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per promuovere il solito «sviluppo del territorio». La Repubblica 9 gennaio 2016, postilla (f.b.)

A volte ritornano. Pensavi che portare il mare a Milano fosse un sogno dimenticato. Che l’autostrada d’acqua fra la Madonnina e l’Adriatico fosse solo un disegno su antiche mappe. E invece. Sono ancora accese, in piazza Duca d’Aosta, le luci del Consorzio del Canale Milano Cremona Po, anche se l’ente è stato soppresso (per non avere raggiunto gli obiettivi) già il 14 giugno del 2000, con decreto del ministro al Tesoro Vincenzo Visco. «Siamo rimasti in quattro, noi dipendenti. E poi ci sono i tre del consiglio di amministrazione, che debbono liquidare il patrimonio». Patrimonio ingente, perché del canale si inizia a discutere nel 1902 — presidente del Consiglio Giuseppe Zanardelli — e fino al 2000 l’ente è stato finanziato con circa 300 miliardi di lire. Sono stati preparati progetti, espropriati terreni e sono stati scavati anche 14 chilometri di canale (su 65), fra Cremona e Pizzighettone. Ma dal 1980 in poi nessuna ruspa è tornata in azione e il Tesoro, quasi 16 anni fa, ha detto basta così. Sembrava una pietra tombale.

Ma anche i canali possono risorgere. L’Aipo — Agenzia interregionale per il fiume Po — sei mesi fa ha infatti stanziato un milione di euro (per metà sono soldi della Commissione europea, che ha definito il canale opera prioritaria) per «valutare la fattibilità di un nuovo canale Milano-Cremona». «Si tratta — spiega l’ingegner Luigi Mille, dirigente Aipo per la Lombardia — di un tracciato meno costoso, perché usa in parte il canale Muzza. Il costo previsto è di 1,7 miliardi di euro, con sette conche e 60 metri di dislivello». Un percorso diverso, di 60 chilometri, ma l’obiettivo è sempre quello: congiungere la periferia sud di Milano a Pizzighettone, dove iniziano quei 14 chilometri di canale usato adesso solo da pescatori e canoisti. «Presenteremo il progetto nei prossimi mesi, all’assessore regionale Viviana Beccalossi e poi saranno le Regioni del Po ed il governo a decidere ».

Canale Muzza nel Lodigiano - Foto F. Bottini

È bastato però l’annuncio dello studio in atto per provocare proteste. «Mi sembra — dice Alessandro Rota, presidente della Coldiretti Milano Lodi — che la vicenda dello stretto di Messina sia stata trasportata al nord. Si discute del canale da più di cento anni e l’unico risultato è stato quello di buttare miliardi. Che merci potrebbe portare, questo canale?». Ufficialmente, il Consorzio nasce con la legge 1044 del 1941, sostituendo l’Azienda portuale di Milano del 1920. «In passato la nostra grande città aveva le acciaierie, la gomma, la chimica. Adesso ci sono solo terziario ed uffici, con la produzione delocalizzata in mezzo mondo. Con il canale si butterà ancora cemento sul terreno agricolo più fertile d’Italia».

Forse non tutti i milanesi ricordano che la fermata della metropolitana Porto di mare, accanto a Rogoredo, si chiama così perché in quella che nel 1920 era campagna doveva nascere il porto di accesso al canale. «Adesso invece dobbiamo partire una ventina di chilometri più a sud. Il porto di mare è un quartiere», raccontano al Consorzio Muzza di Lodi, incaricato di preparare la relazione tecnica per il progetto di fattibilità. Il nuovo percorso che sarà presentato «nei prossimi mesi» non è comunque un segreto: se n’è discusso in un convegno a Viadana e l’Unioncamere del Veneto l’ha messo in rete.

«Noi proponiamo — raccontano il direttore e il vice del Muzza, gli ingegneri Ettore Fanfani, Marco Chiesa e Giuseppe Meazza — di partire da Truccazzano, dove c’è una grande cava già piena d’acqua. Serviranno collegamenti con Brebemi, Linate, tangenziale esterna e grandi spazi per imprese di trasporto, industrie». Il canale Muzza verrà utilizzato ma solo in minima parte: 2,7 chilometri. «Ci sono problemi di corrente. Nel nostro canale di irrigazione la velocità è di un metro al secondo. In un canale di navigazione deve essere pari a zero». Il vecchio tracciato tagliava a metà Paullo. «Ora è impossibile passare di lì. Abbiamo scelto il parco a sinistra dell’Adda. Sappiamo già che ci saranno proteste».

I tecnici mettono le mani avanti. «L’Aipo ci ha affidato lo studio e noi lo prepariamo. Ma siamo come chirurghi. Apriamo il malato e vediamo cosa si può fare. Sappiamo però che i problemi sono davvero seri. Le infrastrutture non saranno cosa semplice. A sud di Lodi, ad esempio, bisognerà costruire un sovrappasso per scavalcare, in 500 metri, la linea Fs Milano-Bologna, il canale di regolazione e la via Emilia. Ancora più a sud bisognerà superare l’Adda con un altro ponte-canale. Da un punto di vista tecnico si può fare tutto. In Belgio queste strutture si costruiscono da decenni. Il progetto è ambizioso, vista anche la spesa, 1, 7-2 miliardi. Nel canale potranno passare navi di classe V Europa, lunghe 110 metri, larghe 11,40, con 2,50-2,80 di pescaggio e 2500-3000 tonnellate di carico. Ognuna potrebbe portare l’equivalente di 70 vagoni ferroviari o di 100 tir. Ma ci chiediamo: ci saranno le merci da trasportare? È giusto un investimento così importante? Per fortuna questo non è un problema nostro. Ci saranno economisti e altri tecnici a completare lo studio. Noi sappiamo comunque che c’è un altro grande handicap: l’acqua. Dove si prenderà quella che serve al canale? Adesso non basta nemmeno per l’irrigazione, lo sappiamo bene noi che serviamo 80mila ettari di pregiato territorio agrario». Corrono le folaghe e volano gli aironi, sul canale Muzza. Forse potranno stare tranquilli. A volte ritornano. Per fortuna non sempre.

postilla


Chiunque abbia seguito, su queste o altre pagine, lo svolgersi delle vicende infrastrutturali dell'area padana, dovrebbe aver chiaro come, a parte le classiche polemiche ambientali o di modalità, tracciato, insostenibilità finanziaria e via dicendo, la critica di fondo è quella di voler promuovere attraverso le reti stradali il famigerato «sviluppo del territorio». Che come ben sappiamo non ha nulla a che vedere con l'idea di sviluppo in quanto valorizzazione delle risorse ambientali e umane a scopo di progresso, ma solo assai più banalmente traduce in italiano uno solo dei significati dell'inglese
development: edilizia e opere di urbanizzazione. Questa strampalatissima riproposizione dell'antico progetto di canale navigabile, al netto sia delle evocazioni storiche, che delle false sognanti immagini di megalopoli delle acque (potrebbe anche evocare qualcosa del genere, se ben manovrata e farcita di rendering) si colloca esattamente dentro le stesse politiche del «fare e disfare è tutto un lavorare», anzi addirittura pone alcune precondizioni per nuovi svincoli, bretelle, collegamenti su gomma, poli di interscambio, identici e forse peggiori collocandosi in zone agricole di pregio, di quelli già visti con le inutili autostrade padane, a carico del contribuente e dell'ambiente locale. Diffidare, soprattutto quando spunteranno quei disegnini sui giornali compiacenti, magari con una specie di Darsena bis davanti ai terreni di Ligresti, che proprio per puro caso stanno lì vicino all'area detta Porto di Mare, e che importa se in realtà dovesse fermarsi a Truccazzano? Ci hanno già fatto la diramazione Bre.Be.Mi. lì vicino, basta un'altra bretellina e via ... ad libitum (f.b.)

La Repubblica, ed. Milano, 7 ottobre 2015

Lo scandalo dei diesel riguarda la salute, la nocività dell’aria che respiriamo nelle città e comunque nelle aree coinvolte dal traffico motorizzato. È una banalità, ma occorre ricordarlo perché finora né la Lombardia né Milano, che sono state capostipiti e che sono in gran parte le capitali italiane della lotta allo smog, hanno dato segni di reazione. Come se si trattasse di una questione lontana, un inciampo tedesco. Il diesel fa male, e i miglioramenti vantati dalla case automobilistiche, in particolare con gli Euro 5, ma non solo, sono in gran parte fittizi : questo ci insegna lo scandalo dei diesel.

Una questione che riguarda dunque tutti i possessori di polmoni, non solo chi ha prenotato gli ultimi modelli di auto. Perlomeno la Regione Emilia ha anticipato - e ha già in corso da qualche giorno- lo stop diurno agli Euro 3 diesel nell’ambito dei provvedimenti annuali antismog che rimangono in vigore da ottobre a fine marzo. Da noi invece la Regione Lombardia ha spostato questo fermo all’autunno 2016 e non sembra volerne ridiscutere. Nell’epicentro della conurbazione, nell’Area C di Milano, gli Euro 3 diesel non possono entrare. Ma tutt’attorno possono circolare liberamente, per la gioia dei polmoni meno centrali. Non parliamo poi degli Euro 4 e degli Euro 5 : e invece quanto emerso dal cosiddetto “affare Volkswagen” suggerirebbe di sottoporre il più possibile i veicoli circolanti a nuovi esami.

In Francia, dopo aver a luglio resistito alla pressione ecologista di parificare il prezzo al dettaglio della benzina e quello del gasolio per i diesel, ora la ministra dell’Ambiente Segolene Royal ha promesso di farlo, se non del tutto immediatamente, almeno gradualmente. In Gran Bretagna già da anni il gasolio non costa meno della benzina. Probabilmente agendo sulla sovratassa regionale, la Lombardia potrebbe far alzare il costo del carburante per i diesel, se si ricordasse di voler essere la “California italiana” come aveva detto il predecessore di Maroni. Certo dovrebbe coordinare questa misura con le Regioni limitrofe, ma non sarebbe impossibile: oltetutto sarebbero introiti per le casse pubbliche.

Il recente studio Viias (sull’impatto dell’inquinamento sulla salute) riconosce che c’è stato un miglioramento tra il 2005 e il 2010, ma il numero dei morti attribuibili principalmente all’inquinamento da micropolveri e biossido di azoto resta di decine di migliaia all’anno in Italia.

Tra il 2010 e il 2020 si potrà avere un abbattimento solo con politiche attive, non accontentandosi di fattori climatici e del calo congiunturale del traffico dovuto alla recessione (e quindi reversibile). Bisogna uscire dall’epoca dell’auto privata in città, e soprattutto dall’epoca dei combustibili fossili egemonizzati dai motori diesel. Farli veramente puliti costa troppo: questo emergerà alla fine dallo scandalo Volkswagen. Se a Parigi, dove si respira aria migliore di quella padana, stanno cominciando a fare le domeniche a piedi, perché dismetterle a Milano? E per restare su misure più ristrette: se l’Emilia ferma almeno gli Euro 3, perché la giunta lombarda dice che deve valutare la delicatezza della questione in relazione alla crisi economica? Siamo più poveri degli emiliani?

Corriere della Sera Lombardia, 27 maggio 2015, postilla (f.b.)

Da 22 mila vetture in transito domenica 16 maggio, primo giorno, alle 43.500 di picco registrato venerdì. La Teem fa il botto e dopo una settimana già mostra i suoi effetti: Tangenziale Est liberata e più 35 per cento sulla Brebemi. Partenza col botto, per la Teem: inaugurata sabato 16 maggio, è già arrivata a una media giornaliera di 40 mila veicoli che scelgono il suo asfalto e migliora via via, dando ossigeno anche alla Brescia-Bergamo-Milano. Autostrada, quest’ultima, che a un anno di vita dava ancora risultati deludenti e adesso forse prende la strada del riscatto: le ultime statistiche descrivono un aumento di traffico del 35 per cento. Risultati sopra le attese per entrambi i tracciati. La nuova Tangenziale est esterna — che collega la A4 ad Agrate e la A1 a Melegnano — puntava a 25 mila-28 mila vetture nei primi mesi e 55 mila da settembre in poi. Mentre l’obiettivo di Brebemi, che sta per inaugurare anche la bretella di collegamento tra l’area del cremasco e Romano di Lombardia (in provincia di Bergamo) era di 28 mila (dagli attuali 20 mila veicoli), con prospettiva di arrivare a 40 mila a fine 2016, se verrà completato il tratto verso Brescia.
L’area metropolitana

La sfida, per Teem, è chiara: decongestionare il traffico Est-Sud della Grande Milano intercettando i flussi di auto dell’anello più interno. Resta solo un’incognita, quella dei costi: le tariffe, come per l’autostrada che attraversa la bergamasca, sono più alte (5 euro la media «scontata», contro i 3,euro 6 della «vecchia» Tangenziale Est). E gli utenti, che per la maggior parte pagano con il Telepass, visualizzeranno la sorpresa a fine mese. Il gioco, per loro, varrà la candela? Ovvero: la maggior spesa sarà compensata dal guadagno in termini di tempo (e carburante)? I conti sono presto fatti: la vecchia autostrada, spesso congestionata, ha una percorrenza di 25-60 minuti; la nuova dovrebbe garantire lo stesso tragitto in meno di un quarto d’ora. Da qui devono partire le considerazioni. Soddisfazione, tutto sommato, per le aziende. Ma per la massa dei pendolari, principale mercato cui si rivolge la struttura? I prezzi più alti, dopo la prima fiammata, scoraggeranno gli automobilisti e avranno la meglio sui tempi di percorrenza più veloci? Il rischio c’è. Remoto però, sostiene più d’uno: si pensi all’Alta velocità ferroviaria (costi triplicati rispetto al treno ordinario, eppure linee sempre affollate).
Le analisi economiche

«È una boccata d’ossigeno per la Brebemi. Una risposta ai suoi detrattori e ai catastrofisti che in questi mesi parlavano di opera inutile», si è lasciato andare a questi primi dati l’assessore regionale alle Infrastrutture e Mobilità, Alessandro Sorte. E parole soddisfatte arrivano anche dal presidente della società inaugurata nel luglio 2014, Francesco Bettoni: «Siamo finalmente nel sistema autostradale nazionale, i dati sono estremamente positivi. Aumentano sia le auto sia i furgoni e i camion. E cresceremo ancora — è l’auspicio del manager — con l’apertura delle prossime interconnessioni. Ecco la lungimiranza del progetto Regionale di ridefinizione del sistema autostradale lombardo. A tutto vantaggio della qualità della vita per chi nel territorio vive e lavora, della sicurezza, e della competitività delle piccole e medie imprese che si trovano a sud est di Milano».

Inaugurata nel primo weekend con 22 mila veicoli, la Teem venerdì — giorno strategico anche per BreBemi — ha toccato un picco a 43.500, per poi scendere a 41 mila lunedì. Un veicolo su quattro, si calcola, è camion, furgone o tir. Per Brebemi, che conta sui sette giorni una media di 20 mila veicoli (14 mila nei fine settimana), era partita con un più 10 per cento già sabato 16 maggio. Poi, anche per lei, lo sprint: più 35 per cento. E il flusso potrebbe diventare più consistente se, come da piano, agli impiegati e ai professionisti diretti a Milano si uniranno artigiani e piccoli imprenditori.
Sui social network

Fino a dieci giorni fa tra la Brescia-Bergamo-Milano e Teem era aperto solo il cosiddetto «arco», per convogliare il traffico verso le nuove superstrade Paullese e Cassanese. Ora, l’alternativa alla «vecchia» tangenziale c’è. Realizzata in 32 mesi, nei tempi previsti, e con 2,2 miliardi di spesa, da soggetti privati, in particolare il gruppo Gavio e Intesa San Paolo, Teem oltre al tracciato principale prevede 38 chilometri di strade provinciali e comunali e altri 30 di piste ciclabili. La pubblicità, per ora, corre solo sulle emittenti locali e sulle radio. Nessun gran battage. Ma c’è il passaparola. E ci sono i social network. Su Twitter, il topic Teem è balzato in pochissimi giorni tra i primi cinque su scala nazionale.

postilla

Evaporate nel nulla, le sprezzanti critiche al sistema autostradale lombardo promosso (e spudoratamente rilanciato) dal governo locale di centrodestra? Perché come prometteva qualche mese fa Roberto Maroni, dopo aver inaugurato il tentennante segmento di Bre.Be.Mi. tanto ridicolizzato per le corsie deserte, la rete deve entrare a regime per funzionare. In questa logica, ovviamente perversa ma tant’è, tutto si tiene: centralità dei trasporti privati su gomma, e relativo «sviluppo del territorio» il quale sviluppo per inciso rafforza i poli di attrazione per il medesimo traffico, attirandone di nuovo. E figuriamoci se, come nelle implicite premesse, l’anello esterno completo accennato da Pedemontana, Teem, Magenta-Malpensa e dal vagheggiato segmento da Melegnano attraverso Binasco dovesse «entrare a regime» pure lui. In sostanza, nella famosa logica della Città Infinita avremmo un compatto (in senso edilizio) comune allargato di Milano con diversi milioni di abitanti, invivibile, insostenibile, ma perfettamente in linea con quel «trionfo della città» alla Edward Glaeser, che si legge nei bilanci economici. In tutto questo, al momento, pare tacere il pensiero progressista: che dicono ad esempio i partiti del centrosinistra, o se è per questo della sinistra sinistra? Nebbia in val padana (f.b.)

La Repubblica, ed. Milano, 24 maggio 2015

Ieri ha tagliato l’ultimo nastro a Como, per la consegna di 2,4 chilometri della nuova Tangenziale, felice come una pasqua. Qualche giorno fa, il 16 maggio, nell’annunciare il maxi piano di 37 opere prioritarie per la mobilità – dove, di nuovo, le autostrade fanno la parte del leone – ha buttato lì la battuta da bauscia, davanti al ministro Del Rio: «Visto che le cose le sappiamo fare e rispettiamo i tempi previsti ci candidiamo a realizzare altre grandi opere, come magari la Salerno-Reggio Calabria». Roberto Maroni è preda del demone autostradale.

Ovvero di quell’idea nefasta, nonché obsoleta, che il progresso di un territorio si misuri nella quantità di chilometri e corsie a disposizione del traffico privato. Il governatore leghista non ha dubbi in proposito. Anche se l’ultima creatura del partito autostradale lombardo, la sciagurata Brebemi, ha le corsie vuote e il bilancio spaventosamente in rosso. Anche se è un flop colossale costato già alle casse pubbliche 300 milioni di euro (denari della Regione dello Stato per evitarne il fallimento, appena nata), Maroni scrolla le spalle e va avanti. Il maxipiano sulle infrastrutture presentato al governo è, a proposito, un documento impressionante quanto a protervia e incapacità di visione, e di conseguenza di programmazione, sul futuro della Lombardia. Maroni batte cassa al governo per asfaltare tutto l’asfaltabile. Di più: ripresenta come opera prioritaria la più inutile e avversata delle autostrade programmate in Lombardia, la leggendaria Broni-Mortara.

E si permette di chiedere al governo di «favorire una positiva conclusione della procedura d’impatto ambientale nazionale in corso al ministero dell’ambente ». Ovvero di interferire in una procedura tecnica, cosa che un governo degno di questo nome non dovrebbe mai fare, oppure – si dovrebbe dedurre – di tacitare i noiosi oppositori della “grande opera” (praticamente tutti, da Broni a Mortara) con qualche compensazione economica. Non basta, perché se la Broni- Mortara è la più inutile autostrada dell’ Occidente, al secondo posto ecco la Cremona-Mantova. Qui, in qualche modo, l’indemoniato Maroni addirittura si supera. Perché uno dei capi della protesta contro questa “highway” della Bassa, che taglierebbe per oltre 80 chilometri una campagna straordinariamente produttiva, e ancora non sconciata, è nientemeno che il suo assessore all’agricoltura Gianni Fava.

Quarantasetteanni, leghista della prima ora, piccolo imprenditore di Viadana, deputatodimessosi per fare l’assessore con Maroni, Gianni Fava dichiara che per fare laCremona-Mantova «dovranno passare sul mio cadavere. Ho detto basta al consumodi suolo per opere inutili e la Cremona- Mantova lo è». Quel che appare certo èche Maroni nemmeno si è preoccupato di chiedere un parere ai suoi. D’altrondela testardaggine del presidente per le autostrade è tale da far pensare chenemmeno si sia accorto, ad esempio, che nelle prime tre settimane di Expo ivisitatori siano andati a Rho-Pero in metrò, treno, pullman, moto e persinobici. E praticamente mai in auto. E che nemmeno si sia accorto che in Italia,in Lombardia e a Milano si vendano e si usino sempre meno automobili. Persinomeno che nel resto d’Europa, dove hanno smesso da un pezzo di sognare nuoveautostrade.

La Repubblica Milano, 17 maggio 2015, postilla (f.b.)


Alleggerire l’anello trafficato più vicino alla città. É la sfida lanciata dalla Tangenziale Est esterna di Milano, inaugurata ieri. Trentadue chilometri tra Agrate Brianza e Melegnano, 2,2 miliardi (dei quali 330 milioni pubblici), la Teem scommette di attirare 55mila auto. Automobilisti che vanno convinti, però, a spendere almeno 4,76 euro, il 50 per cento in più rispetto a oggi, e non è banale. Solo così la nuova superstrada non rischierà di fare la fine della Brebemi. «Un esempio di opera senza ritardi né sprechi», definisce la Teem il ministro alle Infrastrutture, Graziano Delrio. È proprio a lui che il governatore lombardo Roberto Maroni ha consegnato ieri un dossier per chiedere a Roma impegni soprattutto finanziari per tutte le 37 infrastrutture che la Regione vuole realizzare nei prossimi anni. Ci sono le tre tratte ancora scoperte della Pedemontana e un raccordo per la Brebemi, ma anche progetti meno noti come la Cremona-Mantova e la Varese- Como-Lecco. In tutto, si chiedono finanziamenti e impegni per 320 chilometri di nuove autostrade, senza contare le corsie in più da aggiungere a quelle già esistenti e arterie più locali. Autostrade, ma anche potenziamenti ferroviari e persino interventi per migliorare la navigabilità del Po. Per gli ambientalisti è «un libro dei sogni che non è sostenibile economicamente, non si giustifica sotto il profilo trasportistico e dannoso per l’ambiente: va privilegiata la mobilità ferroviaria».

Ci sono i completamenti di opere già avviate, che altrimenti resterebbero per buona parte incompiute: è il caso delle tre tratte della Pedemontana che da sole valgono 44 chilometri su un totale di 67 di tutta l’infrastruttura. Ma anche progetti tutti nuovi, per i quali non c’è un euro stanziato, sono poco noti e quindi via con la corsa a batter cassa al governo: è il caso della Cremona- Mantova e della Varese-Como-Lecco. Nel dossier consegnato al governo, la Regione chiede a Roma finanziamenti e impegni per accelerare l’approvazione di 320 chilometri di nuove autostrade. Ci vogliono miliardi. In tutto, una lista di 37 progetti, non solo d’asfalto, che si punta a realizzare in Lombardia nei prossimi anni.

Il governatore lombardo Roberto Maroni ha approfittato della visita, ieri, del ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio per consegnargli la lista dei desideri delle opere che vorrebbe realizzare o portare a termine in Lombardia. Autostrade, ma anche potenziamenti ferroviari e persino interventi per migliorare la navigabilità del Po. «È uno strumento programmatico - spiega Maroni - che sintetizza tutte le opere che vanno completate o realizzate in ambito viario a cominciare dalla Pedemontana, nel campo ferroviario e in quello della navigazione». Ma cosa c’è dentro le 45 pagine di dossier? In cima la Regione batte cassa per i 44 chilometri previsti per finire la Pedemontana, le tratte B2, la C e la D fino a Osio Sotto. Non solo. Sempre nello stesso territorio ci sono da completare anche la tangenziale di Varese (6 chilometri per 340 milioni) e quella di Como, il cui progetto negli ultimi mesi è stato rivisto e dovrebbe costare meno (si spera) dei 690 milioni inizialmente previsti per seimila metri d’asfalto. C’è spazio anche per la Brebemi,nel dossier a Roma. Dopo l’iniezione di 300 milioni di denaro pubblico per salvare i conti di un’opera che doveva essere l’esempio del project financing puro ma tant’è, aperta meno di un anno fa e sottoutilizzata, si torna a chiedere altri impegni: per dare ossigeno alla strada mezza vuota, ora è il turno di un nuovo raccordo autostradale con la A4 a Brescia Castegnato. Anche qui, milioni sul piatto.

Ma nell’elenco del Pirellone ci sono anche progetti nuovi dei quali poco si parla e dei quali non tutti proprio convidono l’utilità. C’è l’autostrada regionale Cremona-Mantova, 60 chilometri «per alleggerire la A4 verso l’Adriatico» ma anche i 37 chilometri per la Varese-Como-Lecco per meglio collegare la fascia pedemontana (e la Pedemontana?), ma si legge, anche per «meglio collegare Malpensa con la rete autostradale nazionale ». Non solo. Nuove autostrade ma anche nuove corsie, come per la Milano-Meda, la quarta per la Tangenziale Ovest e la Milano- Lodi. Oltre a nuove strade «della rete viaria complementare», come una tranche della Tangenziale Ovest Esterna così osteggiata dal territorio che il progetto oggi (mai finanziato) si è rimpicciolito nella Magenta- Abbiategrasso-Vigevano. Ce n’è davvero bisogno di nuovi 320 chilometri solo di autostrade? Gli ambientalisti parlano di «libro dei sogni senza corrispondenza con la realtà - critica Dario Balotta, esperto di trasporti di Legambiente - . L’unica opera che serve davvero sarebbe una vera tangenziale Nord da Agrate a Pero, tutto il resto è contorno inutile. Non è bastato il flop della Brebemi e il primo mezzo flop dell’arco Teem con soli 8mila passaggi al giorno? Nell’anno dell’Expo quando si prende atto che non c’è più suolo necessario per i beni primari, insistiamo su un capitolo chiuso da anni in tutta Europa anzichè su snellire i “colli di bottiglia” del traffico».

Secondo gli ambientalisti insomma questo dossier «non è sostenibile economicamente, non si giustifica sotto il profilo trasportistico e assolutamente dannoso sotto il profilo ambientale: la logica va capovolta». Più ragionevole sarebbe la parte dei rafforzamenti ferroviari. Dieci interventi su 37 richiesti, nemmeno un terzo. Da tempo è atteso il quadruplicamento della Rho-Gallarate, il terzo valico dei Giovi, il raddoppio della Milano- Mortara. Per il Pirellone «è necessario anche realizzare un intervento specifico su Orio al Serio, potenziando il nodo ferroviario di Bergamo- dice l’assessore lombardo Alessandro Sorte - . Va realizzata la linea Seregno- Bergamo e l’innesto sulla Bergamo-Treviglio. Serve il completamento della linea Malpensa-Lugano; il potenziamento della Rho-Gallarate e il quadruplicamento della Milano-Pavia, ma l’elenco non finisce qui». Chiude la lista, il Po, un generico «interventi per la navigabilità del fiume».

postilla
Visto che alla noia di chi legge si affianca ahimè anche quella di chi scrive, pare giusto e opportuno, davanti a questa specie di replica del dramma «Il Verme Trionfante» di Edgar Allan Poe, in cui si scambia la realtà per la rappresentazione, infilandosi in bocca al mostro, rinviare almeno a tre articoli scritti qualche tempo fa, e che già provavano a delineare a spezzoni il disegno. Si tratta, inutile dirlo, esattamente delle medesime opere e idee descritte dall’articolo, ma lette sullo sfondo dell’animalesco istinto che le sottende: rivolgersi al grande e piccolo elettore leghista-forzista, rancoroso e asserragliato dentro la villetta e in capannone, a loro volta dentro la maglia autostradale che tutto riassume. Ciò premesso c’è da chiedersi se abbia qualche senso parlare di mezzi pubblici come fanno alcuni, senza prima discutere il modello territoriale e ambientale. Comunque si provino a rileggere:

Cremona Mantova Express: un esperimento di federalismo asfaltato

Autostrada della Lomellina: la fabbrica dello sprawl

I Capannoni della Zia T.O.M.

Bre.Be.Mi. e mutazione genetica (f.b.)

Corriere della Sera Milano, 26 aprile 2015

MILANO - Il Parco nazionale dello Stelvio ha compiuto 80 anni, ma il suo futuro è rebus. Dopo lo «spezzatino», con la divisione in 3 parti (Lombardia e province autonome di Trento e Bolzano), gli ambientalisti accusano la Regione di immobilismo, perché il Pirellone non ha ancora stabilito, con una legge ad hoc, chi e come gestirà la porzione di oasi protetta che rientra nei confini lombardi.
Con lo smembramento, il 47% della superficie del Parco (61.444 ettari) è ricaduta nel territorio della nostra regione, ma Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia, non nasconde che «ci si aspettava un atteggiamento meno notarile e contabile della Regione nelle trattative con le Province autonome», così come chiede «all’assessore regionale all’Ambiente se esista una strategia sulla protezione della natura».

Il Parco nacque il 24 aprile 1935, ma 80 anni dopo c’è stata la rivoluzione. Sulla spinta degli autonomisti altoatesini, il governo ha capovolto la sua gestione: non più unitaria ma a favore degli enti locali. Di fatto si è sancita la soppressione del Consorzio del Parco nazionale dello Stelvio, sorto nel 1993, e la nascita di un Comitato di coordinamento ed indirizzo che dovrà garantire solo la linea politica. In sostanza, la futura governance del Parco sarà in mano a Regione Lombardia e Province di Trento e Bolzano, ciascuno per la sua parte di territorio.

Adesso però rimane l’incognita lombarda: c’è un vuoto legislativo da colmare con urgenza. Anche perché finora né l’assessore regionale all’Ambiente, Claudia Maria Terzi, né il sottosegretario alla Macroregionale alpina, Ugo Parolo, hanno fatto passi concreti. «Lo smembramento del Parco dello Stelvio è da scongiurare — spiega ancora Di Simine — perché si rischia di disperdere un patrimonio di ricerche e conoscenze scientifiche sviluppati nell’arco di 80 anni, per far nascere uno “spezzatino” di aree gestite secondo criteri e norme differenti nei tre versanti, in cui l’unica cosa che appare certa è l’attenuazione delle tutele ambientali». Legambiente preme per una marcia indietro di Governo e Regione Lombardia. Intanto, le firme raccolte con la petizione online per salvare il «polmone» del Nord dallo spezzatino sono salite ieri a 51.774. Buon anniversario, dunque: ottant’anni di vita, ma i prossimi saranno decisivi per il suo futuro.

Prosegue la tardiva ma coerente demolizione del progetto infrastrutturale padano del centrodestra (e non solo) da parte del principale quotidiano. Corriere della Sera Lombardia, 22 marzo 2015

Dopo nove anni di «tragicommedia» - così l’ha definita qualcuno l’altra sera a Pavia durante l’affollata assemblea dei comitati contrari - l’autostrada Broni-Mortara arriva al suo capitolo finale. Lo scempio che dovrebbe sconvolgere la Lomellina, creando un muro (la nuova arteria sarebbe tutta in rilevato alto mediamente 5 metri, con l’impiego mostruoso di 19 milioni di metri cubi di ghiaia) lungo 67 chilometri è stato bocciato dalla Commissione ministeriale di valutazione dell’impatto ambientale che, con una serie articolata di argomentazioni, l’ha definita in sostanza inutile e dannosa, basata su calcoli sbagliati, con un consumo altissimo di suolo in una zona dal delicatissimo equilibrio. E, soprattutto, la Commissione del ministero ha ribadito l’illegalità della procedura sin qui seguita, poiché non si tratta di un’autostrada regionale, dal momento che il tratto Castello d’Agogna-Stroppiana è in territorio piemontese.

Forse è presto per cantare vittoria, ma l’altra sera nella riunione cui hanno partecipato anche una ventina di sindaci, si percepiva un cauto ottimismo sull’esito finale dell’inter autorizzativo che dovrebbe concludersi a giugno. Infrastrutture Lombarde, l’ente proponente, ha intanto preparato una serie di integrazioni al progetto che saranno presentate in Regione la prossima settimana. Ma si tratta di modifiche che, a quanto pare, non incidono suoi rilievi più significativi emersi dal documento del ministero con cui è sancita l’incompatibilità ambientale dell’opera. In sostanza la Sabrom, società controllata da Impregilo-Salini che ha la concessione per la progettazione, la costruzione e la gestione dell’autostrada, avrebbe ridimensionato l’interconnessione con la A-7 a Gropello, spostato l’attraversamento del Terdoppio (avvicinandolo tra l’altro all’abitato di Alagna Lomellina) ed eliminato due svincoli, quello di Tromello e quello di Mortara.

Di fronte alla bocciatura del progetto, contro cui ormai si è creato un fronte compatto di sindaci e associazioni del territorio, la Regione mantiene un imbarazzato silenzio. Proseguire o no nel piano di costruzione di autostrade lombarde dopo il flop della Brebemi e della finanza di progetto, in tempo di scandali sulle grandi opere e di esborsi non previsti (come i 60 milioni messi dalla giunta Maroni per la Brebemi in aggiunta ai 300 dello Stato), mentre la viabilità ordinaria è al collasso? Il punto è che quei progetti erano stati strenuamente sostenuti da Formigoni e dalla giunta di cui faceva parte anche la Lega. Ora manca una exit strategy, per cui è inutile chiedere a Palazzo Lombardia che cosa intende fare. L’assessore alle Infrastrutture, Alessandro Sorte, fa sapere che non sa che cosa dire, l’entourage del presidente Maroni prende tempo, poi annuncia un comunicato che non arriva mentre i telefoni suonano ripetutamente a vuoto.

E’ evidente che continuare a sostenere i faraonici progetti dell’era del Celeste appare un po’ difficile. Ma anche abbandonare tutto implica problemi rilevanti. La Sabrom ha già fatto sapere che se la costruzione della Broni-Mortara dovesse saltare, Palazzo Lombardia dovrebbe pagare i costi di progettazione che ammontano a 70 milioni di euro. Gli errori rilevati dal ministero sul progetto sono tanti (da un’errata stima del traffico futuro al calcolo del Pm 10 prodotto, sino al riferimento a leggi ormai abrogate). E questo, dice qualcuno, potrebbe aprire una controversia tra Sabrom e Regione. Ma è anche vero che quel progetto fu interamente approvato e condiviso da Infrastrutture Lombarde. Un bel rebus.

Corriere della Sera Milano, 16 marzo 2015, postilla (f.b.)

Prima che sia troppo tardi, qualcuno avverta il presidente Maroni e la giunta della Regione Lombardia che c’è un’altra Brebemi in arrivo dalle parti di Pavia, un’altra inutile autostrada sulla quale bruciare milioni di soldi pubblici che potrebbero essere meglio spesi, per esempio, a rappezzare buche o rafforzare ponti. Non si può restar zitti davanti a una bancarotta annunciata come la Broni-Mortara, un miliardo e 300 milioni di investimento per un nastro di cemento che mangia mille ettari di terreno, bocciata dal Ministero dell’Ambiente e da 45 sindaci della zona, che rischia di diventare un’autostrada nel deserto con poche auto e ancor meno introiti. Non si può lasciar correre nell’anno del rilancio dell’agricoltura e dello sviluppo sostenibile, come sostiene il ministro Martina, l’ennesima faraonica opera pubblica nata nel segno della grandeur di Roberto Formigoni e Infrastrutture Lombarde, l’agenzia regionale decapitata dall’inchiesta sugli appalti di Expo. Qualche risposta si deve ai territori, alle associazioni, agli agricoltori e ai cittadini che chiedono di riconsiderare un progetto nato vecchio, fuori tempo e fuori luogo.

È vero che Milano e la Lombardia soffrono di un deficit infrastrutturale e che le tangenziali scoppiano nelle ore di punta, ma non si può realizzare una mobilità a macchia di leopardo con autostrade qui e là, che a volte sono doppioni di quelle esistenti e altre volte diventano uno spreco di risorse. Serve un piano della viabilità regionale per alleggerire le arterie più intasate con una valutazione d’impatto ambientale, e anche tempi certi nelle realizzazioni. La Broni-Mortara — come la Brebemi, la nuova autostrada da Milano a Brescia che rischia il flop per mancanza di utenti, o la Pedemontana, sulla quale per ora viaggia soltanto un terzo delle auto previste — arriva a tempo scaduto: era una buona intuizione negli anni Settanta, quando l’onda lunga del boom spingeva il traffico privato e il consumo di suolo non aveva raggiunto le punte attuali; è poco strategica oggi, per i costi esorbitanti e la nuova mobilità che sta prendendo altri indirizzi. Quanto ai costi, è inutile sottolineare che la formula del project financing, nata per convogliare investimenti privati sui grandi progetti, non sempre si rivela un affare per i contribuenti: chi paga in caso di mancato raggiungimento dei ricavi previsti?

Comunque la si giri, la Regione non può stare alla finestra. E nemmeno il ministro alle Infrastrutture. I danni da pagare, per certi impegni presi, prima o poi presentano il conto.

postilla

Netta stroncatura della politica autostradale lombarda (e padana in genere) questa del Corriere della Sera, che arriva alla fine di una clamorosa debacle economica resa evidente a tutti dopo i dati sul traffico e i nuovi finanziamenti implorati al governo. Occorre però ribadire un'altra volta, ai critici ormai numerosi di questa demenza infrastrutturale, quanto su questo sito si diceva parecchi anni fa nelle sistematiche critiche al progetto di Autostrada della Lomellina: non si tratta di una infrastruttura per la mobilità, ma anche dichiaratamente di un alimentatore di "sviluppo" territoriale, fatto su misura per produrre riprodurre e disseminare sprawl insediativo. Che oltre ad essere micidiale per l'ambiente, l'agricoltura, il paesaggio, la qualità abitativa, la stessa efficienza, ha una caratteristica “positiva” che l'ha reso sinora vincente contro ogni evidenza: coincide con le strategie di sviluppo socioeconomico di varie generazioni politiche, e non solo in Lombardia, o in Italia. Quella che è stata definita la “banda di strada” è il coacervo di interessi che a partire dal ciclo dell'auto, attraverso quello edilizio-immobiliare, alimenta il sistema disperso poeticamente soprannominato Città Infinita, purtroppo costituita di risorse quanto mai finite. Prima si capisce questo legame, cioè prima lo capiscono anche i suoi oppositori, prima si potrà davvero affrontare la questione dell'iceberg, e non solo afferrarne la cima. Su La Città Conquistatrice riproposta la descrizione e analisi più puntuale del progetto dell'autostrada della Lomellina: Fabbrica dello Sprawl (f.b.)

Osservatorio Urbano Territoriale - Vicenza, 3 gennaio 2014 (m.p.r.)

Vicenza, 30 dicembre 2014
Gentilissimi Signori,

giusto vent’anni fa, nel 1994, l’UNESCO iscriveva la città di Vicenza, luogo nel quale si conservano le opere più note del Palladio, nella Lista del Patrimonio Mondiale (Vicenza City of Palladio 712 C “i” e “ii”). Com’è noto, nel 1996, il riconoscimento è stato esteso a tutto il complesso delle ville progettate da Palladio e disseminate nel territorio del Veneto (sono venticinque), dando particolare rilievo a quelle ubicate nella provincia di Vicenza (sedici).

Molti cittadini, direttamente impegnati e non in associazioni per la tutela del paesaggio culturale, del patrimonio naturale e ambientale, ritengono che il grande valore di questo patrimonio culturale non sia stato adeguatamente promosso se non in quanto fruttuoso catalizzatore turistico imperniato sulla capacità attrattiva delle singole opere palladiane (la Basilica, Palazzo Chiericati, Palazzo Barbaran da Porto, il Teatro Olimpico, la Villa La Rotonda, tra le tante) quasi sempre isolate (estraniate) dal loro contesto.

In particolare nulla di specifico è stato messo in campo al fine di conservare il paesaggio e l’ambiente a ridosso del centro storico di Vicenza, intimamente legati alla genesi e alla ragion d’essere di questi straordinari monumenti. Un paesaggio culturale che, citando gli stessi scritti di Palladio, ha rappresentato la fonte privilegiata della sua straordinaria ispirazione e che, malgrado i pesanti cambiamenti imposti dallo sviluppo economico ed edilizio più recente, è riuscito ad arrivare a noi ancora ricco di evocativa bellezza.

Lo scorso mese di agosto (12/08) ho fatto pervenire alla vostra attenzione una lettera nella quale esprimevo tutta la preoccupazione, mia e di molti concittadini, per gli effetti devastanti provocati al paesaggio palladiano dal completamento di un imponente quartiere multifunzionale, costruito su una piccola e fragilissima lingua di terra circondata dai due fiumi che attraversano la città, il Bacchiglione e il Retrone, e posta all’imbocco del centro storico. L’insediamento edilizio sorto per ospitare funzioni direzionali, commerciali e residenziali si trova a poche centinaia di metri dalla Villa La Rotonda, opera simbolo della produzione architettonica palladiana, a ridosso della Villa Valmarana ai Nani, meravigliosamente affrescata dal Tiepolo, e ancora, a un passo dalle rinomate Scalette di Monte Berico che rappresentano lo scenografico accesso da sud alla dolce collina che domina la città.

A distanza di pochi giorni (21/08) ho ricevuto una cortese e rassicurante risposta da parte della dott.ssa Totcharova, ma da allora non ho avuto più alcuna notizia. Per quanto mi è dato sapere, nessun atto è stato compiuto per sanzionare l’immenso danno, quasi certamente irrimediabile, arrecato al patrimonio culturale mondiale, esito di due atti amministrativi (varianti agli strumenti urbanistici) approvati dall’Amministrazione comunale nel 2004 e nel 2009. Conseguenza di queste scellerate decisioni, è stata la cancellazione dell’originaria bellezza di questo pezzo di paesaggio, la distruzione di un patrimonio culturale che, secondo i dettami della convenzione internazionale sottoscritta dall’Amministrazione comunale di Vicenza all’epoca del riconoscimento e continuamente rinnovata, non solo avrebbe dovuto essere tutelato, ma anzi potenziato. Un gesto irresponsabile e arrogante che ha cancellato in modo definitivo la vista alla collina da sud, alterando, contestualmente, quella verso il centro storico.

Ora, come se ciò non bastasse, un’altra follia sta per segnare in modo indelebile il destino del patrimonio culturale mondiale legato all’opera palladiana. Ciò che appare ancora più grave è che alcune scelte urbanistiche devastanti per il nostro territorio stanno per essere assunte senza che i cittadini possano in alcun modo discutere e ragionare pubblicamente ed esprimersi su quanto si va proponendo, avendo elementi certi per poter capire se tutto ciò è necessario e utile alla comunità locale.

Nei prossimi giorni (08/01) l’Amministrazione comunale si appresta ad approvare lo studio di fattibilità relativo al potenziamento della linea ferroviaria AV/AC che collega Verona a Venezia (si veda http://www.comune.vicenza.it/uffici/dipterr/mobilita/tav/). Il progetto, presentato con un pesante corredo infrastrutturale richiesto espressamente dall’Amministrazione comunale, stravolgerà il sistema urbanistico della città intaccando tanto il centro storico quanto le aree immediatamente attigue (le importanti aree tampone) grazie alla realizzazione di un gran numero di opere complementari.

L’opera che preoccupa tutti maggiormente è un lungo tunnel (14 metri di ampiezza, 17 di altezza e 1.150 di lunghezza) che attraverserà la collina di Monte Berico da ovest a est. In particolare, lo sbocco a est del tunnel è stato collocato proprio sotto la Villa Valmarana ai Nani (quindi a poche centinaia di metri dalla Villa La Rotonda) per farlo poi proseguire oltre il fiume Bacchiglione grazie ad un nuovo ponte di servizio a cui ne sarà affiancato un secondo, con la funzione di convogliare il traffico proveniente da sud. E’ evidente che il tunnel, oltre ad arrecare i danni ai capolavori d’arte e d’architettura appena citati, comprometterà per sempre la bellezza del paesaggio rurale di frangia che circonda la città creando, allo stesso tempo, fortissimi disagi ai quartieri residenziali posti a sud.

Per tutte queste ragioni, sono a chiedervi un deciso intervento di approfondimento che possa costituire un segnale di speranza per i cittadini di Vicenza i quali, per le ragioni sopra addotte, vivono un forte senso di frustrazione e di impotenza essendo sempre più convinti che la gran parte delle istituzioni internazionali sono realtà astratte, incapaci di sostenere le comunità nel loro impegno per la tutela del patrimonio culturale e per la qualità paesaggistica e ambientale delle realtà locali.

Vi sarò molto grata per l’attenzione che porrete a questa mia segnalazione. Conto di avere notizie al più presto.

Con sincera cordialità,

Francesca Leder
University of Ferrara
Committee Member of OUT Osservatorio urbano territoriale - Vicenza

Riferimenti
Si sullo stesso argomento su eddyburg l'articolo di Francesco Erbani "Un tunnel sotto le ville del Palladio" Rivolta a Vicenza. Sugli interventi già attuati a Vicenza si veda la denuncia di Francesca Leder Borgo Berga a Vicenza: il grande inganno della riqualificazione urbana e Veneto 2014: il sacco del territorio e il silenzio della cultura, e le considerazioni di Chiara Mazzoleni Consumo di suolo e dissesto territoriale. Istruzioni per come attuarli

La Repubblica, 2 gennaio 2015 (m.p.r.)

C’era una volta il paesaggio palladiano. Ora, appena fuori dal centro storico di Vicenza, sotto Monte Berico, che di quel paesaggio è un emblema, dovrebbe essere aperto un tunnel. Ha forma ovoidale, è lungo poco meno di un chilometro e mezzo, alto sedici metri, largo quattordici. È diviso in due sezioni, quella superiore servirà per le auto, quella inferiore ospiterà un canale scolmatore che, in caso di piena, agevolerà il deflusso delle acque dal fiume Retrone. Tutt’intorno le strade verranno ridisegnate e sarà costruito un ponte. A questo frastuono di opere pubbliche dovranno adattarsi la Rotonda e la Villa Valmarana “Ai nani”. La Rotonda è il capolavoro di Andrea Palladio (1566), modello di architetture fino a tutto l’Ottocento, ed è a qualche centinaio di metri dall’imboccatura del tunnel. La Villa “Ai Nani”, completata nei primi decenni del Settecento, affrescata dai due Tiepolo, Giambattista e Giandomenico, è proprio sopra l’uscita del tunnel.

Il tunnel andrà in discussione in Consiglio comunale il 9 gennaio. La giunta di Achille Variati (centrosinistra) stringe i tempi per portare a casa un’opera che figura come complementare a un’altra opera: il passaggio a Vicenza del Tav Padova-Verona. Tempi da record: lo studio di fattibilità è stato presentato l’11 dicembre e poi letto ed esaminato fra panettoni e cenoni.
Ma le proteste in città montano. Si muovono Italia Nostra e Legambiente. Fra i più attivi Out, Osservatorio urbano territoriale, e Civiltà del verde, due associazioni di cittadini. Preoccupati i proprietari della Villa “Ai Nani”: nei giorni scorsi hanno manifestato direttamente al sindaco Variati l’ansia per la statica dell’edificio, un rischio di inimmaginabile gravità visto il patrimonio di affreschi custodito. Una lettera allarmata è stata inviata all’Unesco affinché salvaguardi un bene – il paesaggio palladiano – che la stessa Unesco tutela dal 1994.

Alla vigilia di Natale, dunque, Vicenza ha scoperto un progetto che ne altererà il volto. In bene, secondo la Camera di Commercio, la Confindustria – grandi patrocinatori sia del Tav che delle opere complementari – e il Comune. In male, stando alle denunce dei comitati, preoccupati del definitivo peggioramento di un paesaggio già compromesso da un mastodontico insediamento ancora in costruzione di fronte all’imboccatura del tunnel: intorno al nuovo tribunale, definito un pugno nello stomaco persino dal sindaco Variati, sono sorti enormi palazzi per residenze e uffici a Borgo Berga, nel punto di confluenza dei fiumi Retrone e Bacchiglione e non rispettando, secondo un esposto dei comitati, le distanze di legge dagli argini (anche il tribunale sarebbe dunque abusivo). La storia va avanti da anni, coinvolge la famiglia Berlusconi, per un certo periodo proprietaria dell’area, un tempo occupata dal cotonificio Rossi. Sotto accusa anche la Soprintendenza, che non avrebbe vigilato sul mancato rispetto delle sue prescrizioni. Artefice dell’operazione il gruppo Maltauro, il colosso delle costruzioni finito nel gorgo delle tangenti Expo.
Ma non bastava. Al cazzotto di Borgo Berga si aggiunge, protestano i comitati, il tunnel, ritenuto dal sindaco “la conditio sine qua non” del Tav, indispensabile a fluidificare il traffico. Ma il tunnel non è previsto da nessuno strumento urbanistico vigente ed è invece voluto da un consorzio privato, Iricav Due, posseduto al 27 per cento dalla Salini Impregilo, e general contractor di Rfi, la società delle Ferrovie dello Stato che realizza l’alta velocità da Verona a Padova (4 miliardi il costo, cantieri a dicembre 2015, ma nel tratto vicentino non sarebbe alta velocità: da Vicenza a Milano si risparmieranno una manciata di minuti). Due nuove stazioni, inoltre, sono previste in zone che il Piano di assetto idrogeologico stima a rischio di allagamento. Una di queste è dietro al tribunale, l’altra nella zona della Fiera: ed è proprio per evitare qui le esondazioni che sarebbe necessario il canale scolmatore nel tunnel.
Un’ultima questione. Progettista del tunnel è Gianmaria De Stavola, un tempo esponente della Margherita, la stessa formazione dalla quale proviene il sindaco Variati. Alla cui campagna elettorale De Stavola risulta abbia contribuito. Non con una gran cifra, 3 mila euro, ma ha pur sempre contribuito.
Riferimenti
Sui controversi interventi già attuati a Vicenza si veda su eddyburg la denuncia di Francesca Leder Borgo Berga a Vicenza: il grande inganno della riqualificazione urbana e Veneto 2014: il sacco del territorio e il silenzio della cultura, e di Chiara Mazzoleni Consumo di suolo e dissesto territoriale. Istruzioni per come attuarli

La Repubblica Milano, 26 ottobre 2014, postilla (f.b.)

Si accumulano le nubi all’orizzonte della Brebemi, l’autostrada di 62 chilometri da Milano a Brescia costruita con i soldi dei privati (sulla carta) e inaugurata appena tre mesi fa. I conti infatti cominciano già a scricchiolare: circolano troppe poche auto rispetto alle previsioni, e le tariffe più care del doppio rispetto alla parallela A4 non bastano a bilanciare le perdite. A rimetterci, allora, saranno i finanziatori dell’opera. Che sono soprattutto pubblici. La Brebemi doveva costare 800 milioni ma alla fine i costi sono lievitati a 2,4 miliardi. Degli 1,818 miliardi di euro di prestiti concessi, infatti, 820 arrivano dalla Cassa depositi e prestiti (cioè il ministero del Tesoro) e 700 dalla Banca europea investimenti (cioè gli Stati della Ue, ma la garanzia la dà Sace Spa, a sua volta in mano al Cassa depositi e prestiti). Le stime per rientrare dai costi erano di 40mila transiti nei primi sei mesi, 60mila dal gennaio 2015. E invece i numeri (ufficiosi) dicono altro: meno di 20mila accessi giornalieri. Non a caso i bandi per aprire le due stazioni di servizio previste sono andati deserti. Ora Brebemi chiede un ulteriore aiuto allo Stato, con un maxi sconto da mezzo miliardi di euro sulle tasse e altri dieci anni di concessione autostradale, arrivando così a trenta.

L’autostrada di 62 chilometri costruita con i soldi dei privati, si era detto. Il cosiddetto “project financing”. La realtà e un po’ diversa e soprattutto — tre mesi dopo l’apertura del collegamento parallelo alla A4 tra Milano e Brescia — i conti cominciano già a scricchiolare: troppe poche auto rispetto alle previsioni, e le tariffe più care del doppio rispetto alla A4 non bastano a metterci una pezza. E se non ci sono e continueranno a non esserci abbastanza “clienti” chi ci andrà a rimettere? Di sicuro i finanziatori. Che sono soprattutto pubblici. Degli 1,818 miliardi di euro di prestiti, infatti, 820 arrivano dalla Cassa depositi e prestiti (cioè il ministero dell’Economia) e 700 dalla Banca europea investimenti (cioè gli Stati della Ue, ma è stata la Sace Spa a fare da garante, che a sua volta è in mano alla Cassa depositi e prestiti, a sua volta...).

La vicenda è complicata ma per rendersi conto che le cose non siano partite per il verso giusto — e rischiano di finire peggio — basta andarsi a vedere quant’è costata l’opera. Le previsioni parlavano di 800 milioni di euro di spesa. Il conto finale si è triplicato: 2,439 miliardi di euro, interessi compresi. Ogni chilometro di asfalto è costato 38 milioni di euro. Per ripagare il costo, la società di progetto (composta da banche con Intesa in primis, società autostradali, costruttori con Gavio in testa, camere di commercio, comuni e province) ha puntato tutto su una concessione ventennale e relativi introiti del pedaggio con un ipotetico guadagno dalla vendita alla fine del periodo. Le stime per rientrare almeno dai costi erano di 40mila transiti nei primi sei mesi, 60mila dal gennaio 2015. E invece i numeri (ufficiosi) dicono altro: meno di 20mila accessi giornalieri, e per di più limitati a una sola parte del tracciato; la utilizzano più che altro i pendolari, insomma. E non a caso i bandi per aprire le due stazioni di servizio previste sono andati deserti: il merverno: cato tra auto e tir, insomma, aveva (e ha) già emesso sentenza.

Di sicuro le banche private si erano già tutelate in anticipo. Perché è vero che hanno anche investito di tasca propria, ma contemporaneamente ci hanno guadagnato. Infatti il miliardo e mezzo di finanziamento pubblico non è andato direttamente alla società, ma è passato prima dal consorzio di banche dietro il progetto (Intesa, Unicredit, Mps, Centrobanca e Credito Bergamasco) che a sua volta lo ha rigirato a Brebemi Spa ad un tasso più elevato, un bel 7,8 per cento. Adesso si prova a correre ai ripari, chiedendo però un ulteriore intervento pubblico al go- una defiscalizzazione da 490 milioni di euro per Iva, Ires e Irap, che per il momento e nonostante il pressing che arriva da più parti il ministero dell’Economia non se l’è sentita di firmare; e in aggiunta, un allungamento di ulteriori dieci anni della concessione.

«La verità — dice Eugenio Casalino del M5S — è che il progetto era insostenibile e l’opera irrealizzabile nonché inutile. Solo la provvista a tasso agevolato e l’eventuale defiscalizzazione statale renderanno l’opera una grande occasione. Per i privati però». L’altro tema, poi, è quello legato al conflitto di interessi di Francesco Bettoni, presidente di Brebemi. «Chiede prestiti alle banche per realizzare la A35 — spiega Dario Balotta di Legambiente — e poi li concede come consigliere di Ubi. Decide di espropriare oltre un centinaio di aziende agricole, espropri che hanno fatto lievitare i costi dell’opera, e allo stesso tempo è uno dei maggiori esponenti nazionali e locali del mondo agricolo. Progetta nuove autostrade e contemporaneamente amministra alcune di quelle esistenti». Accuse alle quali Bettoni ha risposto dicendo di aver sempre operato nel rispetto della legge. Resta da capire cosa succederà in caso di bancarotta, o di restituzione della concessione. Su chi ricadranno i debiti? Il contratto di concessione è secretato, per cui non esiste una risposta certa. Anche se il sospetto è semplice: pagheranno i contribuenti, ancora una volta.

postilla
Val la pena ribadire ancora una volta come tutte queste critiche continuino a non tener conto della promessa del governatore padano Maroni, erede delle celesti strategie del suo predecessore, di finire il lavoro. Ovvero che quanto vediamo oggi, corsie vuote e bilanci ancor più desolati, altro non è se non una fase di passaggio, verso un futuro in cui “completati i cantieri” il sistema andrà a regime, magari inventandosi nuove mete per tutti i necessari flussi di viaggiatori paganti, se la Milano e Bergamo e Brescia della sigla non sono sufficienti. Che dire dei tanti nodi e poli e attività, ampiamente previsti nei piani locali, e che potrebbero pompare auto e camion sulle corsie oggi quasi intonse? Possibilissimo sia già all'opera la squadra dei sofisti della domenica, sociologi farlocchi o critici d'arte spericolati o sindacalisti di territorio locale, a coniare i neologismi del futuro: il villaggio della decrescita commerciale, la città nuova dell'economia, le fattorie verticali padane. Ce n'è per tutti i gusti: tutto naturalmente sostenibile, a misura d'uomo e anche resiliente, se gli intellettuali a ore hanno già imparato la nuova parolina. Del resto, per chi ha già definito l'altra autostrada un "parco lineare" senza battere ciglio, non c'è problema. L'importante è proseguire con lo sviluppo del territorio, il resto viene da sé (f.b.)

Corriere della Sera Lombardia, 2 ottobre 2014, postilla (f.b.)

Il gruppo Bennet getta la spugna e si prepara a chiudere l’ipermercato di Cortenuova. Una mossa a lungo temuta che comporterà a cascata la chiusura di tutto il centro commerciale «Le Acciaierie», da anni in crisi. La volontà di abbassare le serrande in «tempi rapidissimi» è stata comunicata ieri pomeriggio ai sindacati. E a giorni dovrebbe essere aperta la procedura di mobilità per i 78 dipendenti diretti dell’ipermercato. Inaugurato nel 2005 il centro «Le Acciaierie» con i suoi 175 negozi su due piani per 44mila metri quadrati e la cupola in legno lamellare a caratterizzarne il profilo, la più grande in una struttura commerciale in Europa, doveva essere il tempio dello shopping nella Bassa. Un mega polo d’attrazione che contava sull’arrivo veloce della Brebemi per alimentarsi. Quasi dieci anni dopo, quando finalmente l’autostrada è stata inaugurata, il suo destino pare segnato a quello di cattedrale nel deserto.

Schiacciato dalla concorrenza il centro è andato piano piano perdendo negozi e marchi commerciali. A tenerlo in vita il fatto che il gruppo Bennet aveva anche acquistato i muri dell’ipermercato. La società della grande distribuzione pesa per il 30% nel consorzio degli operatori del centro commerciale. Quest’ultimo, aumentando le chiusure è andato sempre più in cattive acque, e la Pedroni immobili, detentrice dei locali ha visto aumentare sempre più il peso delle spese comuni diventando il soggetto più esposto. A giugno quando ormai le attività attive erano ridotte a una quarantina e il primo piano chiuso, il consorzio ha chiesto il concordato liquidatorio. Per garantire la continuità la Bennet si è accollata per mesi il costo delle utenze. Una situazione che ora non sembra più sostenibile.

A rendere precaria la situazione anche il problema delle manutenzioni che andrebbero eseguite. «La società ci ha spiegato che in una situazione da cui in un momento all’altro potrebbero venir meno le forniture di energia, gas e acqua e non ci sono più le condizioni per lavorare in sicurezza, non si può continuare l’attività - spiega Alberto Citerio della Fisascat Cisl - . Al momento però non sono state aperte procedure di mobilità. Siamo in un momento di incertezza e l’incontro con la Bennet è stato in qualche modo preventivo per cercare di trovare una soluzione per i dipendenti di Cortenuova. C’è però la volontà di chiudere in tempi brevissimi». «Già nelle scorse settimane la superficie di vendita dell’ipermercato è stata ridotta - aggiunge Maurizio Regazzoni della Uiltucs -.È evidente che senza la Bennet il destino è segnato anche per le quindicina di attività rimaste aperte nel centro commerciale. L’ipermercato paga le scelte operative sbagliate nella gestione del centro negli anni passati. Sono stati fatti scappare grandi marchi. Gli errori nella gestione insieme alla concorrenza del centro di Antegnate che è più piccolo ed è riuscito ad affrontare meglio la crisi, hanno fatto il resto. Anche la famosa Brebemi che doveva essere la soluzione a tutti i problemi in realtà non ha portato beneficio».

Venerdì i sindacati incontreranno i dipendenti e il 10 di nuovo la Bennet. «A Cortenuova lavorano in 78 - precisa Aronne Mangili della Filcams Cisl -, ci sono 65 commessi, 8 apprendisti e 5 addetti alle pulizie. La prima strada che si tenterà è il riassorbimento di parte dell’occupazione a Romano e Albano Sant’Alessandro dove la società gestisce altri due punti vendita, ma gli spazi di manovra non sono molti».

postilla
Fra le cose più brutte che possono capitare, c'è quella di ribadire sconsolatamente “ma noi l'avevamo detto”. E davanti a un segnale chiaro come una enorme scatola vuota, anzi un enorme territorio pieno di scatole potenzialmente vuote, ma abbondantemente quanto inutilmente infrastrutturato e urbanizzato come le ex campagne dell'Albero degli Zoccoli, cascano davvero le braccia. Vanno a finire così, di solito abbastanza presto, tutte le chiacchiere a vanvera sullo sviluppo locale, i posti di lavoro in cambio di trasformazioni edilizie strampalate, la squilibrata contrattazione fra operatori senza scrupoli e amministratori senza cervello, nonché senza alcuna propensione ad ascoltare chi prova ad avvertirli. Se lo ricordino, quelli che ancora adesso ridacchiano perché la Bre.Be.Mi. è vuota, o quelli che piagnucolano aspettando che altri cantieri portino il sempre spergiurato sviluppo: è tutto una enorme fregatura, e ci lascia naufraghi in un deserto. Per i dettagli basta leggere qualche campione scelto di quanto si pubblicava più o meno una decina di anni fa a proposito: Uovo di Serpente, oppure Hic Sunt Peones Ma che infinita tristezza! (f.b.)
Qualche considerazione sull'oggi dal quotidiano online Today

Corriere della Sera Lombardia, 17 settembre 2014, postilla (f.b.)

MILANO — Una nuova superstrada di circa 30 chilometri nei territori del Parco Agricolo Sud Milano e del Parco del Ticino. Dopo l’apertura a luglio della BreBeMi, la nuova autostrada che collega Brescia con Milano, ma che per ora è snobbata dagli automobilisti, in Lombardia si torna a parlare di una nuova bretella. È la Malpensa-Milano-Vigevano, prosecuzione della Malpensa-Boffalora, superstrada inaugurata nel 2008 e che collega l’aeroporto con il casello dell’A4. La nuova Malpensa- Vigevano completerebbe il collegamento fra la Lomellina, l’aeroporto e Milano.
Dopo dodici anni di progetti, polemiche e dietrofront, anche per questa strada si avvicina una fase decisiva. Stando a quanto annunciato dalla Regione ai sindaci dei Comuni coinvolti, nelle prossime settimane Sea presenterà il nuovo progetto: un tracciato non molto dissimile dal primo, ipotizzato da Anas e Pirellone nel 2001.

Partendo da Magenta, la strada scenderebbe in direzione di Albairate, liberando dal traffico la Statale 526 «dell’Est Ticino». All’altezza di Abbiategrasso sarebbe costruita una circonvallazione, che sposterebbe, invece, il traffico dalla statale Vigevanese fuori dal centro abitato. Il progetto del 2001 ipotizzava anche un raddoppio della provinciale Milano-Baggio fra Albairate e la Tangenziale Ovest, per collegare la nuova superstrada a Milano, ma quest’ultima bretella potrebbe saltare per mancanza di fondi.

I finanziamenti già stanziati ammontano a circa 212 milioni di euro, ma sono troppo pochi per un’opera del genere. Perciò il progetto viene rivisto. Della superstrada se ne riparlerà venerdì, allo Spazio Fiera di via Ticino ad Abbiategrasso, in un incontro pubblico organizzato dal settimanale cittadino Ordine e Libertà. Saranno presenti, tra gli altri, i sindaci Andrea Sala di Vigevano e Pierluigi Arrara di Abbiategrasso, l’assessore regionale all’Economia Massimo Garavaglia, i rappresentanti del comitato «No tangenziale» e del «Comitato Sì alla strada», presieduto da Fabrizio Castoldi, patron della Bcs di Abbiategrasso che spiega. «Ogni giorno i pendolari da Vigevano a Milano impiegano circa 3 ore in più rispetto al tempo che impiegherebbero su una nuova superstrada posta lontano dai centri abitati. Tre ore della propria vita buttate via ogni giorno respirando gas di scarico».

Di tutt’altro avviso i comitati «No Tangenziale», le organizzazioni ambientaliste e gli agricoltori, che negli anni hanno raccolto 13 mila firme contro il progetto. E anche alcune amministrazioni comunali (Cassinetta di Lugagnano, Cisliano, Albairate e Cusago) si battono da tempo contro la superstrada e hanno presentato una candidatura all’Unesco per far diventare il Parco Sud una riserva della biosfera. Un modo per metterlo al riparo dalle autostrade. Il sindaco di Abbiategrasso Pierluigi Arrara è scettico: «Siamo favorevoli alla costruzione del tratto da Vigevano alla nostra città, ma non a un progetto faraonico come quello originale».

postillaCome ci aveva sinistramente avvisato pochi giorni fa il lobbista oggi in carica governatoriale della road gang padana, quando vediamo un'autostrada desolatamente vuota dobbiamo aspettare, con fede, che si compia il grande disegno di cui quell'opera è solo un segmento. Ed ecco qui un altro segmento del medesimo disegno, al solito presentato, discusso, sostenuto e osteggiato come opera in sé, guardando al dito (pestato, ma sempre del dito si tratta) anziché alla luna. Le due cittadine sulle opposte sponde del fiume azzurro, e dentro l'omonimo parco regionale che il mondo ci invidia, sono solo pedine in un gioco assai più grande di loro, che forse la stampa progressista farebbe bene a raccontare come tale: il Grande Raccordo Anulare lombardo, presupposto all'urbanizzazione dispersa della regione milanese. Tutto portato avanti, nei decenni, senza dichiararlo, con ricatti miserabili come quelli dei due comuni citati qui, dotati di decentissima comunicazione stradale reciproca, nonché di ottime circonvallazioni, se solo quelle strade faticosamente realizzate, non fossero poi state, quasi subito, liberamente ed entusiasticamente sfruttate per il vero scopo, che naturalmente anche qui non ha nulla a che vedere col traffico e le comunicazioni: costruirci su un lato e sull'altro, costruendo in contemporanea la prossima emergenza strozzature, la necessità di una nuova opera, e via di questo passo. Certo non si può chiedere a comitati e forze locali di farsi carico di formulare alternative, o quantomeno opposizioni di ampio respiro, ma forse ai partiti progressisti si. C'è qualche speranza? Per adesso pare di no (f.b.)
Vedi anche F. Bottini,
I capannoni della Zia T.O.M. (Mall 2008)

Corriere della Sera Lombardia, 11 settembre 2014, postilla (f.b.)

La mancanza di collegamenti. A sud, verso l’Autosole. E a nord, verso l’A4 Milano-Venezia. Il peccato originale di Brebemi, con i suoi sessanta chilometri di asfalto pochissimo percorso che corrono fra la bassa bresciana e la periferia orientale di Milano, sembra stare tutto lì. Nel fatto che è un asset viario che collega il nulla col nulla . Almeno per ora. Ed è per questo che ieri il governatore della Lombardia, Roberto Maroni, ha invitato tutti a portare un po’ di pazienza. «Prima di dare una valutazione — ha detto — aspetterei fino a che la Teem (la tangenziale esterna di Milano, ndr ) sia completata e la Brebemi sia così collegata con le altre due autostrade».

Questione più volte sollevata anche dallo stesso Francesco Bettoni, presidente di Unioncamere Lombardia e vero grande ispiratore dell’infrastruttura: secondo le proiezioni del suo staff, infatti, la bretella di connessione fra A35 e Autosole dovrebbe portare a un incremento del 15% di traffico sul tracciato inaugurato alla presenza del premier Matteo Renzi lo scorso 23 luglio. Fatti due calcoli, 3.500 automobili in più rispetto alle 22 mila giornaliere dichiarate dalla società controllata dal gruppo Gavio e da Intesa Sanpaolo. Che non sono spiccioli per un’operazione infrastrutturale — prima del genere in Italia — a totale trazione privata costata qualcosa come 2,4 miliardi di euro. La Teem, che metterà in comunicazione diretta Agrate a Melegnano con un doppio raccordo con l’A4 e l’A1 per un totale di 32 chilometri, è stata ideata per alleggerire il carico di traffico che grava sulla vecchia Tangenziale Est, ma sono in molti a sostenere possa dirottare verso Brebemi parte dei flussi pesanti diretti da e verso i centri logistici dell’hinterland meridionale oggi di stanza sulla Milano-Venezia.

Ne sembra convinto anche il ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, che martedì sera a Brescia, in occasione dell’inaugurazione della Fiera dell’aeronautica, ha sostanzialmente anticipato il pensiero di Maroni: «Il problema del poco traffico sulla Brebemi — ha detto — sta a valle. La realizzazione della Teem completerà l’opera e integrerà il sistema infrastrutturale lombardo creando un’alternativa all’A4». Questione di tempo, dunque. Forse solo di mesi. A oggi di Teem è stato inaugurato solamente un tratto di sette chilometri fra Pozzuolo Martesana e Liscate, ma Maroni giura che l’opera «sarà completata prima di Expo».

Il governatùr, in effetti, sta facendo del capitolo strade un elemento fondamentale nella sua strategia di sviluppo regionale. «Ribadisco il fatto — ha proseguito — che, per garantire la sufficiente mobilità alle imprese e ai cittadini lombardi, servono almeno altri 200 chilometri di strade veloci e di autostrade. Per questo il nostro obiettivo è quello di completare la Pedemontana, mentre ieri (martedì, ndr ) in Consiglio abbiamo assunto l’impegno di sospendere il pagamento del pedaggio per tutto il 2015 sulle tangenziali di Como e di Varese». Ricordava ieri un attento lettore che, nel 1976, quando venne aperto il primo tratto del corridoio M25 che circonda Londra, il Times bollò l’opera come «inutile» perché «troppo periferica». Oggi è uno dei raccordi anulari più trafficati del mondo. Che sia davvero questione di tempo?

postilla
Casca proprio a fagiolo l'osservazione del lettore sulla London Orbital, e per un motivo che a quanto pare continua a sfuggire ai nostri commentatori (favorevoli o contrari all'opera pare conti poco): ci vuole tempo, come ci dice Maroni, per completare i Grandi Disegni. Se nel caso di Londra si trattava però dell'anello autostradale schematizzato nel piano metropolitano di Patrick Abercrombie del 1944, a segnare in qualche modo il confine della greenbelt agricola, le grandi infrastrutture stradali milanesi e lombarde da mezzo secolo a questa parte seguono quel non-piano che si chiamava un tempo Sviluppo Lineare, al solo scopo di sabotare l'unica idea territoriale forte e intelligente prodotta nel '900 alla scala adeguata, ovvero la cosiddetta Turbina del Piano Intercomunale Milanese. Che fissando alcune invarianti nelle forme dell'urbanizzazione e delle aree aperte mirava – esattamente – a evitare il famoso “sviluppo del territorio” o sprawl o città infinita che dir si voglia, promosso invece sciaguratamente prima dalla Democrazia Cristiana e poi dagli altri interessi conservatori che ne hanno ereditata la cultura, in testa Cielle e Lega, per quel che conta. Ecco, è questo che ci dice Maroni: aspettate che si finisca il lavoro, ovvero di seppellire e ritagliare tutto il territorio in una immensa lottizzazione (come si può ancora leggere nelle immagini pubblicate su Urbanistica n. 50-51) con qualche grosso giardinetto per i bambini e i perdigiorno. La cosa triste è che nessuno, Pd in testa, pare avere idee alternative. Si spera ovviamente di sbagliarsi (f.b.)
Su Eddyburg Archivio abbondanza di materiali di riferimento per il Piano Intercomunale Milanese; su Millennio Urbano qualche considerazione in più sull'assenza di un Grande Disegno Alternativo

Altreconomia.it, 10 settembre 2014 (m.p.r.)

Forse -come suggerisce al lettore una foto pubblicata dal Corriere della Sera del 10 settembre- il “deserto d'asfalto” che unisce Brescia a Melzo è colpa dell'erba alta davanti ai cartelli, che non permette agli automobilisti di raggiungere la BREBEMI, la nuova autostrada A35 inaugurata a fine luglio alla presenza del presidente del Consiglio, Matteo Renzi.

O, con maggiore cognizione di causa, l'assenza di automobilisti lungo l'infrastruttura può essere imputata alla “concorrenza” della vicina autostrada A4, che unisce il Veneto (e da Bergamo ha addirittura con 4 corsie) fino ad incontrare la Tangenziale Est, mentre la BREBEMI finisce nei campi.

A differenza di chi, oggi, dedica reportage “all'autostrada che nessuno percorre”, noi ciò che accade oggi l'avevamo detto, e scritto, nel corso degli anni. Quando ancora non erano stati spesi circa 2,4 miliardi di euro (al netto degli oneri finanziari); quando ancora il “deserto d'asfalto” non c'era; quando ancora le inchieste di un grande quotidiano avrebbero potuto smuovere l'opinione pubblica, portando magari il governo a frenare il progetto, prima di essere costretto a metter mano al portafogli, come farà a breve -vaticiniamo- il CIPE, per rispondere alle richieste di “sgravi fiscali” avanzate a più riprese dal presidente della società di gestione, Francesco Bettoni, e dal presidente di Regione Lombardia, Roberto Maroni. Lo Stato -qualora il governo accogliesse la richiesta- dovrebbe rinunciare ad incassare circa mezzo miliardo di euro nei prossimi anni, scrivono alcuni grandi quotidiani, senza “contestualizzare” il perché né il come.

Crediamo sia necessario, pertanto, riassumere per punti tutto ciò che è necessario sapere sulla BREBEMI, per comprendere oggi un fallimento costruito nel corso degli anni, e di cui pagheremo i costi per molti anni a venire:

1 la defiscalizzazione, per legge, è un provvedimento che può essere richiesto per rendere sostenibile il piano economico e finanziario di interventi realizzati in project financing che si trovino in condizione di “squilibrio”, rappresentando -né più né meno- un clamoroso “fallimento del mercato”. Vale la pena sottolineare che la defiscalizazzione è stata introdotta nell'ordinamento italiano durante il governo Monti, quando ministro e viceministro delle Infrastrutture erano Corrado Passera e Mario Ciaccia, entrambi ex dirigenti del gruppo bancario Intesa Sanpaolo, che è azionista della società che ha costruito e gestirà BREBEMI;

2 la insostenibilità del project financing era già “provata”, se possibile, dal mancato interesse dei grandi gruppi bancari privati a partecipare al reperimento dei fondi necessari a realizzare l'intervento: a fronte di una vulgata (che continua a ripetersi sui media mainstream, come se fosse una verità che si auto-avvera) che vorrebbe la BREBEMI come “la prima autostrada realizzata senza finanziamenti pubblici”, i soci -da Intesa Sanpaolo a Gavio, da Unieco a Pizzarotti fino ai piccoli Comuni della bassa bresciana bergamasca attraversati dal tracciato- sanno di aver contato sui finanziamenti della banca pubblica dell'Unione europea, Banca europea degli investimenti, e della “cassaforte degli italiani”, quella Cassa depositi e prestiti controllata dal ministero del Tesoro;

3 i dati di traffico relativi all'autostrada BREBEMI, che secondo quanto comunicato dalla società stanno intorno ai 20mila passaggi al mese, ben al di sotto del preventivato, evidenziano la “risposta del mercato” a un intervento pesante per tutto l'est milanese: senza il completamento della Tangenziale Est esterna di Milano -che la collegherebbe alla viabilità ordinaria, veicolando il traffico verso Milano- la BREBEMI non “esiste”. Questo esemplifica come "asfalto" chiami "asfalto", in un circolo vizioso dannoso per il Paese.

Spiace, oggi, verificare che l'opposizione in Regione Lombardia invece di criticare il “modello autostradale made in Formigoni”, mutuato nel “modello Maroni”, rivendichi l'esigenza di garantire al “progetto BREBEMI” maggiori risorse pubbliche onde evitare che alcuni Comuni dell'hinterland di Milano siano strozzati dal traffico;

4 se le mettiamo insieme, però, queste due infrastrutture hanno occupato o andranno ad occupare, nel caso di un completamento di TEEM, oltre 500 ettari di terreni agricoli, che saranno persi per sempre, comportando -come abbiamo spiegato su Ae 150, ad aprile 2014- un costo di gestione dei servizi ambientali per i territori coinvolti di 6.500 euro per ettaro all'anno.

Ecco ciò che sappiamo di BREBEMI. E lo sapevamo -e scrivevamo- mesi fa. Non c'era bisogno di attraversare l'autostrada semi vuota per descriverla. Era già scritto nelle parole di un dirigente di una grande banca milanese, che nel corso di un convegno di Assolombarda dedicato alle autostrade, un paio d'anni fa, aveva spiegato il motivo per cui alcuni interventi non erano considerati “bancabili”: «Come posso credere che sull'autostrada x passino 80mila veicoli al giorno, e che gli stessi veicoli passino anche su un'arteria che dovrebbe correre parallela, a pochi chilometri dall'altra?».

Riferimenti.

Numerosi articoli e documenti sulla follia della BREBEMI son su eddyburg Basta inserire le lettere nel lo spazio a sinistra della piccola lente in cima a qualsiasi pagina.

La Repubblica Milano, 8 settembre 2014, postilla (f.b.)

Qualche giorno fa, nel corso di una mesta cerimonia dominata dalla faccia da funerale del presidente uscente della Provincia Guido Podestà, la Regione ha ricevuto in dote da Palazzo Isimbardi la holding Asam, ovvero la scatola societaria che contiene le partecipazioni nel settore delle infrastrutture delle Province di Milano e Monza. Sono per gran parte quote di società autostradali, fra le quali la celebre Serravalle, fonte di infiniti guai politico giudiziari per gli ex presidenti provinciali Colli e Penati nonché di colossali grane per gli ultimi tre sindaci di Milano Albertini, Moratti e Pisapia. La Regione gestirà l’Asam - gravata da 130 milioni di debiti - fino a dicembre 2016 e poi dovrà riconsegnarla alla, nel frattempo, neonata città metropolitana di Milano.

A dispetto dell’imponente debito, l’arrivo del pacco Asam in Regione è stato accolto con sorprendente buonumore dal presidente leghista Maroni, che si è immediatamente lanciato nell’annuncio che in Lombardia si dovranno realizzare, al più presto s’intende, altri 200 chilometri di nuove autostrade o strade a scorrimento veloce. Quasi in contemporanea, sono stati resi pubblici i dati sul primo mese di esercizio della Brebemi, ovvero l’ultimo gioiello autostradale lombardo inaugurato il 22 luglio. Una media giornaliera di soli 18mila transiti, contro i 120mila nel tratto Milano Brescia della A4, l’arteria della quale la Brebemi rappresenterebbe l’alternativa più comoda e veloce.

Un flop indiscutibile, in parte spiegabile con la segnaletica insufficiente, forse con la mancanza di informazioni chiare all’utenza, o forse ancora per il fatto che usciti, in direzione Milano, ci si trova imbottigliati nella terribile Cassanese o nella tortuosissima e quasi impercorribile Rivoltana. Un flop che tuttavia trova la sua spiegazione più semplice nel costo: 10,50 euro per 62 chilometri. L’autostrada più cara d’Italia, quasi il doppio del ticket per lo stesso tratto percorso sulla A4. Dunque al governatore leghista che promette asfalto per altri 200 chilometri di highway in Lombardia risponde sinistramente il primo rendiconto di un’opera annunciata diciotto anni fa, cantierizzata nel 2009 e per cui si prevedeva una spesa — in project financing — di 800 milioni lievitati, nel frattempo, a 2,4 miliardi. Una «grande opera » in teoria interamente finanziata da privati ma che oggi, per reggersi, chiede al governo defiscalizzazioni e contributi per circa 500 milioni e il prolungamento della concessione da 20 a 30 anni. E poi impone tariffe che consegnano la nuova autostrada alla marginalità, se non alla totale inutilità nel sistema della mobilità lombarda.

Maroni non dice dove vorrebbe stendere i nuovi 200 chilometri di autostrade in Lombardia. Non lo dice perché, da consumato attore della politica, sa perfettamente che qualsiasi annuncio darebbe un vantaggio agli oppositori. Però chiama alla collaborazione i privati, riproponendo quel project financing di cui stiamo ammirando gli effetti sulla Brebemi. Probabilmente verranno ripescati gli assurdi progetti autostradali per la bassa, come la Broni-Mortara e la Cremona — Mantova. Sbucheranno bretelle e rami di collegamento con la Pedemontana, la Tem e con la stessa Brebemi. Tornerà dall’oblio la Rho-Monza e chissà quanto ancora saprà partorire la creatività asfaltatrice del governatore. Il tutto in una regione che sta attraversando la crisi profonda di un sistema produttivo che andrebbe ripensato insieme a una nuova mobilità. A infrastrutture e servizi che agevolino e incoraggino il passaggio a un modello rispettoso dell’ambiente, dei territori e persino della logica economica. Costruire autostrade verso il nulla non può essere il futuro della Lombardia.

postilla
Pare che finalmente, davanti a fatti incontestabili, si stia facendo strada anche nell'informazione l'idea di uno “sviluppo del territorio” dove le opere siano funzionali a qualche genere di idea, e non viceversa. Mentre invece la politica, Maroni in testa ma ne siamo certi anche la maggioranza dei suoi formali oppositori, resta saldamente legata al modello classico secondo cui prima si decidono le trasformazioni, sulla base di alcuni interessi economico-speculativi, e poi a colpi di studi parziali, convegni, disinformazione, cooptazione, se ne stabilisce una utilità qualsivoglia. Speriamo che la coscienza del disastro, attraverso una stampa che pare vagamente emersa dalle nebbie padane dello sviluppismo coatto, inizi a sfiorare anche i nostri decisori (f.b.)

p.s. Le citate surreali Autostrada della Lomellina, e Cremona-Mantova fanno parte della medesima storia, ovviamente

Una tappa intermedia del disegno dicosiddetto sviluppo del territorio lombardo, che procedesciaguratamente e senza che se ne delinei uno davvero alternativocredibile. Corriere della Sera Milano, 22 luglio 2014, con postilla(f.b.)

MILANO — Costi lievitati, casse prosciugate e richieste di sgravi fiscali all’Erario. E ancora: cantieri in ritardo, proteste sugli espropri dei terreni, polemiche sul caro pedaggi, aree di servizio chiuse e le tre corsie che finiscono in un «imbuto» in mezzo ai campi. Eccole le incognite che fanno risuonare un Sos per le nuove autostrade lombarde. Un grido d’allarme per tre grandi opere regionali – Pedemontana, Brebemi e Tem – che echeggia proprio alla vigilia della doppia apertura per la «direttissima» Brescia-Milano e per il primo tratto (7 km) della Tangenziale est esterna. Una duplice inaugurazione, quella di domani, con il premier Matteo Renzi che taglierà il nastro.

Dopo 18 anni d’attesa e 5 di lavori, finalmente è arrivato il giorno del semaforo verde per i 62 km della Brebemi. Ribattezzata A35, la nuova autostrada, con i suoi 35 mila veicoli al giorno stimati (all’inizio erano 70 mila), alleggerirà la morsa del traffico sulla A4. Ma le luci che si accenderanno per il gran debutto non scacceranno le ombre che si allungano sulla grande opera. Soprattutto a cominciare dal raddoppio dell’investimento (tutto finanziato da privati), che dagli 866 milioni di euro previsti è salito a 1,6 miliardi, pari a un costo di 25,8 milioni di euro al km. Ecco perché i principali azionisti, Gavio e Intesa San Paolo, hanno chiesto al Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) una defiscalizzazione di 497 milioni di euro e un contributo pubblico di 80 milioni di euro.

Schema incompleto ma indicativo (cliccare per zoom)

Guai finanziari che non risparmiano nemmeno la Pedemontana, controllata dalla Serravalle. Al punto che anche la società autostradale ha presentato analoga richiesta al Cipe. Obiettivo? Un super bonus fiscale da 450 milioni. Uno sgravio cruciale considerato che la disponibilità economica si aggira attorno a 1,7 miliardi di euro a fronte di un investimento complessivo di 5 miliardi, per costruire un’autostrada che collegherà Varese con Bergamo lungo un tracciato di 87 km, più 70 di viabilità connessa. Ma, senza soldi in cassa, soltanto il primo lotto della Pedemontana (30 km) sarà ultimato per l’Expo.

Entro maggio 2015, invece, saranno terminati i 32 km della Tem (la futura A58), di cui da domani — dopo due anni di lavori e una spesa di 180 milioni di euro (25,7 milioni al chilometro) — saranno percorribili i 7 km a tre corsie da Pozzuolo Martesana a Liscate. Sulla Tangenziale est esterna, però, continua a pesare il nodo espropri, che tra l’altro rischia di far lievitare i costi. Infatti il pagamento dei cosiddetti «danni zootecnici», causati alle aziende agricole nel mirino degli espropri, potrebbe far innalzare i 246 milioni di euro finora previsti per coprire i costi per l’acquisizione delle aree.

Ieri, intanto, si è concluso con un altro nulla di fatto e l’ennesimo rinvio al 28 luglio, l’incontro fra Tem, Regione e Coldiretti per raggiungere un’intesa sulla questione. E se la società Tem fa sapere che con 728 dei 1.500 proprietari di terreni e immobili lungo il tracciato è già stato siglato un accordo bonario, Ettore Prandini, presidente della Coldiretti Lombardia, osserva che 150 imprenditori della terra stanno aspettando da due anni una risposta e che la grande opera divorerà dieci milioni di metri quadrati di superfici agricole.

Non a caso Legambiente parla di «una ferita per il territorio», riferendosi proprio a Brebemi e Tem. Così come si alzano le proteste degli enti locali per le auto che, provenienti da Brescia e Bergamo, finiranno la loro corsa negli imbuti della «Cassanese» e della «Rivoltana», strade che sono ancora in fase di riqualificazione. E proprio sull’ondata di traffico che invaderà queste due arterie, Franco De Angelis, assessore della Provincia di Milano, ha sollevato timori e preoccupazioni sia sui collaudi, sia sui costi di gestione. Due problemi che saranno affrontati oggi in un incontro con i vertici della società Tem.

Capitolo pedaggi. Gli automobilisti masticano rabbia perché sulla Brebemi si pagheranno 15 centesimi al km, più del doppio, rispetto ai 7 centesimi della A4. Mentre sulla Tem si prevede un pedaggio fra 12 e 15 centesimi al km. Ma sulla Brebemi non mancheranno nemmeno i disagi, perché sino a fine anno le due aree di servizio rimarranno chiuse, dopo che l’appalto per la loro gestione è andato deserto.

postillaA rischio di annoiare, anzi nella quasi certezza di annoiare, ci si sente comunque in dovere di rammentare quanto la questione autostradale – nonostante tutte le divagazioni trasportistiche economiche e giudiziarie a cui ci ha assuefatto la stampa di informazione – sia squisitamente territoriale, ovvero riguardi il modello di assetto metropolitano e regionale. Ed è un vero peccato che questo modello, chiarissimo leggibile e pure facilmente comunicabile ai cittadini, non sia mai e poi mai al centro delle contestazioni politiche e ambientaliste, e men che meno di schemi alternativi. Evidentemente o non c'è alcuna coscienza del fatto che esista, eccome, un “grande disegno” sostanzialmente regressivo e per nulla attento alle questioni ambientali e territoriali (oggi si direbbe della sostenibilità), oppure si preferisce da parte di chi qualcosa sa, tenerselo ben stretto e non farne oggetto di dibattito pubblico. Sembra un'altra epoca, quella in cui si scontravano anche sulle pagine della stampa non specializzata gli schemi “a turbina” dichiaratamente ambientalista e di sinistra, e quello cosiddetto di “sviluppo lineare” democristiano e confindustriale. Quella serie di anelli autostradali, e il sistema insediativo che sottendono e promuovono, altro non sono che i nipotini del modello confindustriale-democristiano anni '50-'60. E chi non ne parla, potrebbe: a) riguardarsi un po' la faccenda, i documenti non mancano; b) dichiarare la propria fede destrorsa, o malafede per interesse che dir si voglia (f.b.)

Corriere della Sera Lombardia, 16 luglio 2014

L’Enac ritira il progetto della terza pista di Malpensa, parte integrante del piano di sviluppo futuro dell’aeroporto. A Sarebbe stato lo stesso il presidente della Sea, Pietro Modiano, a prendere la decisione di chiedere una pausa di riflessione. Il gestore aeroportuale rinuncia così all’ampliamento dello scalo, ma — secondo fonti interne alla società — non per sempre. Si tratterebbe veramente di una pausa, per poi ricominciare il percorso da capo. I dati su cui era stato costruito il masterplan, in sostanza, non sono più attuali, dicono in azienda, e la decisione di abbandonarlo è finalizzata anche a riformulare con più calma nuove proposte di sviluppo futuro.

Ora il «dossier sviluppo» è stato preso in mano da Modiano, e nelle intenzioni dei vertici c’è ben chiara l’idea che in futuro sia indispensabile il consenso del territorio. La terza pista e l’intero masterplan, infatti, sono stati oggetto di una forte contestazione in provincia di Varese in questi anni. Nello specifico, il lavoro fatto finora andrà perso ma è stato ritenuto più utile ricominciare da zero, tenendo conto delle mutate condizioni di traffico aereo e di qualità dei veicoli, piuttosto che procedere con continue integrazioni richieste dal ministero dell’ambiente dopo le osservazioni piovute dagli enti locali del territorio.

Del resto, due anni fa la Sea prevedeva di aumentare i passeggeri del 5 per cento annuo. Negli ultimi sei anni è invece c’è stata la «fuga» di Alitalia, il «Dehubbing» e infine la crisi economica che ancora affligge il traffico aeroportuale. Il masterplan, cioè il documento che contiene le previsioni di crescita dell’aeroporto, racchiudeva una gigantesca operazione di strategia industriale. In una relazione tecnica del 2009 gli investimenti previsti erano stimati in 2 miliardi di euro: la sola terza pista aveva un costo preventivato di 237 milioni di euro. E con 847 milioni di euro si prevedeva di allargare il terminal 1 e di costruire un nuovo terminal in mezzo alle attuali piste.

Oggi alla Sea non si esclude che il piano possa essere riproposto in futuro, dal momento che ogni aeroporto dovrebbe avere un proprio masterplan. In realtà è un documento in continua elaborazione dal 2005, quando uno studio dell’istituto Mitre di Washington, specializzato in trasporto aereo, indicò luogo e modalità per lo sviluppo della terza pista e dei servizi collegati. Lo scorso anno il progetto era giunto alla valutazione di impatto ambientale al Ministero dell’ambiente, dopo un sostanziale via libera della Regione Lombardia. Il ministero aveva richiesto alcune integrazioni, ma era stata la stessa Sea nel 2013 a chiedere una sospensiva, intuendo forse che le possibilità di realizzarlo si stavano assottigliando.

Il motivo sta proprio nel mutamento dei numeri di riferimento: quando tutto è partito si sognava un’espansione di Malpensa fino a 50 milioni di passeggeri l’anno, che oggi sono 18,5 milioni annui. Il risultato è che esce dall’agenda l’idea di realizzare una terza pista e viene accantonata anche l’idea di costruire migliaia di metri cubi di capannoni logistici che il masterplan avrebbe previsto a ridosso di Malpensa. L’impatto ambientale rimane ancora da valutare.
Nel frattempo esulta Legambiente, che si augura di poter parlare di «fine di un incubo», accusando Sea di aver voluto «un progetto faraonico per ampliare un’infrastruttura già nata sovradimensionata e disfunzionale».

sprawl esprime patologie notoriamente collegate al medesimo stile di vita. Ma non si può dire, per non contraddire i mandanti ciellini pro-sprawl. Corriere della Sera, 8 giugno 2014, postilla (f.b.)

MONZA —Il dato più preoccupante riguarda i più piccoli: il 30% dei bambini brianzoli tra i 6 e gli 11 anni supera i limiti di peso per l’età, il 20% è in netto sovrappeso (19% maschi e 21% femmine), il 6% francamente obeso. Sono i dati raccolti da uno studio condotto a Vimercate, Agrate, Ornago, Mezzago, Bellusco e in metà delle scuole elementari di Monza dall’Università di Milano Bicocca e dalla Federazione Italiana Medici Pediatri della Lombardia.

«L’obesità infantile è in aumento — spiega Alfredo Vanotti, professore in Dietetica e Nutrizione all’università di Milano Bicocca e direttore del nuovo servizio Nutrizione ed Educazione Alimentare alla Clinica Zucchi di Monza e Carate — è colpa dell’eccessiva sedentarietà, troppa televisione e troppo poco sport, più computer che giochi in cortile». Per dichiarare lo stato di obesità si deve fare riferimento all’indice di massa corporea (Bmi), che si calcola dividendo il peso per l’altezza al quadrato: si è obesi se il risultato va dai 30 in su, ovviamente con differenti gradi di «gravità».

L’allarme-obesità scende (anche se di poco) nei comuni dove la Asl di Monza e Brianza ha effettuato progetti di promozione alla salute. Tra i 2007 e il 2010 i bambini sovrappeso tra i 6 e i 10 anni a Carate, Cavenago e Verano sono scesi dal 29% al 21%, gli obesi dal 9 al 7%.
Tra gli adulti le rilevazioni più recenti dicono che in Brianza i sovrappeso sono il 36% della popolazione (+1.1% rispetto alla media italiana), gli obesi il 12,7% (+2,8% rispetto all’Italia). L’obesità poi aumenta con l’età e colpisce più gli uomini delle donne. Tra i 18 e i 75 anni il 42% degli uomini è in sovrappeso e il 14% è obeso, mentre tra le donne il 21% è sovrappeso e il 9% è obeso. Le donne rischiano il sovrappeso con la menopausa (una su due è in sovrappeso dopo i 60 anni), mentre gli uomini perdono il pesoforma già dopo i 35 anni (1 su 2 è sovrappeso o obeso già a 35 anni).

L’altro dato curioso che riguarda gli uomini è l’aumento ponderale dopo il matrimonio: «Abbiamo studiato un gruppo di uomini prima del matrimonio e abbiamo registrato il 29% in sovrappeso e il 6% di obesi — conclude Vanotti — dopo qualche anno di matrimonio la percentuale dei sovrappeso è cresciuta al 48%, gli obesi al 13%». «Sono percentuali che fotografano la società dell’opulenza — è il commento di Vittorio Sironi, professore di Storia della Medicina e della Sanità all’Università Bicocca —: nell’Ottocento nei nostri comuni il problema era semmai la carenza alimentare. In Brianza si soffriva di pellagra, rachitismo, disturbi tiroidei. Oggi siamo una società ricca e l’obesità è una delle patologie più diffuse che colpisce l’8% della popolazione e cresce con l’aumentare dell’età».

Il consiglio? «Bisognerebbe tornare all’alimentazione dei nostri nonni — conclude Sironi — ai primi anni del Novecento quando si consumavano grandi quantità di frutta e verdura e il piatto della “cuccagna” era un’eccezione solo per alcune occasioni». Un gesto concreto contro l’obesità l’ha fatto il Comune di Seregno: con la palestra «Officine del benessere» ha partecipato a Let’s move, la sfida mondiale (176 i centri fitness in gara in rappresentanza di 10 Paesi) promossa dal colosso del wellness Technogym ed ha vinto. In un mese 950 persone si sono alternate sugli attrezzi e hanno accumulato 5,8 milioni di «move», che equivalgono a circa 12 milioni di calorie consumate. In palio attrezzi per 40 mila euro, che sono stati donati alla scuola media Don Milani. La Asl di Monza ha invece in programma per quest’anno alcuni progetti di educazione alla salute rivolti alle donne in gravidanza, agli educatori degli asili nido e alle scuole di ogni ordine e grado. Lo scorso anno ha invece fatto installare distributori di «snacks salutari» in otto scuole secondarie della provincia.

postillaPare quasi ovvio, che in una regione dove ormai da lustri il personale sanitario viene selezionato sulla base dell'appartenenza alle cordate cielline, nessuno si sogni neppure lontanamente di citare (nemmeno in sede di teoria, almeno da quanto si capisce dall'articolo) la montagna di ricerche americane e non, che legano direttamente l'organizzazione del territorio e l'indice di massa corporea. Ovvero che stabiliscono un legame quasi diretto fra gli stili di vita caratteristici dello sprawl suburbano, modello notoriamente ultra-dominante in Brianza, e la ciccia cronica di grandi e piccini. Ma non si può dire, perché si contraddirebbero così i ciellini profeti delle ubique autostrade, delle sedicenti comunità locali fatte di schiere di villette “immerse nel verde”, dove i ragazzini non escono se non accompagnati dalla mamma o dal nonno in Suv, e passano il resto del tempo quasi naturalmente rimpinzandosi di merendine davanti alla Tv. Probabilmente alche al sovrappeso ci dovrà pensare il “privato”, ricetta magica pervicacemente riproposta ad ogni piè sospinto dai nostri eroi. L'America va bene per i viaggi studio pagati dal contribuente, ma leggere le ricerche che non fanno comodo ai propri sponsor quello mai. Ad esempio gli studi seminali tradotti qui su Eddyburg tanti tanti anni fa, che magari i non medici devoti vorranno riguardare con occhi diversi oggi. Qualche considerazione in più su Millennio Urbano (f.b.)

Corriere della Sera Lombardia, 6 aprile 2014

MILANO — I contrari, i paladini delle vette, Cai in testa, hanno raccolto online oltre 23 mila firme in 7 giorni. I favorevoli, gli appassionati delle moto, rispondono con più di 3.700 sottoscrizioni. È sfida sui sentieri di montagna della Lombardia a colpi di petizioni in rete fra pro e contro la nuova legge regionale che, se approvata, cancellerà gli attuali divieti, per permettere alle moto da cross, enduro e trial di sfrecciare in libertà nelle oasi verdi d’alta quota e nei boschi di collina e pianura. Infatti al Pirellone, martedì, sarà discusso e votato il progetto di legge 124, con il quale la maggioranza di centrodestra vorrebbe cambiare la normativa regionale del 2008 sul «traffico motorizzato nelle aree agro-silvo-pastorali», come spiegano Dario Bianchi (Lega Nord) e Alessandro Fermi (Forza Italia).

Nel dettaglio, l’obiettivo è di eliminare i commi 3 e 4 dell’articolo 59 dell’attuale legge 31, che vietano «il transito dei mezzi motorizzati su strade, mulattiere e sentieri, nonché in tutti i boschi e nei pascoli ad eccezione di quelli di servizio». Con la proposta di modifica, spiega il Cai nella sua raccolta firme online per dire «No», si mira a «introdurre una deroga per consentire ai singoli comuni di autorizzare il transito temporaneo delle moto in base a un regolamento regionale da definire». Risultato? «Se passasse la nuova legge, l’effetto risulterebbe devastante per l’ambiente e ci sarebbe un’impennata dei livelli di smog e rumore», osserva Paolo Micheli, consigliere regionale di Patto Civico che, come tutta l’opposizione, boccia la nuova proposta. «In poche ore si possono creare danni che solo la natura potrebbe riparare impiegando però anni e ai quali l’uomo non può porre rimedio», tuonano in coro Fai, Federparchi, Legambiente, Wwf e Coldiretti.

Inoltre il Cai sottolinea «l’incompatibilità fra escursionismo e motociclismo sugli stessi sentieri». e ribadisce che le due ruote sono «contrarie allo sviluppo di un turismo dolce ed ecosostenibile». Sull’altro fronte della barricata, invece, ci sono la Fmi (Federazione motociclistica italiana) e i motoclub di tutta la Lombardia. Un esercito di piloti (professionisti e dilettanti) che si battono per il «Sì». Invocano un «motocross libero» e vanno in pressing sulla giunta Maroni chiedendo meno vincoli e burocrazia. Perché «quest’attività sportiva non arreca danni irreparabili né ai sentieri, né alle mulattiere».

(qui qualche commento in più e il link alla petizione)

la Repubblica e Corriere della Sera Milano, 28 marzo 2014 (f.b.)

La Repubblica

Appalti e cantieri fantasma il cerchio magico dell’Expo
di Alberto Statera

UNA landa popolata di fantasmi umani e di mostri meccanici. Il campo di un milione e cento metri quadrati, lungo due chilometri e largo da 350 a 750 metri, che tra quattrocento giorni coperto di cinquecentomila alberi e tra idilliache scenografie dovrebbe portare dal mondo 20 milioni di visitatori e certificare la fine della decadenza della Nazione, sembra sulle mappe il profilo di un pesce spiaggiato. Come l’Italia. A guardarlo viene persino voglia di dare ragione, per una volta, al disfattismo di Beppe Grillo, che qualche giorno fa è stato qui e ha commentato: «Non c’è niente, c’è un campo e quattro pezzi di cemento. Ma chi ci vienea Rho?» Eppure, per fare le cose per bene l’Italia aveva a disposizione 2.585 giorni da quel 31 marzo 2008, il giorno in cui tra epici festeggiamenti ottenne dal Bureau International des Exposition l’organizzazione dell’evento mondiale del secondo decennio del secolo, vincendo la sfida con Smirne. “Grosse Koalition” all’ombra della Madonnina scrisse il “Financial Times”, commentando la collaborazione tra il governo Prodi, ormai al lumicino, e la destra che governava Milano e la Lombardia con Letizia Moratti e Roberto Formigoni.

Tutti insieme si spesero, anzi spesero in regali ai paesi votanti: scuolabus nei Caraibi, borse di studio nello Yemen e in Belize, una metrotramvia in Costa d’Avorio, una centrale del latte in Nigeria, bus a Cuba, e così via. Oltre a un numero imprecisato di orologi di pregio e altri presenti a ministri di mezzo mondo. Poi per quasi duemila tragici giorni andò in scena il bieco spettacolo di spartizione tra politici, partiti, correnti, faccendieri, signori degli appalti e anche coppole storte, per la caccia alle poltrone e per assicurarsi fette della torta di potere e denaro. Interessi che la Direzione Nazionale Antimafia definì subito “maggiori persino di quelli ipotizzabili dalla realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina”, che Berlusconi, tornato a palazzo Chigi, aveva rimesso in cima al delirio sulle Grandi Opere. Ma non una pietra fu mossa in quella striscia di terra tra i comuni di Milano, Rho e Pero, che il nuovo presidente del Consiglio Matteo Renzi, qui in visita tra qualche giorno, dovrà necessariamente presentare come l’evento del grande riscatto del paese di cui si dichiara il protagonista.

Ora il Decumano e il Cardo, come aulicamente vengono chiamate le vie, che nelle città romane si intersecavano da est a ovest e da nord a sud, cominciano a intuirsi nel fango. Il fango del cantiere e quello dell’inchiesta della procura milanese che ha già portato all’arresto otto persone e promette sviluppi conturbanti. Sviluppi che — Dio non voglia — potrebbero fulminare la corsa contro il tempo per evitare all’Italia la figuraccia mondiale che rischia il primo maggio dell’anno prossimo, quando l’Expo dovrebbe partire. Molti avevano previsto che il sogno sarebbe diventato un incubo. Di fronte alla sanguinosa lotta per le nomine, il controllo dei finanziamenti e degli appalti, si fece portavoce del “partito della rinuncia” l’architetto Vittorio Gregotti, il quale ricordò il saggio precedente di Francois Mitterrand che all’ultimo momento nel 1989 cancellò i faraonici progetti per la celebrazione del bicentenario della rivoluzione francese. Ma a Parigi non c’era la simoniaca cupola politico-affaristica lombarda, che per diciotto anni sotto le insegne del casto Roberto Formigoni, capitano di una legione di sedicenti lottatori per la fede ma incapace di sottrarsi al peccato,non ha perso occasione per accumulare potere e denaro con mezzi illeciti, in nome del “ciellenismo realizzato” attraverso la Compagnia delle Opere: un blocco di potere con 34 mila aziende associate e almeno 70 miliardi di fatturato, che ha svuotato lo Stato dall’interno con l’alibi della sussidiarietà.

Negli scandali che si sono susseguiti negli anni, il cerchio magico del Celeste c’è sempre tutto. Organizzato quasi militarmente per specialità di business: la sanità, gli ospedali, l’ambiente, l’urbanistica, l’edilizia, le opere pubbliche. Delle ruberie sui 17 e passa miliardi annuali della sanità pubblica ormai, con le inchieste e i processi in corso, si sa molto. Come molto si sa da anni sulla mangiatoia delle opere pubbliche.

Alcuni dei nomi che ricorrono nell’inchiesta sull’Expo sono gli stessi che figurano in quella sul “Formigone”. Così è stato ribattezzato il palazzo che l’ex zar della regione ha fatto erigere in via Melchiorre Gioia a perenne celebrazione della sua potenza. Con i suoi 167 metri di altezza — più alto della Madonnina, come l’ex governatore sostiene volesse Papa Paolo VI — il mausoleo formigoniano è l’emblema dell’appaltopoli meneghina nello skyline dell’ex capitale morale dell’ormai obliata borghesia produttiva. La procura non trascura un’inchiesta partita sulla base di un rapporto del colonnello Sergio De Caprio, il “Capitano Ultimo” che arrestò il boss mafioso Totò Riina. Ricorrono i nomi di Rocco Ferrara, già arrestato per le estrazioni petrolifere in Basilicata, e di Antonio Rognoni, l’ex direttore di Infrastrutture Lombarde, quello appena arrestato per gli appalti dell’Expo.

Per la cronaca, il “Formigone”, che doveva costare 185 milioni di euro, ne ha ingoiati oltre 500. Capite allora cosa intende la procura quando analizza la vittoria dell’appalto per la “Piastra” dell’Expo da parte della Mantovani, al posto dell’Impregilo, che doveva vincere con il solito accordo di cartello scambiando appalti sulla Pedemontana Lombardo- Veneta, con un ribasso d’asta di oltre il 40 per cento, pari a 100 e più milioni? Che con gli inevitabili aggiornamenti prezzi c’è “ciccia” per tutti, soprattutto in un’operazione che coinvolge la dignità nazionale in corsa disperata contro il tempo. Un classico nella corruttela nazionale, i cui esempi si sprecano, a cominciare dagli appalti per il G8 della Maddalena gestiti direttamente a palazzo Chigi da Guido Bertolaso, regnante Berlusconi.

Quando l’appalto per la “Piastra” (oltre 160 milioni) andò alla Mantovani, società dicui era diventata pars magna la segretaria dell’ex presidente del Veneto Giancarlo Galan, Claudia Minutillo, con Erasmo Cinque e la Ventura di Barcellona Pozzo di Gotto (poi esclusa per sospetti di mafia), Formigoni fece un comunicato di fuoco per l’eccessivo ribasso d’asta. E il responsabile delle gare Pierpaolo Perez protestò con un interlocutore al telefono: «Ma cosa si è fumato? Io non lo voto più questo qui, deve essere internato». «È il politico più stupido che io conosco», disse del resto una volta Ciriaco De Mita di Formigoni. O il più furbo di tutti negli affari? Non capì niente in castità perfetta e povertà evangelica, come si richiede ai Memores Domini, o sapeva tutto? Personalità da psicoanalisi il Celeste, lo stesso uomo che balla sulle note di Hot Chili Peppers su uno yacht da milioni e che poi va a confessarsi dal padre salesianodi via Copernico. Piove sul fango di piazza Italia, 4.350 metri quadrati che non si sa se saranno mai pronti per il primo maggio 2015; piove sul Children Park e sull’Anfiteatro, già realizzato — così dicono — al 20 per cento; l’Orto Planetario è stato cassato, come buona parte delle autostrade; non piove sulle Vie d’acqua, cancellate dai progetti, che dovevano collegare Rho al vecchio porto della darsena, né sulla linea ferroviaria Rho Gallarate, che resterà un pezzo di carta inumidita.

Dicono che a 400 giorni dal giorno fatidico per il prestigio internazionale di questa nostra Italia siamo al 40 per cento dell’opera. Soltanto un rifiuto risoluto del disfattismo nazionale ci permette di crederci. Se il miracolo si compirà — e ce lo auguriamo — si aprirà la fase delle Red Arrings, le aringhe rosse, bocconi olezzanti che i cacciatori britannici disponevano sul terreno di caccia per distrarre i cani dei cacciatori avversari. L’Expo come aringa per attirare una speculazione immobiliare da 3 o 400 milioni di euro, quando il peccato originale dell’esposizione universale sarà un angoscioso ricordo. Si è già fatta sotto personalmente Barbara Berlusconi, leader politica in pectore, manifestando interesse per costruire su 12 ettari del pescione Expo uno stadio da 60 mila per il Milan. E magari qualche nuova “caricatura” di città nella città, come le chiama l’architetto Mario Botta. Secondo le tradizioni di famiglia.

Corriere della Sera Milano
L'immobiliare Sanità
di Giangiacomo Schiavi

L’inchiesta che coinvolge Infrastrutture lombarde incrocia la sanità milanese e un opaco sistema di appalti da rivedere per come sono pilotati e per le insidie corruttive che vengono a galla. Prima che sia (un’altra volta) troppo tardi è doveroso mettere il naso su un’operazione da centinaia di milioni che riguarda il trasloco di Istituto dei tumori e Neurologico Besta nell’ex area Falck di Sesto San Giovanni, in quella che è stata chiamata Citta della Salute: serve un supplemento di istruttoria e una garanzia di trasparenza sui conti e sul ruolo svolto da Infrastrutture lombarde e dall’ingegner Rognoni, attualmente agli arresti. Alla luce di quel che è successo per i cantieri del San Gerardo di Monza e di Niguarda, finiti nel mirino della Procura, è doveroso mettere al riparo un progetto di integrazione sanitaria, sia pur discusso e contestato, dal sospetto di illeciti e illegalità.

Ogni ragionevole dubbio dovrebbe essere confutato dal governatore, dal sindaco, dall’opposizione, dai sindacati, dai dirigenti, dai medici, dagli imprenditori, per garantire un percorso trasparente ed evitare sorprese in corso d’opera. Quel che si scopre ogni volta che la Procura si muove e scoperchia il pentolone degli appalti è un’imbarazzante commistione affaristica tra politica e imprese: le ragioni dell’utenza, in questo caso i malati e il personale della sanità, sembrano non contar niente. Invece dovrebbero essere prevalenti, per non ripetere i soliti errori e doverne pagare, più tardi, anche il prezzo.

Nel caso della Città della salute c’è alle spalle il poco edificante spreco di denaro pubblico per la falsa partenza nell’area dell’ospedale Sacco: quasi un paio di milioni di euro buttati tra studio di fattibilità, consulenze e avviamento della macchina organizzativa. Il polo pubblico della sanità d’eccellenza poteva essere una grande intuizione e non è mai stato del tutto chiaro il perché della rinuncia: se la lievitazione dei prezzi o le liti tra cordate sui futuri appalti.Il passaggio da una parte all’altra di Milano, da Vialba a Sesto, è sembrato lo schizofrenico segnale di una giunta al capolinea che ha salvato l’investimento ragionando come un’immobiliare: portando i due ospedali verso un Comune alle prese con il fallimento dei progetti di trasformare una gigantesca area dismessa, sulla quale doveva sorgere prima una banca e poi un centro televisivo.

È comprensibile l’impegno del sindaco di Sesto nel difendere la Città della salute: porterà valore e darà un senso alla futura area metropolitana. Ma oggi tocca alla Regione spazzare via tutte le ombre, e dare un senso vero al progetto sanitario. Anche attraverso la trasparenza del cantiere, dalle bonifiche agli appalti. Per non recriminare domani su quel che si doveva fare e non è stato fatto. E non far pagare ai cittadini altri inutili costi della politica.

La Repubblica Milano, 27 marzo 2014, postilla (f.b.)

Il cemento avanza, sfonda la seconda cintura dell’hinterland e ormai invade persino la terza. È come se i confini fossero quasi scomparsi e Milano e i Comuni limitrofi quasi un tutt’uno. E l’area metropolitana satura di asfalto e cemento. Il capoluogo lombardo — con solo Napoli che di un soffio riesce a far peggio — primeggia nella gara tra le città che consumano più suolo. Una sfida senza medaglie. E con la Lombardia che è una grande macchia nera che in questo primato, tutto negativo, sbaraglia tutte le altre regioni.

Ci pensa l’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, a fotografare l’andamento dal 1956 al 2012 del consumo di suolo. Sotto la Madonnina, la scomparsa di suolo libero è un fenomeno in crescita dagli anni Settanta: dal 42,8 per cento di terre mangiate nel ‘73, si passa al 58,3 per cento nel 1997 fino al 61,2 nel 2007. Per arrivare al 61,7 a fine 2012, ultimo dato ufficiale disponibile. E tra i peggiori, con la Lombardia che ha il 10 per cento di territorio irreversibilmente occupato da strade, capannoni, case. Che, contando montagne, laghi e dove non si può cementificare, non è poco, 261 i metri quadri di suolo consumato da ciascun abitante. Macome si è arrivati qui, a Milano? «La percentuale, inquietante, deriva da un’espansione urbana mal regolata o deregolata che avanza — spiega il ricercatore Ispra e responsabile del Rapporto, Michele Munafò — oltre che da una mancanza di programmazione strategica che non ha dato importanza alle funzioni del suolo anche per l’ecosistema.

E dietro, c’è la crisi di Milano città con la gente che tende a uscire, verso l’hinterland, e porta con sé l’infrastrutturazione del territorio». Per l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris è vero che Milano è stata cementificata nei decenni «ma nel Pgt abbiamo ridotto le volumetrie in un’ottica di conservazione». L’80 per cento dei Comuni lombardi ha in pancia 41mila ettari,oggi aree agricole, da urbanizzare. Una cifra enorme, se si pensa che in Lombardia negli ultimi dieci anni si sono mangiati 10mila ettari. Il primo colpevole è meno scontato del previsto: divorano più suolo le strade rispetto alle case. «Pedemontana, BreBeMi e Tem hanno provveduto a dare una botta, peraltro quando fai le strade è il prodromo di nuove urbanizzazioni — osserva il docente di Programmazione ambientale al Politecnico, Paolo Pileri — .

La crisi si pensa abbia messo in ginocchio l’edilizia ma in realtà questo non ha voluto dire un calo del consumo di suolo. Questo perché i Comuni continuano a mettere nei loro piani nuove aree da urbanizzare, Milano compresa: da Moratti a Pisapia il Piano di governo del territorio è stato asciugato, ma non ci sono dispositivi di legge e nemmeno la volontà che obblighino i sindaci a riutilizzare prima le aree dismesse ». Per invertire la tendenza, difatti, le ricette ci sarebbero. Senza toccare i livelli della Gran Bretagna, dove non si costruisce su nuovi terreni fintanto che i due terzi di aree abbandonate non vengano rimessi sul mercato, le chiavi sono diverse. Anche perché l’Europa impone di azzerare il consumo di suolo entro il 2050.

«Anzitutto il riuso di aree dismesse — dice Munafò — prima di costruire sul nuovo, si riqualifichi il vecchio che non si usa più. E poi il regolamento edilizio, nelle mani del Comune che ha il pallino della tutela del territorio. E, se proprio si deve cementificare, non si tocchino le aree agricole». Da tempo gli ambientalisti denunciano che la Lombardia sia «la cattedrale del cemento». E oggi esortano la Regione: «Siamo in emergenza — denuncia il presidente lombardo di Legambiente, Damiano Di Simine — il consiglio regionale ha in mano una proposta di legge di iniziativa della giunta che non è così male, va nella direzione giusta. La approvino presto».

postilla

A quanto pare, amministrazioni locali escluse (ed è qui il guaio), tutti concordano nel ritenere allarmante la continua e allegra espansione dell'urbanizzato metropolitano e regionale, anche in un'area ormai ampiamente satura come quella padana centrale. La vera questione però, indipendentemente dall'approvare o meno in tempi rapidi una legge che magari adotti virtuosamente il principio dell'approccio sequenziale di matrice britannica, è di definire qualche modello di sviluppo alternativo all'attuale. Non solo per le costruzioni, ma per l'idea di città società e attività economica oggi ancora legate mani e piedi al modello sviluppato dalle amministrazioni, di centrodestra e non, ad ogni livello. In altre aree sviluppate (ad esempio la spesso citata Silicon Valley) si è deciso di puntare sull'innovazione vera, quella di ricerca tecnologica e produttiva, lanciando politiche di polarizzazione urbana che si sostituiscano, anche nel modello industriale, allo sprawl novecentesco. Nella padania felix invece procede, come qualcuno osservava casualmente nell'articolo, il modello autostradale e disperso, salvo inventarsi proprio su quelle stesse nuove e micidiali autostrade le stazioni di rifornimento per auto elettriche. La sostenibilità retorica per gonzi insomma, e sotto il business as usual, con l'innovazione altrettanto ideologica della nuova trovata, che si chiama "Smart Land". Proprio così, lo slogan della smart city, già scivoloso di sé, traslato sui territori della dispersione, e guarda caso promosso dai medesimi interessi, a ben vedere dalle medesime persone, che si sono inventate la mitica città infinita. Andiamo proprio bene, con questa versione italiana del destrorso "new suburbanism" d'oltre oceano, e discutere di un ettaro in più o meno di prati di periferia destinati a trasformazioni urbane, ottime intenzioni a parte, scusate ma sembra l'ennesima presa in giro (f.b.)

Corriere della Sera Lombardia, 16 gennaio 2014, postilla (f.b.)

MILANO — C’è chi ha inventato un’applicazione per smartphone per far incrociare consumatore e azienda agricola. C’è chi ha creato una piattaforma web per le massaie che sono alla caccia di prodotti a chilometro zero. C’è chi ha ideato gli alveari urbani. E ancora: chi ha realizzato una piattaforma digitale di servizi e applicazioni per semplificare le attività in agricoltura, con l’obiettivo di ridurre lo spreco di risorse primarie. E chi ha dato vita a una community per incontrare nuovi amici a tavola. Nuove idee in campagna: vengono dagli agricoltori under 35, una nuova classe di imprenditori della terra che avanza sposando tradizione e creatività, zappa e palmare, tecnologia e sudore.

In Lombardia, i giovani contadini sono uno su 14, il 7,2% del totale, sono titolari di 3.520 aziende (start up e non solo) su un totale di 48.909. In cima alla classifica c’è la provincia di Como con il 12,5% (268 aziende su 2.150), seguita da Lecco con l’11,7% (131 su 1.122) e Sondrio con il 10,2% (268 su 2.621). Una generazione di agricoltori 2.0 che giocherà un ruolo chiave anche in vista dell’Esposizione universale del 2015, com’è emerso ieri al Tavolo agroalimentare di Expo, organizzato dalla Camera di commercio di Milano, nelle sale di palazzo Giureconsulti. Sviluppo sostenibile, salvaguardia dell’ambiente, buona e cattiva nutrizione, lotta alla contraffazione, guerra agli sprechi e innovazione tecnologica. Una lunga lista di sfide da vincere nel presente e nel futuro e su cui questa nuova generazione di imprenditori green costruisce i i progetti di lavoro delle proprie aziende.

Perché, nonostante il numero delle imprese «verdi» sia sceso, nella nostra regione, da 50.506 a 48.909 in dodici mesi, sempre di più i giovani ritornano alla terra, tanto che un nuovo agricoltore su quattro ha meno di 35 anni. Tradotto in cifre: si tratta di 227 su 963 nuove iscrizioni alle Camera di commercio, da gennaio a settembre 2013. Numeri da record, dunque. A cui si somma il fatto che i giovani imprenditori agricoli danno anche ossigeno all’occupazione: hanno infatti creato 3.968 posti di lavoro su un totale di 78.827 in Lombardia.

Ma è per colpa di una disoccupazione galoppante che i giovani riscoprono il fascino antico della campagna? «In questo periodo di crisi, fra i giovani lombardi c’è una forte propensione ad accostarsi a queste attività, più vicine alla natura e all’ambiente — osserva Giovanni Benedetti, della Camera di commercio di Milano —. E stimiamo che il loro numero possa continuare a crescere con l’approssimarsi dell’Expo. Perché l’evento del 2015, certamente, rappresenta un’opportunità per il settore agricolo. Così come i Tavoli Expo possono rappresentare un’opportunità per promuovere le start up e creare sinergie».

postilla

La domanda che chiude la serie delle interessanti statistiche proposte, racchiude in sé le due possibili alternative di sviluppo del fenomeno: da un lato la pura risposta, abbastanza casuale alla crisi, che assume forme tendenzialmente regressive, simili ad esempio all'apertura di negozi tradizionali destinati ad una vita breve di fronte alla concorrenza della grande distribuzione; d'altro canto, il solo fatto che si tratti di giovani “urbani” nelle aspettative, nelle aspirazioni, nella formazione di base, suggerisce qualcosa che va oltre il puro recupero di un'attività tradizionale e dei relativi territori. Non bisogna dimenticarsi che ad esempio anche il movimento per le città giardino si inserì in una grande ondata di “ritorno alla terra” e di assestamento insediativo e occupazionale alla fine di un arco di sviluppo industriale e urbano. Allo stesso modo nuove attività produttive primarie potrebbero segnare (con adeguate strategie pubbliche di orientamento) il confine tra il banale sprawl padano attuale e qualcosa di più simile all'integrazione delineata in teoria da Expo (f.b.)

la Repubblica, 26 novembre 2013, postilla (f.b.)

MILANO — Le autostrade in Lombardia hanno un nuovo padrone: l’alleanza formata dal gruppo Gavio e Intesa Sanpaolo ha preso il controllo di Tem, la spa che sta realizzando la nuova tangenziale est di Milano, un’opera da 2 miliardi di valore. Un anno fa, la stessa coppia in proporzioni diverse, aveva scalato Brebemi, l’autostrada che collegherà il capoluogo con Brescia (cantiere che vale altri 2 miliardi). E così le società a monte della Tem e di Brebemi, secondo il progetto di Gavio e Intesa, verranno fuse insieme e successivamente dovrebbero essere quotate sul mercato. Il gruppo Gavio tramite Sias avrà il ruolo di socio industriale e gestore delle due tratte autostradali, mentre Intesa Sanpaolo sarà il partner finanziario che a tendere dovrebbe collocare le sue quote a Piazza Affari.

È questo l’esito dell’assemblea che ha dato il via a un aumento di capitale di Tem da 96 milioni, non sottoscritto dalla provincia di Milano (presente nel capitale con la controllata Serravalle) e da Impregilo. La prima perché ha difficoltà di bilancio tanto da aver messo in vendita la sua quota di controllo proprio di Serravalle, la seconda perché ha deciso di cedere al gruppo Gavio la partecipazione in Tem e anche il pacchetto di lavori che avrebbe dovuto realizzare sulla tangenziale. Detto in altro modo: il socio pubblico oramai senza soldi lascia il posto ai privati, un modo per salvare sia il finanziamento pubblico a fondo perduto della provincia da 330 milioni, sia il valore strategico dell’infrastruttura che sarà realizzata prima dell’Expo. L’obiettivo è il controllo del 59,1% di Tem e la fusione di quest’ultima con Autostrade Lombarde, controllata al 13,4% da Gavio e al 42,5% da Intesa, titolare del 79%di Brebemi. E c’è anche chi si spinge a pronosticare che l’accoppiata Gavio-Intesa i potrebbe persino puntare sulla Pedemontana

A breve ci sarà l’aumento di capitale da 536 milioni per realizzare la terza grande opera infrastrutturale delle Lombardia, una superstrada da 4 miliardi che attraversa 94 comuni con 4 milioni di abitanti. Un’opera ambiziosa e i cui rapporti di forza potrebbero cambiare se Serravalle, che controlla il 76,42% della società, non sottoscrivesse la sua parte. Il gruppo Gavio, che tramite la non quotata Itinera parteciperà anche alla realizzazione di 300 milioni di lavori (un decimo di tutte le opere previste per Tem e Brebemi), ha reinvestito sulle autostrade italiane tutti i 565 milioni realizzati nel 2011 dalla cessione delle attività cilene, andando a insidiare il suo primo rivale, ovvero la Atlantia che fa capo alla famiglia Benetton. Due anni fa il gruppo di Tortona aveva speso 225 milioni per rilevare proprio da Atlantia la tratta Torino-Savona e ora ha puntato altri 300 milioni sulla tangenziale esterna, che una volta che sarà collegata alla Brebemi, diventerà una valida alternativa alla A4, uno dei gioielli della corona delle concessioni del gruppo Benetton, che solo qualche anno fa aveva allargato la tratta fino a Bergamo a quattro corsie. E mentre Atlantia che in Italia è leader, ha deciso di investire sempre più all’estero, Gavio ha invece ceduto le attività in Sudamerica per completare la sua rete a livello nazionale.

postilla
Chi segue da un po' di tempo l'evoluzione di questo sito eddyburg.it forse non ha dimenticato il definirsi per tasselli successivi di un disegno di scala territoriale e infrastrutturale vasta, la vera e propria fabbrica dello sprawl, che conglomera interessi compositi attorno al modello autostradale. Il quale modello non è solo o tanto questione di impatti locali (le sei o otto corsie che rovinano il paesaggio della cascina o tagliano fuori una frazione dal capoluogo comunale) ma una vera e propria filosofia di sviluppo. Alla base di qualunque vera strategia di contenimento dei consumi di suolo, sta il controllo delle forme di urbanizzazione, e questo controllo sta in una pianificazione in grado di affrontare alla scala adeguata le sfide: questa scala è quella della megalopoli, o della macroregione come l'hanno chiamata i candidati del centrodestra alle ultime elezioni. Sfottuti stupidamente da chi non capiva la posta in gioco, e ha anche per questo malamente perduto, lasciando libero campo agli interessi particolari sostenuti da chi tiene saldamente il potere. E continuerà a tenerlo, finché non si capisce di cosa parliamo quando parliamo di territorio, modernizzazione, ambiente ecc. (f.b.)


Solo per citare alcuni dei "tasselli" evocati all'inizio: il sistema degli insediamenti industriali a grappolo nel Cuore Verde della Megalopoli, oppure il progetto di Sistema autostradale padano meridionale che lo alimenta, o il demente (ma solo se lo si legge coi paraocchi) Raccordo Trasversale con la linea pedemontana.

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