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Il nostro Paese è pieno di immobili che possono essere riutilizzati per produrre valore sociale. Possiamo seguire alcune piste di lavoro promettenti, per affrontare questa sfida.

Estratto da Community hub, i luoghi puri impazziscono, Avanzi - Sostenibilita Per Azioni s.r.l. Associazione Culturale Dynamoscopio Kilowatt, Cooperativa Sumisura, 2016

Ragionare di community hub significa mettere a fuoco situazioni problematiche, risorse potenziali, attori e fenomeni, indicando piste di lavoro promettenti.
Incontriamo, nella attività di policy design, problemi pubblici di difficile trattamento: per questa classe di problemi, non abbiamo risposte prêt-à-porter. Dopo anni di esperienze e abbondantissima letteratura, possiamo dire che ciò che va sotto il nome di rigenerazione urbana non ammette soluzioni semplici. Ciò non significa che sia un oggetto intrattabile perché troppo complicato. Significa piuttosto che le ricette sono inservibili; quando pensiamo di averle, ci stiamo molto probabilmente sbagliando. Abbiamo (dobbiamo avere) solo risposte tentative, contingenti, falsificabili. Dobbiamo costruire progetti sperimentali, che funzionino come dispositivi di indagine sulla situazione problematica che intendono trattare. Abbiamo però qualche principio d’azione, che può orientarci, perché sappiamo che ha funzionato.
Il primo principio è quello della prossimità: un progetto efficace di rigenerazione urbana richiede un esercizio di prossimità, che può essere garantito soltanto da una struttura radicata nel contesto. Disegnare e condurre efficacemente processi di rigenerazione urbana implica un lavoro di quartiere, che non si riduce alla costruzione di un qualche evento occasionale di partecipazione, ma richiede una attività svolta fianco a fianco con i gruppi e i singoli che intendono mobilitarsi.
Il secondo è l’integrazione, che va intesa non solo in termini di multidimensionalità (l’azione integrata essendo quella che riconduce ad un campo locale azioni ricadenti in più settori di policy), ma anche in termini di tensione costante che va mantenuta lungo le diverse fasi del processo di policy, a partire dal disegno, durante l’accompagnamento e no all’implementazione.
Il terzo principio è quello della co-creazione: non siamo più oggi nella condizione di tematizzare la rigenerazione urbana come una politica pubblica al cui disegno partecipano gli attori locali. La “partecipazione progettata” ha fatto il suo tempo. I soggetti riflessivi hanno smesso di esprimere domande che qualcuno raccoglierà e trasformerà in dispositivi di policy. Non hanno bisogno di chiedere, perché si costituiscono come attori e semplicemente fanno: non intendono più ingaggiare un confronto con la politics e hanno smesso di esserne fonte di legittimazione, nel momento in cui hanno iniziato a occuparsi di policies. Se la partecipazione intesa come maieutica delle volizioni della società af data ai facilitatori professionisti può essere ancora utile per le “grandi opere”, cioè per interventi di dimensioni consistenti che spesso sollevano controversie locali, essa è diventata inservibile per sostenere i processi di rigenerazione urbana. Sono questi terreni di confronto tra decisori, abilitatori, city makers, dove l’interazione può assumere forme di confrontation game, negoziato o co-creazione.

Ci sono dotazioni che non sappiamo bene come usare, patrimoni che muovono i primi passi verso la loro costituzione come risorsa, da quando hanno iniziato a incontrare attori in grado di metterne a valore le potenzialità. Il nostro Paese è pieno di immobili, per usi residenziali, industriali, terziari, che sono sfitti, dismessi o sotto-utilizzati. Sono l’esito di un gigantesco “spreco edilizio” che ha radici non recenti. A fronte di una cospicua disponibilità di stock immobiliare, le forme della domanda e i modi d’uso si stanno fortemente diversificando. Gli spazi della produzione stanno dando luogo a nuove forme di territorializzazione, strutturandosi per liere e cluster produttivi che superano, ad esempio, la tradizionale distinzione tra manifattura e servizi. Si danno fenomeni inaspettati, come ad esempio, la nascita di un neo-manifatturiero urbano, il diffondersi di un artigianato digitale, il ritorno dell’agricoltura nelle cascine in città. Nuovi spazi ibridi, che ospitano professionisti, piccole imprese, start-up, si diffondono nelle città. Le strutture che sono il deposito di passati investimenti pubblici in termini di “welfare materiale”, come le scuole o le biblioteche civiche, tendono ad aprirsi ad una molteplicità di usi, più ore al giorno, per attività che non sono quelle istituzionali. Perfino l’erogazione di servizi sociali prova ad essere esercitata al di fuori degli spazi canonici e frammista ad altri usi, andando ad occupare immobili ex commerciali (come è il caso del progetto WeMi del Comune di Milano). Sono pratiche di riuso, riciclo e upcycling che investono ormai una parte non marginale del capitale fisso territoriale, generando, a volte, impatti non trascurabili in termini di valore sociale.
Ci sono fenomeni che deviano rispetto al canone, da quello che ci ha trasmesso la tradizione o da quello che ci piacerebbe fosse ancora il canone: per questi, possiamo nutrire repulsione o curiosità, ma in ogni caso dobbiamo interrogarci su come governarli. Ad esempio, sappiamo da tempo, per via teorica, che la proprietà pubblica di un bene non è sufficiente a garantire il suo uso pubblico. Cominciamo anche ad avere diffuse evidenze empiriche che tale condizione non è neanche sempre necessaria.
Ci sono attori che cercano di produrre e diffondere innovazione, che si muovono secondo logiche di scon namento tra ambiti divenuti permeabili, tra logiche di mercato e produzione di valore d’uso. Vi è un insieme di pratiche, che possiamo sbrigativamente definire “innovazione sociale”, che produce beni pubblici il più delle volte non avendo rapporti con il settore pubblico. Sono pratiche che perseguono prospettive di utilità collettiva attraverso la forma dell’impresa. Estraggono valore sociale da beni privati, secondo regimi che non sono di supplenza nei confronti del pubblico, né di sudditanza nei confronti del classico privato for profit: sarebbe infatti riduttivo leggerli come risposte a market failures o a state failures.
Allo stesso modo, intrattenendo con il pubblico relazioni di co-creazione, sarebbe scorretto interpretarli secondo la nozione di sussidiarietà, che “raramente ricopre la cooperazione tra pari”, come sostiene Angelo Pichierri. Sono ordinamenti produttivi di “beni pubblici locali”. Costruiscono e mobilitano risorse poste in comune: il loro carattere pubblico non è un dato, ma un costrutto. In qualche caso, tendono a far tornare collettive, dotazioni che hanno visto offuscato questo loro carattere a causa di usi privatistici: è la strada, ridotta a parcheggio di automobili, reinterpretata come social street; o al mercato comunale, che di pubblico ha la super cie, che solo un sofisticato policy design può far tornare a generare impatti collettivi.
Ci troviamo dunque di fronte a problemi e risorse che richiedono soluzioni sperimentali, a fenomeni che sollecitano il riconoscimento del loro stato liminale e la cura del loro carattere anomalo, ad attori che del trespassing fanno la cifra della loro azione.
I community hub aprono a prospettive di intervento interessanti con riferimento a queste sfide. Sono strutture di servizio, che possono fornire informazioni ed erogare servizi di welfare pubblico, ma non si limitano a questo: praticano l’inclusione sociale offrendo counselling per ragazzi, spazi per il doposcuola dei bambini, sale per favorire l’incontro e la colloquialità per comunità straniere. Hanno bisogno di mettere a reddito gli spazi per potersi mantenere e pagare l’offerta sociale, per cui ci puoi trovare l’artigiano e la postazione per il giovane creativo, la start-up e l’impresa sociale, il coworking e il fab-lab. Poi magari, insieme alla cooperative che fanno inserimento lavorativo, disegnano programmi per lo sviluppo dell’autoimprenditorialità dei giovani del quartiere.
Sono spazi ibridi non per una qualche poetica alla moda, ma per necessità: devono costruire modelli di business che facciano tornare i conti e disegnare programmi funzionali che usino intensamente le infrastrutture di cui dispongono. Cambiano funzione e ospitano pratiche differenti, che si alternano nel corso della giornata o nei giorni della settimana: al mattino preparano colazioni, al pomeriggio vi si danno convegno le mamme straniere, alla sera ci si balla il tango. Lasciano spazi ai talenti culturali, ma non sono una sede espositive o un museo. Magari sono cascine, lo sono state o lo sono ancora parzialmente. Hanno praticato la temporaneità, ma solo perché tendono ad assumere una logica incrementale: il loro obiettivo è il consolidamento, non il beau geste dell’apripista che poi si dedica ad altro. Tendono ad essere ostinati. Si collocano a metà tra la pura appropriazione individualistica e l’ossessione comunitaria della condivisione a oltranza. Definiscono certamente comunità inclusive, agite da individui con sistemi di preferenze convergenti, mosse da interessi analoghi, che si riconoscono in obiettivi congiunti. Danno luogo a joint venture che erogano beni pubblici (servizi, infrastrutture) e aiutano a riprodurne (conoscenza, fiducia, riflessività, civismo): di questi, fanno lavoro e impresa. Sono un “pubblico minore”, che ambisce a dispiegare effetti su “pubblici” più ampi.
Sono un materiale interessante, perché si presentano come strumenti per orientare i processi di rigenerazione urbana, dei quali danno un’interpretazione molto più colta di quella che riescono a fornire i bandi del Governo. In primo luogo, sono appunto focalizzati sui processi, prima che sulle opere; se investono in interventi fisici o in beni strumentali, sanno bene a cosa gli servono. Può sembrare incredibile, visto dalla prospettiva della pubblica amministrazione, ma in genere intervento edilizio, funzioni ospitate e modello gestionale sono progettati insieme.
Riconoscono che il campo di intervento non è dato: la loro locality coincide con lo spazio definito dalla loro azione e dalle reti di relazioni che intrattengono con gli attori della propria rete. Il campo locale è un campo strategico: non dovendo gestire programmi area-based, possono permettersi di mettere in tensione i con ni del quartiere, costruendo reti di relazioni anche molto estese, facendo convergere su quello specifico campo locale interessi e ordini di opportunità diversi cati, che disegnano sistemi di governance relativamente sofisticati.
In questo senso, sono pratiche place-based. Il campo locale è scelto, come risultato di una decisione tra alternative: lavoriamo qui perché si danno maggiori opportunità di intervento, oppure qui la nostra azione può essere più efficace, qui abbiamo reti partenariali attive. Lavorano negli interstizi, in quelle parti non toccate o lasciate scoperte dalle politiche pubbliche. Si collocano al margine dei processi più istituzionali, pur non essendo affatto marginali (cioè condannati all’irrilevanza), perché così si può più facilmente cogliere e suscitare l’innovazione. Come sostiene Carlo Donolo infatti, oggi nel nostro paese “i fattori di innovazione si ritirano sul margine e nelle pieghe”. Porsi al margine dà modo di sperimentare una diversa prospettiva; significa scegliere di affrontare un problema aggredendolo dai bordi; significa assumere uno sguardo liminale nella consapevolezza che è strategicamente fertile.
Sanno progettare, catturano bandi: non disdegnano il grant, ma possono praticare anche schemi più complessi. Sono opera da nuovi imprenditori, che hanno superato il modello della cooperativa che gestisce servizi sociali; di operatori culturali che tendono a fare della creatività una impresa. Allo stesso modo, non c’entrano nulla con le assistenze tecniche o i professionisti dell’accompagnamento sociale, anche se a volte da questi ambiti provengono e ne costituiscono l’evoluzione. Sono il risultato dell’opera dei nuovi city makers, perché i maker urbani sono tutti quelli che completano la liera della decisione, dal progetto iniziale alla sua realizzazione e gestione.
Sono community hub perché della “comunità che viene” danno una accezione del tutto processuale, secondo una tensione progettuale che cerca dispositivi di avvio. Sono “spazi della condivisione”, dove si danno azioni orientate (a volte intenzionalmente, a volte come risultato sotto-prodotto) a ispessire il legame sociale. Alimentano potenzialità non esplorate: piuttosto che rispondere a bisogni consapevolmente espressi dalla società locale, sostengono lo sviluppo di possibilità evolutive non intese. Sono la sorpresa che apre al cambiamento. Vale la pena seguirli con attenzione.

I pubblici della cultura, a cura di Francesco De Biase, Milano Franco Angeli, 2014, pp. 294-304.

«A dire il vero, non esiste una forma architettonica propria della biblioteca. Si può dire che per le biblioteche non esiste un’architettura prestabilita come per le stazioni o per gli stadi. Io, ad esempio, non posso guardare l’aeroporto di Roissy o l’arco della Défense senza pensare che quelle costruzioni architettoniche sarebbero delle meravigliose biblioteche. In fondo, la questione dell’architettura delle biblioteche si è posta quando ci si è preoccupati dei lettori, e la biblioteca è diventata un luogo pubblico, inteso come luogo civico. Questo incontro, non privo di contraddizioni, tra libro e lettore fa in modo che l’architettura delle biblioteche sia un genere a sé stante e che la biblioteca non sia più un semplice deposito di libri».

Di biblioteche c’è bisogno, soprattutto nelle zone del paese più degradate e sfilacciate urbanisticamente, socialmente e culturalmente (larga parte del Sud, le periferie delle grandi città, i territori distrutti dall’urbanizzazione selvaggia). Dobbiamo interrogarci su quale ruolo può svolgere una “piazza del sapere” in queste realtà. Renzo Piano in un recente articolo spiegava perché è importante investire nelle periferie: «Le periferie sono la città del futuro, non fotogeniche d’accordo, anzi spesso un deserto o un dormitorio, ma ricche di umanità e quindi il destino delle città sono le periferie. Nel centro storico abita solo il 10 per cento della popolazione urbana, il resto sta in questi quartieri che sfumano verso la campagna. Qui si trova l’energia.. Spesso alla parola 'periferia' si associa il termine degrado. Mi chiedo: questo vogliamo lasciare in eredità? Le periferie sono la grande scommessa urbana dei prossimi decenni. Diventeranno o no pezzi di città? Diventeranno o no urbane, nel senso anche di civili? […]La prima cosa da fare è non costruire nuove periferie. Bisogna che le periferie diventino città ma senza ampliarsi a macchia d’olio, bisogna cucirle e fertilizzarle con delle strutture pubbliche». Con strutture pubbliche, aggiungo io, che creino quel mix di servizi che oggi non ci sono. Sempre Piano scrive «La città giusta è quella in cui si dorme, si lavora, si studia, ci si diverte, si fa la spesa. Se si devono costruire nuovi ospedali, meglio farli in periferia, e così per le sale da concerto, i teatri, i musei o le università. Andiamo a fecondare con funzioni catalizzanti questo grande deserto affettivo. Costruire dei luoghi per la gente, dei punti d’incontro, dove si condividono i valori, dove si celebra un rito che si chiama urbanità».
Howard Schultz, il fondatore di Starbucks, racconta che l’idea di portare negli Stati Uniti una catena di caffè dove fosse possibile bere un espresso decente gli venne durante un viaggio a Milano, nel 1983, quando capì l’importanza, per gli italiani, di avere un luogo dove fare una pausa e scambiare due parole con gli amici prima di tornare al lavoro o a casa. Il bar era il perfetto third place tra il luogo di lavoro e quello di abitazione, un posto dove la gente può stare insieme per il solo piacere di farlo. Negli Stati Uniti i caffè di tipo europeo non esistevano, tranne a New York e a San Francisco, e Schultz vide la possibilità di sfruttare questa assenza proponendo dei bar dove si potesse stare anche per molte ore, bere un caffè o un cappuccino, fare amicizia con degli sconosciuti. Oggi Starbucks è una multinazionale con migliaia di punti vendita.
Il tema dei luoghi dove si va per motivi apparentemente “funzionali” (bere un caffè, o una birra o tagliarsi i capelli) ma che sono in realtà dei centri di conversazione, di scambio di opinioni, di relax, veniva affrontato, qualche anno dopo, dal sociologo urbano Ray Oldenburg nel suo libro del 1989 The Great Good Place. Per Oldenburg questi spazi sono anche strumenti di controllo sui governanti, di impegno civico: in altre parole sono il tessuto connettivo di una democrazia vitale. Non tutti i luoghi pubblici vanno bene: devono avere certe qualità nascoste che li rendono più invitanti per i cittadini. Prima di tutto, devono essere posti neutrali, non connotati per l’appartenenza a una persona, un’associazione, un’organizzazione politica o religiosa. Per quanto “ecumenica”, una parrocchia resta pur sempre una parrocchia e un Rotary club, un Rotary club; al contrario, una birreria o un caffè in piazza sono aperti a tutti (anche se il loro diventare dei luoghi frequentati e amati dipende dagli habitués che ci vanno). Per Oldenburg, devono essere posti «dove gli individui possono andare e venire come vogliono, nei quali a nessuno è richiesto di fare da padrone di casa e in cui tutti si sentono a loro agio». Il secondo requisito è quello di essere dei luoghi di eguaglianza, in cui non si chiede a nessuno se fa il notaio o il pompiere, se si guadagna da vivere come operaio o come professore. «C’è una tendenza degli individui - continua Oldenburg - a selezionare i loro conoscenti, gli amici, e gli intimi fra coloro che sono più vicini come rango sociale. I third places, tuttavia, servono a espandere le possibilità [di fare nuove conoscenze] mentre le associazioni formalizzate tendono a restringerle. I third places contrastano la tendenza a essere restrittivi nel godere degli altri perché sono aperti a tutti e perché enfatizzano qualità non limitate alle distinzioni di status prevalenti nella società. Nei third places il carattere e il fascino della personalità di ognuno, non la sua posizione sociale, sono ciò che conta» (Agnoli, 2009, p. XX).
Negli ultimi anni la ricerca di luoghi “dove tutti si sentono a loro agio” e che sfuggano, almeno in parte, alle ferree leggi del commercio, ha fatto nascere esperimenti interessanti dalla Russia al Giappone, a Londra: per esempio, i caffè dove si paga il tempo di permanenza e non ciò che si consuma. Si chiamano Ziferblat, sembra che i primi siano nati in Russia, si offrono caffè e biscotti, chi vuole può portarsi il cibo da casa, c’è sempre l’wi-fi gratuito e all’uscita si pagano circa 2 euro l’ora, meno di quello che oggi costa in Italia un caffè con brioche in piedi. Lo Ziferblat (in russo significa quadrante) appena sbarcato a Londra rischia di chiudere perché non esiste una normativa che contempli questo tipo di esercizio. In quello londinese c’è anche uno spazio per il co-working, una funzione che ritroviamo in tutti i progetti.
Gli Ziferblat nascono soprattutto come luoghi di incontro, con arredamento vintage, per suggerire un luogo che è il prolungamento dello spazio domestico; spesso diventano piccoli circoli culturali, la clientela è molto varia e dipende da dove è situato lo Ziferblat. Una sveglia ti dice quanto tempo hai trascorso, qui la filosofia è far interagire le persone, riportarle dallo spazio virtuale a una realtà fisica: in un certo senso l’opposto di Starbucks che si è trasformato nello spazio-ufficio di chi lavora in casa, un luogo dove ciascuno ha lo sguardo fisso sullo schermo del proprio computer e ignora del tutto chi sta al tavolino accanto.
A Milano c’è la libreria Open, aperta il 19 novembre 2013. Open si definisce “More than Read, More than Apps, More than Design, More than Work, More than Taste, More than Events”, sei varianti che ne fanno un modello di libreria molto innovativa. Si sfogliano giornali, riviste, libri cartacei, si usano e-reader e tablet, si possono acquistare libri o e-book, il design dello studio Uda è frutto di un processo di condivisione creativa. Uno spazio di 1000 mq. dove studiare, bere un aperitivo su comodi divani ma anche prendere in affitto posti di lavoro, computer, salette di varie taglie 6,12 e 50 posti, una grande area di coworking, una piccola cucina con una zona living, spazi per corsi e attività varie. Un mix tra una biblioteca, una libreria, un caffè, un centro culturale, Open si è in parte finanziata con il crowdfunding ma offrendo qualcosa in cambio: per esempio con 10 euro hai accesso a contenuti digitali extra, con 100 euro ad una postazione di coworking per una settimana e a uno workshop.
Un esperimento ancora più ambizioso viene dall’Olanda: Seats2meet.com (che si potrebbe tradurre con “Sedie per incontrarsi”) sono nuovi luoghi la cui proposta è “l’economia della condivisione”. L’idea di base del progetto è che nel mondo ci sono sempre più persone che si muovono, che collaborano soprattutto in modo digitale, non fanno parte di nessuna struttura organizzativa, utilizzano i social network, si auto-organizzano e mettono in moto energie e creatività. Vengono definiti cittadini della società 3.0: il loro lavoro non mira all’arricchimento personale anche se acquistano prodotti e servizi con la moneta tradizionale, sono interessati soprattutto a collaborare e condividere, apprezzano il capitale sociale e la reciprocità. Sono convinti che i tradizionali luoghi di lavoro e di aggregazione stiano scomparendo o siano sempre più in crisi e che la scuola tradizionale, la fabbrica, i negozi, le biblioteche, i municipi li seguiranno a breve. Come dicono nel loro programma gli inventori di Seats2meet la sfida per l’organizzazione innovativa è aperta e utilizza la rete di contatti per stabilire una connettività permanente tra l’organizzazione, le persone e gli stakeholders. Questi luoghi sono degli hub, dei luoghi dove è possibile sfruttare il valore sociale dei network per creare forme differenti di collaborazione e di impegno individuale e collettivo. Alcuni dati: tra il 2012 e 2013 sono state prenotate 500mila postazioni di lavoro: scrivanie, uffici, spazi incontro. Seats2meet ha 60 sedi che offrono più di 2600 spazi di coworking, 275 meeting space e 250 scrivanie.
Il successo di questi esperimenti rivela l’emergere di nuovi bisogni di socialità e di cooperazione che la biblioteca deve intercettare, naturalmente a condizione di una riflessione sul mutamento del proprio ruolo. Dalla biblioteca come luogo di conservazione del sapere nella sua forma materiale (i libri) si va verso la biblioteca come luogo di sintesi tra formazione, informazione e cultura, come luogo di relazioni. Di fronte alla smaterializzazione del sapere e delle relazioni, abbiamo bisogno di un luogo dove gli incontri si materializzino e dove e l’accesso al sapere si ricomponga. La biblioteca, non essendo un servizio specializzato come un museo, è più adatta di altri luoghi culturali a svolgere questa funzione. Naturalmente, la sua architettura deve garantire la possibilità di essere isolati dal mondo ma insieme agli altri, di offrire momenti di calma, di distacco dai “rumori” della città e dai flussi della vita quotidiana, di decelerazione dalla sovrabbondanza di informazioni e di attività.
L'esempio che forse può aiutarci a capire meglio tutto questo è Sala Borsa a Bologna, tra le biblioteche italiane forse il luogo che meglio rappresenta le novità della biblioteca come spazio pubblico, ed è anche quella che più si avvicina ad alcune grandi biblioteche internazionali come la Bibliotèque du Centre Pompidou di Parigi (BPI). Anche Sala Borsa a suo modo è uno spazio polifunzionale e, come il Centre Pompidou, attira turisti, curiosi, homeless, anziani, bambini, accanto a persone che la frequentano per i servizi che offre: lettura, studio, visione, ascolto, prestito, mostre, conferenze, laboratori, caffè, urban center.
Entrambi sono luoghi che non "tracciano frontiere" che non trasmettono messaggi tipo "questo edificio non fa per te", non sono luoghi riservati alle élite, non discriminano in base al censo, tra chi ha familiarità con la cultura scritta e chi non ce l’ha. Potremmo elencare molti motivi che tengono lontane le persone dai luoghi che non sentono loro, ma a noi ora interessa analizzare quelli che invece attirano e tentare di capire perché una grande piazza coperta come Sala Borsa, che accoglie da 12 anni migliaia di persone al giorno, sia un luogo interessante da studiare.
Il primo elemento sul quale vorrei riflettere è che pur accogliendo circa 1,3 milioni di visitatori all’anno è un luogo molto sicuro e “civile”. Per capire cosa accade vale la pena consultare i post-it che è possibile leggere nel sito, “Sala Borsa mi piace perché…”

• …Truman Capote direbbe nel suo Colazione da Tiffany: 'Salaborsa? E' come Tiffany! Un luogo pacifico, dove ti senti bene e dove tutti sono cordiali
• …perché c'è una fantastica varietà di tipi umani!!
• ...posso portare il mio bimbo al caldo in inverno e allattarlo e farlo giocare con i libri morbidoni
• ....così posso scappare dai miei coinquilini
• ...perché anche a 81 anni mantiene sani e vivi
• ...mi piace molto. I love the ruins that are visible through the floor. It's great for studying and relaxing. Il caffè è bene. I enjoy the fun chairs on the first floor
• ...per le sue poltroncine con appoggio morbido tutte colorate
• ...è l'esempio concreto e vivente della social-democrazia
• ...ci sono dei libri sulla storia e la cultura armena – Narina
• ...perché qualsiasi sia il tuo dubbio, qui trovi la risposta. Perché è un edificio bellissimo. Perché mi dà pace
• ...perché 'io barbone' quando piove o fa freddo ho un riparo ma soprattutto perché posso acculturarmi, che non è poco.

Scorrendo questi e altri messaggi si capisce che Sala Borsa è un luogo in cui le persone si sentono bene, anche se hanno provenienze culturali ed età molto differenti; è un luogo che non discrimina , in cui le persone si sentono accettate, è una grande piazza coperta dove accade esattamente quello che accade in tutte le piazze accoglienti del mondo: si prende il caffè, si legge il giornale, alle 18 si ascolta il pianoforte, ci si dà appuntamento, si guarda una mostra, si osservano gli altri, si prende il fresco, si “acquistano” i libri nella bancarella degli amici della biblioteca, si posteggiano le carrozzine e si ricorrono i bambini che scappano.
Perché accade tutto questo? E perché le persone aderiscono spontaneamente alle stesse regole? Provo ad ipotizzare alcuni elementi, un interessante mix che incrocia aspetti architettonici, estetici, antropologici, sociologici:

• è uno spazio bello;
• si incontrano “tipi molto diversi”, la diversità di persone e di attività trasmette il messaggio che “troverò qualche cosa per me e qualcuno come me”;
• non intimidisce: anche, se molto grande è uno spazio amichevole;
• siamo di fronte ad un’offerta molteplice, il conflitto si genera quando siamo di fronte ad una sola offerta;
• si attraversa la grande e bella piazza esterna, si salgono gradini che sono un’espansione, un’estensione di quello che si trova dentro, si entra nell’esedra, uno spazio circolare abbastanza grande che non ci fa vedere oltre, si attraversa un corridoio piuttosto stretto e poi appare la grande e straordinaria piazza coperta. Tutti hanno le stesse esperienze architettoniche, tutti provano lo stesso stupore, le stesse emozioni;
• evoca uno spazio esterno ma nello stesso tempo è più intimo e conviviale, più sicuro, più protetto;
• è molto grande ma è articolata in spazi che propongono esperienze differenti: la grande piazza, la sala scuderie, i ballatoi dove si legge, si studia e si guardare cosa accade nella piazza, gli spazi per bambini e adolescenti nei sotterranei, quello per i più piccoli affacciato sulla piazza insieme al caffè, una sorta di grande spazio civico dove nessuno ti obbliga a consumare;
• la scelta di inserire i servizi dentro a un luogo che ha avuto altre vite è un valore aggiuntivo perché è il luogo stesso che mostra la sua storia. Questo facilita anche una riflessione per usare con maggiore consapevolezza gli edifici esistenti.

Questi esempi ci aiutano a ragionare sul fatto che oggi la questione dell’architettura delle biblioteche è aperta: se prima ci preoccupavamo dei libri, oggi lo scopo è fornire un servizio a delle persone, quindi più che sulla forma dell'edifico è necessario lavorare sugli interni, sulla dislocazione dei servizi, su spazi polifunzionali e trasformabili, arredi ecologici e originali. Siamo abituati a modelli di biblioteca ripetitivi, con programmi biblioteconomici fotocopia, concept standard dei servizi; se vogliamo interagire con la comunità e far diventare la biblioteca uno strumento della politica urbanistica abbiamo bisogno di varietà, creatività, originalità. Le biblioteche degli anni ’70, con arredi, colori, segnaletiche, disposizione delle scaffalature, collezioni tutti uguali, sono superate da una realtà sempre più frammentata, molteplice e multiculturale. Oggi sono necessari approcci critici e sguardi laterali: solo così possiamo rispondere all’obiettivo di realizzare un edificio pubblico utile alla città; la biblioteca, se fatta bene, per le sue caratteristiche di luogo neutro e di eguaglianza può esserlo più di altri edifici culturali.
Ma una visione più “sociale” del servizio può aiutarci ad individuare l’architettura più adatta? Di sicuro sappiamo che la biblioteca non sarà più un “monumento del sapere”: per sopravvivere dovrà essere capace di trasformarsi, di mutare pelle, di sorprendere, eccitare la fantasia e offrire ai suoi utenti attività diversificate: alfabetizzazione informatica, laboratori manuali di tutti i tipi (dalla cucina giapponese a come riparare la bicicletta, al giardinaggio). Ci saranno spazi per il cooworking, attività di ascolto, racconto, lettura; corsi per imparare a suonare uno strumento, a danzare, a recitare; feste di compleanno, di matrimonio, anniversari; corsi di lingua, di recupero scolastico, corsi per la lettura dei quotidiani, per l’uso delle nuove tecnologie, della rete, per imparare come funziona una stampante 3D o un macchina da cucire. Attività che andranno progettate e realizzate con il coinvolgimento dei cittadini e delle associazioni. Sarà un luogo dalle molte identità e dalle molte definizioni: ibrida, molteplice, sociale, aumentata.
Per la riuscita di questo progetto occorre però il coinvolgimento dei cittadini fin dalla fase di progettazione, oggi imprescindibile, e una buona localizzazione. Il resto dipende da quanto l’ambiente fisico è in grado di accogliere e facilitare le relazioni, se riesce a diventare un luogo di produzione culturale dal basso.
Oggi è la funzione sociale, economica, educativa, cognitiva -di tutti i luoghi della cultura- e tra questi le biblioteche, che giustifica la loro esistenza. Non possiamo più pensare di tenere aperte, o semiaperte, migliaia di biblioteche pubbliche per quell’11% della popolazione che oggi le frequenta . L’Italia è un territorio pressoché vergine che ha bisogno come non mai dei nostri servizi e le biblioteche devono guardare come funzionano i luoghi dove le persone si ritrovano: i caffè, i ristoranti, le nuove librerie, i mercati della domenica, i musei di recente concezione, i centri commerciali, i luoghi interattivi frequentati dai giovani, i mercati, le piazze, i centri sociali e i circoli culturali, i teatri occupati, le palestre, le stazioni, gli orti sui tetti, le social street, i luoghi di aggregazione spontanea. Molti di questi luoghi si sono evoluti e trasformati proprio a partire dalle aspettative dei pubblici.
Per le biblioteche è un po’ più complicato perché devono tenere conto di tradizioni, interessi e comportamenti consolidati nei secoli: sicuramente continueranno ad accogliere libri di carta, non solo perché legati alla conservazione del sapere ma perché i lettori di libri cartacei sono ancora un gruppo consistente. Accanto a questi, negli ultimi anni, sono fortemente aumentati gli utenti che prendono in prestito film, musica e che utilizzano le tecnologie, soprattutto Internet perché è gratuito. Da questo punto di visto i comportamenti coincidono con quelli delle librerie ma quello che fa la differenza è la gratuità e la mediazione del personale che dovrebbe aiutare la comunità ad accedere alle informazioni. La vera evoluzione delle biblioteche sta proprio nella loro capacità di rispondere ad una domanda crescente su tematiche diversificate e prima inimmaginabili.
Oggi la biblioteca sta subendo forti pressioni per il cambiamento, una pressione alla quale molti bibliotecari e amministratori vorrebbero dare risposta. Non è facile, in un momento di tagli spaventosi ai finanziamenti dei Comuni, di anni di non assunzioni, con una burocrazia ingessata, una politica sprecona e incapace di comprendere dove è più importante investire, difficoltà ad individuare nuove forme di gestione. Questo impedisce di dare delle risposte efficaci e troppo spesso abbiamo servizi inadeguati nella forma, nell’offerta, nel funzionamento, orari che non rispondono ai bisogni dei cittadini, un forte squilibrio tra aspettative, bisogni e offerta.
Non è sufficiente ascoltare i bisogni dei cittadini, dobbiamo essere capaci di anticiparli, sollecitarli, stimolarli e farci ispirare nel processo di cambiamento dagli altri luoghi della vita quotidiana delle persone. Gli studiosi delle biblioteche hanno spesso usato il concetto della serendipity per definire i servizi della biblioteca, soprattutto gli scaffali aperti: a me piace pensare che questo concetto non lo usiamo solo per i libri e per tutti gli altri media, ma per favorire quel potenziale di innovazione insito nella città e nei suoi abitanti attraverso luoghi, momenti e situazioni del tutto inaspettate, di incontri improvvisi.
Apparentemente, i luoghi esclusivamente culturali, o percepiti come tali, finiscono per essere troppo esclusivi: le persone forse si aspettano dei “centri commerciali” della cultura dove nel loro tempo libero possono vivere esperienze che siano contemporaneamente culturali e ludiche, che soddisfino bisogni di apprendimento ma anche di svago, che siano luoghi di lavoro e di vacanza, luoghi che aiutino a saper fare, saper pensare e saper vivere, luoghi di coesione sociale che aiutino ad aumentare l’intelligenza collettiva. Da questo punto di vista sono buoni esempi i musei scientifici, dove grandi e piccoli si divertono con le nuove scoperte, con i giochi interattivi che ci fanno capire come funzionano le cose, la vita dell’universo.
Alla luce di queste riflessioni come concepire un progetto di culture convergenti in cui la biblioteca possa giocare un ruolo senza che la sua specificità si disperda in un progetto generico, ma anzi ne esca rafforzata?
“Oggi dobbiamo pensare a una convergenza di tutti i servizi in entità uniche che favoriscano la partecipazione dei cittadini, l’educazione permanente, il senso di identità. Di fronte alla crisi dei bilanci delle istituzioni culturali pubbliche una razio-nalizzazione è inevitabile, in particolare per i piccoli centri, ma la convergenza non deve essere concepita in funzione difensiva, o come misura di emergenza: deve essere una scelta che viene fatta per migliorare i servizi (orari più lunghi, possibilità di fruizione da parte di pubblici diversi) e soprattutto per realizzare una politica culturale più attiva. Le istituzioni culturali hanno sempre bisogno di rinnovarsi, di adattarsi ai cambiamenti del gusto, a esplorare strade nuove: questo sarà più facile all’interno di un luogo di confronto interdisciplinare.”
Per convergenza non penso solo al mettere insieme differenti servizi culturali che condividono solo alcuni servizi come bagni, hall, guardaroba, oppure a servizi che hanno in comune alcune specificità come archivi e biblioteche, oppure biblioteche, archivi e musei. Penso a progetti capaci di interpretare lo specifico dell’ambiente in cui sono inseriti, di guardare al futuro e alle trasformazioni in atto. Alcuni città ci stanno provando: Thionville, cittadina di 42.000 abitanti situata nella regione della Mosella, dove è stato costruito un edificio di 4.500 mq. che si definisce “terzo luogo” accoglie la mediateca, piccole fabbriche di produzioni artigianali, spazi per creativi, un centro d’arte, una sala da 450 posti, l’ufficio del turismo, una caffetteria, spazi di incontro per i cittadini, le associazioni, oppure il bellissimo multicultural center dell’isola di Middelfart in Danimarca, con la grande facciata di vetro che si affaccia sul mare e accoglie una grande biblioteca, il cinema, un ristorante panoramico, un caffè, l’ufficio turistico e la nuova sala riunioni della città. Ma poi abbiamo anche progetti fantastici come la nuova biblioteca pubblica che verrà aperta nel centro di Helsiki nel 2017 anno che celebra i 100 dell’indipendenza del paese, sarà la prima biblioteca al mondo con sauna, ma funzionerà anche come centro culturale con ristoranti, cinema, spazi per mostre e per attività varie disposizione dei cittadini. Verrebbe da chiedersi come mai un Paese dove l’80% degli abitanti utilizza le biblioteche, la media dei prestiti pro capite dei finlandesi è di 17 documenti ogni anno, sente il bisogno di pensare a quale sarà la biblioteca del futuro, rinnova continuamente le loro strutture, realizza progetti sempre più creativi ed inclusivi mentre potrebbe accontentasti degli straordinari risultati raggiunti? La voglia di guardare il futuro, di interrogarsi continuamente, di non dare mai nulla per scontato: questa è la lezione che dobbiamo imparare.

In questi giorni, Trump ha deciso di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, provocando le proteste e la giusta indignazione di tutti i paesi arabi alla Turchia all’Arabia Saudita, alla Palestina,che annuncia “un giorno di collera”... (segue)

In questi giorni, Trump ha deciso di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, provocando le proteste e la giusta indignazione di tutti i paesi arabi, dalla Turchia all’Arabia Saudita, alla Palestina (che annuncia “un giorno di collera”), e di molte cancellerie europee preoccupate per quella che sembra, nemmeno troppo velatamente, una provocazione gravida di conseguenze imprevedibili per tutta l’area del Medio Oriente. Con lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme, di fatto gli Stati Uniti riconoscerebbero la città santa come capitale d’Israele, come mai prima aveva osato fare la comunità internazionale. Per ricordare il valore simbolico di questa città, sono riportati, di seguito, alcuni brani tratti dal libro del cardinale Martini, Verso Gerusalemme.

Carlo Maria Martini, l’arcivescovo di Milano, avrebbe voluto trascorrere a Gerusalemme gli ultimi anni della sua vita, scegliendola addirittura come la terra per la propria sepoltura. Non perché fosse semplicemente terra dei luoghi santi; semmai perché città lacerata da conflitti violenti, da passioni contrapposte, eppure fatta di persone viventi, di popoli, di comunità delle tre religioni monoteistiche che qui convivono. La chiamava la città dello shalom, che significa pace, completezza, prosperità, ma soprattutto amicizia, accoglienza.

Nel suo libro, così descrive il suo incontro con la città:

«Arrivai in aereo da Roma di sera tardi, mi recai sul terrazzo della casa e mi misi a contemplare il cielo stellato guardando verso le mura. A un tratto ebbi quasi con prepotenza questa percezione: io sono nato qui, a Gerusalemme. […] Mi sembrava di essere davvero nato lì, di essere sempre vissuto a contatto con quelle pietre.

Questa città, unica al mondo, svolge un ruolo simbolico fondamentale: «Ne deriva che la pace in Gerusalemme è il segno della pace nel mondo, è una questione cruciale per i popoli che vi abitano e insieme per l’umanità intera, in quanto simbolo, segno, del destino umano».

Ma Gerusalemme è anche la città della tensione, tra i praticanti e i non praticanti, tensione tra comunità differenti: «E’ una tensione che vibra sempre in questa città”, dove permane un conflitto mai sanato e che forse mai si sanerà. Ed ecco affacciarsi il tragico dilemma, si chiede Martini: il dualismo; città dell’incontro o semplicemente città della coesistenza? Città in cui tante persone e situazioni si passano vicini, ma non si compenetrano? La risposta del cardinale è questa: «Gerusalemme è un mondo di coesistenza e non di simbiosi: voi siete là, per esempio, alla porta di Sichem e potete vedere, gli uni accanto agli altri, un rabbino che va a pregare al Muro, una ragazzina in minigonna che viene da un kibbutz, un musulmano sul suo asino e poi un monaco greco. Non c’è, direi, alcuna interpenetrazione. Ciascuno vive nel suo mondo; non c’è niente di comune tra il mondo del rabbino e quello del monaco greco: sono mondi differenti che coesistono, l’uno affianco dell’altro».

Gerusalemme è città dei simboli. La pietra, innanzi tutto: «pietra non soltanto perché sorge su colline rocciose ma anche perché «pietra» sono i tre centri della città: la pietra del Muro del Pianto, la pietra della cupola, la pietra ribaltata del Sepolcro. E la Porta, porta della speranza: entrare in Gerusalemme, scrive Misrahi, è entrare nel combattimento per la giustizia, è assumere la responsabilità della lotta. Questa entrata avrà perciò uno sbocco, un’uscita: da Gerusalemme uscirà la Legge».

«E la nuova Gerusalemme è il punto di riferimento che dà senso a tutta la storia umana, è il punto d’arrivo di tutte le nazioni e di tutti i popoli, è la città ideale aperta e pronta a ricevere tutti, è la città che esclude ogni impurità e ogni falsità, che affratella nazioni e popoli a mano a mano che vengono immersi in questa pienezza luminosa».La decisione di Trump di spostare, in questo luogo sacro dell’umanità, l’ambasciata americana, è quanto di più empio sia stato partorito da questa modernità che ha totalmente perso il concetto della sacralità (come lo intendeva Pasolini). Solo a un Tycoon come Trump poteva venire in mente un’idea simile, segno e simbolo di future sciagure.

Nel corso dell’anno ci sono tantissime ”giornate” ecologiche, quella della Terra, quella dell’ambiente, dell’acqua, degli oceani, eccetera. E passa quasi inosservata la giornata mondiale … dei gabinetti, che pure cade ogni anno il 19 novembre, organizzata dalle Nazioni Unite. Quest’anno il tema è “Wastewater”, cioè l’acqua con cui vengono eliminati gli escrementi.

Nei paesi industrializzati ci sono operazioni e gesti così “naturali” che neanche ci si pensa; ogni giorno è normale e indispensabile liberarsi del “superfluo peso del ventre” (come lo chiama Boccaccio); ogni persona, sia ricca e potente o povera e poverissima, ogni anno elimina circa 1000 chili, una tonnellata, di urina e feci.

Se una persona dispone di un gabinetto ad acqua corrente, per lo smaltimento di questi rifiuti, ogni anno “consuma” da 10 a 20 mila litri di acqua che viene così sporcata e contaminata; un fiume contenente sostanze organiche, batteri, virus, residui di medicinali, e di altre sostanze ingerite durante il giorno.

Se i gabinetti sono collegati ad una fognatura e a qualche depuratore, una parte dei rifiuti organici viene trattata o trasformata; altrimenti le acque sporche vanno a finire nei fiumi o nel mare e sono fonti di inquinamento microbiologico e di diffusione di virus.

Il gabinetto costituito da una tazza e da un serbatoio di acqua, una tecnologia perfezionata nel corso del Novecento è ormai considerata del tutto normale nei paesi più progrediti: in molti paesi si esige che i gabinetti siano presenti, oltre che nelle singole abitazioni, nelle scuole, negli uffici, nelle carceri, negli ospedali, nelle fabbriche; per molti lavoratori vengono progettati e resi disponibili gabinetti mobili.

Ebbene adesso fermatevi e pensate che questa situazione è un privilegio di pochi perché nel mondo 4000 milioni di persone come voi e come me, con le stesse necessità fisiologiche vive in abitazioni prive di gabinetti con acqua corrente e mille milioni - avete letto bene - defecano e fanno i propri bisogni all’aria aperta.

I loro escrementi, con il carico di sostanze puzzolenti suscettibili di putrefazione e fermentazione e di batteri e virus, finiscono nel suolo, contaminano le acque superficiali con cui vengono a contatto gli altri abitanti del paese e del villaggio, veicoli di malattie, epidemie e morte. I più colpiti sono i bambini che giovano per terra, sguazzano nelle pozze di acqua contaminata, tanto che nel mondo ogni anno oltre 300 milioni di bambini in tenera età muoiono per malattie associate alla mancanza di pur elementari servizi igienici, una strage degli innocenti.

Il superamento di questa situazione è considerata una delle priorità sanitarie dalle Nazioni Unite che organizzano iniziative per diffondere in tutti i paesi la disponibilità di gabinetti e di servizi igienici che assicurino anche ai più poveri sicurezza igienica e anche dignità, per un delicato e privato irrinunciabile atto della vita quotidiana.

Per richiamare l’attenzione delle autorità sanitarie e dell’opinione pubblica su questo grave problema, si tiene ogni anno la “Giornata mondiale dei gabinetti” voluta dalle Nazioni Unite in collaborazione con la associazione internazionale World Toilet Organization. Le iniziative per assicurare servizi igienici per i paesi poveri e poverissimi non sono motivate soltanto da considerazioni etiche o dall’amore per il prossimo; la diffusione di apparecchiature igieniche per chi ne è privo rappresenta un potenziale grandissimo affare industriale e finanziario. Infatti al fianco delle conferenze annuali della World Toilet Organization, la prossima si terrà alla fine di novembre a Melbourne, in Australia, si svolge una grande esposizione di gabinetti e fognature in cui centinaia di imprese presentano le proprie proposte di sistemi igienici, possibilmente a basso costo e efficienti, da esportare nei paesi poveri.

Il “mercato” è sterminato: in paesi come il Sud Sudan, Madagascar, Congo e Ghana, oltre l’80 percenti della popolazione non ha gabinetti. La situazione non è migliore neanche nelle abitazioni delle megalopoli di molti paesi emergenti nei quali la rapidità della crescita delle città non tiene il passo con il dovere di assicurare adeguati servizi igienici di gabinetti, fognature, depuratori.

La cui mancanza “costa” anche in termine di soldi se si considerano le spese che la collettività deve affrontare per curare dissenteria, malaria, epidemie e malattie provocate dal contatto con acqua sporca nelle case e nei villaggi. E’ stato calcolato --- ci sono sempre economisti pronti a tradurre in soldi anche il dolore umano --- che per ogni euro speso per migliorare i servizi igienici un paese ne risparmia 4 per minori spese di assistenza sanitaria.

Le Nazioni Unite si sono poste l’obiettivo di assicurare servizi igienici minimi per tutti nel 2030 e mancano appena 13 anni. E’ quindi evidente che le autorità sanitarie dei vari paesi chiederanno, a chi li sa produrre, apparecchiature igieniche, contando anche su finanziamenti internazionali.

E’ una nuova corsa a inventare, perfezionare e fabbricare strumenti per migliorare le condizioni igieniche del mondo, specialmente dei paesi più poveri: occasioni per affari e attività industriali per un “mercato” che pure comprende centinaia di milioni di persone.

Nelle Università può sembrare ridicolo lavorare su problemi così “volgari” come la progettazione di “gabinetti di villaggio” e di tecniche di depurazione delle acque di fogna, anche se la loro soluzione richiede spesso avanzate competenze tecnico-scientifiche.

Da noi per i paesi arretrati lavorano soltanto le associazioni di volontariato e le Famiglie missionarie, con mezzi limitati e nel disinteresse generale della politica e anche delle imprese. Alla progettazione e costruzione di gabinetti e sistemi igienici per i paesi arretrati lavorano invece intensamente proprio i paesi di nuova industrializzazione, come Cina e India; a Singapore e in India esistono dei Toilet Colleges per la ricerca tecnico-scientifica a e per l’educazione e l’informazione. Eppure queste tecnologie, umili e considerate “povere”, potrebbero dar vita anche in Europa a nuove imprese, a nuovi posti di lavoro, con prospettive di una vastissima richiesta futura: una ingegneria del rispetto per il prossimo e per l’ambiente.

Questo articolo è inviato contemporaneamente a il manifesto.

Sia che le proposte urbanistiche degli anni Venti fossero di «urbanisti» o di «disurbanisti», ci pensò il Comitato centrale sovietico del 16 maggio 1930 a decretarne la morte o la stentata sopravvivenza (segue)

Sia che le proposte urbanistiche degli anni Venti fossero di «urbanisti» o di «disurbanisti», ci pensò il Comitato centrale sovietico del 16 maggio 1930 a decretarne la morte o la stentata sopravvivenza, tacciandoli di estremismo, utopismo e, per eccesso di incoerenza, di opportunismo. Lenin era morto da sei anni. Egli riconosceva il ruolo indispensabile della città per il progresso sociale ma l’ideale di sopprimere l’antagonismo fra città e campagna era al primo posto. Sarà Stalin a dichiarare con impressionante noncuranza tautologica che «l’eliminazione delle differenze sostanziali fra l’industria e l’agricoltura non potrà portare all’eliminazione di qualsiasi differenza fra di esse. Una certa differenza… incontestabilmente rimarrà, a causa delle differenze esistenti nelle condizioni di lavoro nell’industria e nell’agricoltura»[1].

Il realismo era avverso all’utopismo e soprattutto al modernismo, come si confermerà in seguito per la restante durata dello stato sovietico a causa dell’ordine zdanovista applicato all’arte e all’architettura.

Leggiamo l’articolo del Guardian in eddyburg. Da una parte risaltano trionfalistiche costruzioni e sistemazioni pseudo-sociali di abbellimento urbano, dall’altra risuonano pesanti passi dell’oca verso il «cambiamento», ossia la privatizzazione dell’edilizia includente vecchi e umani spazi comunitari. Non esiste in Russia nel modo di costruire la città alcuna cultura e pratica differenti da quelle dominanti nel mondo della globalizzazione urbana.

L’architettura di oggi a Mosca
Quella, sempre a Mosca, del 1952

Come in qualsiasi paese d’occidente deturpato dalle ignobili scelte d’architettura urbana in un medio ed estremo oriente in grado di esportarle, Mosca esibisce, e continuerà a farlo nel futuro, i soliti grattacieli dritti, torti, sciancati come dappertutto, credendo con questi di dar lezione sbeffeggiante ai sette famosi edifici alti e complessi definiti «stalinisti» (Stalinskie Vysotki): dall’Hotel Ucraina all’Università Lomonosev, dall’Hotel Lenin al Ministero degli esteri, e così via: uniche grandi costruzioni realistiche da noi selezionate come architetture storiche difese dalla loro stessa consistenza massiva nella determinata funzione, e recepite sensitivamente come organi emittenti note estreme di un neo-romanticismo né europeo né asiatico, o forse fusione di entrambi. Il romanticismo musicale russo potette prolungare la propria esistenza, proporzionalmente appartata, oltre l’ultimo ventennio dell’Ottocento grazie a Rachmaninoff (che lasciò la Russia nel 1917), musicista estraneo ai movimenti espressionistici e al rivolgimento viennese ma capace di portare gli ascoltatori che riempivano e riempiono tuttora gli auditori al più alto grado di commozione con le sue invenzioni tematiche, esaltate da un pianismo mirabolante e in se stesso tecnicamente (diremmo) romantico.

Cosa è successo all’architettura e all’arte della rivoluzione, cosa potrebbe succedere? Qual è il grado di riconoscimento dell’autorità e dei cittadini verso l’architettura moderna e l’arte geometrica parente stretta della prima? L’arte è caduta prima del 1930; aveva raggiunto vertici d’espressione oltre l’astrazione, collegata com’era al tema della construction e all’impaginato colto della propaganda sovietica negli anni precedenti e immediatamente successivi al 1920. La pittura e la scultura realiste (oltre alla letteratura), celebrative o commemorative, dovettero ad ogni modo attendere il superamento (effettivo o apparente) dei contrasti politici e culturali al centro e alla periferia del potere per approdare alla più inerte forma di interpretazione della vita nella Grande Russia quale modello di felicità. La prospettiva zdanovista al congresso degli scrittori nel 1934 sanzionerà definitivamente ogni deviazione. Dopo la sua morte sarà Stalin in persona, nei pochi anni che gli resteranno da vivere, a emanare pesanti critiche, censure e divieti, il cui effetto durerà a lungo. Sicché, all’interno di un consenso popolare privo di strumenti conoscitivi, non potranno formarsi né tantomeno affermarsi, nuovi artisti in nessuna disciplina. Unica eccezione la straordinaria figura di Dmitri Shostakovich, personaggio centrale di un racconto, non proponibile qui, sul rapporto fra l’arte e il potere.

L’architettura dopo la rivoluzione presenta una propria versione della tendenza che in diversi modi percorre l’Europa, tutti diretti a contestare l’eclettismo ottocentesco e i suoi retaggi, a cercare nuove strade, nuovi stili improntati alle ragioni fondamentali delle funzioni relative alle persone e alle domande sociali. Architetture diverse possono manifestare la stessa volontà di riforma, ma si è soliti identificare come maggioritario ed europeista il razionalismo originato in Germania e diffuso in altri paesi, magari trascurando esperienze non meno importanti benché localizzate in contesti regionali, per esempio Vienna o Amsterdam. In Russia numerose associazioni di architettura o di cultura in cui l’arte e l’architettura concorrono a creare condizione nuove, «rivoluzionarie », agiscono per rispondere modernamente alla gigantesca domanda di ogni genere di edifici e infrastrutture.

Gli architetti con alla testa i giovani non estranei agli sviluppi della disciplina in Europa ricevono il messaggio razionalista ma ne vogliono approfondire la costituzione più avanzata. Così si affermano correnti originali, in alleanza con l’arte geometrica cui abbiamo accennato, che avranno risonanza fuor dei confini. Razionalismo «sovietico», costruttivismo, cubofuturismo (preavvisato, se così si può dire, dall’avanguardia futurista in pittura fin dal 1912) testimonieranno con interventi in diverse città la grandezza di molte realizzazioni. La nuova architettura, diversamente dall’urbanistica, sembrò poter superare l’anatema del 1930 e infatti qualche risultato conforme lo ottenne ancora al principio del decennio, ma bastò poco tempo perché suonasse la grancassa del realismo socialista ripudiante l’opera avanguardista degli anni Venti.

Di qui possiamo riallacciarci agli interrogativi fatti. Esistono ancora in Russia, e anche in nuovi stati distaccatesi dall’«impero», numerosi complessi architettonici o unità che, come già avvenuto nel passato, potrebbero rischiare di scomparire stante la concezione urbana e architettonica predominante.

La Royal Academy of Arts ha organizzato per la fine del 2011 e l’inizio del 2012 la mostra Building the Revolution: Soviet Art and Architecture 1915-1935. Quattro città europee l’hanno accolta, Salonicco, Barcellona, Madrid e Londra. Il magnifico catalogo ci è arrivato da poco. Ne abbiamo ricavato una selezione, cinque lavori di grafica-pittura-modellini (quattro dal titolo Construction, uno con la proposta grafica di El Lizzistzky per il monumento a Rosa Luxenburg), sedici di architettura, disparati. Con queste ventuno figure abbiamo costruito un corpus di immagini facilmente consultabili: vedi qui sotto il rettangolo del frontespizio blu con la scritta; basta il doppio clic per aprire la serie a pieno schermo del pc, passando dall’una all’altra con un semplice clic o con le freccette di spostamento.

Clicca qui per sfogliare il catalogo

Il quadro d’insieme delle architetture evidenzia:
1.- Molti edifici appaiono in stato di degrado, tanto da richiedere interventi urgenti di restauro. In verità dove ha prevalso l’abbandono, spesso concentrato nell’industria ma non estraneo a nuclei abitativi, l’ipotesi del restauro sarebbe illusoria se non falsa.
2.- Qualche caso di restauro accurato emerge dalla rassegna. Vedi in particolare la bellissima scala «novecento» in un complesso a Ekaterinburg destinato originariamente a personale del KGB (privilegio delle élite?).
3.- Risalta la mancanza di manutenzione in edifici residenziali famosi, vedi la Casa comune di Ginzburg e Milinis in viale Novinski a Mosca.
4.- Al contrario, si nota come possa perpetuarsi la funzione sociale di complessi abitativi un tempo pubblici quando la soluzione urbano-architettonica sia stata particolarmente felice, vedi la Casa comune di Ginzburg e Pasternak a Ekaterinburg.

[1] G. Stalin, Problemi economici del socialismo nell’URSS, Ed. Rinascita, Roma 1953, pp. 40-41, cit. in V. Gerratana, Introduzione a F. Engels, Antidüring, Editori Riuniti, Roma 1971, p. XXVII, nota 11

Piove. Dalla finestra guardo le prime intense piogge di questi giorni di novembre e la mente corre ai “novembre” dell’alluvione del Polesine, di quelle di Firenze e Venezia e a tutte le alluvioni e frane che ho visto nel corso della mia vita.

Dopo la più calda estate degli almeno ultimi cento anni è cominciata la stagione delle piogge, improvvise e violentissime, diecine di centimetri di acqua caduta in un solo giorno, in zone spesso relativamente ristrette. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti; paesi allagati, case distrutte, fabbriche ferme, campi che hanno perduto i raccolti, prima per la siccità e ora per gli allagamenti. Miliardi di euro di soldi, pubblici per ricostruire strade e per risarcire i danni, privati, ma soprattutto beni materiali spazzati via e dolori, spesso morti.

Le cause sono due, su entrambe si potrebbe intervenire, se si volesse. Le bizzarrie di siccità e piogge sono dovute ad un ormai innegabile mutamento del clima rispetto ai decenni e secoli precedenti: mari più caldi a livello planetario, fusione dei ghiacciai permanenti, modificazioni irreversibili del grande ciclo dell’acqua planetario.

Se ce ne fosse stato bisogno lo hanno ripetuto, nei giorni scorsi, anche gli scienziati dell’amministrazione dello scettico presidente Trump.

La rivoluzione industriale del carbone dell’Ottocento, ma soprattutto nell’ultimo mezzo secolo l’età del petrolio, con l’aumento del consumo dei combustibili fossili, l’irrinunciabile alimento della società dei consumi - nei paesi industriali, in quelli di recente industrializzazione e in quelli poveri che aspirano ai modelli di vita europei ed americani - hanno provocato un crescente flusso di gas (anidride carbonica, metano e altri) che, immessi nell’atmosfera, ne alterano la composizione chimica. Questo fenomeno, come è noto, fa lentamente aumentare la quantità di calore solare che resta “intrappolato” nell’atmosfera e che riscalda, di conseguenza, continenti ed oceani.

Da decenni gli scienziati chiedono ai governanti della Terra di rallentare il flusso nell’atmosfera dei gas che alterano il clima, modificando la produzione e il consumo di merci e di servizi, ”limitando” le attività che comportano un crescente consumo di combustibili fossili.

Nei prossimi giorni a Bonn sentiremo i governanti del mondo discutere, per la ventitreesima volta, di un grado e mezzo o di due gradi di riscaldamento, di “p.p.m.” di gas serra, se sono più colpevoli il carbone o il metano o le flatulenze dei bovini, concludere con dichiarazioni di buona volontà, anche se nessun governante dei paesi maggiori inquinatori vuole scontentare i venditori di carbone, di automobili, di petrolio, di gas, di elettricità, eccetera.

Tutto questo per dire che la situazione continuerà per anni come la conosciamo adesso, con tutti i suoi danni d’estate e d’inverno.

Ciò premesso, i danni dei mutamenti climatici sulle attività umane derivano soprattutto dal fatto che l’acqua piovana, per quanto intensa, non trova più le strade per raggiungere il mare da dove si è originata, quelle strade, rigagnoli e poi torrenti e poi fossi e poi fiumi, che la natura nei millenni aveva predisposto per agevolarne il moto lungo le valli e nelle pianure.

In Italia, nel dissennato uso del territorio di tanti decenni sono stati costruiti, autorizzati ed abusivi, edifici, strade, ponti, ferrovie, senza alcuna attenzione al moto delle acque, anzi alcuni interventi rappresentano veri ostacoli al moto delle acque; per alcune “infrastrutture”, come le chiamano, sono stati sbancati i fianchi delle valli e sono così stati accelerati i fenomeni erosivi che lasciano un suolo nudo su cui più facilmente e violentemente scorrono le acque.

Spesso dove è arrivata la presenza umana la copertura vegetale è stata considerata inutile; dove si pensa che siano d'intralcio alle opere “economiche”, alberi e macchia vengono estirpati o bruciati. Quest’estate poi la forza devastante degli incendi ha reso il suolo di centinaia di migliaia di ettari ancora più esposto all’erosione.

Per attenuare i dolori e i costi delle alluvioni ci sono (ci sarebbero) alcune cose da fare: prima di tutto opere di rimboschimento e incentivi per riportare l’agricoltura nelle zone collinari perché la cura del bosco e il paziente e rispettoso lavoro degli agricoltori sono i principali rimedi per regolare il flusso delle acque nel loro cammino dalle valli al mare.

Se il suolo è coperto di vegetazione la forza di caduta delle gocce d'acqua si "scarica" sulle foglie e sui rami, che sono elastici e flessibili, e l'acqua scivola dolcemente verso il suolo e scorre sul terreno con molto minore forza erosiva e distruttiva.

Quest’anno avremmo avuto un lungo periodo senza piogge che avrebbe consentito, ad un governo previdente, di far ispezionare tutte le vie di acqua e di far sgombrare le rocce e la vegetazione e gli ostacoli che le ingombrano e che rendono le valli più esposte alle frane.

Vorrei fare la modesta proposta di istituire un Servizio Idrogeologico Nazionale che tenga sotto continuo controllo lo stato dei corsi dei fiumi, proceda alla pulizia e manutenzione di tutte le strade percorse dall’acqua nel suo moto verso il mare, dei fossi, dei torrenti e dei fiumi maggiori al fine di rimuovere gli ostacoli incontrati dalle acque e di tenere aperte le vie naturali del loro scorrimento, che predisponga la liberazione dei fiumi e canali che sono stati “intubati” e coperti per guadagnare spazio per strade e edifici. Quando un flusso più intenso di acqua incontra queste prigioni artificiali, l’acqua “si arrabbia” e torna violentemente in superficie e porta distruzione e morte.

La istituzione di un Servizio Idrogeologico Nazionale consentirebbe la creazione di diecine di migliaia di posti di lavoro; capisco che è forse difficile trovare dei laureati che accettino di camminare lungo i torrenti e i canali, di controllare e identificare gli ostacoli al moto delle acque, di pulire i tombini nelle città, ma ci sarà pur gente che ha voglia di farlo considerando che questo servizio è il più importante, anzi unico, sistema per evitare disastri futuri. So bene quanto sia difficile questo progetto ma so anche quanta ricchezza e lavoro potrebbero essere mobilitati e quanti costi monetari e dolori futuri potrebbero essere evitati.

Infine all’ingresso dei vari ministeri dell’ambiente, delle infrastrutture e delle loro agenzie e uffici periferici che parlano di sostenibilità e di resilienza, proporrei di scrivere l’ammonimento di Albert Schweitzer: “L’uomo ha perso la capacità di prevedere e prevenire; finirà per distruggere la Terra”.

So di dire un’ingenuità. Ma è la sola cosa che resta a chi legge ogni giorno le estenuanti prove di dare vita, a sinistra, ad una coalizione diversa dal PD. I temi non mancano: le disuguaglianze che si allargano sempre di più, la povertà che rischia di diventare miseria di strati sempre più ampi della popolazione, la minaccia ambientale fattasi urgentemente concreta, le sorti della scuola e della università, la precarietà diffusasi come un virus, la mancanza di lavoro per tanti giovani soprattutto del sud, eccetera. La lista è lunga e non basterebbe un articolo solo per elencarla. Il PD ha ampiamente dimostrato di non essere all’altezza di affrontare simili problemi; di più: li ignora affaccendato dai giochi interni di potere che raccontano ogni giorno le cronache politiche. E intanto cresce la sfiducia delle persone stanche di non ricevere risposte ai problemi che le assillano quotidianamente. Si diffonde l’idea del tanto peggio tanto meglio, qualcosa almeno accadrà. Prendiamo, a caso, Roma. E’ diventata una città irrappresentabile, nel senso che per descriverla occorrerebbe uno scrittore di fantascienza alla Philip Dick o alla George Orwell. E i cittadini si sono rassegnati a questo calvario quotidiano per recarsi al lavoro o per spostarsi da un punto all’altro della città, in attesa che qualcosa di peggio accadrà.

Qualche giorno fa ho partecipato a una riunione alle Officine Zero, una delle tante fabbriche dismesse, nella zona di Portonaccio. Un tempo in questa fabbrica si riparavano i vagoni letto, fiore all’occhiello delle ferrovie italiane, come sa chi abbia viaggiato su di uno di esso almeno una volta nella sua vita. I treni della TAV hanno reso inutile questo glorioso esercizio e un giorno sono stati letteralmente tagliati i binari che dalla stazione Tiburtina portavano a questi capannoni, lasciando morire, oltre gli impianti, una sapienza di lavoro costituita da tappezzieri, meccanici, elettricisti, falegnami. Le tracce di questa sapienza sono state raccolte da un gruppo di giovani che hanno creato un virtuoso contesto di lavoro che ospita abili espulsi dal lavoro e giovani che tentano, in un mare di difficoltà, di ripristinare un ciclo produttivo moderno. Insomma, una visione del mondo diversa. Invitati a visitare gli impianti, erano arrivate illustre personalità istituzionali che hanno, come don Abbondio, parlato in un gergo incomprensibile dei tanti problemi istituzionali che si sarebbero dovuti affrontare. Ho pensato che se una cosa del genere fosse successa in un paese liberale qualche avveduto manager avrebbe valorizzato questa esperienza cogliendone gli aspetti innovativi. Di cose così ce ne sono molte in città, ignorate dalla politica ufficiale che, se mai se ne interessa, è solo per destinare aree come questa al prossimo centro commerciale.

Ho citato questo caso solo per dimostrare come la politica ufficiale distrugge quotidianamente risorse, occasioni di lavoro, saperi, inseguendo vanamente quel modello di crescita che ci ha trascinato in questa crisi, senza nemmeno curiosità per quelle esperienze innovative che potrebbero fornire una risposta al tema del lavoro e della innovazione (vera). Qui la distanza tra la realtà e la visione dei nostri governanti si fa abissale: non sanno vedere nulla che non ha a che spartire con le loro faccende di potere, chiusi e ciechi all’interno del Palazzo. Che altro si aspetta da una sinistra (quella impropriamente rappresentata dal PD) che non è capace di vedere quanto di innovativo si muove, nella più assoluta solitudine, nella nostra società e che lancia segnali inascoltati di nuove modalità di lavoro, nuove forme di socialità, nuovi modi di stare insieme?

Mi piacerebbe, è questa l’ingenuità, che venisse finalmente redatto un programma di pochi punti da parte della sinistra non PD nelle sue varie forme, per liberare le persone dal vincolo asfissiante del “questo è l’unico possibile mondo che ci è consentito” e restituire loro fiducia in se stesse e nel futuro che ci è stato espropriato. E’ possibile? Alle elezioni prossime non vorrei ritrovarmi a votare per il meno peggio, come spesso ho fatto insieme a tanti compagni. Il giorno delle elezioni vorrei uscire di casa sorridendo: questa volta so chi, e cosa, votare.

La contestazione ecologica, la protesta in difesa dei diritti fondamentali, quelli di essere circondati dalla natura incontaminata, da acque pulite, di respirare aria senza veleni, di acquistare cibi sani e sicuri ... (segue)

La contestazione ecologica, la protesta in difesa dei diritti fondamentali, quelli di essere circondati dalla natura incontaminata, da acque pulite, di respirare aria senza veleni, di acquistare cibi sani e sicuri, vede contrapposti vari soggetti che chiamerei, schematizzando come segue.

Ci sono gli inquinatori (soggetti che privano altre persone di tali diritti nel nome, come dice Papa Francesco, del “dio denaro”, della “logica del profitto”); gli inquinati, coloro che sono privati dei loro diritti; lo “stato”, nelle sue forme di amministratori e autorità locali o nazionali, che dovrebbe, se gli stesse a cuore il “bonum publicum”, difendere gli inquinati ma che spesso strizza un occhio agli inquinatori; e infine chi protesta per difendere i diritti, propri o quelli di altri, alcuni dei quali non sanno neanche di esserne privati --- e spesso riesce nel suo intento.

Negli anni settanta i fabbricanti di preparati per lavare (gli inquinatori) hanno scoperto che, addizionando ai loro prodotti dei fosfati, il lavaggio riusciva meglio e loro riuscivano a vendere più prodotti e a guadagnare di più. I fosfati finivano con le acque di lavaggio nelle fogne e poi nel mare; dopo alcuni anni la concentrazione nell’Alto Adriatico dei fosfati provenienti dalle fogne delle città della Valle Padana era così elevata da nutrire e far moltiplicare le alghe che privavano di ossigeno l’acqua marina e facevano morire i pesci. I turisti venivano così privati del diritto di fare il bagno in acque trasparenti e abbandonavano la Romagna, i pescatori venivano privati del diritto di trarre un salario dalla pesca perché non c’erano più pesci. Lo stato è rimasto silenzioso e distratto fino a che non sono intervenuti coloro che hanno protestato, persone che non erano né turisti né pescatori e che parlavano “nel nome del mare” e del diritto di tutti ad averlo pulito.

Come spesso capita, alcuni volonterosi “scienziati” cercavano di dimostrare che il fosforo non “faceva male” al mare, ma alla fine la difesa dei diritti è prevalsa. I contestatori ottennero, nelle piazze e in Parlamento, delle leggi che imponevano ai fabbricanti di aggiungere meno fosfati ai loro preparati per lavare: le fabbriche hanno cambiato la composizione dei loro prodotti, le massaie hanno potuto lavare ugualmente bene, l’invasione di alghe nel mare è scomparsa, i pesci sono tornati e i pescatori hanno ripreso a pescare.

Questa è una delle battaglie, vinte, ricordate in un recente libro di Michele Boato, Quelli delle cause vinte, Mestre, Libri di Gaia, 2017. Un’altra delle battaglie aveva lo scopo di fermare la diffusione della plastica inquinante in una delle sue forme più invadenti, quella dei molti miliardi di sacchetti per la spesa che ogni anno finiscono nell’ambiente in Italia. Comodissimi per trasportare la spesa dal negozio alla casa, dopo meno di un’ora di vita vengono buttati via e sono fonti di fumi inquinanti se bruciati negli inceneritori, restano indistruttibili se finiscono nei fiumi, sul terreno o nel mare. Già trenta anni fa è nato un movimento di protesta di ambientalisti e di cittadini che hanno chiesto la loro eliminazione o almeno delle azioni per scoraggiarne e diminuirne l’uso. Vincendo la dura opposizione dei venditori di plastica e di sacchetti, finalmente la protesta ha ottenuto dal Parlamento una legge che imponeva una imposta che ne faceva aumentare il prezzo nei negozi; così i consumatori sarebbero stati indotti ad usarne di meno o a riutilizzare quelli già acquistati o ad usare sacchetti duraturi.

La legge prevedeva che fossero esentati dall’imposta gli shoppers “biodegradabili”, un termine già allora tutt’altro che chiaro. Subito alcuni furbastri fabbricanti inquinatori riuscirono a far certificare, da compiacenti laboratori, come biodegradabili sacchetti che non lo erano affatto. Finalmente la protesta è almeno riuscita ad ottenere che gli shoppers in commercio siano più leggeri e “contengano” meno plastica, almeno un po’ decomponibile col tempo, pur auspicando ancora la diminuzione del loro uso e l’uso di sacchetti di tela a vita lunga o almeno che i sacchetti usati siano impiegati per la raccolta dei rifiuti.

Ma non sempre coloro che, nel nome del profitto e dei propri affari, impediscono ad altri soggetti di godere dei loro diritti, sono veri e propri inquinatori. Talvolta sono privati, come quelli che si propongono, per soldi, di permettere ai turisti di raggiungere le vette delle montagne o di sciare, cose di per se lodevoli, con mezzi e strutture che comportano il taglio dei boschi, la modificazione dei versanti, l’alterazione di delicati ecosistemi. O quelli che costruiscono strutture turistiche lungo le coste, beni collettivi per eccellenza, o alterando delicate zone naturalistiche con il compiacente silenzio delle autorità locali.

Il libro di Boato racconta, anche con testimonianze dirette, le molte imprese dannose o abusive che sono state fermate grazie alla mobilitazione di associazioni ambientaliste e naturalistiche e della parte responsabile della popolazione locale. Talvolta, infine, sono le stesse amministrazioni pubbliche che, facendo credere di risolvere problemi di pubblica utilità - smaltimento dei rifiuti, approvvigionamento di energia - lo fanno con soluzioni sbagliate e inquinanti, quelle più profittevoli per potenti interessi finanziari privati. Così sono proprio alcuni amministratori pubblici che sostengono la necessità di smaltire, nei loro territori, i rifiuti mediante inceneritori, studiati per far guadagnare i gestori degli inceneritori stessi, operazioni ecologicamente e economicamente dannose perché comportano la distruzione di materiali che potrebbero essere riciclati, anzi con la creazione di nuovi posti di lavoro.

La protesta ha messo in evidenza che gli inceneritori producono fumi e ceneri nocivi per le persone, l’agricoltura e l’ambiente naturale ed è riuscita a fermare alcune sconsiderate imprese. Gli inquinatori speculano anche con le fonti di energia rinnovabili, di per se auspicabili se ottenute nel rispetto dell’ambiente. Invece si è assistito alla diffusione di centrali eoliche o solari che deturpano il paesaggio, collocate dove astuti proprietari hanno affittato i loro terreni per godere degli incentivi statali; alla fabbricazione di biocarburanti ottenuti consumando prodotti agricoli sottratti all’alimentazione umana e con processi inquinanti.

Un capitolo del libro è dedicato alle lotte contro quegli “inquinatori” che, alterando e manipolando gli alimenti con le frodi, compromettono il diritto dei cittadini al cibo sicuro e nutriente. Un tema al quale Michele Boato aveva già dedicato un prezioso libro: Dalla parte dei consumatori. Anche qui abili frodatori sono riusciti, nel corso di oltre mezzo secolo, a sfuggire alle leggi italiane ed europee che stabiliscono norme perché gli alimenti siano sicuri e genuini. Il controllo della sicurezza è affidato a laboratori di analisi che sono costretti a elaborare sempre nuovi metodi di analisi per svelare frodi sempre più raffinate che approfittano dei commerci, resi possibili dalla globalizzazione, per importare prodotti agricoli o alimenti poco genuini.

Ma c’è un altro diritto umano fondamentale che è sempre in pericolo, compromesso adesso in maniera sempre più grave dalla diffusione degli strumenti resi possibili dalla scoperta della fissione del nucleo atomico: il diritto alla pace e ad un futuro meno radioattivo. Anche la protesta contro le armi nucleari e le centrali nucleari ha visto impegnati i protagonisti del libro di Boato, che sono riusciti a far cancellare gli assurdi programmi nucleari governativi degli anni settanta e ottanta, e a ostacolare l’invadenza di armi nucleari americane nel nostro territorio. Bombe e strutture militari nucleari americane che sventuratamente fanno dell’Italia, insieme a Germania, Belgio, Olanda, Turchia, un paese semi-nucleare al fianco dei nove paesi dotati di bombe nucleari.

Purtroppo per questa fedeltà alla NATO il governo italiano si è rifiutato di aderire al recente Trattato per il Bando totale delle Armi Nucleari, firmato di recente da molti paesi membri delle Nazioni Unite e addirittura già ratificato per prima dalla Santa Sede. Una iniziativa per cui i promotori hanno ricevuto quest’anno il premio Nobel per la Pace.

Il libro Quelli delle cause vinte offre una ventata di speranza nel futuro, necessaria in un paese spesso pigro e disincantato nel rivendicare i propri diritti. Con impegno e fatica è possibile correggere molte storture della nostra società, ma per vincere non servono le chiacchiere o i salotti televisivi. Occorre, lo ricorda l’autore, l’umiltà di andare in mezzo alla gente, ascoltare le persone, aprirgli gli occhi, spiegargli in quale modo sono violati i loro diritti, aiutarle a riconoscere “chi è il nemico”. Il libro invita a mettere in pratica, con coraggio, il messaggio lanciato anni fa da Edward Thompson: “Protest and survive”, ”Protestate se volete sopravvivere”. E alla fine (spesso) si vince.

Quando sbarchi all'aeroporto di Berlino-Schoenefeld, i chilometrici e scomodi corridoi ti accolgono con manifesti cubitali che reclamizzano le bellezze di Potsdam, le terrazze e i padiglioni dei suoi parchi, le sale magnifiche dei suoi palazzi (segue).

Quando sbarchi all'aeroporto di Berlino-Schoenefeld, i chilometrici e scomodi corridoi ti accolgono con manifesti cubitali che reclamizzano le bellezze di Potsdam, le terrazze e i padiglioni dei suoi parchi, le sale magnifiche dei suoi palazzi. Ma Potsdam, per chi vi arrivi dalla capitale oltrepassando il Ponte delle Spie o in tram costeggiando il Wannsee, non è solo il favoloso castello Sanssouci di Federico II di Prussia (1712-1786), le pagode cinesi e la memoria di Voltaire; non è nemmeno solo il castello di Cecilienhof, dove nell'estate del 1945 Stalin, Truman e il subentrato Attlee si riunirono per l'ultima volta a disegnare il futuro dell'Europa. Potsdam è anche una città vera, piccolo ma importante capoluogo del Brandeburgo, una città antica della quale i palazzoni di stampo sovietico denunciano il passato di avamposto della Repubblica Democratica Tedesca (1949-1990).

Impossibile, per esempio, non vedere da lontano l'alta mole dell'hotel Mercure, che al tempo della DDR si chiamava Interhotel e rappresentava il meglio degli alberghi dell'est: ebbene, il Mercure - finito nelle mani della catena francese, e dunque non nella disponibilità del Comune - pare oggi l'unico edificio provvisoriamente al riparo dalla furia iconoclasta intesa a "riqualificare" il centro città. "Riqualificare" vuol dire, in primo luogo, rimuovere le tracce del passato recente, specialmente quello socialista, anche a costo di ricreare dei falsi architettonici maestosi, e riallacciarsi d'emblée al periodo della grandeur prussiana. È qui che un'operazione in apparenza solo urbanistica ("Genuinamente di qui. Impulsi per una città che cresce" è lo slogan sui cartelloni) assume una caratura ideologica.

In Germania, il problema è naturalmente di più vasto respiro: il Paese gestisce ancora con imbarazzo tanto l'eredità architettonica nazista (si pensi al difficile recupero dell'enorme area dei raduni di Norimberga, più volte in passato minacciata di distruzione e ancor oggi in preda a un incerto futuro) quanto quella comunista (il parco Treptow di Berlino, ancora regolarmente visitato dai capi di stato russi, mantiene viva tutta la forza propagandistica dell'Unione Sovietica, con slogan e iconografie che ad alcuni - specie a Berlino - potrebbero dar noia).

Ma ora il centro del contendere è la piazza di Potsdam: gravemente danneggiata dalle bombe alleate e dall'artiglieria russa, essa appare ormai tutta nuova fiammante. Su un suo lato, ha riaperto da pochi mesi, in forma di museo, il Palais Barberini, la copia conforme di un edificio che Federico II fece erigere come copia conforme del Palazzo Barberini alle Quattro Fontane, a Roma (ma c'è chi maligna che il nome fosse da intendere come segreto omaggio a un'amante del sovrano). Passato nella sua storia da residenza reale a sala da concerto a deposito, raso al suolo il 14 aprile del 1945, il Palais è stato appena ricostruito ex novo e riportato agli antichi fasti da un mecenate privato, l'imprenditore del software Hasso Plattner (capo della SAP, l'impresa europea più grande del settore), il quale vi ha allocato la propria collezione d'arte, promettendo di offrire, a rotazione, mostre di alto profilo; la prima, che va dagli Impressionisti a Nolde, è senz'altro notevole. La facciata del Palais dialoga pertanto adesso sia con il barocco castello cittadino (anch'esso ricostruito dal nulla, grazie anche ai soldi dello stesso Plattner, e riaperto nel 2014 per ospitare il Parlamento del Land del Brandeburgo), sia con il vecchio Municipio in stile palladiano, sia con la grande chiesa neoclassica di San Nicola che ha proprio dinanzi, eretta negli anni '30 dell'Ottocento in uno stile più degno di un tempio greco che di uno cristiano.

Una vista della piazza, a destra l'edificio della Fachhochschule
(foto dell'autore)

Una veduta della piazza con Palais Barberini in fronte
(foto dell'autore)

In questo magniloquente concento di antiche forme, pochi forse avranno cuore di ricordare che proprio in San Nicola e in questa piazza il 21 marzo del '33 si tenne, nell'ambito della solenne presentazione ufficiale del nuovo Parlamento al presidente Hindenburg (il famigerato "Potsdamer Tag"), la messa che consacrò l'alleanza tra la Chiesa luterana e il potere nazista appena insediato (una splendida mostra su Lutero e il Nazismo, alla Topographie des Terrors di Berlino, ne offre la documentazione fotografica). "Potsdam costruisce una Sinagoga" risponde oggi un grande manifesto che campeggia 200 metri più in là, dando sostanza di slogan all'auspicio della locale comunità ebraica; ma da 6 anni ancora non si sa bene se, quando e dove tale sinagoga dovrebbe sorgere.

Oggi la memoria che la borghesia cittadina (e di riflesso il Comune) vuole rimuovere, è anzitutto quella della DDR; il rischio da evitare, nella logica celebrativa del potere unitario, è quello dell'Ostalgie, la nostalgia per il vituperato regime della Germania Est. E allora l'ultimo superstite, l'intruso da eliminare, è l'edificio modernista della Fachhochschule (Istituto superiore di formazione professionale) che ancora occupa l'angolo nord della piazza, con le sue finestre strette e le colonne snelle, gli interni in legno e le sobrie decorazioni sulle porte, molto più nuovo e smaliziato dell'ideologia che lo produsse (e infatti, a rigore, è molto simile al Centro Pastorale Cattolico costruito nel '62 da Mies van der Rohe a Des Moines in Iowa). Esempio straordinario dell'architettura dei primi anni '70, tirato su come funzionale polo di aggregazione per gli studenti, ospita oggi qualche ufficio residuo, centri d'ascolto per famiglie, il progetto "Higher Education for Refugees", una galleria d'arte; ma, délabré e provato dal tempo, sembra in larga parte votato all'abbandono.

L'edificio della Fachhochschule (foto dell'autore)
La cupola della chiesa di San Nicola e in primo piano un
dettaglio della facciata del'edificio Fachhochschule
(foto dell'autore)

L'idea di raderlo al suolo per ricostruirvi case in stile anticato, espungendo da una piazza composita l'eredità più recente e apparentemente più scomoda, non piace a tutti: 15mila cittadini hanno firmato una petizione contro l'abbattimento degli edifici di epoca comunista; sul sito "potsdamermitteneudenken.de" si raccolgono idee per trasformare la Fachhochschule in uno spazio di condivisione e di ricerca; i centri sociali più vivi organizzano una resistenza, denunciando tra l'altro l'oscenità delle architetture "di sostituzione" (il brutto cubo grigio del Bildungsforum eretto di fresco in piazza dell'Unità, a pochi metri; la triste stazione ferroviaria). Ma lo spirito dei tempi va in senso contrario. Sfuggita ai fantasmi del XX secolo (il Passo del secolo di W. Mattheuer, nel cortile del Palais Barberini, mostra un uomo che fa a un tempo il saluto nazista e il pugno chiuso), aleggia di nuovo, prepotente dopo la mega-mostra del centenario (2012), l'ombra di Federico II, le cui spoglie mortali furono traslate proprio a Potsdam nell'agosto del 1991 in una controversa cerimonia notturna alla presenza di Helmut Kohl - all'epoca, un migliaio di contestatori antimilitaristi, che ricordavano l'analogo omaggio di Hitler in quel fatale marzo del '33, erano stati dispersi dalla polizia.

Oggi il culto degli Hohenzollern, come osservano anche i visitatori più distratti di Berlino, presiede al rifacimento ex nihilo del loro castello, proprio dinanzi al Duomo della capitale: un monumentale falso architettonico volto a riempire "come una volta" la defunta piazza Marx-Engels, creata nel 1950 dopo la demolizione del castello vero (danneggiato dalla guerra), e contornata negli anni '70 dal parlamento della DDR, che dopo la caduta del Muro venne prima bonificato dall'amianto e poi - al termine di una sapiente campagna mediatica - definitivamente raso al suolo nel 2008.

Mentre in Italia si congela a tempo indeterminato il disegno di legge sullo Jus soli, Trump è in difficoltà: forse i “dreamer” non verranno deportati. Manifestazioni popolari, contromisure adottate a livello locale e statale, preoccupazioni espresse dalle università e dalle grandi imprese globalizzate stanno affossando la sua iniziativa per cancellare DACA, la misura di protezione dei giovani figli di immigrati introdotta da Obama. Un bell’avvertimento per il governo italiano e, in particolare, per il suo Ministro degli Esteri!

Il presidente americano, con l’usuale feroce cinismo che lo caratterizza, in settembre ha invitato il Congresso ad abolire DACA (Deferred Action for Childhood Arrivals), il programma adottato durante la presidenza Obama che consentiva a 800.000 giovani, immigrati illegalmente nell’infanzia con la loro famiglia e cresciuti negli USA ma ancora privi di documenti, di vivere, studiare, lavorare, accedere ai servizi sanitari, ottenere la patente di guida, etc. Il programma riguarda i cosiddetti dreamer: i giovani che, grazie a DACA, hanno potuto uscire dall’illegalità, anche se ancora in attesa di una legge per il pieno riconoscimento di cittadinanza (un diritto di cui gode invece chi nasce in America, a differenza dell’Italia). I dreamer sono una frazione insignificante degli 11 milioni di emigrati illegali che vivono e lavorano negli Stati Uniti. Ma anche su di loro Trump ha voluto accanirsi: respingendo i giovani nei paesi di origine delle loro famiglie, si affabulava in campagna elettorale, si sarebbero liberati posti di lavoro e si sarebbe attenuata la disoccupazione per i ‘veri americani’.

Il progetto di abolizione di DACA, pienamente coerente con il programma elettorale e l’evidente accento razzista dell’ideologia presidenziale, ha però già incontrato notevoli ostacoli: e infatti non è ancora stato approvato dal Congresso e, probabilmente, sarà abbandonato.

Sottostanti a questa ennesima probabile sconfitta del presidente ci sono diversi motivi. Il primo, e principale, è rappresentato dall’opposizione manifestata dalla maggioranza della popolazione di molte grandi città: da tutte le cosiddette “città santuario” e, soprattutto, dalle grandi città nelle quali la presenza di dreamer è cospicua - in primis le grandi città californiane dove risiede almeno un quarto degli 800.000 giovani presi di mira e dove la solidarietà espressa nelle molte manifestazioni popolari è stata imponente.

Ci sono poi le contromisure adottate o proposte dalle amministrazioni locali. Ad esempio, San Francisco, prima fra le città santuario - che sono ormai centinaia in tutto il paese - ha immediatamente cancellato l’accesso al suo sistema informativo per tutti i dati relativi agli immigrati illegali residenti. Il Consiglio comunale di Los Angeles, una città abitata per il 46% da popolazione di origine ispanica e che ospita più del 30% dei dreamer della California, sta discutendo su come costituirsi in città santuario proprio in risposta all’abolizione di DACA.
Fra le proposte in discussione: fare della città una “Dreamer Arrest-Free Zone”(un luogo nel quale è proibito arrestare i dreamer); preparazione di una lettera personale di presentazione scritta da avvocati incaricati dalla amministrazione e da esibire in occasione di qualsiasi contatto dei giovani DACA con gli agenti federali dell’ICE (United States Immigration and Customs Enforcement); sostegno legale gratuito e, come a San Francisco, blindatura delle informazioni sui residenti illegali.

Anche gli Stati stanno reagendo: già 15 hanno avviato un procedimento legale contro Trump e, in particolare, alcuni si sono recentemente autoproclamati “Stati Santuario”. Di nuovo, lo Stato della California è in prima linea: il Parlamento ha approvato un disegno di legge che vieta di fornire informazioni sullo status degli immigrati e blocca l’accesso ai database statali; e il 13 settembre è stata adottata la legge AB-291 (Housing: immigration) che vieta ai proprietari di case in affitto di fornire informazioni sui loro inquilini alle autorità federali che si occupano di immigrazione, e di sottoporre gli inquilini a ricatti e intimidazioni: pena multe elevatissime.
Ma l'opposizione nei confronti delle politiche disumane di Trump sta diventando bipartisan: anche il governatore repubblicano dello stato dell'Illinois ha approvato recentemente un disegno di legge che protegge dal rischio di venire incarcerati semplicemente perchè immigrati.

E infine ci sono le università e i business leader. Di nuovo, in particolare in California, uno stato che deve la sua formidabile ricchezza alla presenza di università di eccellenza in campo scientifico e tecnologico che sfornano laureati di altissima competenza, a un settore industriale molto avanzato e a un mercato del lavoro flessibile - è il modello ‘Silicon Valley’, fondato sulla presenza non soltanto di un vasto bacino di laureati di qualità, ma anche di manodopera a basso costo e non sindacalizzata costituita prevalentemente da latinos -, le università si sono tutte schierate a sostegno di DACA. La presidente delle università della California ha denunciato una misura che “distruggerebbe il futuro di alcuni dei più brillanti studenti del paese” - migliaia di studenti universitari e di laureati – e annunciato il rafforzamento delle misure di sostegno economico e protezione degli studenti. Infine, le grandi imprese globalizzate high tech si sono tutte schierate contro l’abolizione di DACA: in particolare, apponendo la loro firma a una lettera inviata a Trump dai CEO delle 400 più importanti imprese americane.

Non sono dunque soltanto la grande solidarietà “dal basso” e la risposta a tutela dei diritti di cittadinanza da parte di alcune amministrazioni locali e statali, ma anche la forte pressione esercitata dalle grandi imprese globalizzate ad alto contenuto di conoscenza a militare a favore dell’apertura e della multietnicità.

Trump sarà costretto a rimangiarsi il suo progetto? Pare di sì, anche se la promessa di "liberarsi degli immigrati illegali" fatta in campagna elettorale gli ha garantito il voto della destra xenofoba e dei lavoratori dei settori dell’industria più tradizionale e in inesorabile declino: e i suoi elettori più entusiasti sono delusi e lo stanno ricoprendo di insulti.

Per arginare i danni di immagine prodotti dalla ennesima sconfitta, il presidente sembra orientato a rilanciare, con il solito linguaggio sopra le righe, il blocco delle opportunità migratorie annunciando un “massive border security upgrade” (un imponente potenziamento della protezione dei confini) e riproponendo come priorità il progetto del famigerato muro che dovrebbe essere costruito lungo tutto il confine fra gli Stati Uniti e il Messico. Ma anche la costruzione del muro, malgrado l'inquietante valore simbolico che gli è stato attribuito dalla amministrazione Trump, non sarà facile. Perché, rapidamente abbandonata la provocatoria, e assurda, pretesa di farlo pagare al Messico, dovrebbe essere il governo americano a finanziarlo con costi elevatissimi. E anche perché si dovrà affrontare un ulteriore, e spinoso, problema: soltanto un terzo dei terreni coinvolti nel progetto di un muro lungo 2.000 miglia è attualmente di proprietà pubblica. L’esproprio dei terreni di proprietà privata che si renderebbe necessario per poterlo realizzare sta già suscitando molte opposizioni (in particolare in Texas, da parte dei proprietari di grandi aziende agricole e campi da golf - questi ultimi, fra l'altro, costituiscono una lucrosa attività anche del presidente in carica e della sua famiglia!): una decisione che sembra incompatibile con il programma di un governo che fa della tutela della proprietà privata un dogma e che potrebbe di nuovo scontentare il suo elettorato.

È una vicenda, quella dei numerosi fallimenti di un presidente razzista, impreparato e narcisista, che dimostra come la negazione dei diritti di cittadinanza nei confronti di coloro che hanno ormai profonde radici nel paese nel quale vivono, studiano e lavorano non paga.

È un segnale importante anche per il nostro paese dove ieri, 26 febbraio, l’ineffabile Ministro degli Esteri ha dichiarato che occorre congelare il disegno di legge sullo ius soli che, è bene ricordarlo, riguarda anche i figli nati in Italia da genitori immigrati, e non soltanto i dreamer come negli Stati Uniti. Come ci ha insegnato Hanna Arendt: «il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa»: umanità alla quale non sembra appartenere Angelino Alfano.

(segue)

Dopo oltre undici anni dall’articolo Abusivismo o no, questa è l’urbanistica italiana [1], conseguente a un intervento di De Lucia contro chi risuscitava l’«abusivismo di necessità», ora ritorno non alla brughiera come Clym ma all’ugualmente desolato campo dell’incolto casalingo. Qualcuno, mentre l’edilizia, appunto abusiva e no, continua a crescere inconcepibilmente in ogni luogo, ci ha investito nuovamente con la falsificazione estrema dell’abusivismo giustificato da un supposto impellente bisogno di povera gente.

Brevi note qua e là

1.- Da un buon dizionario: «Abusione», termine letterario dismesso, sta per «abuso», ma più risonante. Infatti suona come qualcosa di gonfio, abbuffante. Propongo di inserirne la propensione fra le distinzioni delle classi italiane per le parti di esse che, diverse, si uguagliano per vari conformismi e soprattutto per tendenza a fare dell’illecito o dello smoderato una norma di comportamento: nel modo di operare contrario alle leggi e alla disciplina, specialmente nel campo edilizio.

2.- Abusivus è il termine del tardo latino (XV secolo) per indicare un fatto o un detto impiegati senza averne il diritto. «Abusivismo» è voce moderna; sempre secondo i dizionari sarebbe apparsa solo nel 1961. Ma Pier Paolo Pasolini nel suo viaggio del 1959 lungo le coste d’Italia da Ventimiglia a Trieste aveva già notato i segni di un imminente sconvolgimento del territorio a causa di una continua tempesta edilizia scoppiata dal dopoguerra. Pochi anni dopo il film Le mani sulla città di Francesco Rosi (1963) sancirà la già avvenuta rovina di Napoli attraverso una sfrenata anarchica speculazione edilizia. Appena tre anni e dovremo assistere sbalorditi alla frana di Agrigento, nuova prefazione al romanzo nero del territorio italiano in centomila pagine.

3.- Ogni processo economico sociale aveva fatto la propria parte. La linea rispettosa delle leggi ma non della storia e della cultura produceva un’extra large urbanistica, brutale, volta a sostenere una possibilità edificatoria di cinque, dieci volte superiore a quella di una previsione attendibile basata sulla ricerca scientifica storico-sociale. Intanto, ben prima della novità terminologica anzi con un anticipo di oltre tre lustri, la curva irriguardosa di leggi, norme, buone consuetudini fondava l’anti-urbanistica privata ma anche scandalosamente pubblica indirizzata, fuori del quadro legale, alla decuplicazione della rendita fondiaria. L’accompagnava un’edilizia mala e brutta capace di mobilitare il profitto verso altezze sconosciute ai pur banditeschi impresari di casacce per operai delle Manchester o Londre descritte da Marx-Engels.

4.- Subito dal dopoguerra, specie nelle città vittime dei bombardamenti inglesi e americani, l’urgenza della ricostruzione, in ambito di concessioni o autorizzazioni già esse dotate di ricchi premi di cubatura su basi di normative pasticciate, provocò un caratteristico abusivismo a metà mediante l’«interpretazione». C’erano maestri di questa insidiosa maniera, sicché ulteriori esorbitanti maggiorazioni delle superfici e delle volumetrie erano accettate dall’ente pubblico (insieme alle spaventose brutture).

5.- A Milano la ricostruzione, tempo e luogo della speranza degli architetti razionalisti per realizzare un’architettura sociale nuova, in questo senso fallì. La fine dell’anno 1948 celebra tre anni di attività edilizia dominata da imprenditori e impresari del tutto disinteressati agli scopi sociali ed estetici dell’architettura, non meno cinici dei costruttori detti al punto 3. Sarà Piero Bottoni nella rivista Comunità di maggio-giugno dell’anno successivo a lamentare che «la ricostruzione basata essenzialmente su scopi speculativi ha ripetuto ingigantendoli tutti gli errori delle architetture precedenti». Intanto il decano Enrico Griffini già nel fascicolo di dicembre 1948 di «Edilizia moderna (nn. 40-41-42) aveva attaccato duramente gli abusi nei sopralzi anche totali di edifici risparmiati dalla guerra «...conseguenza di decadenza morale e civile…». E concludeva: «tutto il problema edilizio è oggi deformato dalla speculazione con abusi di ogni genere a dispetto delle Sovrintendenze, delle leggi, dei decreti… Domina la norma del ‘fatto compiuto’» [2].

6.- Il grande quadro urbanistico edilizio di Milano, all’epoca, è uno specchio di abusivismo generalizzato giacché spesso nemmeno la preesistenza di edifici monumentali teoricamente intoccabili fermava il caterpillar demolitore. Fra una miriadi di casi ricordiamo lo scandalo della distruzione di San Giovanni in Conca, chiesa medievale, per far spazio a colossi di uffici incardinati sul nuovo stradone, ultimo tratto della infida “Racchetta” (la maltrattata e deformata facciata della chiesa fu rimontata altrove!). Antonio Cederna, sconfitto da poteri avvinti troppo forti, non perdonerà mai a Milano tale peccato mortale. Lui che, lo vedemmo increduli, riuscì a salvare la Chiesa borromeica di San Raffaele, vicina al Duomo, dal fiero pasto come dell’Ugolino cucinato da Municipio e Curia in onore della Rinascente, che voleva mangiarsela. Una prospettiva di «Abusione» elevata al cubo.

7.- La logica del fatto compiuto specie nei sopralzi postbellici fuorilegge denunciati da Griffini provvide a generare la spirale di uno specifico dna milanese che continuò a svolgersi senza interruzione fino a fissarlo come in acciaio, imprimendo una violenta malformazione del volto urbano più rovinosa che in ogni altra città stante la buona qualità dell’architettura urbana. Come e più che a Roma venne a erigersi al di sopra della gronda, senza opposizioni istituzionali e senza avvertimento dei cittadini a cui pur capitava di muoversi col naso all’aria, un’altra città residenziale a pezzi e bocconi. Sregolata ma completa delle dotazioni necessarie per vivere bene (anche giardini, serre, boschetti), noncurante quando la esibizione di sé eccedesse il troppo. Il milanese, quel tipo di milanese (e il commuter milanesizzato) si sapeva che tutt’al più avrebbe mugugnato, gran filosofo dei fatti suoi.

8.- Così non poteva che accadere, al tempo di una retrograda «modernizzazione», dopo il periodo classico delle sanatorie di tutti gli abusi edilizi (e delle evasioni fiscali) comprendenti la città soprana postbellica e successiva, la festa della costruzione di fertili cubature oltre gronda secondo specifica legislazione regionale, consenziente il Comune. Siamo nell’ultimo decennio del secolo breve (o lungo?) e scatta la normativa per gli «interventi finalizzati al recupero dei sottotetti». Che man mano diventerà sempre più larga, più generosa verso progettisti e costruttori, lontanissima dallo spunto originario fino a confondersi con un progetto globale di sopralzare la città senza guardare in faccia a nessuna architettura, fosse anche quella magnifica di palazzi storici in strade perfette per disegno urbanistico. La giustificazione più barbina: quella di evitare ingombro edilizio sul terreno libero (solito slogan menzognero «no al consumo di suolo»), intanto che un’impressionante espansione calcolabile in milioni di metri cubi spesso in forma di grattacielo, cominciata per grazia del sindaco Gabriele Albertini (a capo di un centro destra dal 1997 al 2006), era proceduta e procede di pari passo pesante con la deturpazione della città storica.

9.- In eddyburg abbiamo attaccato questa maniera, un secondo «rito ambrosiano» non meno difficile da contrastare, a cominciare dall’inizio del millennio. Primo articolo nel 2003, seguito da un secondo l’anno seguente [3]; poi diversi interventi ogni volta che la permissione relativa ai sottotetti diventava tutt’altro, per esempio applicazione alle case con la copertura piana e, per chiudere una fase piena di riconosciute ambiguità e contorcimenti giuridici, spiattellamento della verità: vocazione dell’autorità ad accettare progetti di «innalzamento urbano» (se così si può dire) per un certo numero di piani in qualsiasi edificio e qualsiasi altezza abbia. La linea del cielo milanese cambia tuttora ogni giorno.

10.- L’abusione provocatoria. Ne consideriamo emblema la vicenda, raccontata oltre dieci anni fa, di un edificio milanese in una strada del super-centro, via San Paolo. Sei piani esistenti, cresciuti rapidamente a otto senza che il Comune intervenisse. Il quotidiano la Repubblica svelò lo scandalo che valse cinque milioni di guadagno netto. Quei due non furono demoliti. Una multa? Chissà [4].

11.- Unico abusivismo di necessità autentico eppure non propriamente un abuso, quello del dopoguerra e per tutti gli anni Cinquanta nei comuni dell’hinterland milanese. Chi non ricorda le Coree? I sindaci regolarizzavano gli edifici in base a progetti minimi «di sanatoria» presentati da geometri locali; ma alcuni sorsero con progetti, pur poverissimi, corredati di licenza edilizia regolare e tempestiva. È il momento di rileggere o leggere per la prima volta Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati. Magari aggiungendo la ricerca «Immigrazione e habitat nell’hinterland milanese 1948-1960» [5].

[1] In eddyburg, 10 maggio 2006. Poi in L’opinione contraria. Articoli in eddyburg.it. Giornale e archivio di urbanistica politica e altre cose, Libreria Clup, Milano 2006, pp.157-163.
[2] Vedi, per gl’interventi di Bottoni e di Griffini, L. Meneghetti, Note (e meno note) cronologiche sulla ricostruzione a Milano, dedicate agli studenti nel cinquantenario della sua conclusione (1948), in Quaderni di Architettura, 22, settembre 2000, p. 77 e p. 81-82.
[3] L. Meneghetti, La distruzione della linea del cielo milanese, in eddyburg 10 dicembre 2003, poi in Parole in rete. Interventi in eddyburg giornale e archivio di urbanistica politica e altre cose, Libreria Clup, Milano 2005; Idem, 2, in eddyburg 17 giugno e idem, p.119.
[4] Dettagli in L. Meneghetti, Nuovi abusi vecchio abusivismo, in eddyburg, 2 novembre 2008, poi in Promemoria di urbanistica, architettura, politica e altre cose, Maggiolo, Santarcangelo di Romagna 2010, p. 35.
[5] F. Alasia / D. Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati, Feltrinelli, Milano 1960. Seconda edizione accresciuta, 1975. – L. Meneghetti, Immigrazione e habitat nell’hinterland milanese 1948-1960, clup, Milano 1984. Collaboratori alle indagini in luogo, L. Aloi e M. Migliavacca.

Altreconomia, . Associazioni, cittadini ed enti locali chiedono l’istituzione formale della riserva per difendere il sito naturale ricco di storia e bellezza. L’obiettivo è fermare il progetto di un resort di lusso (c.m.c)

Dal promontorio antico della Pillirina, a sud di Siracusa, si scorge il profilo bianco dell’isola di Ortigia. Nei giorni festivi, così come è avvenuto durante tutta la stagione estiva, il suo mare azzurro, che fa parte della zona C dell’Area Marina Protetta del Plemmirio, e le spiagge dorate sormontate dalle imponenti falesie si riempiono ancora di bagnanti. Un luogo di cui la città si è riappropriata e che è ormai entrato negli itinerari turistici. Un sito naturale ricco di storia e bellezza per il quale, da anni, associazioni ambientaliste e cittadini, riuniti sotto la sigla di Sos Siracusa, insieme a Comune e Provincia, chiedono l’istituzione della riserva, con l’obiettivo di fermare il progetto di un resort di lusso proposto dalla società Elemata Maddalena Srl, proprietaria dei terreni compresi nell’area.

La nascita della riserva, a metà luglio scorso, sembrava ormai a un passo, dopo che l’assessore regionale al Territorio e Ambiente, Maurizio Croce, aveva assicurato la firma, entro novembre, del decreto per l’istituzione della riserva della Penisola Maddalena, che va dalla Pillirina fino a Capo Murro di Porco. Era stata perfino già ipotizzata l’assegnazione della gestione al Consorzio Plemmirio, oggi presieduto da Patrizia Maiorca, in modo da creare un blocco unico tra riserva terrestre e area marina protetta.

Un annuncio che aveva entusiasmato associazioni, cittadini, enti locali, finalmente convinti di aver concluso positivamente questa lunghissima battaglia. Un entusiasmo spezzato, però, dieci giorni dopo, dalla pronuncia del Tar di Catania, che, decidendo su una serie di ricorsi che coinvolgevano Comune di Siracusa, Regione Sicilia ed Elemata, il 28 luglio scorso ha riportato la situazione indietro di sei anni, rimettendo tutto in discussione.

I giudici amministrativi, infatti, hanno innanzitutto respinto il ricorso del Comune di Siracusa contro la decisione assunta nel 2015 dal dirigente generale pro tempore dell’assessorato regionale Territorio e Ambiente, Salvatore Giglione, di annullare la cosiddetta “variante della bellezza” perché viziata da profili di illegittimità. Si tratta della variante al PRG che il Comune, nel 2011, aveva approvato per modificare la destinazione della zona da area T1-T2 (“a costruzione turistica”) ad area destinata a parco naturale o a verde agricolo, che vietava qualsiasi edificazione.

Nello specifico, il dirigente contestava al Comune l’assenza di alcuni pareri, in primis quello del Genio Civile, e la mancanza della procedura di VAS (Valutazione Ambientale Strategica). L’ente comunale aveva allora impugnato la decisione sostenendo invece che, in base a quanto stabilito dalla legge e ribadito da una nota dello stesso assessorato nel 2011, sia il parere sia la procedura mancanti non fossero necessarie, poiché la variante non prevedeva alcuna forma di costruzione e, dunque, alcun aumento del carico urbanistico.

La sentenza del 28 luglio scorso, dunque, cancella la variante e riporta l’area alla precedente destinazione T1-T2. E non è tutto. Il tribunale amministrativo ha anche annullato sia il Piano Paesaggistico della provincia di Siracusa, adottato nel 2012, che includeva i vincoli di salvaguardia della zona, sia la modifica al piano parchi e riserve che l’assessorato Territorio e Ambiente aveva adottato per inserirvi l’area della Penisola Maddalena. In particolare, su quest’ultimo atto è stato ravvisato un vizio di procedura riguardante la cosiddetta “attività di concertazione”, prevista dall’articolo 22 della legge quadro sulle aree protette (la 394 del 1991).

(segue)

Non sono passati molti mesi, era il marzo di quest’anno, quando i Della Valle presentavano al pubblico il rendering del nuovo stadio di Firenze, suscitando gli incontenibili entusiasmi della stampa locale: “Tokyo in confronto sembrerà Sorgane”, mentre i turisti “visiteranno la periferia nord fiorentina con lo stesso sguardo sognante che indossano (sic) quando passano su Ponte Vecchio”, solleticati dall’aria “molto sexy” di questa arena. “Il nuovo stadio della città, non avrà nulla da invidiare a quelli di Monaco, Bilbao, Bordeaux, Nizza” E ancora: le “morbide volute” dello stadio gareggeranno con “le guglie aguzze” del Palazzo di Giustizia “in una gara ideale di architetture contemporanee” “Costruiremo un tempio sopraelevato che ci permetterà di superare i nostri limiti”, sarà uno stadio da Rinascimento”[1].

Presentato il rendering dello stadio (non un progetto, si badi bene) già si stappava lo champagne per l’inaugurazione. Vi era ed è, beninteso qualche piccolo problema da risolvere. Lo stadio o meglio, la “Cittadella Viola”, con outlet, alberghi e varie attività commerciali, secondo l’accordo tra i Della Valle e l’amministrazione fiorentina, dovrebbe sorgere su un’area di circa 30-40 ettari attualmente occupata da Mercafir, i mercati all’ingrosso della città; questi, a loro volta, dovrebbero trasferirsi sulla vicina area di Castello, di proprietà Unipol, che nel corso dei decenni ha visto declassare le proprie destinazioni da centro di ricerca scientifica, a polo espositivo, a quartiere residenziale e infine, appunto a mercato.

Una bazzecola, per il Sindaco Nardella e l’Assessore all’urbanistica Perra che ne hanno già annunciato l’inaugurazione per il 2021. Una bazzecola che tuttavia richiede la demolizione, la bonifica e lo smaltimento di milioni di metri cubi di costruzioni esistenti, l’acquisto dell’area di Unipol e la costruzione del nuovo mercato all’ingrosso. Chi paga tutto ciò? Non certamente i commercianti, propensi a trasferirsi in strutture più moderne purché a costi zero. Non certamente Unipol, disposta a vendere i propri inappetibili terreni, ma non a regalarli. In teoria, tutti i costi dovrebbero essere sostenuti dai Della Valle che, tuttavia, si imbarcherebbero in un’operazione senza alcun senso economico.

Ma non si tratta solo della non fondatezza economica dell’operazione. Se questa andasse in porto, sulla periferia nord ovest di Firenze, nel delicato innesto con la piana, sarebbero situati la Cittadella Viola, con stadio, mega-outlet e attività varie, il nuovo Mercafir, il nuovo aeroporto, il Polo universitario, il costruendo inceneritore di Case Passerini, più le attività e i supermercati esistenti o di progetto, ognuno di questi grande attrattore di traffico; tutte funzioni gravanti sul principale ingresso dall’area metropolitana verso Firenze, il nodo di Peretola già attualmente e sistematicamente congestionato.

Invece di decentrare nell’area metropolitana si vuole accentrare sul capoluogo, creando una situazione infrastrutturale non risolvibile; aggravata in futuro dall’aumento del traffico in entrata per la realizzazione della terza corsia autostradale, stante il fatto che non può essere aumentata la capacità di assorbimento della viabilità interna della città; uno scenario da incubo, quando tutti gli attrattori entrassero in pieno esercizio, ad esempio, in una domenica di partita in casa. Senza contare l’abnorme concentrazione di attività in un quartiere già critico e di difficile abitabilità. Nessuna persona di buon senso può pensare che uno scenario di questo genere sia praticabile; nessuno, a meno che non sia sprovveduto o in cattiva fede.

Ora, dei Della Valle si può pensare tutto, meno che siano degli sprovveduti. I patron della Fiorentina sanno benissimo che realizzare la Cittadella Viola nell’attuale area Mercafir sarebbe un’operazione assolutamente antieconomica e non gestibile; ma anche il Comune di Firenze dovrebbe essere stato avvertito da qualche tecnico sull’irrealizzabilità dell’operazione. Perché, allora, continua il balletto degli annunci e delle schermaglie? La risposta è che nessuna delle due parti, dopo tanti titoli trionfali su Firenze che riduce Tokio alla stregua della periferia di Sorgane (chi sa se i Giapponesi sanno di cosa si tratta), dopo avere paragonato le forme del nuovo stadio all’ottagono del Battistero, vuole assumersi la responsabilità di rendere palese agli ingenui tifosi che si tratta solo di un bluff, in cui ciascuno cerca di addossare all’altra parte la responsabilità di un fallimento (per fortuna solo) annunciato: i Della Valle che vogliono vendere la Fiorentina, con il pretesto dell’impossibilità di costruire la Cittadella Viola, causa i soliti ostacoli burocratici; il Sindaco Nardella, terrorizzato che venga imputato al Comune di Firenze il fallimento dell’operazione. Fino a quando, inevitabilmente, le carte dovranno essere scoperte.

[1] Cito da Antonio Fiorentino, su La città invisibile, 14 marzo 2017

«A Mantova ci si è spesso concentrati sulle letterature provenienti da zone decentrate. È uno dei vanti della rassegna che ancora la distingue dalle tante iniziative che si moltiplicano in Italia.». la Repubblica, 7 settembre 2017 (c.m.c)

Via dall’autismo corale, invoca il poeta e paesologo Franco Arminio. E chissà se l’invito a fare comunità come in una piazza di paese, seduti intorno alla statua del santo patrono o in un bar con i tavolini in formica può proporsi anche a Mantova, dove ieri si è aperta la ventunesima edizione del Festivaletteratura. Festival internazionale, che quest’anno insieme a tante stelle del firmamento globale dedica uno spazio corposo al locale, con un percorso sugli sguardi che vengono dai margini, dalle aree interne, dai borghi a rischio di abbandono. Quelli che Arminio racconta dalla sua Bisaccia, nell’Irpinia orientale, e che raduna a fine agosto ad Aliano, in Basilicata, dove organizza “La luna e i calanchi”.A Mantova ci si è spesso concentrati sulle letterature provenienti da zone decentrate. È uno dei vanti della rassegna che ancora la distingue dalle tante iniziative che si moltiplicano in Italia. Stavolta non sono le periferie il punto d’osservazione, quanto il non-urbano, i luoghi dove, nonostante lo spopolamento, è molto anche Quel che resta, come recita il titolo dell’ultimo saggio di Vito Teti (Donzelli), l’antropologo che da un decennio studia il fenomeno, strappandolo alle letture estetizzanti o di sfruttamento turistico.

Sono borghi come Tresigallo in provincia di Ferrara, dove Diego Marani è nato e ambienta diversi suoi romanzi, compreso l’ultimo, Vita di Nullo (La nave di Teseo). O come Tavanasa, nello svizzero cantone dei Grigioni, narrato nei libri di Arno Camenisch, frizzanti pastiche che mescolano il tedesco e il romancio, nella sua variante sursilvana, una delle cinque con le quali l’antica lingua neolatina sopravvive nei Grigioni ( Dietro la stazione, Ultima sera e La cura sono i titoli pubblicati da Keller, Sez Ner da Casagrande, tutti affidati alla meticolosa e gioiosa traduzione di Roberta Gado).

Percorsi diversi, ma assimilati non solo dalla marginalità dei luoghi, anche dal tessuto umano che quei luoghi anima. Il più estroverso è Arminio. La sua raccolta di poesie, Cedi la strada agli alberi (Chiarelettere), è uscita a febbraio, ha collezionato 6 edizioni e 15 mila copie, un successo travolgente per un libro in versi. Arminio ha partecipato a duecento incontri, dalla Puglia al Veneto. In piazza raduna cento, anche trecento persone. Non sono presentazioni, li chiama «riti collettivi».

Ad Agugliaro, provincia di Vicenza, sotto il portico di una villa veneta ha letto i suoi versi, poi, insofferente delle formalità, ha chiamato quattro persone del pubblico a tradurre le poesie ognuno nel proprio dialetto. Quindi ha proposto di cantare Azzurro di Adriano Celentano e ha chiuso con Bella ciao. «Raccolgo il bisogno di stare insieme, di stare bene, di stringersi la mano», dice facendo squillare le parole. «Da noi la politica non viene più nelle piazze, ci pensano i poeti a soddisfare la fame di esporre i drammi e le speranze. La poesia non funziona da sola, altrimenti è iperletteratura, né funziona da sola la politica. Fanno la spola l’una e l’altra». E l’abbandono? «C’è. Ma chi rimane manifesta un naturale senso di comunità che nelle città si è consumato, sostituito da un autismo corale».

A Mantova Arminio dialoga domani con il critico Antonio Prete e sabato terrà un monologo sui territori resilienti. Di luoghi marginali parla in fondo Paolo Cognetti, vincitore dello Strega con Le otto montagne e anche lui presente a Mantova (sabato). Come Donatella di Pietrantonio, che con L’Arminuta è finalista al Campiello e che è nata e vive a Penne, in provincia di Teramo (stasera è a confronto con Michela Murgia). A Mantova anche Claudio Morandini (stasera è insieme ad Arno Camenisch e Marco Malvaldi) e Davide Longo, che dialoga sabato con Marani. Marani è un funzionario europeo, vive a Bruxelles, ma i suoi materiali narrativi li recupera dai seimila abitanti di Tresigallo. «Erano seimila anche quando ero ragazzino, molti sono andati via e ne sono subentrati altrettanti che così si sono avvicinati al capoluogo. Per il resto tutto si va spegnendo», spiega. I suoi accenti sono più rassegnati: «Avevamo le fabbriche e i negozi. Ora si compra al centro commerciale, anche se il fine settimana in molti vanno al bar a vedere le partite ». Il bar, con la boiserie scheggiata e le muffe che tinteggiano le pareti, è anche il fulcro di Vita di Nullo, scritto in un italiano denso e colto, assai distante dal parlato che rimbalza fra quei tavolini. Marani è un cultore di lingue. Tempo fa allestì l’europanto, un idioma immaginario che ne metteva insieme tanti reali e ora si sente orgoglioso di «conservare nella sua purezza il dialetto di Tresigallo, ora parlato solo dai vecchi». Di un’altra cosa va fiero: della capacità di adattarsi che vigeva in paese, «di capire anche le persone più lontane da sé, con le quali, nel piccolo spazio dove le compagnie non si potevano scegliere, s’imparava a mediare ». Che cosa resta? «Poco, quel tessuto sociale si è sfaldato».

Non resta molto neanche a Tavanasa, in mezzo alle montagne dei Grigioni, dove, stando al computo dei ragazzini protagonisti di Dietro la stazione, gli abitanti sono quarantadue o quarantatré. L’Ultima sera raccontata da Camenisch è quella dell’Helvezia, il bar della zia, di nuovo un bar. Dal giorno dopo avrebbe chiuso per sempre. Ed è l’occasione per vedersi tutti e per Camenisch, classe 1978, di sfoggiare una scrittura diversa da quella di Marani, fluida, smagliante, niente virgolette, solo discorso indiretto libero. Tanta, vitale oralità. «È il sound del romancio », dice, una miscela che scompone e ricompone elementi. «Ora abito poco distante da Berna. Ho sempre vissuto sui bordi linguistici di francese e tedesco. E a Tavanasa c’è chi parla il romancio e chi l’italiano. È un microcosmo in cui la polifonia risalta ». Guai dunque, il piccolo luogo, a darlo per perso. Basta un ridente incrocio di lingue e non sarà ridotto a un reperto.

Su fronte della sicurezza urbana pare spesso, anzi quasi sempre, materializzarsi l'antica metafora delle «convergenze parallele» che però non si incontrano mai (segue)

Su fronte della sicurezza urbana pare spesso, anzi quasi sempre, materializzarsi l'antica metafora delle «convergenze parallele» che però non si incontrano mai, se per caso si incontrano fanno finta di non conoscersi e tirano dritto continuando a convergere ciascuna per conto proprio. Qualche giorno fa un paio di gonzi eletti da par loro nelle file della Lega, riuscivano con la propria goffaggine mediatica se non altro a mettere in luce un episodio di cronaca che altrimenti sarebbe passato del tutto inosservato. Dato che le informative parlavano di una rapina stradale in cui erano coinvolti cittadini cinesi e italiani, i leghisti col classico automatismo da social network (che come noto non prevede di leggere, ma di far gorgogliare qualche parola chiave nel minestrone del pregiudizio) subito se ne sono usciti con un perentorio comunicato, a stigmatizzare la «inerzia del governo contro l'invasione di immigrati». Coprendosi di ridicolo, perché sarebbe bastato appunto leggere le due prime righe delle note informative, per scoprire che c'era una ragazza cinese, che aveva assai goffamente quanto spettacolarmente sventato un tentativo di «scippo veicolare» da parte di due italianissimi minorenni in motorino.

Il raggio di luce inopinatamente gettato dai due razzisti padani a prescindere sul fatto, consentiva però di vedere meglio una serie di dettagli piuttosto utili a iniziare a sviluppare un ragionamento sulla sicurezza urbana, e farlo a distanza di sicurezza di qualche anno luce da immigrazione o altre fantasie malate. C'è una ragazza, viaggia in auto attraversando uno slargo urbano, e viene affiancata dai due scippatori in motorino, che notata la borsetta (colpevolmente lasciata in bella vista sul sedile del passeggero col finestrino spalancato) provano ad arraffarla al volo. Lei si spaventa, sorpresa, fa una manovra azzardata forse maneggiando il volante senza neppure pensarci, risultato l'auto si ribalta, il motorino cade, uno degli scippatori si allontana e l'altro rimane lì a terra. Il bilancio alla fine pare addirittura festoso: due illesi, e l'unico ferito per niente grave. Ma ci sono ancora altri dettagli su cui val la pena soffermarsi, a partire dall'auto, una di quelle piccole elettriche in car sharing molto popolari soprattutto tra i giovani, che nonostante il ribaltamento spettacolare e i danni alla carrozzeria, ha dimostrato di essere molto sicura, visto che la ragazza non si è fatta niente, salvo lo spavento. Ma siamo ancora sicuri che in termini di sicurezza la vicenda si sia conclusa così gloriosamente? Certo che no.

Fanno trapelare alcune fonti, che quel ribaltamento, in effetti abbastanza singolare visto il posto, la velocità, la dinamica complessiva, si debba al concorrere della sorpresa, ma soprattutto della manovra del tutto inconsulta effettuata subito dopo aver sollevato lo sguardo dallo smartphone. Insomma, di comportamenti che fanno a cazzotti con un minimo di prudenza urbana, la ragazza ne avrebbe sommati due in un colpo solo: lasciare il finestrino aperto con la borsa in bella vista sul sedile, in una zona piena di semafori e rallentamenti a fil di cordolo, e concentrare la propria, di vista nonché di attenzione, sullo schermo della protesi elettronica anziché sulla strada da cui sono sbucati gli aggressori.
Lo fanno spessissimo, giovani o meno giovani, ma qui siamo dentro un'auto in condivisione, che fa di tanti aspetti dell'innovazione tecnologica e organizzativa una bandiera, in pratica un veicolo che funziona in sinergia, con lo smartphone (si individua, si sblocca, si collega all'utente, al suo conto corrente …) perché non fare in modo che si possano anche controllare limiti di velocità locale, o uso improprio del trabiccolo? Sicuramente qualcuno risponderà in modo evasivo, dicendo che si chiede troppo, o che è «il mercato baby» a sconsigliare questa intrusione nella libertà e stili di vita dell'utente, ma resta il dubbio. Perché per una volta l'ambiente fisico urbano sembra aver fatto piuttosto bene il proprio mestiere, a differenza di altri casi: velocità relativamente ridotta, visibilità, spazio di manovra ma non a sufficienza per danneggiare altri.

Ma si diceva siamo nel campo delle convergenze parallele che non si incontrano mai, avanzano, migliorano, combinano certamente qualcosa di buono, ma si lasciano una larga scia di questioni irrisolte da mancato virtuoso incrocio, quando invece basterebbe così poco. Basterebbe la voglia, e un'idea di fondo, si potrebbe dire. Così come accaduto nella recente, e abbastanza analoga, epidemia del New Jersey, diventato all'improvviso il protagonista delle campagne guerreggianti e ringhiose dell'assessorame nazionale e non solo. Barriere da cantiere e corsia stradale provvisoria che sbocciano ovunque, più che altro a testimoniare che «lassù qualcuno pensa alla tua sicurezza», e quasi di sicuro sono altrettanto inutili a perseguirla davvero, l'incolumità del cittadino. Hanno iniziato a proliferare, nelle città europee e italiane, dopo i vari «attacchi terroristici veicolari» verso cui si sono indirizzati i cosiddetti radicalizzati online, quella forma di guerriglia in franchising a tempo parziale praticata da dilettanti allo sbaraglio, anche se con un numero spropositato di vittime. L'arma, come noto, è un veicolo a motore lanciato sulla folla, e la barriera di cemento New Jersey, già utilizzata per esempio nei posti di blocco della polizia a restringere le carreggiate, parrebbe davvero in prima istanza una misura diretta ed efficace.

Osserva però uno studioso di terrorismo e politica internazionale, che per funzionare davvero come dice, questa politica degli sbarramenti veicolari dovrebbe in teoria chiudere tutte le strade potenziale obiettivo: impraticabile, non ultimo per questioni di costi e tempi. Ma impraticabile, aggiunge lo studioso, anche perché il New Jersey con la sua invadenza autoritaria svuota di senso l'idea di spazio pubblico inclusivo che sarebbe, a ben vedere, il perfetto antidoto al progetto totalitario del terrorismo (che non a caso colpisce in quei luoghi, oltre a considerarli il ventre molle della nostra civiltà urbana). Se chi, rappresentante eletto da noi cittadini per interpretarne in senso alto le aspirazioni, cercasse davvero di proteggere la collettività e la cultura che la sottende, volesse davvero trarre conclusioni coerenti, ne dedurrebbe che la migliore reazione all'uso di veicoli-proiettile nello spazio pubblico identitario da distruggere, è quello di ridurre quasi a zero la contundenza del proiettile, rafforzando l'identità. Ovvero, scendendo assai terra terra, regolamentare in ogni modo (velocità, accessibilità, modo d'uso) la circolazione dei veicoli a rischio negli spazi pubblici, attraverso organiche politiche di traffic calming, perseguite sia con trasformazioni fisiche, sia con strumenti smaterializzati high tech che ormai abbondano, sia con una adeguata pedagogia comportamentale, che comprende anche consapevolezza e autodifesa. Lasciando che dietro minacciose barriere grigiastre stiano i ridicoli guerrieri a fumetti di Sturmtruppen.

Vedi anche: Dal New Jersey alla città

«La luna e i calanchi. Il festival della paesologia appena terminato ha il dono di fare uscire la gente dal web. È l’incontro dei «difensori dei luoghi persi» per un nuovo umanesimo». il manifesto, 30 agosto 2017 (c.m.c.)

Chi viene ad Aliano ha bisogno di festa, di cerimonia, di canto, vuole sentire il rumore dei propri passi riecheggiare nelle strade di polvere, scalare i calanchi, camminare in lungo in largo il piccolo paese, condividere un’alba, un tramonto, tirar tardi e vivere in una dimensione d’intimità rurale e comunitaria in una terra che è soprattutto paesaggio.

Ma ad Aliano si viene anche per ritrovare amici vecchi e nuovi, come Andrea Semplici, un reporter navigato e grande viaggiatore kapucinskiano, il quale mi ha detto nel corso di una delle nostre passeggiate del direttore artistico de «La luna e i calanchi» (il festival della paesologia si è tenuto nel paese lucano dal 22 al 25 agosto) Franco Arminio: «Ha il dono di fare uscire la gente dal web».

Che questo piccolo festival paesologico voglia mettere insieme poesia e politica, infatti, è solo un esperimento riuscito, una risposta necessaria a quella che ormai da qualche tempo mi diverto a definire «la poetica del social solo», cioè il rito autoreferenziale che allontana dalla vita comunitaria e avvicina solo al proprio egotismo, o una risposta orizzontale ai tanti festival seriali della Società dello Spettacolo, dove lo scrittore è ormai un innocuo entertainer arrivato solo per pubblicizzare il prodotto.

La cosa incredibile di Arminio è di esser riuscito a crearlo dal basso e da una zona dell’Italia periferica, Bisaccia, da un sud del sud, con fierezza e determinazione, e aver opposto il corporale all’artificiale come aveva capito uno scrittore che il capitalismo selvaggio, economico e digitale, l’aveva visto con molto anticipo, Paolo Volponi, anche lui un selvatico dell’Appennino, poeta e politico come Rocco Scotellaro, e come Osvaldo Licini, comunista lirico e pittore ribelle delle Amalassunte.

Crearlo e moltiplicarlo, perché ormai questo ritrovo collettivo è la punta dell’iceberg di una costellazione di iniziative che si chiamano «Rocciamorgia» nel Molise di mezzo, «Giardini delle Esperidi» a Zagarise in Calabria, e che si fa persino a Piero, frazione di Curiglia con Monteviasco, 16 abitanti e l’assenza di strade per arrivarci, in provincia di Varese, ma che continua tutto l’anno alla «Casa della paesologia» di Trevico.

Il festival è come una navigazione su internet dal vero, una specie di mappa interattiva, vasi comunicanti e parlatori, concerti, letture ad alta voce all’alba di poeti che resistono al sonno e sono acclamati dal pubblico caloroso che li ascolta con rapimento nel palcoscenico vivente di Piazza Panevino, cuore del paese (quest’anno Adelelmo Ruggieri, Maria Grazia Calandrone, tra gli altri).

Mi rendo conto di non essere un buon spettatore, mi agito di continuo e scappo, onnivoro vorrei vedere tutto, andare dove le cose accadono, e qui sono tante e in contemporanea per un disordine prestabilito, ma soprattutto fare quello al quale molti di noi viaggiatori tendiamo, perdere tempo.

Quando arrivo, stanno già succedendo tantissime cose, venendo quassù ho visto all’entrata del paese le molte tende dei ragazzi giunti da ogni parte d’Italia, perché Aliano va espugnato, e per arrivarci da Foggia devi perderti su strade deserte e fantasmatiche, lunghi rettilinei d’asfalto, prima di salire.

Già raggiungerlo è una forma d’insubordinazione geografica. Alloggio sotto il borgo storico originario, dove visse il confino Carlo Levi in una casetta da dove vedeva «il burrone; davanti, senza che nulla si frapponesse allo sguardo, l’infinita distesa delle argille aride, senza un segno di vita umana, ondulanti nel sole a perdita d’occhio, fin dove, lontanissime, parevano sciogliersi nel cielo bianco», come scriveva in Cristo si è fermato ad Eboli (Aliano nel libro è chiamato Gagliano).

Non è un caso che il festival della paesologia si svolga qui in questo luogo fortemente simbolico. La casa dove lo scrittore torinese soggiornò tra il 1935 e il 1936 adesso è vuota, non ci sono oggetti, suppellettili, arredi, ricordi e, forse anche per questo, la sua presenza qui si sente ancora più forte.

Lungo la strada che porta al paese alto, nel punto dove c’è una statua monumentale di padre Pio, il cantastorie sta seduto su una sedia sopra il muretto bianco, sotto un albero di ulivo dove ha appoggiato il mandolino, canta di emigrazione e di miseria quando passo, accompagnandosi con la chitarra.

Nei tre baretti ragazzi seduti ai tavoli insieme ai vecchi del paese, ma di questo incontro non è dato di sapere, forse gli abitanti di Aliano, quelli che qui sfidano i tenebrosi autunni e gli inverni infiniti, gli eroi dell’Italia interna, i difensori dei luoghi persi, comprese le 40 famiglie di marocchini invisibili, che sembrano addirittura essersi nascosti in questi giorni, guardano tutto come un bizzarro spettacolo vivente di cui non riescono mai a diventare protagonisti, comparse, e forse neanche spettatori.

Ma Aliano non è solo rappresentazione en plein air, performance di rara intensità espressiva come quelle di Amalia Franco, attrice con una grande capacità metamorfica in «Lasciare andare con grazia», un corpo a corpo con il doppio, tante cose accadono «Verso le dieci», o «verso le undici», tanto per dare un’idea della provvisorietà del tempo e dei luoghi, che possono cambiare, altre succedono all’improvviso fuori programma dove meno te lo aspetti, conversazioni filosofiche, o piccoli convegni sul futuro del Mezzogiorno, quello dell’Italia interna, le politiche di integrazione e il tema dei migranti.

Carmine Nardone che parla di Manlio Rossi Doria, l’economista e politico di cui fu collaboratore, diventa racconto concreto del rapporto sadomasochistico tra Nord e Sud, l’originalità territoriale contro quella che chiama «l’imitazione delle aree forti», che crea dipendenza, la non separazione tra l’agire tecnico e quello politico.

Forte l'intervento dello storico Sandro Triulzi, «la migrazione è come il mondo sta cambiando» esordisce, fa collegamenti di date tra il 3 ottobre 2013, quella del naufragio di Lampedusa dove morirono soprattutto eritrei, e il 3 ottobre 1935 quando l’esercito italiano sotto la guida del generale Emilio De Bono invase l’Eritrea, che salda due storie lontane, lo stessa data simbolica della giornata mondiale della memoria e dell’accoglienza.

Ma il momento politico più intenso si svolge il penultimo giorno all’Auditorium dei calanchi, i «Parlamenti comunitari», un flusso ininterrotto di esperienze di conservazione di umanità e paesaggio, civiltà e cultura dell’accoglienza, cercando di praticare un nuovo umanesimo, tra memoria del passato e innovazioni del presente.

Un’altra cosa bizzarra mi è capitata qui ad Aliano. In Piazza Panevino, verso il fondo, appoggiato sopra un piccolo tavolino coperto da un foulard colorato, c’era un contenitore di acciaio con scritto «Pesca la risposta». Prima bisognava mettere una monetina in un vaso, poi domandarsi qualcosa, di se stessi o del mondo, qualcosa che avesse avuto a che fare con un destino, ho immaginato, il gioco consisteva in questo.

Devo aver chiesto che ne sarà di questo mondo precario, se le nostre azioni, come quelle di questi giorni, produrranno o meno senso, perché questa crisi è un’occasione, o se, invece, servono solo il nostro bisogno di consolazione a portarci qui in questo cerimoniale. Quando ho estratto il foglietto, e l’ho aperto, spiegandolo, c’era scritta questa frase sibillina : «Puoi restare nel non sapere? La fiducia nell’originario NON SO. Lì la risposta». Mi è sembrato un incitamento.

«Ci sono luoghi che hanno resistito alla generale evanescenza, luoghi dove si capisce che il romanzo lo scrive la natura, noi mettiamo solo qualche virgola» Franco Arminio

L’ultima alba è ancora sui calanchi, li raggiungiamo che è ancora notte ai piedi del paese in questo paesaggio lucano un po’ desertico, sabbioso, che ricorda quello mediorientale. Un groviglio di montagne scavate si stende all’orizzonte, preceduto da un oliveto molto esteso, una macchia folta di alberi. Arriviamo camminando a piccoli gruppi sulla strada sterrata, ai lati queste montagnette chiare che sembrano di sabbia, con in cima piccoli alberi esili. Si ascolta in silenzio mentre albeggia e il sole spunta lentamente emergendo dalle vette sfrangiate e argillose dei calanchi, illuminando il nostro teatro all’aperto.

È proprio vero, come ha scritto sul pieghevole francescano con il programma Franco Arminio che «ci sono luoghi che hanno resistito alla generale evanescenza, luoghi dove si capisce che il romanzo lo scrive la natura, noi mettiamo solo qualche virgola».

Il Faro di Patresi, santuario della natura e della cultura, è uno dei simboli dell’isola dell'Elba, ma non tutti ne hanno consapevolezza. Articolo di Riccardo Chiari e intervista a Umberto Mazzantini. il manifesto, 13 agosto 2017 (c.m.c)

ECOINCUBO ALL'ELBA:
IL PIANO DELLA DIFESA

PER IL FARO DI PRATESI
di Riccardo Chiari

«Parco nazionale dell'arcipelago toscano. Il progetto di trasformazione in albergo di lusso dell’ex struttura militare che sorge nell’area protetta di Punta della Polveraia. Legambiente e Italia Nostra denunciano: "Opera in contrasto con gli strumenti urbanistici del comune di Marciana e con i vincoli paesaggistici regionali e del Parco. Come è stato possibile ignorarli?"»

Nel mare sottostante, all’estremità nord-occidentale dell’Isola d’Elba, ci passano anche le balene. Siamo nel cuore del Santuario dei mammiferi marini Pelagos, area naturale protetta di interesse internazionale, e anche la terraferma che circonda Punta della Polveraia fa parte del Parco dell’Arcipelago toscano. Un piccolo angolo di paradiso, dominato da quello che per gli elbani è un simbolo, il Faro di Patresi. Diventato ora un casus belli fra associazioni ambientaliste e comunità locale da lato, e una società privata che vuole trasformare la struttura ex militare in un albergo di lusso, con piscina, ristorante e lounge bar. Un «eco-mostriciattolo», così come Legambiente e Italia Nostra hanno ribattezzato il progetto di trasformazione del faro.

Principale responsabile dello stato delle cose è Difesa Servizi spa, la società in house del ministero della Difesa, che nel giugno dello scorso anno ha avviato le procedure per l’affidamento in concessione di alcuni fari della Marina Militare. Tra questi c’è appunto anche quello di Punta Polveraia, a Patresi, nel territorio comunale di Marciana.

Il disciplinare di gara prescriveva che le offerte dovevano prevedere «un intervento di elevato valore culturale legato, ad esempio, alla ricerca scientifica e/o ambientale e/o alla didattica, soprattutto in relazione al contesto storico, militare e paesaggistico, nonché una gestione privatistica che garantisca la fruibilità e l’accessibilità del faro e delle aree esterne di pertinenza: permanente o temporanea, in determinati periodi o fasce orarie, in occasione di eventi o attività culturali, ricreative, sportive, sociali e di scoperta del territorio che tengano conto del contesto e dei fabbisogni locali».

A conti fatti invece, denunciano le combattive sezioni di Legambiente e Italia Nostra dell’Arcipelago toscano, è stato premiato un intervento a forte impatto ambientale e paesaggistico: «Si è preferito un progetto che prevede nel Faro un esercizio ricettivo/ristorativo e una sostanziale privatizzazione della struttura. Per un pugno di euro in più le tematiche ambientali, sociali, paesaggistiche e storiche di un luogo unico sono passate in secondo piano».

Di fronte alle puntuali osservazioni ambientaliste, la reazione della società vincitrice del bando, la Alfa Promoter srl, non si è fatta attendere: «La gara per il faro di Punta Polveraia è stata vinta da un’associazione di imprese elbane e livornesi, il cui obiettivo dichiarato è quello di far sì che anche il faro di Patresi diventi un posto magico, suscettibile di creare valore indotto all’intero territorio elbano». A seguire una puntualizzazione urbanistica. «Il progetto della associazione vincitrice del bando di gara ha dichiaratamente ricalcato quello del Faro di Capo Spartivento, considerato un’eccellenza a livello mondiale e premiato dai vertici della Marina Militare». Infine un’osservazione velenosa, con un’allusione a un possibile contatto tra le associazioni ambientaliste e la società arrivata seconda alla gara.

Va da sè che Legambiente e Italia Nostra hanno rinviato le accuse al mittente: «Abbiamo solo dato un giudizio dal punto di vista ambientale e paesaggistico dell’insostenibile progetto presentato, che ora ci si dice copiato da uno presentato in Sardegna. Come se questo consentisse di trasformare il Faro di Patresi in un eco mostriciattolo». Poi, nello specifico: «Quello di cui siamo sicuri è che quanto proposto per trasformare il Faro di Punta Polveraia in qualcos’altro è in contrasto con gli strumenti urbanistici del Comune di Marciana, col piano del Parco nazionale dell’Arcipelago toscano, con i vincoli paesaggistici ricadenti sull’area, con il piano paesaggistico della Regione Toscana, e non si capisce come sia stato possibile che tutto questo sia stato ignorato».

A dar man forte agli ambientalisti è arrivata infine la comunità locale: «L’insieme sistematico di opere e interventi edilizi proposte – ha denunciato l’associazione Amici di Patresi e Colle d’Orano – sono univocamente preordinate alla formazione di una struttura solo evocativamente riconducibile alla struttura esistente, e sono manifestamente distanti rispetto ad una soluzione di minore impatto. Si tratta viceversa di una soluzione fortemente impattante, concepita per massimizzare le potenzialità di fruizione unicamente in chiave turistica». La partita resta aperta, ma il territorio ha già dato il suo giudizio. Negativo.

ECOMOSTRI ALL'ISOLA D'ELBA:
«È L'ABBAGLIO
ECONOMICO DEL PD .
MA GLI ELBANI ORA HANNO CAPITO»
intervista a Umberto Mazzantini


«Questa storia del Faro di Patresi mi fa pensare che il nostro Stato continua a non aver coscienza della storia, oltre che della natura. Se poi si pensa che lì sotto passano le balene, questo mi fa arrabbiare ancora di più»

Padre nobile dell’ambientalismo elbano, Umberto Mazzantini va subito al cuore del problema: «Questa storia del Faro di Patresi mi fa pensare che il nostro Stato continua a non aver coscienza della storia, oltre che della natura. Non ho preclusioni, ricchezze del genere possono essere gestite anche insieme ai privati, come sta facendo il governo di sinistra in Portogallo. Ma con paletti ben precisi, ad esempio senza toccarne la struttura, riportandola alle sue origini, al suo splendore. Se poi si pensa che lì sotto passano le balene, questo mi fa arrabbiare ancora di più».

Legambiente e Italia Nostra hanno definito il progetto come un eco-mostriciattolo. Concorda?

Mi torna come definizione. Prima di tutto perché prevede lo sbancamento del terreno, con una piscina che va a finire direttamente nel territorio del parco. In aggiunta il progetto, almeno nei rendering presentati al ministero della Difesa, contempla una completa trasformazione del profilo del faro. Mi sembra il minimo definirlo eco-mostriciattolo.

Contro il progetto hanno preso posizione anche le comunità locali; è un bel passo avanti rispetto a un passato anche recente, non le sembra?

Non succede sempre, ma almeno all’Elba sta accadendo sempre più spesso. L’associazione Amici di Patresi e Colle d’Orano è poi molto trasversale, ne fanno parte residenti dell’isola e vacanzieri, commercianti e albergatori. Dunque è un bene che si siano fatti sentire, con forza, verso l’amministrazione comunale. Del resto è successa la stessa cosa a Marciana Marina con la questione del nuovo porto: noi l’abbiamo definito senza mezzi termini un ecomostro, e poi è nato un comitato autonomo di cittadini che ha sfidato il vecchio sindaco alle elezioni. Vincendole, con una lista chiamata da tutti «anti-porto».

C’è una morale?
Sì, in questi ultimi trent’anni gli albani hanno capito, poco a poco, che la coscienza ambientale è importante. Inoltre, in questa specifica vicenda, c’è da considerare un aspetto altrettanto importante: il Faro di Patresi è uno dei simboli dell’isola e in particolare di tutti i residenti nel comprensorio di Marciana. Qui scattano altre dinamiche, di difesa di un patrimonio comune, anche storico oltre che ambientale.

E il ruolo delle amministrazioni pubbliche locali?
Purtroppo abbiamo spesso a che fare con una imprenditoria abbastanza spregiudicata, che cerca di forzare la mano. Però oggi all’Elba si discute di ambiente, nei bar, al mercato, nelle piazze. E le amministrazioni locali, pure di centrodestra in sette casi su otto, se ne sono accorte e cercano il confronto. Si tratta di una svolta che solo pochi anni fa sembrava impensabile.

Una vittoria di civiltà anche per le associazioni ambientaliste?
Certo, aiutata anche dal fatto che verso di noi, che eravamo piuttosto aggressivi, prima le amministrazioni andavano allo scontro diretto. E si facevano male. Alla fine l’hanno capita. Aiutate anche dai loro concittadini, che non li votavano più di fronte a progetti urbanistici davvero discutibili. Ora poi c’è stata anche la rinascita di Italia Nostra sull’isola, e questo è un aiuto ulteriore.

A proposito di progetti invasivi, nella vicina Val di Cornia, al di là del braccio di mare che separa l’Elba dalla terraferma, continuano ad essere molto gettonati. Le ultime notizie raccontano un rinnovato “dinamismo” del cemento, come se il turismo potesse sostituire l’industria…
Se pensano ai modelli degli anni ’60, ’70, e ’80, sbagliano di grosso. Un abbaglio economico, prima ancora che ambientale. Purtroppo all’interno del Pd c’è una deriva che va in questo senso, avvertibile anche nelle politiche ambientali regionali. La Toscana una volta era al vertice, ora non lo è più. Anzi sta finendo in coda.

il manifesto dell’11 agosto 2017, a firma Costantino Cossu, un’intervista a Edoardo Salzano in merito al tentativo in corso di stravolgere il piano paesaggistico regionale... (segue)

il manifesto dell’11 agosto 2017, a firma Costantino Cossu, un’intervista a Edoardo Salzano in merito al tentativo in corso di stravolgere il piano paesaggistico regionale e riaprire il capitolo della urbanizzazione selvaggia delle coste sarde. Come già nel caso di Roma – il nuovo stadio della Roma a Tor di Valle – anche in Sardegna si tenta di fare carta straccia dell’urbanistica delegando alla Giunta, o al consiglio comunale (come proposta di modifica) la facoltà di concedere autorizzazioni a costruire in deroga al piano, in presenza di “progetti di particolare rilevanza economica e sociale”. Come se non bastasse, si tenta anche di approvare una norma che consentirebbe di “adeguare” attrezzature alberghiere (sempre sulla costa) con aumenti di cubatura così da renderli più adatti alle nuove esigenze turistiche.

Non entro nel merito del problema. Le risposte di Salzano dicono tutto e bene. Leggendole non posso fare a meno di pensare che queste risposte, semplici e radicali al tempo stesso, dovrebbero trovare un posto d’onore nei manuali della nostra disciplina. Un disciplina che gioca sempre più al ribasso. Fatta, nel passato, anche di esempi e storie gloriose, ma che ormai è completamente asservita ai poteri forti dell’interesse economico e diventata nemica proprio di ciò che avrebbe dovuto tutelare: le coste, il paesaggio, i beni ambientali, le città. Essa ha subito una vera e propria mutazione genetica, rinnegando la sua storia di impegno riformista a favore dei più deboli e del loro diritto alla città, per mettersi al servizio dei distruttori di ambiente.
Purtroppo sono sempre di meno le voci di chi, come Salzano, tentano di difenderne le istanze originarie, l’impegno a salvaguardia dei beni comuni, in nome di una presunta modernizzazione che somiglia sempre di più a una furia devastatrice, una vera e propria hybris che sconvolge qualsiasi ragionevolezza.
Nei giorni scorsi è stata ricordata la tragedia avvenuta nella miniera belga di carbone di Marcinelle l’8 agosto 1956, quando i migranti eravamo noi. E’ bene che qualcuno racconti e ricordi delle storie di lavoro e di incidenti nell’ambiente di lavoro in questo tempo in cui sembrano cancellate dal vocabolario l’“odiata” espressione “classe operaia”, che sapeva tanto di comunismo, e la stessa parola “operaio” viene usata il meno possibile, come se gli operai fossero scomparsi in questo mondo così moderno.
La storia della catastrofe di Marcinelle - fu proposta in una vecchia miniserie RAI del 2003, Marcinelle, qualche volta trasmessa da quale televisione privata - è un concentrato di eventi; l’incidente avvenne in una miniera dell’Europa appena uscita dalla seconda guerra mondiale, nella quale il grande flusso del petrolio e del gas naturale era appena all’inizio e il carbone era la principale fonte di energia, così come lo era per tutto il mondo. A dire la verità, con tutti i progressi che ci sono stati, il carbone è ancora oggi il principale combustibile fossile; nel mondo milioni di minatori estraggono, ogni anno, circa settemila milioni di tonnellate di carbone e lignite dalle viscere della terra, risorse nascoste a centinaia e migliaia di metri di profondità. Ogni giorno milioni di persone scendono dalla superficie del suolo nelle strette gallerie sotterranee in cui il nero carbone viene staccato, pezzo per pezzo, dalle pareti della miniera, viene caricato su nastri trasportatori e carrelli e viene poi portato in superficie con gli ascensori.
Il carbone è un materiale fossile nero, relativamente fragile, che genera, durante la frantumazione, polveri che vengono respirate dagli operai, anche se sono muniti di maschere e filtri (agli operai italiani nel Belgio furono dati soltanto dopo l’incendio di Marcinelle) e che causano malattie polmonari dopo pochi anni di lavoro. Il più grande nemico dei minatori è il metano, il “grisou”, un gas infiammabile che è rimasto intrappolato, nel corso di migliaia di secoli, “dentro” i giacimenti sotterranei di carbone e che continua a liberarsi nell’aria delle gallerie a mano a mano che nuove superfici vengono a formarsi con la continua asportazione del carbone.
Per l’illuminazione delle gallerie oggi sono disponibili lampade elettriche, ma nel passato per molti decenni, le uniche lampade disponibili erano lampade a fiamma libera che provocavano esplosioni quando la concentrazione di metano era superiore ad una soglia di sicurezza; soltanto nel 1816, ad opera del grande chimico Humphrey Davy (1778-1829) sono state inventate le lampade di sicurezza da miniera, poi continuamente perfezionate.
Per essere respirabile l’aria delle gallerie, a centinaia di metri di profondità, deve essere continuamente ricambiata; fra cattiva ventilazione, polveri, scarsa illuminazione e fatica fisica, il lavoro dei minatori del carbone è fra quelli più usuranti e pericolosi che ci siano. Rispetto alle condizioni di lavoro delle miniere dell’Ottocento e a quelle descritte nel telefilm, peraltro girato in una vera miniera in Polonia, oggi le condizioni di sicurezza sono un poco migliorate, anche se gli incidenti continuano a verificarsi e comportano un sacrificio di migliaia di vite umane ogni anno, in Cina, Stati Uniti, India, Australia, Russia, Sud Africa, eccetera. Non bisognerebbe dimenticarlo perché l’elettricità che consente di accendere le lampadine, i televisori, le lavatrici, i frigoriferi, prodotta nelle centrali termoelettriche a carbone italiane, è “pagata” dalla fatica di qualche operaio in qualche miniera in qualche parte del mondo; c’è un “contenuto di dolore” in ogni bolletta dell’elettricità.
Erano ancora infami le condizioni di lavoro nelle miniere del Belgio negli anni quaranta e cinquanta del Novecento; in Belgio in quegli anni non c’erano abbastanza minatori e il governo belga strinse con quello italiano, nel marzo e giugno 1946, un accordo con cui l’Italia incoraggiava l’emigrazione nel Belgio di operai per le miniere e in cambio il Belgio assicurava la vendita a prezzi di favore all’Italia, affamata di energia. Merce lavoro in cambio di merce carbone necessaria per la ripresa delle nostre industrie e fabbriche. Negli anni successivi migrarono nel Belgio oltre 50 mila operai (dovevano essere giovani, in buona salute e dovevano restare per almeno un anno nel freddo lontano paese); venivano dalla Sicilia, dove erano state chiuse le miniere di zolfo, dalla Calabria, dalla Puglia, dalle Marche; un anno di lavoro di un operaio italiano nelle miniere del Belgio “valeva” per l’Italia circa una tonnellata di carbone a basso prezzo. Gli operai italiani nel Belgio vivevano in condizioni miserabili, in povere baracche; in questo viaggio della speranza alcuni avevano portato le famiglie, altri avevano portato la struggente nostalgia delle famiglie lontane a cui mandare il povero salario. La condizione degli immigrati era ancora più triste per l’ostilità che la popolazione locale manifestava per questi “stranieri” di lingua e abitudini diverse, che non portavano vantaggi economici; alcuni locali pubblici vietavano l’accesso “ai cani e agli italiani”.
Nella miniera di uno di questi paesini, Marcinelle, vicino Charleroi, avvenne l’incendio e il crollo delle gallerie che è costato la vita a 262 minatori, di cui 136 italiani e che destò, in quel lontano 1956, una enorme impressione in Italia e nel mondo. L’incidente fu provocato dalla arretratezza delle strutture, dalla mancanza di manutenzione, dall’egoismo dei proprietari che avevano già deciso di chiudere la miniera e volevano sfruttare fino all’ultimo le riserve di carbone e il lavoro dei minatori.
Dovremmo interrogarci più spesso sull’ambiente non solo nelle nostre città o nei nostri fiumi, ma anche nelle fabbriche, nei cantieri, nelle miniere e nelle cave, negli stessi campi in cui i lavoratori sono esposti a sostanze tossiche e a pericoli; e spesso questi lavoratori sono immigrati, circondati da ostilità, come lo erano gli italiani nel Belgio. Non dimentichiamolo perché c’è qualche famiglia, in qualche lontana parte del mondo, che mangia del pane che ha “dentro di se” il dolore dei parenti lontani, in Italia, come, appena pochi anni fa, molte famiglie siciliane e calabresi mangiavano del pane che aveva “dentro di se” il dolore dei minatori italiani lontano, nel Belgio.

che, ribaltando la decisione del Tar, concedono il via libera... (segue)
Due vicende, di ambito apparentemente diverso hanno caratterizzato gli ultimi giorni. Da un lato le sentenze del Consiglio di Stato che, ribaltando la decisione del Tar, concedono il via libera all'istituzione del Parco Archeologico del Colosseo, decretando lo smembramento definitivo di quella che era la storica Soprintendenza Archeologica di Roma. Sui problemi giuridici aperti dalle sentenze v. soprattutto i commenti su Emergenza Cultura, ma occorrerà ritornarci, per la gravità delle implicazioni che si estendono ben al di là del caso specifico, fornendo una legittimazione all'uso o meglio abuso della decretazione come modalità di sottrazione dell'attività dell'esecutivo ad ogni controllo preventivo in materia di pubblica amministrazione.

Le sentenze del CdS legittimano quindi - nel metodo e nel merito - la costituzione del Parco, decisa dal Ministero come un semplice atto regolatorio interno, quasi che la dissoluzione definitiva dell'unità archeologica di Roma e lo sconvolgimento amministrativo che comporta sul centro - fisico, culturale, urbanistico - della città sia questione da trattare fra le mura del Collegio romano senza alcun confronto con la città. Anche per questo, per l'evidente vulnus al principio di leale collaborazione istituzionale, il Comune di Roma aveva fatto ricorso, accolto dal TAR e poi respinto dal Consiglio di Stato (sentenza 3665/2017) con motivazioni acrobatiche su cui occorrerà ritornare. La creazione del Parco, un recinto che ritaglia, contro la storia antica e recente, senza alcuna idea se non quella dell'isolamento di littoria memoria, un complesso monumentale parte integrante di un organismo urbano complesso come quello romano, è stato l'ennesimo episodio di quel centralismo velleitario che connota questa stagione governativa.

La riforma costituzionale bocciata dal referendum ne era stata l'espressione più compiuta, con il tentativo di annullare 45 anni di regionalismo - senz'altro non privo di problemi - a vantaggio però di una neocentralità appiattita sul potere esecutivo. Lo spirito della riforma Renzi-Boschi era stato anticipato, nel 2014, dallo SbloccaItalia. Anche in quel caso, innumerevoli erano le "scorciatoie" concesse al governo centrale: "esemplare", in questo senso, l'art. 33 con il quale si sottraeva al Comune di Napoli la competenza urbanistica per quanto riguarda l'area di Bagnoli.

Proprio quella vicenda ha trovato qualche giorno fa un esito in qualche modo inaspettato: dopo mesi di contrasto durissimo - da parte del Comune e ancor più della città attraverso i molti comitati e associazioni - si è arrivati ad un accordo che azzera le molte, illegittime distorsioni del piano urbanistico vigente, ipotizzate in questi ultimi vent'anni. Ripristinate le dimensioni del parco urbano a 120 ettari, ripristinata l'integrità della linea di costa originaria della spiaggia di Coroglio, con l'arretramento dell'edificio abusivo di Città della Scienza, annullati gli aumenti di cubatura.
Certo persistono ancora molti problemi e lo stesso accordo non è esente da ombre e ambiguità, come testimonia il dibattito su eddyburg. Insomma, la battaglia per restituire alla città e al godimento di tutti una delle sue aree paesaggisticamente più belle, è ancora lunga.

Ma l'accordo è un buon punto da cui ripartire e soprattutto ha un valore simbolico che non può essere sottovalutato: è la dimostrazione del potere istituzionale di un'urbanistica pubblica interpretata al meglio. La variante su Bagnoli del 1996 ha dimostrato una capacità di resilienza che dovrebbe far riflettere. Capacità certo agevolata dalla cialtroneria politica e amministrativa con cui si è cercato di aggirare le previsioni del prg e che si è nutrita, al contrario, di un consenso popolare via via più tenace. Quel piano regolatore ha resistito, a dimostrazione anche della debolezza politicamente e socialmente intrinseca degli attuali approcci urbanistici, che rinunciano ab origine ad una visione ampia dell'organismo urbano, inchinandosi - a prescindere - agli interessi di parte.

Qualche anno fa, nel 2013, in un libretto sul rapporto fra le politiche di sinistra e l'urbanistica degli ultimi decenni (La sinistra e la città), gli autori, Roberto Della Seta ed Edoardo Zanchini, definirono Bagnoli come "simbolo del fallimento dell'urbanistica italiana" (p. 76), confondendo rozzamente fra progetto urbanistico e sua ritardata realizzazione.

Ma l'urbanistica ha tempi lunghi e già Antonio Cederna ci aveva insegnato a non arrenderci, mai. La resistenza contro un governo del territorio che rinunci a perseguire l'interesse pubblico e la difesa della legalità è stata anche la lezione della migliore stagione di Italia Nostra. Tuttora attualissima.

L'accordo su Bagnoli - nella sua imperfezione e migliorabilità - è una base da cui ripartire.
Anche per quanto riguarda Roma e quest'ultima vicenda del Parco del Colosseo, la cui istituzione, lungi dall'avere alcun effetto innovativo, costituisce invece la cristallizzazione - a puro scopo di speculazione turistica - della situazione di devastante incompiutezza dell'area archeologica centrale.
E soprattutto un ostacolo forse non casuale alla realizzazione del più grande progetto urbanistico che abbia interessato Roma moderna, il progetto Fori.

Come insegna Bagnoli, la buona urbanistica ha lunga vita.

«È una fatica quella di accudire il restare che però dà frutti insperati, una sosta fertile dentro il continuo dileguare. Restare è un verbo inscritto nel futuro». doppiozero, 14 luglio 2017 (c.m.c)


Vito Teti, Quel che resta. L’Italia dei paesi fra abbandoni e ritorni, editore Donzelli.

Partire dalla fine, è il punto di avvio del libro fortemente empatico di Vito Teti, Quel che resta. L’Italia dei paesi fra abbandoni e ritorni, con l’introduzione di Claudio Magris, editore Donzelli. Partire, non semplicemente fermarsi a “quel che resta”, perché l’abbandono mette in questione la struttura stessa del mondo che si lascia (aggiungerei anche quello che si va a cercare) mette in tensione le relazioni, cambia la morfologia dell’abitare, il senso stesso dei luoghi (come recita il suo libro precedente, divenuto ormai un classico).

Mentre ciò che appartiene al tempo trascorso può essere invece riscattato, oltre le cesure, e le discontinuità del tempo come un mondo carsico di potenzialità sì sommerse ma, al tempo stesso, capaci di esprimere potenzialità diverse, incompiute eppure “suscettibili di future realizzazioni”.

Ecco, allora, filtrare, al di sotto della trama dolente del libro, fatta di vuoti, schegge e ombre di un abitare divenuto buio (riecheggiano, nelle pagine accorate, voci, suoni ormai inerti di tanti paesi, un Sud apparentemente perduto) gli interrogativi, i dubbi di quella sorta di alter-ego che per l’autore è Corrado Alvaro: se sia possibile cioè pensare tracce, scarti, frammenti, rovine, paesaggi come una geografia a tutti gli effetti del presente. Come se quelle ombre, gravate dall’utopia disincantata che si portano dentro, non fossero in fondo – come afferma Claudio Magris nella densa introduzione – una forma malinconica ma insieme agguerrita della speranza.

Dove la nostalgia ha dimora proprio in quanto non è necessariamente desiderio di un’eternità immobile ma, e qui Teti si richiama alle parole di Jean-Bernard Pontalis, “di nascite sempre nuove” perché desiderare un futuro dipinto con i colori della nostalgia vuol dire immaginare in sé un futuro diverso da quello che si è realizzato.

Nostalgia che rimanda a una rinominazione del tempo. A una concezione antica, con cui le comunità tradizionali hanno convissuto a lungo, fatta di un futuro che talvolta può diventare peggiore del presente. La stessa indecifrabilità oggi che investe il tempo: l’orizzonte opaco di ciò che ci riserva il domani e di cui forse non si sa nemmeno bene, quel che di noi “resterà”. Riflettendo su questo snodo – a mio parere cruciale – mi è tornato in mente un passaggio di Zygmund Bauman: quando osserva che il futuro non è più il luogo sicuro e promettente verso cui rivolgere le nostre speranze e al contrario viviamo con l’impressione crescente di perdere il controllo sulle nostre vite, ridotti come siamo a pedine mosse avanti e indietro sullo scacchiere “da giocatori sconosciuti, indifferenti ai nostri bisogni, se non apertamente ostili e crudeli, pronti a sacrificarci nel perseguimento dei loro obiettivi (in La grande regressione a c. di H. Geiselberger, Feltrinelli).

Quel che resta insomma, è l’invito sommesso e tenace del pensiero antropologico più avvertito – tra cui la voce stessa di Pietro Clemente – «è ancora moltissimo». È una fatica quella di accudire il restare che però dà frutti insperati, una sosta fertile dentro il continuo dileguare, un suggerimento al bisogno che si avverte in tanti (e qui penso a Gilles Clément) di cambiare leggendo, attingendo all’indietro e in avanti nel tempo. A partire da ciò che resta appunto. Perché i rimasti, e con loro le cose che restano, (dietro ai luoghi ci sono gli uomini e le donne) appartengono al più vasto mondo quanto quelli che sono in viaggio: alla stregua dei ruderi e delle reliquie che testimoniano di un mondo esploso, “di un corpo frantumato”, quello dei paesi vuoti, – ci mostra Teti – fragili come le sparute comunità che ancora li abitano, le cui schegge, però, si sono spostate in mille luoghi.

Ecco, allora, presi per mano dall’autore, si capisce in fondo, che è importante rovesciare il punto di osservazione, svelare il gioco ingannevole di un movimento solo apparentemente fermo. Così che spetta ai rimasti oggi, in fondo, “assumere la missione” di essere i nuovi viaggiatori, i nuovi esploratori. Dove i missionari non arrivano più da fuori. Da fuori arrivano non quelli che viaggiano ma quelli che scappano, portando con sé tutto “quel che resta” del loro mondo andato in fiamme: come ci insegna la lezione di Riace e del suo sindaco Domenico Lucano che, in uno scambio ininterrotto con lo stesso Vito Teti, ha pensato di accogliere nei vuoti del suo paese in abbandono i profughi dal Mediterraneo in guerra e che un regista come Wim Wenders ha rappresentato nel filmato Il volo.

L’ombra allora che “quel che resta” porta con sé è il lato antico e nuovo che bisogna conoscere, indagare, avverte l’autore. Perché un mondo che non sa fare i conti con ciò che rischia di sparire o che non c’è più, che poi è la morte stessa, forse si avvicina alla sua fine, o è già morto. Restare (o tornare, che è la stessa cosa) è un verbo inscritto nel futuro, come ci mostrano le ultime pagine, intensissime, del libro in cui si dà voce alle parole di una suora, Chiara, che ha scelto con le altre consorelle di riabitare un luogo abbandonato della Calabria, Scigliano.

«Restare – è il suo monito – fa paura perché guardando i paesi disabitati ci riscopriamo frammentati dentro. Ci guardiamo negli specchi delle case vuote, dalle finestre cadenti da cui nessuno si affaccerà più. Ma è proprio di lì che tutto può ricominciare. Perché nel frammento di ciò siamo si ricama l’orma di un tutto che passa attraverso le trame delle piccole cose dei piccoli e dimenticati segni di vita che ci circondano».

.Esistono molte forme, storie, funzioni degli spazi pubblici, e in particolare di quelli che chiamiamo "piazze",tutte mutevoli nello spazio e nel tempo. Che vuol dire combattere «l'etica della location»? Ragioniamo. il Fatto Quotidiano, 12 luglio 2017, con postilla

Una nuova barbarie insidia le nostre città: l’etica della location. Imperversa dappertutto, ma colpisce al cuore specialmente la più originale creazione della città italiana, la piazza. Tanto originale, anzi, da avere un ruolo chiave nella ricerca, promossa dall’Istituto Max Planck per la Storia dell’arte e diretta da Alessandro Nova, sul rapporto tra forma della piazza e vita politica delle città. La piazza italiana è l’erede più nobile e più consapevole dell’agorà greca e del foro romano. È luogo di discussione e d’incontro, di commercio e di scontro politico, di festa e di lutto. Teatro di rituali collettivi (come il Palio di Siena), si presta alle manifestazioni civiche, accoglie cerimonie religiose, si trasforma talora in mercato, si circonda di caffé e altri luoghi di conversazione.

A questa densità di significati e di tradizioni pensavano certo i tanti pianificatori di città nuove (per esempio in Orange County, California) che usarono la parola italiana “piazza” per designare spazi pubblici destinati ad accogliere forme di vita civica. Esperimenti che di solito non hanno molto successo, perché replicare la piazza italiana fuori d’Italia è davvero difficile senza la trama urbana che la circonda, la stratificazione storica che l’accompagna, la memoria culturale dei cittadini che vi abitano.
Questa storia secolare vacilla ormai sull’orlo dell’abisso. Da Treviso a Todi, da Pisa a Palermo, da Cagliari a Lecce capita sempre più spesso di vedere meravigliose piazze storiche invase, anzi occultate, da palcoscenici, impalcature, riflettori, sedie per spettatori, barriere, attrezzature sportive, schiere di gabinetti mobili, contenitori di rifiuti, bottiglie rotte per terra e altri detriti. Il fenomeno è così esteso e frequente che è inutile stendere una lista nera, additare al ludibrio sindaci o soprintendenti o descrivere casi singoli. Chiuse al pubblico non pagante, deturpate da invadenti strutture “provvisorie”, che però durano settimane o mesi, le nostre piazze nascondono la loro bellezza e la loro diversità, diventano tutte uguali, accolgono gli stessi concerti dalle Alpi alla Sicilia, perdono forza e carattere, si svendono per trenta denari. Il principio che governa questo degrado, in una cacofonia di rumori che appesta quartieri interi, è l’etica della location. Ma una piazza storica che venga intesa solo come location è già morta. L’idea stessa di location implica che la piazza di per sé non è nulla, non ha una funzione sua propria, a meno che non la si riempia di qualcos’altro, non importa se tornei sportivi, concerti rock, dibattiti culturali o cantanti d’opera. A pagamento, spesso, così la piazza “rende”; mentre la piazza storica, i nostri antenati non l’avevano capito, era uno sbaglio, uno spazio vuoto che di per sé non rende nulla.
Il successo di queste iniziative, tanto più perverse quanto più a lungo durano, si misura sbigliettando, contando presenze e introiti. Nessuno fa i conti di quel che si perde: il turista che in quella piazza entra una volta sola nella vita, e avrebbe il diritto di vederla, ma ne è privato perché le architetture sono nascoste dall’attrezzeria dell’evento di turno; il degrado dell’immagine civica che ne consegue; il progressivo logoramento della stessa idea di città. La piazza fu infatti per secoli il supremo spazio sociale che crea e consolida l’identità civica e la memoria culturale, perché lo scambio di esperienze, di culture e di emozioni vi accade grazie al luogo e non grazie al prezzo. Sta ora diventando, al contrario, un non-luogo (una non-piazza), dove solo il prezzo conta, e la bellezza del luogo è solo uno specchietto per le allodole, si mostra e si nasconde. E questo mentre crescono intorno a noi, in un processo inarrestabile, i nuovi italiani che vengono da altre culture,e a cui dovremmo saper trasmettere valori e comportamenti senza i quali ogni discorso sulla tutela dei centri storici e dei paesaggi presto diventerà lettera morta.
Alla stessa logica, la piazza storica come un invaso vuoto da riempire e “modernizzare”, risponde anche l’incongruo aggeggio installato nel bel mezzo di piazza Sordello a Mantova con la scusa di proteggere resti archeologici. A profanare la celebre piazza, con prevedibile escalation, è stavolta un’architettura non effimera, ma ingombrante e pomposa. Perfino in una delle più preziose città d’Italia le “autorità preposte” hanno dunque perso il senso di che cosa una piazza sia? Ma i mantovani mostrano di capire, e si allunga ogni giorno la lista dei firmatari di una petizione per la pronta demolizione del goffo edificio. L’etica della location è più difficile da battere perché si nasconde dietro eventi effimeri, ma in molte città cresce la protesta e il fastidio. Riusciremo, noi italiani, a ricordarci che una piazza storica deve vivere, mostrare, difendere la propria dignità?

postilla

Ciòche Settis definisce «
una nuova barbarie che insidia le nostre città: l’etica dellalocation» è certamente un danno grave, che colpisce tutti gli spazi pubblicibelli o brutti, nobili od ordinari. Tutto ciò che era finalizzato o è finalizzabilealla fruizione da parte di tutti e può essere oggi“valorizzato”nell’interesse dipochi (o anche semplicemente all’incremento del PIL) viene stravolto a questofine. Ed è evidente che quando questa barbarie colpisce luoghi più ricchi dibellezza, di storia, di memorie ancora vive, o di usanze (e utilizzazioni) ancoraverdi o rinverdite la cosa turba di più.
Ma non vorremmo che la ricchezza dellefunzioni, dei ruoli, delle utilizzazioni cui sono soggette le piazze, mutevolinel tempo come è mutevole la storia delle città e delle società che le abitano,vengano appiattite sui loro aspetti estetici, sulle “pietre” che lecostituiscono.
Quante nobili piazze disegnate ed usate per celebrare l'orgoglio dei tiranni vennero adoperate come "location"per la ribellione vittoriosa degli oppressi? e quanti giardini costruiti per le delizie dei cortigiano trasformati in parchi pubblici per gli abitanti dei quartieri popolari? Le trasformazioni del suolo devono essere sempre orientate al miglioramento delle sue connotazioni positive, quale che sia la storicità infusa in esse.
Come icona abbiamo scelto una immagine di Gianni Berengo Gardin, "Francofonte"
Il giorno 24 giugno, la prima pagina del quotidiano Libero (il giorno dopo la morte di Stefano Rodotà riportata da tutti i giornali), è per buona parte...(segue)






Il giorno 24 giugno, la prima pagina del quotidiano Libero (il giorno dopo la morte di Stefano Rodotà riportata da tutti i giornali), è per buona parte occupata da una fotografia immensa che ritrae un bel giovane nero vestito elegantemente. E’ seduto su una sedia e tra le ginocchia ha un libro aperto. Accanto alla foto c’è l’articolo del suo Direttore e, a quanto sembra, noto esperto di moda, Vittorio Feltri, dal titolo “Anche Gucci inciampa nel ridicolo”. La stessa foto è riportata a pagina 21 (qualora fosse sfuggita all’incauto lettore di questo quotidiano). Ed ecco il commento di Feltri: “Un’immagine disgustosa, repellente che allontanerà dai negozi Gucci qualsiasi cliente”.

Ma se a qualcuno venisse il sospetto che si tratti di un giudizio tutt’altro che sulla moda, ma motivato solo da pregiudizi razzisti, Feltri lo rassicura con le sua parole: “Il problema non è certo che l’individuo ritratto sia nero […], ciò che impressiona è altro: l’orrendo abbigliamento inflitto all’uomo utilizzato quale indossatore, offendendolo”.

Già! Sembrerebbe un commento sulla moda da parte del Direttore del quotidiano, ancorché (non ne eravamo a conoscenza) noto esperto della stessa. Ma a leggere oltre l’articolo troviamo queste affermazioni: “Un autentico vomito. Le scarpe sembrano comiche. Sembrano quelle di un prete gay ottocentesco”. Dunque l’indossatore non è solo un uomo di colore, ma somiglia anche a un gay, per di più prete. Viene da chiedersi se, come nella famosa barzelletta, l’indossatore sia anche ebreo perché così la misura sarebbe colma.

Ma è il finale a…. commuovere: “[…]Oppure, ed è più probabile, la scelta dell’uomo nero e del costume di cui questo è dotato, risponde all’esigenza di piacere a coloro che predicano con passione l’accoglienza, l’integrazione, l’ospitalità. Nel caso, la moda avrebbe rinunciato all’estetica e si sarebbe buttata sull’etica stracciona del buonismo progressista che predilige l’immigrazione selvaggia. Basta dirlo. Eliminiamo Gucci dal guardaroba”.

Non c’è gran che da aggiungere a questo articolo del Direttore di un giornale intitolato “Libero”. Ma un piccolo commento a lato vorrei farlo. Il Direttore creativo della Gucci, Alessandro Michele da quando è diventato Direttore, ovvero da soli due anni, dopo ogni sfilata di moda è sommerso da giudizi entusiastici da tutti i commentatori (quelli veri) di moda del mondo, ricevendo riconoscimenti e plausi in qualsiasi paese. Mancava il giudizio di Feltri che, come lui stesso afferma, non ècerto razzista.

“Non esiste più la separazione tra ciò che è naturale e ciò che è culturale. Le due divinità felicemente accoppiate, Natura e Cultura, sono morte e con loro l’idea di scrittura (segue)

“Non esiste più la separazione tra ciò che è naturale e ciò che è culturale. Le due divinità felicemente accoppiate, Natura e Cultura, sono morte e con loro l’idea di scrittura ecologica”. E’ la sintesi della lezione che l’antropologo e scrittore Amitav Ghosh [nell'icona - ndr] terrà al Festival Internazionale di Roma e pubblicato nel Domenicale del Sole-24 ore del 19 giugno.

Di per sé, l’affermazione non sorprende più di tanto, ma le conseguenze di questo evento (che dà l’avvio a una nuova era denominata Antropocene), possono essere sconvolgenti, se solo ci si riflette un attimo. Anni fa il noto scienziato e ambientalista senese, Enzo Tiezzi, (che aveva studiato negli Stati Uniti insieme a Barry Commoner e contribuito alla diffusione del famoso libro The Circle Closing), pubblicò un libro, Tempi storici e tempi biologici (Garzanti, 1984), nel quale si affermava che mentre la velocità di trasformazione naturale della biosfera si misura su una scala calibrata sui milioni di anni (ere geologiche), la velocità di trasformazione indotta dall’uomo si misurava invece nella scala delle centinaia di anni. Le due velocità, pertanto, non sono tra loro in alcun modo confrontabili. Quella che definiamo “la questione ambientale” altro non è, dunque, che il dis-adattamento tra la velocità dei cambiamenti naturali e quella dei cambiamenti prodotti all’uomo. Questa tesi fu ripresa da Giuseppe O. Longo che ha sostenuto che questo dis-adattamento tra il sistema-ambiente e il sistema-uomo (meglio sarebbe dire sistema: uomo-nell’ambiente), è la vera sostanza della questione ambientale.

In altre parole le modificazioni naturali dell’ambiente viaggiano a una velocità assolutamente inconfrontabile con quella provocata dalle modificazioni antropiche. Ora questo dis-adattamento è diventato addirittura osservabile oggettivamente nel corso della durata di una singola esistenza umana, tanto da sostenere che la nuova era dovrebbe definirsi Antropocene.
Il discorso di Ghosh fa un ulteriore passo in avanti: non è più possibile distinguere la Natura dalla Cultura, ovvero i cambiamenti della nostra biosfera sono ormai quasi esclusivamente prodotti dall’uomo. Ghosh analizza, in quanto antropologo e scrittore, gli effetti di questo cambiamento. La vecchia distinzione tra “Natura” e “Cultura” è stata “assai produttiva per le arti e soprattutto per la narrativa”. Quasi tutti i grandi romanzi del Novecento descrivono la lotta incessante dell’uomo con la Natura (basti ricordare Il vecchio e il mare di Hemingway). “Ma”, aggiunge Ghosh, “Nessuno scrittore può sognarsi di immaginare che tali paesaggi esistano ancora. Se uno scrittore contemporaneo dovesse tornare nei luoghi di cui scrissero Laxness e Hamsun, si troverebbe di fronte a un permafrost in via di scioglimento, popolazioni animali in calo, ritiro dei ghiacciai, nevicate irregolari, aumento della temperatura e via dicendo”.
Sempre da questa posizione, Ghosh legge il cambiamento prodotto anche sulla lingua poiché espressioni come “ritiro dei ghiacciai” o “innalzamento del livello dei mari”, sono del tutto nuove e assenti nella grande narrativa del secolo scorso. Così che: “Una volta introdotte, queste espressioni avranno lo stesso effetto di una specie invasiva in un ecosistema incontaminato: lacereranno inevitabilmente il tessuto poetico della lingua che un tempo permetteva di evocare questi scenari unici” (con buona pace di Leopardi, aggiungo io). Fin qui gli effetti sulla narrativa dei cambiamenti rapidi della nostra biosfera. Ma quali più sconvolgenti effetti provoca questo assottigliamento delle differenze tra Natura e Cultura?

In campo urbanistico si parla sempre più di resilienza. E’, come ho in altre occasioni sottolineato, un concetto preso a prestito dalle discipline biologiche e introdotto (seppure in modo scientificamente improprio) nel campo degli studi urbani. Qui esso starebbe a significare il tentativo di adattare le nostre città ai cambiamenti climatici in corso e a quelli che, molto probabilmente, si produrranno (con effetti ancora più disastrosi) nei prossimi anni. Ora a considerare vere le affermazioni di Ghosh, questi cambiamenti naturali sono tutt’uno con quelli culturali, ovvero è la nostra cultura (stili di vita, modelli di consumo, ecc.) a produrli. Anche questo è per certi versi scontato. I cambiamenti climatici sono principalmente l’esito delle modificazioni dello strato di CO2 che circonda la nostra biosfera e che garantisce quell’equilibrio delicatissimo tra energia solare in ingresso e calore rigettato fuori dalla biosfera, nello spazio. Un equilibrio, questo, simile a quello del nostro corpo dove il mantenimento di una temperatura costante di trentasei gradi è appunto garantito tra l’energia assimilata e il calore disperso nell’ambiente circostante. Nessuno potrebbe immaginare di poter sopravvivere con una temperatura corporea che oltrepassa i quaranta gradi o che sia, al contrario, inferiore ai 30. La temperatura media del nostro pianeta (misurata sulla superficie degli oceani) è di 14,5 °C. Variazioni modestissime (dell’ordine di due-tre gradi), provocherebbero conseguenze catastrofiche per tutte le specie viventi (uomo, soprattutto) che diventerebbero a rischio di quasi sicura estinzione.

Tornando alla resilienza, le affermazioni di Ghosh indurrebbero a pensare che più che ricorrere alla tecnologia per fronteggiare i cambiamenti in corso, bisognerebbe modificare il nostro modo di pensare il rapporto tra noi e l’ambiente. Noi – esseri umani – non siamo “altro” dall’ambiente che ci ha “prodotti”. “Il nostro corpo” – sosteneva Edgar Morin – “è una macchina di trenta miliardi di cellule, controllate e procreate da un sistema genetico che si è costituito nel corso di un’evoluzione naturale durata da due a tre miliardi di anni”, e “la bocca con cui parliamo, la mano con cui scriviamo sono organi biologici. Discesi dall’albero genealogico tropicale, dove viveva il nostro antenato, siamo convinti di essere sfuggiti per sempre fuori dalla natura, per costruire il regno indipendente della cultura”. Infine, aggiungeva Morin, noi siamo 100% natura e 100% cultura.

La nostra tecnologia (intesa come una delle manifestazioni della cultura), può aiutarci a ricomporre (o almeno a ridurre) il dis-adattamento prodotto tra uomo e ambiente. Se ad esempio, si riuscisse a far rispettare gli accordi della Cop di Parigi, potremmo sperare almeno di esserci avviati su una buona strada. Ma credo che non basti se non si interviene sulla cultura, ovvero se continuiamo a considerarci fuori dall’ambiente e a vederlo, o ad osservarlo, come uno sfondo, o un giacimento da cui continuare ad estrarre risorse. Ghosh, da antropologo, ne vede gli effetti. Abbiamo prodotto un mondo artificiale più “grande” di quello naturale pensando che possiamo ignorare quest’ultimo; pensando che possiamo farne a meno perché riteniamo la nostra tecnologia assai più potente delle forze della natura. Basta poi un piccolo sbadiglio di questa, come il recente terremoto nell’Italia centrale, per riportarci alla realtà della sua incommensurabile potenza, rispetto alla quale i nostri effimeri sforzi di adattare le nostre città alle conseguenze di quei cambiamenti da noi stessi prodotti, sono insignificanti.

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