entrambi i lati di questo corridoio è una città fantasma.
Gli israeliani che guidano da Gerusalemme a Betlemme ora utilizzano due gallerie e un ponte per passare attraverso l’ énclave palestinese di Beit Jala.
Sopra i tunnel, i militari stanno costruendo una barriera di cemento che divida Beit Jala in due, tagliando fuori molti coltivatori palestinesi dai propri campi.
”Se si accettano le premesse della separazione” dice Meron Benvenisti, ex vicesindaco di Gerusalemme “emergono idee che alla gente normale sembrano folli, ma qui cominciano ad apparire logiche”.
Nemmeno la Città Vecchia è esente da queste contorte strategie di pianificazione urbana. Per secoli, lo Haram al Sharif, o Monte dei Templi, è stato sacro ai musulmani come luogo della Cupola nella Roccia e della Moschea di Al Aksa, e agli ebrei come luogo dove un tempo sorgevano i loro antichi templi Primo e Secondo. Nel 2000, il Presidente Bill Clinton suggerì al Primo Ministro Ehud Barak che Israele potesse controllare l’area “sotto” Haram al Sharif, così che gli israeliani potessero scavare le rovine dell’ex Tempio di Salomone, mentre i palestinesi assumevano sovranità sulla superficie e il complesso delle moschee.
Il piano fu respinto, ma la logica che gli sta dietro – ovvero che Gerusalemme possa essere affettata per strati orizzontali – è molto viva. E minaccia di fare a pezzi la città.
Recentemente, i pianificatori israeliani hanno suggerito che fossero creati spazi pubblici per rimediare al sovraffollamento de quartiere musulmano nella Città Vecchia. Ma l’idea ha sollevato la preoccupazione che potesse trattarsi del primo passo verso la demolizione di alcuni dei vecchi edifici residenziali: un’eco della distruzione delle case musulmane dopo la ripresa del quartiere ebraico da parte di Israele nel 1967.
Alcuni critici sostengono che l’abbellimento della Città Vecchia fa parte di una strategia per mandar via i palestinesi da Gerusalemme. Certamente, comporterà la rimozione di parte delle caratteristiche architettoniche, cancellando strati della sua storia.
Ma forse la vittima più inattesa della barriera sarà lo spirito cosmopolita che da’ a Gerusalemme il suo senso più profondo, di luogo intermedio dove si realizza il dialogo quotidiano.
Le conseguenze vanno oltre la ghettizzazione di israeliani e palestinesi. Il muro distrugge lo spazio un tempo occupato dagli ambiti intermedi: chi rifiuta di dividere il mondo fra buoni e cattivi, civiltà e barbarie. Minaccia di tagliare i fili, già deboli, che potrebbero un giorno intrecciarsi in un’immagine più tollerante di coesistenza.
Titolo originale: Revelations of a curb-hopper -Traduzione per eddyburg_Mall di Fabrizio Bottini
Ora che è arrivata la primavera vado di più in bicicletta. Vorrei spiegare le mie abitudini da ciclista: sono un saltacordoli, ovvero uno che quando capita pedala sul marciapiede, o si muove contromano nei sensi unici: ho addirittura attraversato dei semafori rossi. Non mi piace fare tutte queste cose, ma sin quando ci sarà il traffico attuale a mettere in pericolo i ciclisti, farò tutto quello che devo per evitare di farmi stritolare sotto un camion perché un autista non mi riesce a vedere.
Nessun ciclista vuole spostarsi lungo i marciapiedi, si va lenti ed è pieno di ostacoli, ma quando l’alternativa è di essere feriti o magari ammazzati da un’auto, io vado dove devo andare. E per quelli che mi gridano “si chiama marcia-piede” lasciatemi dire questo: se avete mai camminato distrattamente, avete perso ogni diritto di irritarvi. Nove volte su dieci il ciclista sta sul marciapiede per evitare pericoli, mentre tutti i pedoni distratti si mettono in pericolo per puro opportunismo (devo ancora vederlo un ciclista che grida a un pedone nel mezzo della via “si chiama strada!”). Ho anche incrociato pedoni che mi stavano davanti sulla strada senza muoversi, cercando un varco nel traffico e obbligandomi a deviare e infilarmici dentro in profondità, solo per evitarli.
Un’altra ragione per cui faccio il saltacordoli è che io vado in bicicletta. C’è un atteggiamento sbagliato, secondo cui bicicletta e veicoli a motore sono la stessa cosa. Una persona in bici ha molto più in comune con un pedone che con un automobilista. Mettete qualcuno sopra una bicicletta, e avrete aumentato il suo peso forse di 20 chili, con una velocità massima di 30 chilometri l’ora e nessuna protezione aggiunta eccetto un piccolo casco. Mettete qualcuno in auto e ne avrete aumentato il peso di circa una tonnellata, a una velocità massima di 120 chilometri all’ora, avvolto in un guscio d’acciaio.
Non sto dicendo che i ciclisti possano viaggiare sul marciapiede come si spostano sulla strada; devono rispettare la gente che cammina. Ma non c’è motivo perché i pedoni trattino le biciclette come fossero un enorme pericolo; le statistiche più recenti che ho potuto trovare dicono che in media in Canada i veicoli uccidono un pedone al giorno. Le biciclette non vi uccidono, le macchine sì: rapidamente venendovi addosso, o lentamente avvelenandovi i polmoni.
I governi, nel frattempo, continuano a sostenere l’andare in bicicletta come un divertimento o un’alternativa economica, ma si rifiutano di costruire piste ciclabili adatte per renderlo più sicuro. É l’equivalente di dire alla gente di camminare nel traffico, però indossando un casco. Quello di cui un ciclista ha bisogno è una corsia continua separata dal traffico e dai pedoni. Vorrei tanto che le strisce segnaletiche fossero sufficienti, ma gli automobilisti o non le vedono, o non ci badano.
Purtroppo, il ciclismo riceve solo buone parole dai governi. Dunque ho pensato tre cose che i ciclisti possono fare per accendere un po’ di fuoco sotto la sedia dei politici:
Smettetela di chiamare la bicicletta un trasporto "alternativo". La fa suonare bizzarra e pericolosa. Da ora in avanti, riferirsi alla bici semplicemente come mezzo di trasporto, o trasporto non inquinante.
Indossate sempre un mascherina antismog. Non solo vi fa bene ai polmoni, ma è un ottimo promemoria per gli automobilisti di quanto sia cattiva l’aria. Fatevi una foto con la mascherina davanti a un monumento locale e mandatene una copia all’ufficio turismo della vostra città, avvisandoli che state diffondendo quella foto attraverso internet. Visto che le amministrazioni non ascoltano i ciclisti, magari il settore turistico li può incoraggiare a rendere l’andare in bici più sicuro (già che ci siete, compratevi una trombetta a bombola, fa pensare che siate un’automobile, e il rumore è l’unica arma d’offesa a disposizione dei ciclisti).
Molti ciclisti partecipano a un evento che si chiama Critical Mass, dove un grosso gruppo di persone va in bicicletta insieme. Gli automobilisti non la prendono sul serio, la vedono solo come n fastidio passeggero. Se vogliamo davvero far valutare cosa fanno, i ciclisti, dovremmo prendere in considerazione il trasformare Critical Mass da manifestazione in bici a manifestazione in auto. Il primo giorno lavorativo di ogni mese, ciascun ciclista va in città con l’auto, per mostrare all’amministrazione quante automobili per strada si evitano quando la gente prende la bici.
Un articolo sulla stampa che mi è capitato di leggere calcolava che ci sono più di 930.000 ciclisti nell’area metropolitana di Toronto. Se anche solo il 10% di questi volesse partecipare, ci sarebbero ancora ben 93.000 auto aggiunte al traffico: questo attirerebbe qualche attenzione. Ciò, spero, farebbe gridare chi si muove ogni giorno per lavoro, e i politici a quanto pare ascoltano di più loro che i ciclisti. Per rendere più esplicita la cosa, si potrebbe mettere un segnale sul finestrino dell’auto che dice "Quando farete una pista ciclabile prenderò la bicicletta".
Molta gente crede che i ciclisti costituiscano una piccola minoranza, e non meritino molta attenzione. Beh, siamo più di quanto si creda, e sin quando benzina, assicurazione e parcheggi continueranno ad aumentare di prezzo, i ranghi degli elettori ciclisti continueranno ad infittirsi.
Non sono anti-automobile, ne ho una; andare in bicicletta semplicemente è un modo più facile per muoversi nel mio quartiere. Solo, non credo di dover rischiare la vita solo per andare in giro, finché l’amministrazione non la renderà più sicura, e farò qualunque cosa necessaria ad evitare di essere aggiunto alla lista già troppo lunga di ciclisti uccisi nel traffico.
Solo una nota a margine: guidatori, quando un ciclista vi fissa dritti negli occhi non è un insulto, o un’aggressione. Stiamo solo guardandovi per vedere cosa volete fare. Se voi fate un errore nel traffico, sono spese; se lo fa un ciclista, sono molti dolori e magari la morte. E, pedoni: quando il ciclista suona il campanello, non vi sta minacciando, ma semplicemente vi fa sapere che è lì.
Titolo originale: Dubai World Central launched at Arabian Travel Market 2006 – Scelto e tradotto per eddyburg_Mall da Fabrizio Bottini
Dubai World Central – un enorme progetto di costruzioni, multi-fase, organizzato attorno al più grande aeroporto internazionale del mondo – è entrato nella storia dell’urbanistica quando è stato presentato il master plan definitivo e il marchio di questa città da 140 chilometri quadrati, quasi il doppio dell’Isola di Hong Kong, all’ Arabian Travel Market 2006.
Questo insediamento autosufficiente nell’area di Jebel Ali, circa 40 chilometri a sud del centro città di Dubai city, comprende il Dubai World Central International Airport (JXB) – che una volta completato sarà il più grande del mondo con una capacità equivalente a quella attuale dello O’Hare di Chicago e di Heathrow a Londra – e un gruppo di zone a funzioni speciali. Dubai World Central sarà una nuova città abitata da 750.000 persone: più degli attuali abitanti di Francoforte, poco meno di quelli di Stoccolma. Il piano generale, ora modificato, aveva il titolo provvisorio operativo di Jebel Ali Airport City. Prodotto scaturito dall’unione delle visioni di Sua Altezza lo Sceicco Generale Mohammed Bin Rashid Al Maktoum, e Sua Altezza lo Sceicco Ahmed Bin Saeed Al Maktoum, Dubai World Central è l’insediamento infrastrutturale strategicamente più importante mai lanciato dal lungimirante emirato. É pensato a sostegno dell’aviazione e del turismo di Dubai, delle sue necessità commerciali e logistiche fino al 2050, con costi per le sole strutture base che arriveranno a 33 miliardi di dollari.
“Dobbiamo costruire la storia e avvicinarci al futuro con passi decisi, non aspettare che il futuro venga a noi” ha commentato Sua Altezza lo Sceicco Mohammed.
Al cuore di Dubai World Central, il suo aeroporto internazionale (JXB): sarà il più grande hub mondiale per passeggeri e merci, con una prevista capacità per 12 milioni di tonnellate di carico l’anno, e oltre 120 milioni di passeggeri, in grado di gestire tutti gli aeromobili delle ultime generazioni, compreso il superjumbo A380.
“Con Dubai World Central stiamo prendendo il futuro nelle nostre mani” ha detto SA lo Sceicco Ahmed. “Sarà un marchio globale conosciuto per le sue superbe strutture e servizi, per lo stimolo alle economie locali e regionali, con effetti su miliardi di consumatori”.
“É la geografia a rendere possibile questa visione, con l’enorme disponibilità di spazi in aree molto adatte. I vantaggi di lungo termine di Dubai World Central per gli Emirati Arabi Uniti e l’intera regione sono fenomenali, e collocheranno l’emirato saldamente in “pole position” nella logistica regionale, nel turismo e nel commercio.
“Dubai World Central non solo sosterrà la crescita economica ma sarà un forte catalizzatore per la prossima ondata di interventi che ne faranno davvero uno hub commerciale, di scambi e logistica”.
Si crea anche la prima piattaforma logistica multimodale realmente integrate del mondo, con tutti I mezzi di trasporto e servizi ad alto valore aggiunto, come fabbriche di produzione e assemblaggio in una zona libera a orientamento specializzato costituita da Dubai Logistics City, dall’aeroporto internazionale e dal porto di Jebel Ali.
Altre componenti di Dubai World Central sono: la Città Residenziale, che offrirà un insieme di abitazioni di alta qualità sia in proprietà che in affitto, e le cui fasi di marketing inizieranno subito dopo la fine dell’Arabian Travel Market; la Città Commerciale, con centinaia di torri a uffici, un sistema di campi da golf, e Enterprise Park.
L’intero complesso di Dubai World Central sarà attrezzato con le ultime soluzioni tecnologiche per quanto riguarda la sicurezza, i trasporti, il servizio alla clientela. Un sistema interno di metropolitana leggera collegherà i vari punti di Dubai World Central, che è servita anche dalla Dubai Light Rail Network (Dubai Metro).
“Sarà una ‘ smart city’: vessillo della vita e del lavoro nel futuro. Col nostro approccio smart city dimostriamo il nostro impegno ad offrire una proposta di estrema avanguardia che sposta in avanti il concetto di insediamento aeroportuale metropolitano” ha aggiunto lo Sceicco Ahmed.
Dubai World Central International Airport:
Questa nuova struttura sarà dieci volte più grande degli attuali aeroporto internazionale e Cargo Villane di Dubai messi insieme. La capacità passeggeri di oltre 120 milioni l’anno si può valutare paragonandola all’aeroporto più trafficato del mondo, di Atlanta, che nelle ultime statistiche rese disponibili, del 2004, ne ha gestiti 83,5 milioni.
Ci saranno sei piste parallele, tutte di 4,5 km di lunghezza, separate da un minimo di 800 metri, con una torre di controllo da 92 metri di altezza – la più alta del Medio Oriente – la cui idea progettuale del “fiore” diventerà il simbolo aeronautico della regione. Questa torre di controllo verrà attrezzata con le tecnologie più avanzate nel campo della navigazione. La costruzione inizierà nell’ottobre di quest’anno.
Ci saranno due terminal di lusso: il primo destinato ai servizi delle linee del Gruppo degli Emirati, il secondo a gestire gli altri operatori regionali e internazionali. Un terzo terminal, ad alta funzionalità, è destinato ai viaggi charter a basso costo. Altre strutture dedicate sono destinate agli operatori delle compagnie.
L’aeroporto potrà vantare anche alberghi e centri commerciali, strutture di servizio e manutenzione fra le più avanzate, che creeranno un sistema di hub regionale in grado di eseguire controlli di classe A, B e C su tutti gli aeromobili, compreso l’A380.
JXB sarà collegato all’attuale già premiato Dubai International Airport (DXB) attraverso una ferrovia veloce, e poi anche servito dalla Dubai Light Railway Network (Dubai Metro). Saranno resi disponibili circa 100.000 posti a parcheggio per automobili, e servizi di autonoleggio.
La Città della Logistica:
Questa componente chiave nella proposta unica di Dubai per una logistica multimodale rappresenta la Fase 1 di Dubai World Central. É qualificata come indiscutibile hub logistico regionale con un ambito geografico di utenza di due miliardi di persone fra Medio Oriente, Subcontinente indiano, Africa e CSI: tutti entro le 3-4 ore di volo da Dubai.
Disposta su 25 chilometri quadrati, Dubai Logistics City è progettata per gestire a pieno regime 12 milioni di tonnellate di merci trasportate per via aerea l’anno articolate su 16 terminal.
I lavori di realizzazione del progetto, che entrerà in funzione alla fine del prossimo anno, isono già in corso. Stanno avanzando le opera della prima pista CAT III da 4 km, adatta a tutte le condizioni climatiche per gli atterraggi automatici.
Dubai Logistics City avrà anche una propria area destinata alle attività aeronautiche, una zona per imprese specializzate nelle forniture con piattaforme ad accesso diretto e connesso villaggio per gli addetti in grado di dare alloggio a 40.000 lavoratori in ambiente progettato allo scopo. Questo villaggio, su un’are edificata di 350.000 metri quadrati, sarà realizzato e gestito da Dubai Logistics City e fisserà un nuovo primato nel campo degli alloggi per i lavoratori. A Dubai Logistics City ci saranno anche palazzo per uffici modernissimi, terreni disponibili per attività industriali, imprese commerciali, di distribuzione, servizi alla logistica e spedizionieri, strutture comuni, come magazzini e moderni macchinari per la movimentazione merci su aeromobili.
Per tutte le spedizioni, verrà introdotto entro l’anno un servizio doganale e-customs.
La Città Residenziale:
Per poter essere edificati in tre fasi successive a coprire circa 7,16 milioni di metri quadrati, i lotti in vendita della Città Residenziale devono essere offerti sul mercato e poi urbanizzati secondo le line del piano generale. Si prevedono 250.000 abitanti nella “ city” che darà lavoro a 20.000 persone. La città sarà servita da Dubai Metro oltre che da una propria rete stradale integrata.
Ci saranno tre alberghi – cinque, quattro e tre stele – e un centro commerciale.
Le case saranno una miscela di ville su due piani e case ad appartamenti di lusso in fabbricati sino a 24 piani di altezza. Il piano generale ha destinato un’area agli alloggi dei lavoratori che sarà gestita direttamente da Dubai World Central per garantirne la qualità.
I terreni saranno proposti sul mercato immediatamente dopo la fine dell’Arabian Travel Market.
La Città Residenziale sarà dotata di una gamma completa di servizi urbani comprese le scuole.
Il lavori di costruzione inizieranno alla fine dell’anno.
La Città Commerciale:
Questa “città” sarà sviluppata in cinque fasi successive, sino a coprire 14,53 milioni di metri quadrati. Pensata come il polo centrale d’affari e finanziario di Dubai World Central, la città commerciale propone più di 850 torri, da 6 a 75 piani di altezza: saranno occupate da varie attività con un’occupazione prevista di circa 130.000 addetti, e offriranno abitazioni di superlusso. Nel piano generale è compreso anche un gruppo di ville di lusso.
I complessi più sviluppati in altezza, si collocheranno sul perimetro della città, con veduta sul canale di Nakheel. La ‘ city’ vanta anche 25 alberghi che vanno da quelli di lusso, attraverso i cinque stelle, alle quattro e tre. Le superfici di terreno saranno vendute a grandi operatori che costruiranno secondo il piano generale approvato per Dubai World Central e le linee guida progettuali.
L’area per il Golf:
Il piano comprende anche due campi da golf da 18 buche da offrire sul mercato, ciascuno con un proprio caratteristico stile, da quello desertico a quello lussureggiante tropicale. Oltre ai campi veri e propri, ci saranno ampie strutture di servizio, strade di accesso e attraversamento, spazi verdi, un club di lusso con ristoranti e negozio per accessori sportivi.
Attorno ai campi 2.500 abitazioni in vendita, dalle ville su due piani a blocchi ad appartamenti da 24 piani, il tutto a circa sei chilometri dall’aeroporto sul canale Nakheel.
Gli spazi per il golf offrono anche un albergo di alto livello completo di centro benessere con 150 camere. La costruzione di questa sezione inizierà alla fine del 2008, e richiederà tre anni per il completamento.
Enterprise Park:
Diventerà il principale centro della regione per quanto riguarda le produzioni ad alta tecnologia, e la formazione tecnologica e scientifica.
Nota: sugli altri progetti per Dubai si vedano i vari articoli di Irene Hell ; Rob Orchard e Marcus Webb sull’incredibile pista da sci nel deserto ; il reportage di Hassan M. Fattah sulle spaventose condizioni dei lavoratori immigrati asiatici ; e infine l’agghiacciante panoramica generale di Mike Davis (f.b.)
Titolo originale: Mapled Crusaders – Traduzione per Eddyburg Mall di Fabrizio Bottini
Oltre un gruppo di portali in granito a Rumford, Maine, c’è una città perduta fra aceri argentati e querce, appena oltre il fiume di fronte a una grossa cartiera.
Si chiama Strathglass Park, e rappresenta le vestigia di un esperimento di benevolenza aziendale. Progettato nel 1904 dal famoso architetto Cass Gilbert, più tardi autore del Woolworth Building a Manhattan e della Corte Suprema a Washington, questo gruppo di regali case in mattoni e pensioni per lavoratori fu costruito da un magnate delle cartiere per 266 lavoratori e le loro famiglie.
Il complesso propone uno sguardo su un passato degno del Mago di Oz, quando la foresta significava ricchezza. Gli impianti di lavorazione del New England erano lontani avamposti di un impero economico: pulsanti di attività, sfavillanti di luci nella notte, che riversavano denaro sulle comunità circostanti come nobili ubriachi.
C’era bisogno di operai delle cartiere, e venivano pagati magnificamente. I taglialegna conducevano una vita comoda. Alcune imprese offrivano ai dipendenti prestiti a tassi agevolati, si costruivano biblioteche e altre opere pubbliche, si fondavano società di mutuo soccorso per aiutare i bisognosi. Sino agli anni ’60 e ‘70, normalmente i lavoratori delle cartiere possedevano seconde case estive sulla sponda del lago, costruite su lotti affittati per cifre irrisorie dai datori di lavoro.
Quell’epoca è passata. Oggi, gli impianti più vecchi chiudono a causa della forte concorrenza di strutture più moderne ed efficienti all’estero, specialmente in paesi dove ci sono poche norme ambientali. Intanto anche i lavori nel bosco si sono fatti più meccanizzati e con uso meno intenso di manodopera: se il prodotto del bosco è rimasto quasi costante, l’occupazione è precipitata.
Fra il 1997 e il 2002 in Maine, il lavoro nel settore forestale è diminuito del 23%, con perdita di oltre 5.000 posti di lavoro. La prognosi per le contee più remote del New England, che un tempo si alimentavano del succo di foresta, non è favorevole: un abitante su quattro della Somerset County in Maine e uno su cinque della Washington County ora vivono in povertà. Le comunità ai margini delle zone di raccolta legname del New England sono distrutte.
Quello che conta di più, in tutta la regione i terreni sono lottizzati e venduti, una cosa vista da molti come un colpo la cuore della vecchia economia. Gruppi di investimento e famiglie facoltose si sono comprati il proprio feudo – qui li chiamano “quelli che si comprano un regno” – e i vecchi operatori del settore del legno stanno abbandonando le attività. Un ettaro su quattro nel Maine ha cambiato di mano negli ultimi dieci anni. A livello nazionale, circa 12 milioni di ettari, ovvero metà delle foreste private per usi industriali, sono stati venduti a partire dal 1996.
Ma dove va a finire, l’economia del legname? Sempre più, le comunità reclamano a sé i propri boschi, con gli abitanti e le amministrazioni che si mettono insieme per acquistare appezzamenti a due scopi: proteggere il territorio e stimolare l’economia locale. In alcuni casi, le terre sono lasciate disponibile specificamente per gli abitanti a basso reddito. Per dirla col promotore delle foreste sostenibili David Brynn, “In New England sta succedendo qualcosa di interessante”.
Questa terra è la nostra terra
Quando sono stati messi in vendita 50 ettari di bosco sul fianco di una collina nelle zone rurali del Vermont occidentale lo scorso anno, si sono presentati 60 potenziali acquirenti in tre differenti occasioni per riuscire ad averne un pezzetto. Tutto questo clamore per l’area non sorprende: quegli appezzamenti, sulla Little Hogback Mountain, sono pieni di magnifiche querce rosse, faggi, aceri, con un sentiero che serpeggia fino a una cima rocciosa con panorama sulla valle. Ed è entrato sul mercato nel mezzo di una piccola corsa alle terre, coi prezzi localmente in lievitazione, come del resto anche in New England.
Quello che sorprende nel caso particolare è questo: gli interessati stavano esaminando la possibilità di acquistare insieme ad altri. Se tutto va come previsto, non una ma 16 persone saranno proprietarie di tutto. Non singoli lotti per seconde case, ma una foresta comune, da mantenere indivisa e inedificata. Gli acquirenti, ciascuno dei quali pagherà una quota di 3.000 dollari, avranno accesso ai terreni per legna da ardere e tempo libero. Ogni 10-15 sarà effettuato un taglio a usi commerciali, i cui proventi sosterranno la gestione del bosco e le tasse sulla proprietà.
”Il metodo democratico di suddividere i terreni in piccoli appezzamenti così che chiunque potesse permettersene un po’, non funzionava” dice Deb Brighton. Abitante dell’area ed ex funzionaria dello stato per la conservazione, ha collaborato con un piccolo gruppo – che comprende Vermont Land Trust e Vermont Family Forests, gruppo senza fini di lucro dedicato al mantenimento delle condizioni attuali e di salute dei boschi da legname – per gestire la questione. “Era meglio organizzare il tutto come un’unica cosa, e metterla nelle mani di membri della comunità vivono e lavorano qui, ma che hanno sempre meno possibilità di possedere terre”.
Nel suo periodo allo Housing and Conservation Board del Vermont, la Brighton ha visto come vasti tratti di foreste nello stato fossero sempre più suddivisi, mentre i residenti di lunga data a basso reddito non potevano permettersi di acquistare terreni e mantenerli ad uso produttivo. A questo scopo, metà delle quote del progetto Hogback sono riservate a chi ha un reddito familiare inferiore a quello medio della contea di 59.000 dollari l’anno; le persone di questa categoria sono anche abilitate a un prestito agevolato che copre metà del prezzo d’acquisto. Il resto dei lotti viene ceduto a chi ha meno del doppio del reddito medio: in altre parole, non possono fare richiesta “quelli che si comprano un regno”.
La Brighton e i suoi colleghi ora stanno aspettando una decisione dell’ufficio imposte che fissi quanto saranno tassati i partecipanti, prima di concludere il progetto. Ma la zona, ora di proprietà del Vermont Land Trust, sta già dando il suo contributo alla comunità. La scorsa estate sono stati tagliati da operatori locali circa 6.300 board feet [misura di volume del legname di complicatissima conversione n.d.T.] di legname, poi lavorato negli impianti di Vermont e Quebec. Ora se ne stanno preparando altri 40.000, tra questa e altre zone vicine. I bancali riportano il marchio Vermont Family Forests, così chi acquista sa che si tratta di prodotto locale, da un bosco certificatamente gestito in modo sostenibile.
Il caso Hogback è solo un esempio di una tendenza in crescita. Negli ultimi tempi il progetto più grosso nella regione è stato l’acquisto nel maggio 2005 di 10.000 ettari di bosco comunitario da parte del Downeast Lakes Land Trust, che esiste da cinque anni, insieme alla New England Forestry Foundation. La zona è a ovest del remoto villaggio di Grand Lake Stream, e gli acquirenti hanno richiesto una certificazione del Forest Stewardship Council. Nel bosco è stata individuata una riserva ecologica di 1.500 ettari, e altri 120.000 saranno tutelati tramite procedura di conservation easement.Centinaia di chilometri di sponde a bosco saranno gestite per usi di tempo libero, con l’obiettivo di portare qui turisti a sostenere attività locali, come una serie di rifugi storici. Il bosco è visto come motore economico per mantenere vitale la comunità.
Altre acquisizioni comprendono l’acquisto da parte di Randolph, N.H., di una superficie a bosco di 4.000 ettari di cui si temeva l’edificazione. E lo scorso anno, è stata comprata la 13 Mile Woods, una foresta comunitaria di 2.500 ettari, da parte della cittadina di Errol, N.H., con l’assistenza del Trust for Public Land. Le aree rurali del New England, di fatto, sono diventate un laboratorio per grandi esperimenti di costruzione di un rapporto fra la foresta e le sue comunità.
Da cosa nasce cosa
”Il movimento per le foreste comuni sta crescendo rapidamente a livello nazionale” dice Jeffrey Campbell, a capo della Community Forestry Initiative della Fondazione Ford. “Le persone capiscono che questo offre un’occasione di sviluppo sociale ed economico”.
Il termine “ Community forestry” è una definizione pigliatutto. Significa una cosa in Messico, un’altra in Svizzera, un’altra ancora in Nepal. Negli Stati Uniti, cambia da una costa all’altra, e in tutti i territori che ci stanno in mezzo. Nel nord-ovest del Pacifico, dove il governo federale possiede circa la metà dei terreni, la definizione riguarda un processo all’interno del quale chi taglia il legname, ambientalisti e altri si mettono insieme per costruire un’idea di gestione dei terreni di proprietà pubblica.
Nei sei stati del New England, che messi tutti insieme potrebbero essere contenuti in quello di Washington, solo il 5% dei terreni sono di proprietà del governo federale. Proprietari privati di tipo industriale, investment trusts, scuole, amministrazioni locali, e stati, possiedono e gestiscono il resto. Quindi forestazione comunitaria significa qualcosa di diverso, in questa scacchiera ineguale di proprietà, e gli approcci sono vari tanto quanto gli ecosistemi e le comunità da cui nascono.
In Vermont, per esempio, si calcola che 120 delle 251 municipalità possiedano in totale 140 foreste. Questi “boschi della città” sono una tradizione del New England: all’inizio del XX secolo, tutti e sei gli stati hanno approvato leggi di istituzione di queste foreste, acquisite attraverso donazioni, comprate, o sequestrate quando non venivano pagate le imposte. La maggior parte sono state riservate a una miscela di raccolta legname e tempo libero.
Pochi hanno prestato attenzione a queste sacche di spazio per oltre cinquant’anni: semplicemente, lo sfruttamento locale è andato fuori uso. Ma le cose gradualmente sono cambiate, grazie sia all’interesse crescente per le potenzialità economiche, che – nel caso del Vermont – al the Vermont Town Forest Project, un’idea emersa due anni fa da un convegno di gruppi ambientalisti.
Jad Daley, responsabile della campgna per la Northern Forest Alliance, è a capo del progetto per i boschi comunitari e spera che la cosa produca una “impollinazione incrociata”: dimostrando come le comunità possano trarre benefici dai boschi, e incoraggiando chi non ne ha ad acquisirli.
Daley cita la piccola Goshen, Vermont, come esempio. La cittadina possiede 400 ettari di bosco da vent’anni, e ha contrattato coi taglialegna locali una raccolta selettiva. Sinora, la foresta ha prodotto oltre un quarto di milione di dollari di reddito, utilizzati per finanziare lavori stradali, tra l’altro. La cosa, a sua volta, contribuisce a ridurre la pressione delle tasse sugli immobili (e negli anni ha anche offerto vari benefici diversi come una piccola quantità di sciroppo d’acero regalata da un produttore a ciascun abitante in cambio dell’uso del bosco).
Altre comunità, come Stowe, Vermont, hanno deciso che i propri boschi sono più adatti ad essere gestiti per il tempo libero, ad attirare i dollari dei turisti. Altre ancora hanno preferito un approccio multiplo. Un comitato di abitanti di Lincoln, Vermont, dopo aver esaminato varie opzioni, ha deciso di raccogliere il legname in uno dei due boschi della cittadina, e destinare l’altro a riserva ecologica.
Daley afferma che il dibattito su cosa fare dei pezzi di terreno spesso è altrettanto importante del risultato finale: “Alla fin fine, i progetti diversi sono tanti quanti le 251 cittadine del Vermont”.
Ma tutti condividono un’unica idea forte. “Una foresta comunitaria significa in linea generale [un posto] dove le persone si mettono insieme, unite dal territorio di appartenenza o dagli interessi, e vengono coinvolte nel modo in cui gli alberi vengono gestiti per il bene di tutti” dice Ajit Krishnaswamy, direttore della rete nazionale di operatori forestali National Community Forestry Center. “E non si tratta necessariamente di aspetti economici; può riguardare anche benefici culturali e sociali”.
”Proprio come con le comunità, non esistono due boschi identici: è diversa la storia, sono diversi i terreni” dice Shanna Ratner, ex esponente di NCFC ora presidente della Yellow Wood Associates, che offre consulenza alle comunità rurali per lo sviluppo economico. “Man mano le persone si avvicinano a vedere la verità – ovvero quanto è possibile trarre dal bosco senza danneggiarlo – vedono anche che ci sono moltissime possibilità”.
Il tesoro delle colline
In una prospettiva ambientalista, città e colline della vecchia economia dei boschi ricordano più il regno di Mordor che quello di Oz. La raccolta di legname su larga scala ha sfruttato ed estirpato i boschi per alimentare gli impianti; la foresta è caduta preda dell’erosione e delle monocolture. Le cartiere hanno lasciato i fiumi incrostati di scorie e sempre più poveri di vita. Negli anni, a molti di quei danni è stato rimediato. Ma l’atteggiamento che hanno creato è più lento da cambiare.
Brynn, anche direttore di Green Forestry Education Initiative all’università del Vermont, ha fondato Vermont Family Forests. Racconta che l’organizzazione tenta di ribaltare un paradigma superato. Il vecchio approccio era di trarre dal bosco prodotti del legno, trovare un mercato, e preoccuparsi della foresta, eventualmente, solo dopo. “Quello che stiamo tentando di fare è rendere consapevoli le persone innanzitutto del benessere del bosco” dice Brynn. “Senza una sana ecologia del bosco, non c’è foresta sana, né economia sana. Significa vendere più di quanto possa offrire”.
I sostenitori delle foreste comunitarie lavorano per aumentare il valore di quel legname, e per assicurare che il valore resti alle comunità. Nel 2000, Vermont Family Forests ha collaborato col Middlebury College ad offrire legname a denominazione di origine locale certificata per un progetto edilizio da 47 milioni di dollari. Gli architetti opponevano resistenza, perché quanto offerto dai boschi locali non era perfetto quanto desideravano. Ma alla fine i progettisti hanno adottato i materiali locali e le loro imperfezioni.
Più a sud, la New England Forestry Foundation spera di contribuire a rinvigorire le stanceh economie del Massachusetts centro-settentrionale sostenendo il progetto North Quabbin Woods, che sta tentando di mettere insieme nove comunità dell’area e i proprietari (circa il 60% delle superfici è privato) per la sostenibilità dei boschi. Il programma comprende la formazione di guide per le attività all’aperto e la gestione di una linea commerciale che esiste da due anni a Orange, Massachusetts, dove una ventina di artigiani e artisti offrono prodotti ricavati dal bosco, come articoli per la casa e ornamentali.
Sono stati lanciati altri negozi che promuovono i prodotti dei boschi locali, da parte di gruppi non-profit a Farmington, Maine, e Stowe, Vermont. È un utile primo passo per evidenziare il rapporto di dipendenza fra città e albero, per dimostrare come gli abitanti del posto possano trarre beneficio dal controllo dei boschi. “La questione non è quanti tronchi possiamo cavare dalla foresta, ma quanti dollari si guadagnano da ciascun tronco” ha sottolineato Spencer Phillips della The Wilderness Society a un convegno dello scorso anno in Maine sulle foreste comunitarie.
Le community forests probabilmente non basteranno a costruire un utopico paradiso dei lavoratori. E le iniziative in corso – come lo sviluppo del mercato per il legname locale – non si evolvono tanto velocemente come vorrebbero molti. Ma non bisogna mai sottostimare un’idea potente. Qualcuno all’interno del movimento paragona i boschi comunitari alle produzioni agricole locali. Dopo anni di prepotenze, il pubblico sta lentamente ma costantemente prestando sempre più attenzione alla provenienza di quello che mangia. I fans delle foreste comunitarie dicono che può succedere la medesima cosa col legno.
”Il messaggio funziona in sede locale” dice Brynn. “È l’idea complessiva di avere un prodotto che viene da un posto che si conosce, che si conosce chi lo fa. È un altro modo per coltivare un senso del luogo a scala umana”.
Titolo originale: Bangalore turning into a power in electric cars - Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Se esiste una città che sta davvero boccheggiando per il bisogno di un’auto elettrica, quella città è Bangalore, centro tecnologico piegato dal carico dei milioni di nuovi veicoli dei pendolari e soffocato dallo smog.
I potenziali investitori che sperano di aggiungersi allo “IT boom” quando arrivano qui restano talmente spaventati dal funebre incedere del traffico dall’aeroporto al centro città, che spesso scelgono di far affari altrove.
Quindi è giusto che sia Bangalore il quartier generale del leader mondiale nella produzione dell’auto elettrica, Reva, l’impresa che sforna le vetture più vendute sul mercato internazionale.
La Reva probabilmente non dà molto spettacolo. Tozza e squadrata, richiama in qualche modo la scarsa grazia delle Lada di epoca sovietica. Le portiere tremano in modo sconcertante quando si chiudono. Un corrispondente al recente motor show di Londra l’ha dichiarata “auto più brutta” in mostra.
Eppure questa negazione dello chic si è resa tanto desiderabile che gli operai nella piccola sala assemblaggio di Bangalore corrono per recuperare il ritardo di tre mesi sulle ordinazioni.
A Londra, l’auto può essere vista parcheggiata fuori dai ristoranti più costosi della città, ed è stata adottata come oggetto di culto dai frequentatori della zona dei miliardari di Chelsea.
Il veicolo è una piccola storia di successo, che prospera anche nel momento in cui le auto elettriche a livello globale si avvicinano all’estinzione.
Nei cinema degli Stati Uniti e d’Europa quest’estate si proietta “ Chi ha ucciso l’Auto Elettrica?”, documentario filmato con uno stile da giallo, che indaga sulla decisione da parte di tutte le principali case produttrici di ritirare le auto elettriche dal mercato.
Una mossa, suggerisce il film, dettata dalle pressioni da parte delle lobby petrolifere, determinate ad obbligare i consumatori all’uso della benzina.
Molti automobilisti ambientalmente sensibili si sono rivolti alle auto ibride, che utilizzano benzina ed elettricità. Esse offrono alcuni dei vantaggi ecologici dell’auto elettrica, senza la preoccupazione delle batterie scariche.
Qui a Bangalore, i produttori sono impegnati in una eroica battaglia per riportare il vita l’auto elettrica. Al momento, gli sforzi sono su piccolo scala: sinora si sono venduti 500 veicoli l’anno scorso, e ne sono stati prodotti in tutto 1.600 di sui la metà esportati in Europa. Ma cresce l’interesse internazionale.
Con l’aumento dei prezzi del petrolio, l’impresa è fiduciosa che si tratti solo dell’inizio della popolarità, per quest’auto. Si spera di ampliare la produzione nei prossimi 12 mesi, iniziando a produrre 6.000 pezzi l’anno.
Chetan Maini, vicepresidente e principale responsabile tecnico alla Reva, impegnato nello sviluppo dell’auto si dall’inizio delle ricerche nel 1994, crede che il suo veicolo possa sopravvivere là dove i modelli GM, Toyota e Peugeot hanno fallito, grazie ad un approccio molto diverso.
“Tentiamo di produrre un’auto per le affollate città di India e China, non un veicolo verde per il mercato Californiano”, dice.
Il prezzo sta al di sopra di tutto. Là dove le auto elettriche prodotte dalle grandi compagnie sono spesso più costose delle equivalenti a benzina, la Reva è stata pensata per essere economica.
“Se si paragonano i modelli elettrici di Toyota e Nissan agli equivalenti a benzina, sono due o tre volte più costosi. Probabilmente si può spendere quella somma se si è un ambientalista impegnato, ma la maggioranza non può. La Reva spera in un mercato di massa”.
L’auto è progettata per l’uso in una città come Bangalore, dove il traffico è tanto denso che gli automobilisti non riescono mai ad accelerare, e le distanze percorse relativamente brevi.
Con una autonomia di due ore e mezzo, e la ricarica in una comune presa di corrente, l’auto può viaggiare per 60 km, con una velocità massima di 65 km l’ora. Anche se si usano combustibili fossili per produrre l’energia necessaria a ricaricare, l’uso è dell’elettricità efficiente, e la macchina in sé non produce emissioni.
“Abbiamo analizzato esattamente quanto è necessario alla mobilità urbana. Nelle città congestionate, ci si muove molto a stop-and-go, e l’auto è progettata per questo. Quando si schiaccia il pedale del freno l’energia è accantonata, rendendo l’auto più efficiente” continua Maini.
il successo della campagna è stato incredibile a Londra, dove le distanze di spostamento nel centro sono brevi e l’amministrazione responsabile non ha registrato il veicolo come auto, ma come quadriciclo, esente dai pedaggi d’accesso e, in alcune zone, dalle tariffe di sosta.
“É un’auto pratica che è anche economica. Si può avere un SUV o una Porsche nel garage, ma si sceglie questa per un giretto in città” spiega Maini. “Le dimensioni consentono di muoversi facilmente nel traffico”.
Anche se è concepita come auto asiatica, i costi di produzione per il momento significano che probabilmente avrà più successo in Europa che in India.
Ci sono circa 500 Reva per le strade di Bangalore, ma non è stata adottata ampiamente nel resto del paese.
“Qui non va, semplicemente perché è troppo costosa” commenta Amit Agnihotri, esperto commerciale di Delhi. “Per lo stesso prezzo si può comprare un’auto normale, senza nessuno dei limiti”.
In India il veicolo si vende a 320.000 rupie, ovvero 6.850 dollari, e in Gran Bretagna aggiunti i costi di esportazione si arriva a 7.000, sterline, o 13.100 dollari, il che la rende relativamente a buon mercato confrontata ad altre piccole vetture.
Ci sono altre città europee, come Roma o Atene, che di recente hanno introdotto incentivi simili per incoraggiare le persone a rivolgersi ad auto ecologiche, e la Reva sta negoziando con nuovi soci un incremento delle esportazioni verso l’Europa.
Nonostante un certo interesse da parte degli acquirenti americani, l’espansione negli Stati Uniti è una prospettiva più lontana, perché le norme sull’immatricolazione richiedono che l’auto venga classificata “veicolo elettrico di quartiere” e rallentata a velocità massime di 40 kmh.
Sinora, prosegue, non c’è praticamente concorrenza: a parte la norvegese ElBil Norge, che produce meno veicoli della Reva, e la francese Axiam, che è solo agli inizi della produzione.
Sono disponibili versioni elettriche della Smart prodotta da DaimlerChrysler, ma si tratta del modello originale a cui è stato tolto il motore e sostituito con batterie, anziché di un progetto specifico per essere elettrico.
Una compagnia cinese, Shandong Jindalu Vehicle, di recente ha cominciato a esportare in America veicoli elettrici a tre ruote battezzati Xebra.
Anziché temere la presenza di rivali, Reva spera che altri iniziano la produzione per contribuire a modificare l’atteggiamento diffuso.
La principale preoccupazione fra i consumatori è che queste auto possano percorrere solo distanze contenute con una carica di batteria, con le prestazioni di un carretto del lattaio, ma Maini spera che le nuove tecnologie delle pile sviluppate per i telefoni cellulari e i computer portatili consentano ai prossimi modelli di andare più lontano e più veloci.
Irrigidendosi alla parola “brutta” ammette che per il momento non è stata prestata molta attenzione all’estetica della macchina. La forma essenziale – sembra che un gigantesco piede abbia schiacciato il tetto, deformando il muso nella poco attraente forma di quello di una rana – è la stessa dai primi esperimenti a metà anni ‘90.
Per chi ama l’aspetto nostalgia anni ‘70, I finestrini scorrono avanti e indietro orizzontalmente.
“Credo che l’aspetto estetico sia un problema personale” dice Maini.
“La filosofia di progetto era quella di avere un prodotto pratico, pensato per adattarsi alla famiglia Indiana di due adulti e due figli nello spazio più piccolo possibile. I sedili sono posti in alto, per dare una sensazione di controllo della strada, il che rende anche facile per le donne entrare e uscire indossando un sari. Questo aspetto è risultato molto popolare”.
Si prevede una nuova versione pensata per la “generazione giovane” ed è stato realizzato ma non immesso in produzione un veicolo sportivo con un’autonomia di 200 chilometri e velocità massima di 120 kmh.
Anche se sembra un po’ di muoversi in un golf-cart, la Reva è facile da guidare: Non ci sono marce né apparecchiature digitali high-tech di cui preoccuparsi. Nonostante l’esterno leggero in plastica, I progettisti sottolineano come la vettura risponda a tutti i criteri europei di sicurezza, e sia sorprendentemente solida grazie a una gabbia d’acciaio realizzata attorno all’area passeggeri.
“Una donna ha avuto una collisione frontale con un camion carico di cemento qualche settimana fa, e se l’è cavata con qualche graffio” racconta Maini.
Fuori dalla catena di montaggio, gli operai incoraggiano i visitatori a picchiare le fiancate delle nuove auto con un martello, per dimostrare la resistenza della plastica ai piccoli colpi. Cosa migliore di tutte, non c’è nessun fumante tubo di scarico.
Maini è spinto non tanto da convinzioni ecologiste, ma da un’ossessione per la sfida tecnologica dell’auto elettrica, che lo pervade da quando ha abbandonato da studente il suo amore per i veicoli solari. Ma è ottimista sul fatto che il revival del veicolo elettrico possa migliorare l’ambiente.
“Cinquecento auto creano consapevolezza e riducono l’inquinamento, ma dobbiamo aggiungerci molti zeri se vogliamo fare davvero una differenza ambientale. Siamo i leader mondiali al momento. Spero che il nostro successo faccia da catalizzatore”.
Abusivismo, stop alle ruspe
di Cecilia Gentile
la Repubblica, ed. Roma, 12 agosto 2006
Settanta demolizioni sospese. Ci sono le ville del parco di Veio, i cinque fabbricati di un vivaio a Caracalla, una sopraelevazione a via Margutta, tanto per fare qualche esempio eccellente. Il Comune ha le ruspe pronte, ma le mani legate. Bisogna prima dare il tempo ai responsabili degli abusi di organizzarsi. E´ quanto sta succedendo a Roma, dopo la decisione del Tar, che ha dato un´interpretazione molto restrittiva della legge sul condono edilizio.
Spiega Luca Odevaine, vice capo del Gabinetto del sindaco: «Finora abbiamo eseguito le demolizioni contestualmente alla notifica del provvedimento, per prendere di sorpresa l´abusivo e non dargli il tempo di resistere. In altre parole, usavamo la procedura d´urgenza, secondo quanto indicato dall´ultima legge sul condono edilizio, che dava facoltà ai comuni di abbattere d´ufficio tutti gli abusi costruiti dopo il 31 marzo 2003, termine stabilito dalla stessa legge per le costruzioni con diritto di sanatoria. Dal marzo scorso, invece, il Tar del Lazio ci ha prescritto di dividere la procedura in due fasi distinte. In questo modo l´abusivo ha tutto il tempo di organizzarsi, mettendo anziani o bambini nella costruzione da demolire, oppure barricandosi, oppure, come nel caso più frequente, presentando ricorso al Tar. Una volta fatto ricorso, bisogna aspettare che il tribunale amministrativo si pronunci. E i tempi, si sa, sono lunghissimi».
Cala dunque il sipario sull´epoca dei blitz? E´ grazie a questa strategia che la prima giunta Veltroni in cinque anni è riuscita ad abbattere 350.000 metri cubi di cemento fuorilegge. E´ grazie all´effetto sorpresa che le ruspe hanno sbriciolato, per esempio, la parte abusiva dell´hotel Summit, 30.000 metri cubi ricavati sbancando una collina in via della Stazione Aurelia, le ville del parco di Veio e dell´Appia Antica, le costruzioni accanto a Villa Borghese, i superattici con vista mozzafiato nel cuore di Roma. Ancora: un palazzo di 10.000 metri cubi a Casal del Marmo, la più grande demolizione dopo quella dell´ala abusiva del Summit.
«In questo modo il Tar ci spunta le armi e ci toglie uno strumento importante per tutelare la città ed assicurare il rispetto delle regole», continua Odevaine, che sta cercando di superare l´empasse con l´aiuto dell´Avvocatura del Comune. «In accordo con il Tar - informa il vice capo di Gabinetto - stiamo lavorando per trovare un´interpretazione meno restrittiva della legge sul condono, perché tutto il lavoro di accertamento dell´abuso e di preparazione della demolizione non venga reso inutile alla fine, di fronte alla resistenza dell´abusivo. La tempestività è tutto in questi casi».
«Abusi? Ci sentiamo soli»
di Paolo Brogi
Corriere della Sera, ed. Roma, 8 agosto 2006
Il tavolo pieno di cartelline con richieste di condono. E di foto. Una mostra una bella piscina, in un'area adiacente alla Villa dei Quintili, tra Appia Nuova e l'Appia Antica. Se ne chiede il condono, peccato che non solo sia dentro il Parco dell'Appia ma addirittura sopra il Circo dei Quintili. La task force capitanata da Rita Paris, la funzionaria della sovrintendenza archeologica a cui compete l'Appia, cerca di trattenere questo nuovo assalto, centinaia e centinaia richieste di regolarizzare ciò che non può essere regolarizzato. Livia Gianmichele, Aldo Cellini, Antonella Rotondi e Rita Paris cercano di trattenere l'arrembaggio che riporta al clima da anni ‘50. Intanto basta già la semplice richiesta di condono: l'abuso è di fatto al riparo dalle ruspe. In più, non tutte le richieste approdano in sovrintendenza. Una parte si ferma nell'ufficio comunale dei condoni, che intanto incassa soldi, quelli previsti dai provvedimenti di regolarizzazione. Richieste spesso imbarazzanti. In via Appia Pignatelli, al 5, ecco tre villini costruiti in mezzo ai monumenti funerari sorti sopra le catacombe di Pretestato, monumenti già noti a Pirro Ligorio che li ritrasse nel ‘600. Piccole volte, colonne, basamenti vari ridotti ad arredo delle ville, come fossero parte naturale di quei giardini. E che ora i proprietari vorrebbero «sanare». Ovvio il parere negativo della sovrintendenza. Ma dopo cosa succede? Se lo chiedono in soprintendenza, che spesso nelle conferenze di servizio, ripetono ai funzionari capitolini: «A cosa vi riferite per i condoni dal momento che tutto il territorio dell'Appia è inedificabile?». «Ci sentiamo molto soli - spiega Rita Paris -. Il fenomeno è gravissimo, per numero di abusi e scempio del territorio. E dell'entità e gravità del problema ne siamo a conoscenza solo noi...».
Far West Appia: il mausoleo scomparso
di Paolo Brogi
Corriere della Sera, ed. Roma, 8 agosto 2006
Il Far West a Roma si chiama Appia. Ed è li che può scomparire addirittura una domus con annesso mausoleo. Sulle guide il monumento c'è, all'altezza del IV miglio, in un diverticolo della «regina viarum», via dei Lugari. Siamo poco oltre il Circo di Massenzio e la Tomba di Cecilia Metella, quando superate sulla sinistra uscendo la tomba di Marco Servilio (con i resti rinvenuti da Antonio Canova) e il sepolcro di Seneca si arriva all'altezza del tempio di Giove, un monumento in laterizio del II secolo d.C. Dall'altra parte della strada c'è ciò che resta del mausoleo di Sant'Urbano e ciò che è praticamente scomparso dell'annessa «domus Marmeniae». Ecco, in sintesi estrema, il monumento che non c'è più. Ci sono invece le costruzioni che hanno inglobato la domus di Marmenia, la matrona cristiana che al tempo di Antonino Pio fece traslare in questa zona i resti del martire Urbano, e di cui ora grazie all'ultimo condono del 2003 la proprietà chiede la regolarizzazione. Uno dei duemila condoni che assediano la sovrintendenza in quest'area pre in laterizio, con le sue tre absidi e la scala monumentale in direzione dell'Appia. I fratelli Lugari, i proprietari del fondo, sotto la sorveglianza del direttore dell'Ufficio tecnico degli scavi d'Antichità, il mitico Rodolfo Lanciani, dettero il via a una campagua di scavi che riportò in luce tutto il monumento con annessa l'ampia domus di Marmenia. Lungo i lati del diverticolo in basolato furono scoperte diverse strutture sepolcrali in opera laterizia, due delle quali di forma semicircolare, oltre a numerose sepolture ad inumazione coperte da tegole, particolarmente addensate attorno al mausoleo del martire Urbano. Dopo la lunga esplorazione, conclusa a fine ‘800, i fratelli Lugari curarono il percorso di visita dell'area che diventò meta di turisti e visitatori.
Ancora negli anni ‘50 nelle piante catastali era visibile il perimetro dell'area degli scavi che non vennero mai interrati, e alcune delle strutture della domus sono descritte dalla guida di Lorenzo Quilici negli anni ‘70. E poi? Poi il basolato è scomparso sotto una piscinetta, nel sottoscala del mausoleo sono stati ricavati un tinello e un cucinino, con un barbecue esterno, il tutto perseguito dalla sovrintendenza archeologica e considerato infine «non reato» dalla magistratura del tempo. La «domus» invece è stata inglobata da un villino a un piano con annessa una dependance per il portiere, che sorgono al numero sette di via dei Lugari. Spiega la relazione tecnica presentata per il condono che si tratta di una struttura principale di 104 mq al piano-terra e di 60 mq al primo piano, mentre la dependance è cca. 27 mq. «Da accurato esame visivo - spiega il relatore, un geometra - si è potuto stabilire che il corpo principale, al piano terra, di epoca presuntivamente romana, della superficie di 74 mq e dell'altezza di 3,10 metri è stato ampliato sul lato nord, costruendovi un altro corpo, dell'altezza di 3 metri e 25 centimetri e della superficie di 29 mq collegato con esso e che oggi costituisce la zona servizi della casa...». Il geometra indica poi ciò che a parer suo sono gli «abusi» per i quali si può chiedere la sanatoria e in particolare ricorda la «costruzione abusiva del corpo al piano terra, attaccato alla costruzione antica» e la «costruzione abusiva del corpo al primo piano sopra la costruzione antica...».
Fa impressione tutta questa documentazione che, assolutamente in regola con lo spirito dei condoni, mostra a che punto si sia potuti arrivare in un territorio di così gran pregio storico-archeologico-culturale come quello dell'Appia Antica. E fa impressione constatare come lo stesso Mausoleo, che è obliterato oggi alla vista e che non si vede più insieme a ciò che è stata la «domus Marmeniae», sia intimamente collegato a un'altra zona poco lontana come quella delle catacombe di Pretestato, di cui parliamo qui sotto con un altro abuso illustrato nella foto in basso. Da lì infatti i resti del martire Urbano furono traslati per impegno di Marmenia che li volle accanto alla sua abitazione per farne un santuario. Un mausoleo e una domus che sono diventati oggi un problema dell'ufficio condoni. Certo, l'Appia non sarà più la «terra di gangsters» come scriveva 50 anni fa Antonio Cederna, ma il Far West non è mai finito.
Napoli, l'agosto di mattone selvaggio
la Repubblica, ed. Napoli, 8 agosto 2006
Con il caldo il mattone si dilata, il cemento lievita, s'allarga, prende piede: quando anche il vicino va in vacanza, è il momento del business indisturbato. Gazebo che diventano attici, finestre trasformate in verande, vasche che con un colpo di bacchetta magica saranno piscine. Al centro di Napoli si osa meno. Ma basta allontanarsi di poco che in piazzali vuoti fino a pochi giorni prima, in agosto l'abuso è completo: intere ville sorte dal nulla. Come quella che il servizio antiabusivismo del Comune, in collaborazione con la polizia municipale e la Polizia di stato, ha demolito ieri in via Soffritto ai Camaldoli: una fabbrica su due livelli di 170 metri quadrati messa in piedi in una zona di pregio ambientale e ad alta instabilità idrogeologica.
C'è poco da stare allegri: la demolizione iniziata ai Camaldoli è un atto raro. Dal 1995 al 2000, a fronte di centinaia di abusi piccoli e grandi, nel campo dell'edilizia sul territorio di Napoli, soltanto 425 manufatti non in regola sono stati abbattuti. Ieri mattina i vigili hanno lavorato sodo: il villino contro il quale sono state azionate le ruspe è uno dei cinque controllati e sottoposti a sequestro nella stessa zona: 200, 150 e 100 metri quadri di mattoni e cemento, in un'area dove opera il clan di camorra legato al boss Polverino. E poi un altro sequestro al Serbatoio allo Scudillo, sotto l'ospedale Cardarelli, dove sono stati bloccati degli scavi per grandi vasche grezze, che forse sarebbero diventate piscine. Un'azione che ha avuto il plauso dell'assessore all'Edilizia Felice Laudadio: «È intenzione mia e dell'amministrazione dare nuova e incisiva azione nel settore dell'edilizia, combinando la pianificazione dello sviluppo sostenibile con la repressione dell'abusivismo».
Ma la rarissima demolizione, come i controlli seguiti da sequestro, sono episodi non abbastanza frequenti tanto da funzionare da deterrente. In questi giorni cumuli di mattoni si possono notare in molti punti della città: in attesa che la guardia venga abbassata e che anche chi controlla vada in vacanza, sono pronte a entrare in azione squadre speciali di muratori disposti a lavorare anche il giorno di Ferragosto per il triplo della paga normale. Quando si avvicina il tempo delle ferie totali, bisogna guardare in alto, sulle terrazze o nei cortili un po' nascosti. Si vedranno comparire le solite incannucciate a copertura di vetrate o strutture in lamiera temporanee, destinate a diventare muri di nuovi ambienti. «La situazione più preoccupante - dice il maggiore Antonio Baldi, che dirige il Servizio antiabusivismo - è a Pianura, dove gli abusi si sono scatenati in maniera violenta: siamo sotto organico ed è difficile portare avanti una vera battaglia, a ranghi così ridotti. La forza, d'estate, dovrebbe essere al completo».
La squadra di Baldi è composta da 124 vigili, ma le ferie l'hanno dimezzata, e questo avviene ogni anno con puntualità, dando spazio a mattone selvaggio. Non solo in periferia o in mezzo al verde dei Camaldoli. Per esempio, in zona Fontanelle alla Sanità, quando i vigili sono arrivati per apporre i sigilli, un costruttore stava realizzando tre piani a ridosso di un costone di tufo: 80-90 metri quadri per piano. Ma il gazebo è diventato splendido attico con vista sul golfo in corso Vittorio Emanuele, lato Mergellina. Il signore aveva un permesso per un gazebo. I vigili, allertati da una denuncia, questa volta erano stati tempestivi e avevano posto sotto sequestro addirittura i materiali depositati sulla terrazza, prima che la sopraelevazione fosse realizzata. Il sequestro però non è poi stato convalidato: al Tar era parso eccessivo. E ora l'attico è stato completato.
Scudillo, avanza mattone selvaggio
la Repubblica, ed. Napoli, 9 agosto 2006
Lo Scudillo: storia di un abuso senza fine. Una voragine che comincia negli anni Venti-Trenta, quando per realizzare una serie di opere edilizie l´area agricola collinare ad est, tra il Vomero e la Sanità viene sbancata. Da allora si è costruito e scavato contestualmente, senza rispetto per il rischio idrogeologico, dimenticando che lo Scudillo con i suoi 40 mila metri quadrati di grotte, è la zona a più alto tasso di cavità cittadina.
La variante di salvaguardia del Piano regolatore generale di Napoli tutela lo Scudillo e il Vallone di San Rocco, che dal 2004 sulla carta fanno parte del Parco regionale delle colline napoletane, 2215 ettari (circa un quinto del territorio comunale) al centro dell´area metropolitana. In questo contesto che usufruisce di vincoli, come si vede, ben definiti - tra l´altro c´è anche il decreto legislativo numero 42 del 2004 parte terza, che la identifica come area di grande pregio paesaggistico - c´è ancora il furbo che alla vigilia di Ferragosto scava e costruisce. È in buona compagnia, bisogna dire. Non c´è cassonetto, specialmente nelle zone intorno al centro, quelle più verdi, che non mostri calcinacci o piante strappate senza pietà, destinate il più delle volte a lasciare spazio a posti macchina.
Dopo il sequestro con (rara) demolizione di lunedì ai Camaldoli, eseguita dalla squadra antiabusivismo coordinata dal maggiore dei vigili Antonio Baldi, i cantieri non autorizzati non si fermano. E la cronaca di un abuso d´agosto si ricostruisce facilmente. Nonostante esista un voluminoso fascicolo sul caso Scudillo, tanto in soprintendenza a Palazzo Reale quanto al Servizio antiabusivismo del Comune, c´è un edificio residenziale ottenuto alcuni anni fa riattando un rudere in via Serbatoio allo Scudillo. Decine di denunce per lanciare l´allarme alle autorità sul rischio che comporta un intervento del genere per l´intera zona circostante hanno sortito in chi li sta portando avanti soltanto la convinzione che è meglio fare presto.
Nel mese di giugno infatti i lavori hanno avuto un´accelerazione: è stata terminata una piscina e alcuni nuovi corpi di fabbrica sono sorti in prossimità di quello principale. Per ospitare i materiali di costruzione è nata anche una discarica che gli operai usano costantemente. Arrivati sul posto dopo essere stati allertati dall´ennesima denuncia, i vigili rilevano un ampliamento per il quale il costruttore non è in possesso di autorizzazione. Il cantiere viene immediatamente sequestrato. Dieci giorni fa comincia l´esodo di agosto, ed ecco l´impresa riprendere a lavorare nonostante il divieto. La squadra di polizia giudiziaria dei vigili notifica la violazione dei sigilli al proprietario. Ma Ferragosto si avvicina, ditte disposte a lavorare senza permessi, se ben pagate - e quasi sempre in condizioni che interessano un altro ufficio questa volta della Asl, l´Ispettorato del lavoro - a Napoli non mancano. Così si riprende a scavare ancora, e questa volta lungo il costone della vallata, distruggendo una delle poche aree che resistono a verde nella zona, mentre si costruiscono dei muri con una grande quantità di mattoni di tufo trasportati da operai di colore. Le foto della pagina documentano l´abuso in corso ancora ieri in tarda mattinata.
I casi si moltiplicano e le forze in campo per effettuare i controlli necessari sono ridotte. Diecimila sopralluoghi all´anno. Circa settecento al mese. Che i vigili antiabusivismo stiano con le mani in mano proprio non si può dire. E il loro lavoro si intensifica ancora di più nella prima quindicina di agosto, quando le incursioni sui cantieri abusivi possono diventare anche trenta al giorno.
L´ultimo allarme giunge dalla Spagna. Lo lancia il ministro dell´Ambiente del governo Zapatero, Cristina Narbona. Nel periodo fra il 1987 e il 2005 la superficie occupata da costruzioni è cresciuta del 40 per cento. È un fenomeno «insostenibile e irresponsabile», denuncia il ministro. Le punte di questa «urbanizzazione selvaggia» (sono sempre parole di Cristina Narbona) sono nella regione di Valencia e della Murcia, dove si è superato il 50 per cento di aumento. Le coste della regione andalusa, poi, sono integralmente edificate in una fascia di un chilometro dalla battigia per il 34 per cento del totale. «Il trend è continuo ed ormai è senza controllo», continua Cristina Narbona. Una sola regione ha posto un freno, la Catalogna, che ha varato una rigida legislazione per impedire che altro suolo venga consumato.
Il caso spagnolo è ben noto a Richard Burdett, cinquant´anni, i primi venti dei quali trascorsi a Roma (suo padre era il corrispondente della rete tv Cbs) e poi a Londra, dove ora insegna Architettura e Urbanistica alla London School of Economics oltre ad essere fra i consulenti del sindaco Livingstone, Ken "il rosso", come lo chiamano per il suo radicalismo. Burdett è il nuovo direttore della Biennale Architettura di Venezia che quest´anno (vedi il programma nel box qui accanto) si concentra non su singoli oggetti, sul manufatto di questa o di quell´altra "archistar", ma sulla città, anzi sulle megalopoli, mettendo a confronto le esperienze urbane di sedici grandi concentrazioni, da Shangai, Mumbai e Tokyo, in Asia, a Caracas, Città del Messico e Bogotà in Sudamerica; da Johannesburg in Africa al Cairo e a Istanbul nell´area del Mediterraneo, fino alle europee Londra, Barcellona e Berlino in Europa e all´immensa conurbazione che va realizzandosi fra Milano e Torino.
Burdett è specialista degli effetti sociali dell´architettura. Si rigira per le mani le mappe delle sedici città e si sofferma sui colori intensi, quelli che indicano i luoghi in cui vivono i più poveri in una scala che va verso il tenue dei quartieri residenziali. I problemi che l´attraggono sono come tenere legati i diversi pezzi di una città, come distribuire le reti del trasporto pubblico. Sostiene di essere interessato a come realizzare i marciapiedi piuttosto che al Guggenheim di Bilbao, «che pure è un bellissimo oggetto». E aggiunge: «Nella nostra veste di architetti, urbanisti e creatori di città, quando creiamo un´infrastruttura dobbiamo sapere che questa può consentire integrazione sociale o, al contrario, può essere fonte di esclusione e di dominio».
La città che si espande, che oltrepassa i suoi confini, che consuma altro suolo e invade il territorio circostante è un modello che valica i continenti. Spiega Burdett: «Se osserviamo la terra dallo spazio durante la notte, vediamo enormi chiazze e cordoni di luce che rispecchiano da vicino le mappe globali dell´estensione urbana. Per esempio l´Europa è percorsa da un fitto nastro luminoso che si sta consolidando nel cuore del continente, dall´Inghilterra meridionale fino a tutta l´Italia settentrionale. Ma lo stesso fenomeno si osserva in ampie zone degli Stati Uniti o del Giappone oppure, ed è l´avvenimento più recente, nell´Asia meridionale e lungo le coste della Cina, dove si prevede che nell´arco di un paio di decenni si concentrerà quasi metà della popolazione urbana mondiale». È un fenomeno che può avere effetti distruttivi, se non controllato. Ma è anche l´occasione perché si sperimentino nuove forme di governo, affidate soprattutto alla mano pubblica. Su questo Burdett ha pochi dubbi. La London School of Economics è il tempio della terza via che sulle politiche urbane declina il suo verbo con molto mercato e molte, moltissime regole.
Moltissime regole sono indispensabili essendo questa "città dispersa" una città soprattutto privata... «Tutte le città, all´ottanta, novanta per cento, sono private, sia nel centro di Londra che nei barrios del Cairo, dove chi ha costruito abusivamente un palazzo di dodici piani lo lascia in eredità ai suoi figli, e ai figli dei figli e quel palazzo diventa poi perfettamente legale. Ma la politica pubblica deve essere molto autorevole e molto chiara. Ken Livingstone ha autorizzato la Bridge Tower, il nuovo grattacielo di Renzo Piano alto trecento metri a forma di guglia: ma sa quanti posti macchina ha consentito? Dodici. Alla Bridge Tower e nell´area circostante ci si deve arrivare a piedi o con il trasporto pubblico. A Tokyo vivono 35 milioni di abitanti, è la più vasta area metropolitana del mondo, ma il 78 per cento di loro usa abitualmente la metropolitana e non potrebbe fare diversamente». A Los Angeles, invece, domina ancora l´auto privata. Come a Roma, d´altronde, dove circolano quasi ottanta macchine ogni cento abitanti e fra i cento abitanti sono compresi i bambini e gli ultraottantenni.
Secondo le Nazioni Unite, ricorda Burdett, nel 2050 l´indiana Mumbai «si sostituirà a Tokyo nel ruolo di città più grande del mondo». Ma intanto la velocità da capogiro è tangibile nelle vaste conurbazioni cinesi: «Shangai cresce sia in altezza sia in ampiezza e ora conta quasi tremila edifici che hanno più di dieci piani, mentre fino a dieci anni fa ne aveva trecento. Il Comune confida di costruire 280 nuove stazioni di metropolitana». Ma l´immagine del nastro di luce non è brillante allo stesso modo. Immense concentrazioni dilagano nelle regioni centrali e costiere dell´Africa (si calcola che nel 2015 Lagos avrà ogni ora 67 nuovi abitanti), ma questi agglomerati sono il riflesso fisico e spaziale della povertà e della scarsa alfabetizzazione. «In Egitto», racconta Burdett, «nasce un bambino ogni venti secondi e oltre il 60 per cento della popolazione vive in insediamenti con edifici alti anche quattordici piani e appena un metro quadrato di spazi aperti pro-capite. Per questo il nuovo parco al-Azhar, un polmone di verde nel centro storico del Cairo, ha un valore sociale che va molto oltre i meriti estetici del progetto».
Le politiche pubbliche per la città sono, secondo Burdett, la scommessa dei prossimi anni. «L´impatto ambientale delle città è enorme, sia per il crescente peso demografico, sia per la quantità di risorse naturali che consumano», dice l´architetto londinese. Tutti gli aspetti della vita urbana hanno implicazioni per l´intero pianeta, per i suoi equilibri ecologici: dai gas di scarico che emettono le auto in fila per entrare in città, o per uscirvi, all´energia per riscaldare o raffreddare gli edifici. Londra, seguendo l´esempio di Singapore, ha imposto una tassa alle macchine private che entrano in città, riducendo così traffico e inquinamento e destinando soldi al trasporto pubblico e alla creazione di nuovi spazi pubblici, come la grande area pedonale intorno a Trafalgar Square disegnata da Norman Foster. Inoltre, invertendo la deregulation thatcheriana, la capitale inglese ha rinnovato i fasti della pianificazione urbanistica: per ospitare i settecentomila abitanti che si prevede arriveranno entro il 2016 (il novanta per cento dei quali extra-comunitari) non verrà edificato neanche un centimetro quadrato della green belt, la cintura verde che l´avvolge, non ci sarà altro consumo di suolo, ma verranno riusate aree industriali dismesse all´interno della città.
Ma non ci sono solo Londra o Barcellona a investire quattrini nella rinascita delle città. A New York, per esempio, sono stati banditi concorsi internazionali per progettare abitazioni pubbliche a basso costo. Ma agli occhi di Burdett spicca il caso di Bogotà, «un caso esemplare quanto imprevisto di trasformazione urbana in direzione dell´egualitarismo». Nel giro di qualche anno la capitale colombiana ha costruito il Transmilenio, un sistema rapido ed efficiente di trasporto pubblico, oltre a una rete di piste ciclabili e poi parchi e piazze «che hanno cambiato il modo in cui gran parte degli oltre 6 milioni di abitanti si spostano in città, con un impatto straordinario per la qualità della vita e per la riduzione della criminalità». Qualche tempo fa, poi, l´Onu ha indicato San Paolo del Brasile come modello di politiche urbane per gli investimenti nella scuola e nei trasporti, che stanno alleviando le drammatiche condizioni di alcuni barrios. Molti barrios cambiano volto anche a Caracas. Nella capitale del Venezuela, quando piove, i ripidi sentieri sterrati che percorrono questi quartieri disperati salendo ad altezze vertiginose, equivalenti a un palazzo di trenta, ma anche quaranta piani, si trasformano in tragiche colate di fango, che trascinano nella melma cose e persone. Ecco: molti di questi sentieri si stanno trasformando, racconta Burdett, in scalinate. È un´infrastruttura semplice e poco costosa, e se ben progettata, architettonicamente definita, serve a evitare che centinaia di persone muoiano ogni anno per un temporale e serve anche a tenere insieme pezzi di una periferia che pareva senza possibilità di redenzione.