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Donella Meadows
Se non ci piace lo sprawl, perché continuiamo a farlo?
13 Luglio 2005
Consumo di suolo
Quando si dice che non bastano i buoni progetti per cambiare davvero le cose, non si sta delirando. Tutto il mondo è paese, e anche dove libertà di impresa e legittimità del profitto non si discutono, si parla insistentemente di "macchina" tritatutto che si mangia il territorio, e che va fermata, in un modo o nell'altro. Dal sito del Sustainability Insitute, ca. 2000 (fb)

Titolo originale: If We Don’t Like Sprawl, Why Do We Go on Sprawling? – traduzione di Fabrizio Bottini

Abbiamo gli uffici urbanistici. Abbiamo le regole di zoning. Abbiamo istituito gli Urban Growth Boundaries [margini di sviluppo urbano imposti dal piano regolatore n.d.T.], e organizziamo conferenze sulla smart growth e sul problema dello sprawl. Ma ce l’abbiamo ancora, lo sprawl. Fra il 1970 e il 1990 la popolazione di Chicago è cresciuta del 4 per cento, mentre la sua area urbanizzata cresceva del 46 per cento. Nello stesso periodo Los Angeles si è gonfiata del 45 per cento in popolazione, e del 300 per cento in area occupata.

Lo sprawl ci costa più delle terre agricole cancellate, o del pendolarismo dentro a paesaggi di impressionante bruttezza. Ci costa dollari, che escono dalle nostre tasche sotto forma di tasse locali più elevate. Questo succede perché il nostro metodo di crescita urbana, in particolare quello delle zone esterne ad uso estensivo di suolo, costa molto più in servizi di quanto non restituisca in tasse.

Nel suo nuovo libro Better Not Bigger, Eben Fodor cita studi dopo studi che dimostrano come questa crescita aumenti le tasse. Nella Loudon County, Virginia, ogni nuova casa su un lotto da mille metri quadrati aggiunge ogni anno 705 dollari in carico al bilancio municipale (per la raccolta della spazzatura, manutenzione stradale, ecc., al netto della tassa locale sugli immobili). Una nuova residenza su un lotto da due ettari costa alla collettività 2.232 dollari l’anno. A Redmond, stato di Washington, le case unifamiliari pagano il 21% di tassa sulla proprietà, ma costano il 29% al bilancio cittadino. Uno studio sulla Central Valley in California ha colcolato che un’edificazione più compatta potrebbe far risparmiare alle municipalità 200.000 ettari di terreno agricolo e 1,2 miliardi in tasse.

Ci sono dozzine di studi del genere. Arrivano tutti alla medesima conclusione. I nuovi residenti di fatto prendono dalle tasche dei vecchi residenti le risorse per mantenere scuole e altri servizi aggiunti. Gli insediamenti commerciali e produttivi fanno anche di peggio. Possono anche pagare di più in termini di tasse di quanto non chiedano in servizi, ma il traffico e l’inquinamento che generano riduce il valore delle proprietà immobiliari circostanti. Le nuove attività spesso portano dipendenti che non vogliono vivere nei pressi della lottizzazione industriale o commerciale, e così costruiscono casa e pagano tasse nella municipalità VICINA. Le imprese più grandi e meglio organizzate, come le squadre sportive o Wal-Mart, convincono le amministrazioni a costruire stadi, ampliare strade, fornire gratuitamente reti idriche e fognarie, o promesse di riduzioni fiscali, garantendosi così che ciascun contribuente della città sborsi denaro per aumentare i loro profitti.

Visto che ci basta vivere in una città in sviluppo, o guardare alle città più grosse, per notare come le tasse non diminuiscano con la crescita, è stupefacente che molti di noi credano ancora ai sostenitori di questo sviluppo, ascoltati e potenti virtualmente ovunque.

Una delle ragioni per cui gli crediamo ancora, è che il mito della crescita, come ogni mito, nasce da un nucleo di verità. La crescita urbana va a beneficio di qualcuno. Le agenzie immobiliari vendono, le imprese di costruzione offrono impiego, le banche hanno più depositi e crediti, i giornali aumentano le tirature, i negozi fanno più affari (anche se hanno una maggiore concorrenza). I proprietari dei terreni che vendono ai costruttori possono guadagnare parecchio, e i costruttori ancora di più.

Tutta questa gente promuove la crescita. Eben Fodor li chiama la urban growth machine e prende come esempio il modo in cui si alimenta un motore. Immaginate un progetto di urbanizzazione che costerà alla comunità 100.000 dollari e porterà benefici per 50.000. Questi 50.000 vanno a dieci persone, 5.000 a testa. I 100.000 si scaricano su 10.000 persone, come incremento fiscale di 10 dollari. Chi presterà davvero piena attenzione a questo progetto, parteciperà alle riunioni pubbliche, coinvolgerà avvocati, e funzionari pubblici? Chi, sinceramente, può credere e affermare ad alta voce che questa crescita è una buona cosa?

Fodor cita l’ambientalista dell’Oregon Andy Kerr, che definisce la crescita urbana “uno schema a piramide in cui relativamente pochi prosperano, alcuni altri trovano da vivere, ma per cui la maggior parte [di noi] paga”. Finché ci sarà da prosperare, nessuna tiepida misura di tipo smart growth intaccherà l’espansione urbana e lo sprawl.

La più identificabile causa dello sprawl è quindi questa growth machine, m anon sarebbe giusto dare tutta la colpa a quelli che ci guadagnano. Essi stanno semplicemente giocando secondo le regole. Regole stabilite principalmente dal mercato, che ricompensa chiunque è abbastanza intelligente per scaricare i costi dell’attività su qualcun altro. Io mi prendo i proventi delle attività, e tu costruisci le strade. Io pago i miei dipendenti (il meno che posso), tu stai in mezzo agli ingorghi stradali e respiri gli scarichi di quando loro vengono al lavoro. Io faccio la lottizzazione, tu perdi spazio aperto, acqua pulita, animali selvatici. Siamo noi, collettivamente, a stabilire le regole, compresa la mangiatoia di sussidi dalla quale prendono in abbondanza. Non possiamo dargli la colpa, se prendono.

E abbiamo bisogno dei servizi che offrono alla comunità (con altri amici dilettanti come me, sto tentando di creare un eco-quartiere di 22 unità, e imparando ad apprezzare le capacità e i rischi di un costruttore). Non è compito loro controllare lo sprawl; è loro compito seguire regole concrete, chiare, solide, che chiedono di competere sulla base dei prezzi più convenienti, ovvero scaricare i propri costi su altri nella massima misura legalmente possibile.

Questo ricompensa abbondantemente alcune persone, e di solito le persone che cercano un posto nei governi locali.

Non perché siano cattive persone, ma perché abbiamo costruito un sistema che li mette in imbarazzo.

Prenditi i profitti, scarica il costo su altri, non fermarti ma vai avanti e fallo ancora.

Urleranno e strepiteranno se gli togliamo questo, ma dobbiamo rispondere urlando e strepitando più forte, perché non possiamo essere obbligati a pagare il loro guadagno netto. La questione deve essere basata non tanto sulla libertà di impresa o di fare profitti, ma sull’imposizione fiscale senza rappresentanza [la taxation without representation fondativa dell’indipendenza americana nel XVIII secolo, n.d.T.], sulla sottrazione ad altri, sulla capacità limitata della natura e della comunità di sostenere queste consuetudini.

Nota: il sito del Sustainability Institute del Vermont, con altri articoli della direttrice Donella Meadows e altri materiali. Il tema di questo articolo, a ben vedere, è lo stesso di quello recente riportato da Eddyburg, di Gian Antonio Stella sulla città diffusa veneta e la tranquillità con cui la si guarda da parte di alcuni (fb)

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