La parola spesso usata è sprawl. Viene dal verbo inglese to sprawl che significa, più o meno, sdraiarsi in modo scomposto. È questa la forma che vanno assumendo le città, distendendosi sui territori che le circondano, invadendolo, sparpagliandovi piccoli e grandi insediamenti, per la maggior parte residenziali, oppure destinati al commercio o al divertimento o a tutte queste cose insieme. La trasformazione è in atto da vari decenni - qualcuno dice uno, qualcuno si spinge a due, qualcun altro azzarda tre. Ma sul fatto che ormai la città stia perdendo la sua immagine di struttura compatta concordano urbanisti e sociologi, economisti e geografi. Dividendosi, semmai, sul giudizio: è un fenomeno incontenibile oppure vi si può porre rimedio? Migliora la vita di una città e dei suoi abitanti oppure ne accentua l’affanno? E cosa ne sarà delle campagne, verranno urbanizzate oppure distrutte? E dei paesaggi?
Gli studi si moltiplicano, ma per la prima volta si tenta un’indagine comparata che mette a confronto le analisi su un’area vasta, quella dell’Europa meridionale. Nasce così L’esplosione della città, che è il titolo di un volume (edito dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna) e di una mostra in corso a Bologna, curati da Francesco Indovina, professore di Urbanistica a Venezia, e da Laura Fregolent, Michelangelo Savino, Alessandro Delpiano e Marco Guerzoni. Le aree soggette a verifica, da parte di una quindicina di urbanisti, sono quelle di Barcellona, Madrid, Valencia e Donostia Bayonne in Spagna; di Lisbona e Porto in Portogallo; di Marsiglia e Montpellier in Francia; e di Bologna, Genova, Milano, Napoli e del Veneto in Italia.
La città si sfascia, deborda. Però negli ultimi tempi si sarebbe verificato un fenomeno non proprio in controtendenza, ma comunque diverso. È lo stesso Indovina che lo segnala, dopo essere stato lui, almeno in Italia, fra i primi a individuare lo sprawl (risale al 1990 il suo libro La città diffusa). Secondo l’urbanista, accanto alla dispersione si sta attuando una specie di "metropolizzazione del territorio". Detto in altri termini: i pezzi di città che si disseminano fuori dal perimetro urbano consolidato, fuori anche dalle periferie sorte negli anni Sessanta e Settanta, tendono a riaggregarsi fra loro, i frammenti mirano a ricomporsi, a fare città di città. Spiega Indovina: «Questa metropolizzazione del territorio ha il potere di riprodurre la città. Estremizzando: di salvarla. Perché preserva in una situazione nuova un contesto di scambi non solo economici, ma anche i luoghi dove si creano continuamente i meticciati culturali, si moltiplicano le relazioni sociali, si manifestano le contraddizioni. In questo modo si rinnova la città come nicchia ecologica della specie umana».
Queste trasformazioni risponderebbero a forti pulsioni culturali e sociali. Mentre la struttura compatta, continua Indovina, «costituisce la rappresentazione di un mondo definito, quello che si identifica in una città classista e insieme corporativa, segmentata e disgiunta, difensiva e aggressiva», la città diffusa e che tenta di ricomporsi «dà corpo a una concezione caratterizzata dal problema dell’integrazione».
Fra le cause della dispersione Indovina segnala questioni economiche e di fisionomia produttiva (il passaggio dalla grande industria a una rete di piccole e medie imprese più diffuse e collegate attraverso le reti informatiche). Ma anche i nuovi stili di vita: la spesa nei grandi centri commerciali, sempre più specializzati (fra gli ultimi parti le cittadelle dell’outlet, dove si vendono i vestiti firmati ma a minor prezzo, e che talvolta simulano nell’architettura i centri storici rinascimentali), e il tempo libero nei mastodonti del divertimento che inglobano multisale, pizzerie, paninoteche e sale giochi. Inoltre spingono fuori dalle mura tradizionali di una città le regole della rendita, per cui i centri urbani si svuotano di residenti a vantaggio di uffici, banche, studi professionali, i soli in grado di sostenere alti costi di affitto e di acquisto (secondo Indovina, è soprattutto il ceto medio a essere allontanato dalla città, ceto medio che si trasferisce o nelle villette unifamiliari oppure nei grandi quartieri costruiti dove una volta erano terreni agricoli).
Sociologi e urbanisti discutono da tempo. E se c’è chi, come Indovina, intravede in questi processi, se ben governati, il tentativo di ricostruire la dimensione di una città, altri hanno posizioni più critiche. «Compattezza, mixitè, vicinanza, riconoscibilità, confine: mi sembrano questi gli attributi necessari della città in quanto tale», sintetizza Edoardo Salzano, fino a qualche anno fa preside della facoltà di Pianificazione a Venezia, che sottolinea come «in alcuni paesi europei e perfino in qualche Stato americano, l’obiettivo politico (e l’urbanistica è politica) è arrestare il fenomeno».
Sebbene molto diverse fra loro, tutte le città prese in esame dal gruppo di studiosi coordinati da Indovina tendono a dilagare nel territorio che le circonda. Accade a Milano o nel napoletano, dove un piano elaborato dalla Provincia è arrivato ad autorizzare, secondo i calcoli compiuti da un agronomo, Antonio Di Gennaro, la trasformazione di 25 mila ettari sui 60 mila rimanenti in una zona già esausta, fra le più urbanizzate del pianeta. Accade nel Veneto, dove sono sparite molte tracce del paesaggio agrario, il paesaggio delle tele di Cima da Conegliano, sostituito da una melassa di costruzioni che ha saturato tutto lo spazio, determinando anche il rallentamento dei ritmi di crescita economica di un’area molto dinamica. Ma accade anche a Marsiglia o a Barcellona, come segnala Antonio Font, che insieme a Indovina e a Nuno Portas forma il comitato scientifico dello studio e della mostra. Secondo Font, l’immagine di Barcellona è legata alla città ottocentesca, ma esiste una "ciutat de ciutats", una Barcellona sconosciuta persino agli spagnoli che si estende per cento chilometri da Foix a Tordera, protendendosi verso l’interno per trenta chilometri dalla costa fino ai monti della Serralada Pre-litoral. È una Barcellona che si è formata dalla seconda metà degli anni Settanta, spinta da vari motori e che, sebbene abbia molto investito in reti di trasporto collettivo, si trova comunque a soffrire: Font cita un irrazionale uso del suolo, la congestione del traffico, un progressivo degrado dell’ambiente, con la distruzione di molte aree naturali.
Nel 2001 si contavano in Italia sette milioni e mezzo di case unifamiliari, su un totale di venticinque milioni di case. Ma ogni anno ben più della metà delle case che si costruiscono sono di quel tipo. Speculare al fenomeno delle campagne che si urbanizzano è l’abbandono della città da parte di residenti. Secondo l’urbanista Paolo Berdini, l’insieme dei quartieri storici di Roma era popolato, nel 1971, da 1.400.000 abitanti. Nel 2003 erano 970.000. Non si svuotano solo le zone del centro antico, ma anche i rioni novecenteschi: il quartiere Trieste passa da 92.000 a 65.000 abitanti, Ostiense da 101.000 a 69.000. Cosa diventano le case un tempo abitate da famiglie? Per lo più uffici. Annota Berdini: «Un semplice conteggio ci dice che se una famiglia possedeva una o al massimo due macchine, lo stesso appartamento occupato da un ufficio richiama un numero di macchine due o tre volte superiore». Ecco una delle cause della congestione.
Lo sprawl porta con sé costi elevati. Indovina segnala l’alto consumo di energia: una casa isolata ne ha molto più bisogno per riscaldarsi rispetto a una casa in un condominio. E poi crescono i costi per spostarsi, perché caratteristica della città diffusa è il fiume di macchine che ogni mattina raggiunge il centro della città, e la sera scorre verso l’immenso territorio urbanizzato. Più macchine significa più inquinamento, più tempo trascorso nella solitudine della propria auto. Guido Martinotti, sociologo urbano, parla di "meta-city" di città-oltre e segnala anche i problemi politici: chi governa queste aree? Basta il Comune, la Regione oppure bisogna pensare ad altre istituzioni? In attesa delle quali comanda chi questi insediamenti li ha disegnati e costruiti.
Uno studio rigoroso degli effetti di una città che si dilata lo hanno compiuto tre urbanisti milanesi, Roberto Camagni, Maria Cristina Gibelli e Paolo Rigamonti, in un libro intitolato I costi collettivi della città dispersa (Alinea, 2002). Al primo posto figura il consumo di suolo agricolo, una risorsa non riproducibile. Ma non va sottovalutato il costo sociale, quello che si può chiamare la perdita di un "effetto città", una forma nuova di segregazione e di isolamento. Molto nette sono le conclusioni di Salzano: «Tutte le analisi confermano che la spalmatura urbana è figlia della sregolatezza, dell’anarchia, dell’individualismo. Una realtà con questo genoma non può essere definita città. E infatti non lo è, è il luogo della dissipazione delle risorse territoriali, ambientali, energetiche, finanziarie. Occorreranno sforzi generosi, investimenti ingentissimi, trasformazioni radicali per renderle realtà pienamente urbane».