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«». Ecco le proposte concrete per uscire dalla crisi promuovendo il lavoro attraverso un forte intervento pubblico liberato dai "lacci e lacciuoli" del Mercato. Sbilanciamoci. info

La retorica dei governi insiste sulla ripresa. Ma la realtà dell'Europa è la stagnazione dei paesi «forti» e la depressione nella «periferia». Germania a parte, la crescita del Pil nel 2014 sarà sotto l'1% nei maggiori paesi dell'eurozona, l'Italia retrocessa allo 0,5%, la Grecia sempre sottozero.

Il senso di quello che sta succedendo ce lo dà l'industria: rispetto al 2008, l'Italia ha perso un quarto della produzione; Spagna, Grecia e Portogallo sono cadute ancora più in basso; gravi perdite si contano in Francia, Olanda, Finlandia e Irlanda. Questa distruzione di capacità produttiva in mezza Europa – il risvolto del successo tedesco – mette in discussione le fondamenta dell'integrazione europea più della crisi del debito o del salvataggio di qualche banca. Quale può essere l'interesse di un paese a «restare in Europa» quando le politiche europee cancellano un quarto delle fabbriche e dei posti di lavoro?

Se si vuole evitare questo deserto, è indispensabile un ritorno della politica industriale, che è stata essenziale nel novecento per la crescita dell'Europa e che trent'anni di neoliberismo hanno messo al bando in nome dell'efficienza del mercato. A mezza bocca l'ha capito anche Bruxelles, che parla di "Industrial Compact". In Francia il ministro Montebourg si sforza di limitare le delocalizzazioni e sostenere, con capitali pubblici e soci stranieri, imprese come la Peugeot. Ma le proposte più innovative pensano a una politica industriale a livello europeo, con risorse comuni investite soprattutto nei paesi in difficoltà. In questa direzione vanno le iniziative della Dgb, la confederazione sindacale tedesca e la versione un po' annacquata proposta dalla Confederazione europea dei sindacati.

Guarda più avanti la proposta di Sbilanciamoci! e EuroMemorandum di una ricostruzione della capacità produttiva a scala europea. Si potrebbe investire il 2% del Pil europeo per dieci anni in nuove produzioni – pubbliche e private – in tre settori prioritari: la conversione ecologica dell'economia, con abbattimento delle emissioni, energie rinnovabili e risparmio energetico; le tecnologie dell'informazione e le loro applicazioni; il sistema della salute, dell'assistenza e del welfare. Tre quarti degli investimenti potrebbero andare nella «periferia», il resto nelle regioni arretrate dei paesi del «centro». I fondi potrebbero venire dalla Bce, da Eurobond e dalla Bei, oppure da nuove entrate – una tassazione europea dei profitti, della ricchezza o delle transazioni finanziarie. A deliberare il piano il Parlamento europeo; a decidere su quali progetti spenderli un'Agenzia europea per gli investimenti dove non siedono banchieri, ma si raccolgono competenze economiche, organizzative, sociali e ambientali. A realizzare gli investimenti, imprese o soggetti pubblici locali, con uno stretto monitoraggio.

Un programma di questo tipo darebbe uno stimolo alla domanda e ci farebbe uscire dalla depressione. Porterebbe a nuove attività e posti di lavoro nei settori e nei luoghi «giusti». E ridarebbe un ruolo all'azione pubblica, rovesciando trent'anni di privatizzazioni che non hanno prodotto né sviluppo, né efficienza. Proprio qui sta il problema: si può davvero tornare a un forte intervento pubblico nell'economia? Fabrizio Barca, in queste pagine, sceglie ancora il mercato rispetto a una pubblica amministrazione incapace. Ma è sicuramente possibile avere un controllo democratico sulle scelte d'investimento senza regalare potere ai partiti. Organizzare lo sviluppo senza collusioni e corruzione. E, soprattutto, trovare una risposta più giusta alla domanda su che cosa produciamo, come, e per chi.

postilla

Le proposte di Sbilanciamoci sostanzialmente coincidono conquelle della lista ”L’Altra Europa con Tsipras”. Si tratta, in definitiva, difar esprimere la domanda di lavoro (quindi la produzione) non dal mercato, comepropone Fabrizio Barca, ma da una domanda che nasce dalla società e dai suoidisegni più urgenti ed è espressa dal potere pubblico. Si tratta, quindi, diuna ripresa del new deal rooseveltiano dei primi anni 30 e del “piano dellavoro” proposto dalla CGL di Giuseppe di Vittorio nel 1946. Questa propostatrova maggiore forza argomentativa se si ricorda che la decadenzadell’industria italiana iniziò proprio quando, a partire dagli anni 70 delsecolo scorso, l’industria “avanzata” italiana, a partire dalla Fiat e dallaPirelli, dirottò il suo interesse dalla produzione industriale (che avrebberichiesto investimenti nella ricerca e nell’innovazione) preferendo i fruttuosipascoli delle rendite immobiliari e finanziarie. Le risorse necessarie per realizzareun rinnovato news deal si possono trovare dunque proprio restituendo alpubblico la ricchezza affluita alle rendite; oltre, naturalmente, riducendopesantemente le spese per gli armamenti.

Di invecchiamento medio della popolazione si parla ormai da decenni, ma sembra che nonostante tutto l'unica reazione importante sia quella di escogitare nuovi prodotti ad hoc per anziani, scordandosi che la questione riguarda, per forza, tutti.

La Repubblica, 1 maggio 2014, postilla (f.b.)

Dal rinascimento delle bocciofile ai corsi per capire l’Ipad riservati agli over 65, dal boom delle crociere per soli nonni all’esplosione del turismo religioso: ecco i cento piccoli indizi che raccontano quanto stia diventando olders oriented la società italiana. Una mutazione inevitabile in un paese di diversamente giovani dove nel 2020 si venderanno più pannoloni che pannolini. La conseguenza più importante dell’invecchiamento della popolazione è economica e culturale: gli ex baby boomers, i nati tra il 1946 e il 1964 che avevano cambiato la società tra gli anni Sessanta e gli Ottanta, tornano a rivoluzionare le abitudini di oggi, trasformando il nostro in un mondo di anziani al potere.

È l’Economist a segnalare il «miliardo di sfumature di grigio » che sta per governarci. Un miliardo di ultrasessantacinquenni che nel 2035 avrà saldamente in mano le leve che contano nel pianeta. E sarà sempre meno disposto a cederle. Perché soprattutto i lavoratori qualificati e di esperienza in un mondo di anziani, saranno sempre preferiti a giovani con minore esperienza e minori rapporti. Tendenze che in Italia si esasperano: i dati di Eurostat spiegano che la Penisola è il paese che è invecchiato di più tra quelli europei nei venti anni tra il 1991 e il 2011. L’Italia è seconda solo alla Germania come percentuale di ultrasessantacinquenni (da noi sono il 20,3 per cento) ma i giovani tedeschi tra il 15 e i 24 anni sono l’11,2 per cento mentre i giovani italiani rappresentano solo il 10 per cento.

«Il potere degli anziani? In Italia nella scelta dei dirigenti conta molto l’esperienza e la rete di rapporti che ciascuno porta con sé. Nel resto del mondo questo è certamente un elemento di valutazione ma non è l’unico: è messo sullo stesso piano di altri come la capacità di leadership o l’abilità nel prendere decisioni di fronte a cambiamenti improvvisi». Parla così Antonio Baravalle, oggi amministratore delegato di Lavazza, negli anni scorsi alla guida di Alfa Romeo, uno dei Marchionne boys chiamati a rivoluzionare i protocolli sabaudi del Lingotto: «Quando siamo arrivati in Fiat ci guardavano come fossimo bambini ma eravamo già sui quarant’anni».

La società degli anziani cambia la vita di tutti. I primi ad accorgersene sono stati i politici. Fin dagli anni Novanta soprattutto il centrodestra ha spinto sul tasto della sicurezza, uno dei talloni d’Achille di chi non si sente più in forze. È in quell’epoca che nacque il concetto di «insicurezza percepita», a dispetto della discesa dei dati sulla criminalità. È insicuro soprattutto chi è solo. Gian Pietro Beghelli racconta come nacque l’idea del «Salvalavita», il sistema automatico di chiamata di soccorso e antintrusione: «Siamo nati e cresciuti in provincia. Vedevamo queste coppie di anziani che trascorrevano una vita insieme. Poi, quando uno dei due veniva a mancare, l’altro finiva in una casa di riposo pur essendo ancora autosufficiente. E toglierti dalla tua abitazione, dove hai sempre vissuto, ti fa invecchiare ancora di più. Per combattere questo malessere è nata l’idea dell’apparecchio».

Ci sono anche conseguenze più piacevoli dell’invecchiamento. «Abbiamo cambiato prodotti e modo di venderli», racconta Francesco Cecere, direttore marketing di Coop Italia. Un mondo che invecchia, spiega Cecere, «mangia meno proteine, sceglie cibi più leggeri e in quantità ridotte. Così sono in crescita le vendite di monoporzioni (per i singles, non solo anziani) e aumenta la quantità di carne bianca sugli scaffali rispetto a quella rossa». Cambiano anche gli scaffali: «Sono meno alti così come stanno diventando più piccoli e maneggevoli i carrelli». Il problema principale è che a una certa età non si ha la forza di guidare l’automobile e di portare la spesa a piedi per molti isolati: «Alla Coop abbiamo cominciato a fornire il servizio di trasporto a casa per gli anziani con difficoltà motorie».

Il marketing si adatta ai capelli grigi. Gianluigi Guido, docente all’Università del Salento, ha recentemente pubblicato per Il Mulino un saggio sul Comportamento di consumo degli anziani, passando in rassegna tutti gli studi compiuti sull’argomento negli ultimi quarant’anni. «Si fa in fretta a dire anziani», premette il professore. E ricorda i quattro senior- tipo secondo gli studiosi di marketing. Sono gli eremiti in buona salute, i socievoli acciaccati, i fragili reclusi e gli indulgenti in forma. Questi ultimi sono i consumatori migliori, quelliche hanno molto in comune con un’altra categoria costruita dai sociologi, gli anziani new age: «Normalmente — spiega Guido — una persona di età superiore ai 65 anni senza particolari problemi di salute si comporta come se avesse sette anni di meno. Gli anziani new age vivono come se avessero dodici anni meno della loro età». Sono loro la pacchia di chi vende: «In genere non badano a spese». Il loro giovanilismo li spinge a coronare sogni che i ventenni non possono permettersi: moto di grossa cilindrata, apparecchiature elettroniche costose. All’opposto sono i nostalgici, quelli che ascoltano una musica di gioventù e comperano il prodotto abbinato. Tra qualche anno vedremo gli spot delle dentiere con il jingle dei Rolling Stones.

Il marketing dice molto dei cambiamenti indotti dall’invecchiamento ma non tutto. «Il nodo vero — osserva il sociologo Bruno Manghi — è quello del potere. Soprattutto in Italia il potere si trasmette per cooptazione e spesso i giovani non sono capaci di rompere il meccanismo». Per questo per decenni in alcuni settori come quello bancario gli ottuagenari l’hanno fatta da padroni. E molti non hanno la forza di compiere il gesto di Diocleziano che ricostruì l’impero e poi abdicò ritirandosi nel suo palazzo di Spalato. Quando i figli tornarono a chiedergli di riprendere il potere, rifiutò: «Se voi sapeste come sono buoni i cavoli che crescono nel mio orto, non mi fareste una proposta simile ». Chi ha il coraggio di imitarlo?

postilla
Pare davvero incredibile che anche da un resoconto di respiro piuttosto ampio come quello dell'articolo manchi completamente la prospettiva secondo cui anziani lo diventano tutti, e sempre più tutti. Ovvero che l'allungamento della vita riguarda appunto la vita, non il potere e i consumi che questo potere (economico o altro) garantisce. Si dimentica in modo allegrone ai limiti del rimbecillimento (affatto senile) che riuscire a campare discretamente non è affatto frutto di potere o consumi, ma dei decenni di investimento pubblico in welfare: salute, servizi, ambiente, qualità della vita e dell'abitare, roba che non si compra, che non si può comprare. Non è un caso se, come dimostrano sempre più studi sociali sviluppati senza certe fette di salame sugli occhi, certi modelli abitativi sciagurati del '900, in primo luogo quelli della dispersione urbana o del quartiere segregato, e in generale il territorio macchina per produrre, si adattano malissimo ad esempio a chi ha superato una certa fase della vita, e per riflesso anche a chi non corrisponde a quel modello genericamente giovanilista produttivo conformista su cui continuano a costruirsi le retoriche della cosiddetta competitività applicata ad ogni aspetto dell'esistenza. Qualcuno, anche tra i progettisti di spazio e servizi e trasporti, sta iniziando a intuire questa necessità di trasformazione epocale, ma è ancora troppo poco, tra le tante cose da capire davvero c'è anche che La Città è un Buon Posto in cui Invecchiare (f.b.)


Articolo pubblicato su l’Unità del 16 novembre 1990 in seguito all’annuncio del ministro del Lavoro Carlo Donat Cattin che l’Olivetti avrebbe 4.000 lavoratori in esubero negli stabilimenti italiani e 3.000 in quelli all’estero, destinati a essere licenziati. L’articolo di Paolo Leon citato all’inizio è intitolato "C’è recessione e bisogna dirlo" ed è stato pubblicato su «l’Unità» del 14 novembre 1990. Il brano fa parte della raccolta "La Tipo e la notte. Scritti sul lavoro". curata da Francesco Marchianò, con un saggio di Stefano Rodotà e uscito nel 2013 per i tipi Ediesse nell’ambito della collana "Carte Pietro Ingrao

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Le persone e gli esuberi

Ho letto mercoledì su «l’Unità», in un editoriale di un economista che stimo, Paolo Leon, che gli «esuberi» (questa è la parola usata) alla Olivetti italiana sono quattromila. Gli esuberi: cioè quelli o quelle che all’Olivetti dovranno lasciare il lavoro. Gli esuberi: cioè le quantità esuberanti. Quelli che devono lasciare il lavoro sono una quantità esuberante. A conoscerli direttamente quelli che devono lasciare il lavoro sono – a seconda dei casi – biondi o bruni, irosi o calmi, alti, bassi. Si chiamano Giulio, Antonio, Luisa, Marco. Giovanna. Un giorno, un mattino, improvvisamente, essi diventano degli «esuberi».

Questi Giulio, Luisa, Marco sono non soltanto alti, o biondi o bruni: sono anche una determinata capacità lavorativa, e – alla Olivetti – un sapere molto qualificato: un sapere umano, fatto di mente, occhio, mano, tecnica, memoria, emozione, volontà. Un mattino si svegliano e si trovano quantità. Il loro essere bruni o biondi, il loro sapere – pure così moderno – si dissolvono. L’azienda non sa più che farsene. L’Ingegnere dice: non dipende da me. Essi sono un «esubero». La sorte che tocca a Giulio, Antonio, Luisa sta fuori di loro stessi: li trascende. Altri dicono invece: c’è stato nell’azienda uno sbaglio di strategia. Se è così, uno sbaglio di strategia dell’azienda porta esseri umani ad alta qualifica lavorativa a diventare degli esuberi. Altri invece dice che la causa è il «mercato». Se è cosi, la fonte che rende esuberi è ancora più lontana, spostata fuori, indifferente alla sorte di Giulio, Luisa, Antonio. E Giulio, Luisa, Antonio non hanno nemmeno la possibilità di prendersela con qualcuno, perché gli rispondono: è la congiuntura, o – come diceva l’articolo de «l’Unità» – la fase di recessione.

Si potrebbe dire che Giulio, Luisa. Antonio, di fronte alla congiuntura e all’azienda dell’Ingegnere, diventano «cosa». Qualcuno, esterno a loro, li riduce a «cosa». Oppure è come se venisse una pioggia, o un temporale che si è accumulato. Ma la pioggia e i temporali oggi i meteorologi sanno prevederli. Era prevedibile il temporale alla Olivetti? Forse sì. Allora, in questo caso, ricorriamo a un’altra immagine: potrebbe esserci stato un sisma di non si sa quanti gradi. In ogni caso: una irruzione esterna a Giulio, Luisa, Antonio, che li riduce a «cosa». Attenti però. Ci assicurano che gli esuberi non si troveranno senza un soldo. Ci sarà, pare, forse il prepensionamento. E lasciamo da parte da dove verranno i soldi per prepensionare.

Gli esuberi potranno quindi tornare a casa: riposare, portare a spasso i nipotini. O anche lavorare altrove o per proprio conto, con quella abilità del tecnico, dell’impiegato, dell’operaio qualificato che io non ho. E quindi anche, forse, guadagnare qualche quattrino in aggiunta alla pensione. Che si vuole di più? Perché allora – come sembra – alcuni di questi tecnici od operai sono in collera? Perché si sono sentiti, appunto, bruscamente, violentemente, «esuberi»; perché non hanno scelto loro di andare a casa. Altri ha detto: non servite più; siete esuberi. Cioè: cosa, quantità, numeri.

Non è così semplice apprendere da un giorno all’altro che uno è cosa, quantità, numero. Al mattino, gli uomini quando si fanno la barba, si guardano allo specchio. Cercano di scrutare il proprio viso. È una storia curiosa questa di farsi la barba: uno guarda la sua faccia. Io mi faccio male la barba: quasi tutte le volte. Mi restano sempre dei peli non rasati, perché mi distraggo a guardare nello specchio me stesso, domandandomi: che razza di tipo sono? Temo che alcuni di quei prepensionati – almeno per un po’ di tempo – si faranno male la barba. Essi, che si sono sentiti esuberi, si guarderanno negli occhi; e quindi alcuni peli, distrattamente, non verranno rasati. Quello che provano le donne diventando esuberi, e non facendosi la barba, lo possono raccontare solo loro. Ma alcuni pensieri – proprio di loro: donne che tornano a casa – qualcuno può anche immaginarli.

Io potrei invece raccontare delle testimonianze di «cassintegrati » FIAT degli anni Ottanta, che ho letto e che ho presentato in un libro. Il fatto che più colpiva, leggendo quelle testimonianze, era il tentativo angoscioso di restare aggrappati alla fabbrica. Eppure la FIAT non è dolce. Era per bisogno di lavoro? Sì. Ma mi sembra non solo per bisogno di pane: anche – e parecchio – per sentirsi parte di un fare e un sapere collettivo. Anche dopo, essendo in CIG (Cassa integrazione guadagni), volevano restare insieme. Sembravano avere una paura folle, proprio folle, di disperdersi: più esattamente di frantumarsi.

Esuberi. CIG. Che strano vocabolario. Non già Giulio, Antonio, Luisa, Laura: esuberi, CIG. Un mio amico poeta, Cesare Viviani, ha scritto un bellissimo libro di poesie, che ha un titolo significativo: Preghiera del nome. Perché, di fronte agli «esuberi», non dovrei sentirmi comunista? Io speriamo che me la cavo, come diceva quel bambino napoletano, nel libro di Dall’Orta. Ma non posso lamentarmi. Io posso firmare questo articolo col mio nome.

«L’introduzione di un reddito minimo per i poveri di tipo non categoriale è stata cancellata dall’agenda politica. Il Governo Renzi si interessa solo di lavoratori con scarso reddito o disoccupati. Dimenticando chi non è mai entrato nel mercato del lavoro»

. da www.lavoce.info, 11 aprile 2014 (m.p.r.)

Solo lavoratori e disoccupati.

L’introduzione di un reddito minimo per i poveri di tipo non categoriale sembra di nuovo sparita dall’agenda politica. Rimandata dal Governo Letta a un lontano futuro, a favore della carta acquisti riservata solo, in via sperimentale, a una categoria di poveri così ristretta e cervelloticamente definita che i comuni fanno fatica persino a individuarli (come hanno ammesso anche Maria Cecilia Guerra e Raffaele Tangorra), nonostante l’evidenza dell’aumento della povertà assoluta, non fa parte delle riforme radicali che questo esecutivo ha in mente. Tra le tante raccomandazioni europee, è quella più ignorata, anche a parole, ancora più delle pur trascuratissime politiche di conciliazione tra responsabilità famigliari e lavorative.

A onor del vero, un accenno si trova nel disegno di legge delega “Disposizioni in materia di ammortizzatori sociali, servizi per il lavoro e politiche attive”, in cui dovrebbe concretizzarsi il promesso jobs act renziano. Ma si tratta dell’ennesima misura categoriale. All’articolo 1, comma 5 (che segue il comma sulla generalizzazione, in prospettiva e in via sperimentale, dell’Aspi), si legge: “eventuale introduzione, dopo la fruizione dell’Aspi, di una prestazione, eventualmente priva di copertura figurativa, limitata ai lavoratori, in disoccupazione involontaria, che presentino valori ridotti dell’indicatore della situazione economica equivalente, con previsione di obblighi di partecipazione alle iniziative di attivazione proposte dai servizi competenti”. Ovvero, solo coloro che hanno perso il diritto all’Aspi e sono poveri potranno forse ottenere un sussidio. Coloro che non sono mai riusciti, per motivi diversi, a trovare un’occupazione che facesse loro maturare il diritto all’Aspi, ne sono esclusi e con loro anche le loro famiglie. Queste non vengono effettivamente “viste”, salvo che come base di calcolo dell’Isee.
A ben vedere, ciò che si propone qui è ciò che esisteva in Germania prima della riforma Harz del 2000: un sussidio di disoccupazione di secondo livello, destinato appunto ai disoccupati poveri che avevano perso il diritto alla indennità di disoccupazione standard senza aver trovato una nuova occupazione. Ma in Germania esisteva, ed esiste tutt’ora dopo l’eliminazione dell’indennità di secondo livello, una misura di reddito minimo per chi si trova in povertà, distinta dall’indennità di disoccupazione e senza il requisito della perdita del diritto a questa, ma solo sulla base del reddito famigliare. Non si capisce la logica per cui si introdurrebbe il secondo livello, che non esiste ormai da nessuna parte, mentre continua a mancare una misura di sostegno al reddito per tutti coloro che si trovano in povertà, che viceversa esiste nella quasi totalità dei paesi UE ed è specificamente raccomandata dalla UE stessa, a partire dal lontano 1992.
Mettendo insieme questa norma e quanto annunciato nel Dpef relativamente alla riduzione dell’Irpef per i lavoratori dipendenti a basso reddito (individuale? famigliare?), se ne deduce che i poveri “meritevoli” sono solo i lavoratori che guadagnano poco e coloro che hanno perso un lavoro che ha dato loro, per un certo tempo, accesso all’indennità di disoccupazione. Mamme sole costrette a presentarsi sul mercato del lavoro per la fine di un matrimonio, donne e uomini che non sono mai riusciti ad avere una occupazione nel mercato del lavoro formale, e i loro famigliari, continueranno, come già avviene per la social card sperimentale, a essere considerati immeritevoli di sostegno.

Un ritorno all'Ottocento

Nella delega, il requisito dello status di disoccupato che ha esaurito il diritto all’Aspi per ottenere sostegno economico sembrerebbe contraddetto dal successivo comma 6, dove si propone “l’eliminazione dello stato di disoccupazione come requisito per l’accesso a servizi di carattere assistenziale”. Dato che non posso pensare che chi ha scritto i commi si sia distratto, temo che si tratti non di un allargamento delle norme di accesso all’assistenza economica, ma di una restrizione, per altro legittima, all’accesso ad altre prestazioni assistenziali: non basterà più essere disoccupati per avere l’abbonamento scontato sui mezzi pubblici o per non pagare i ticket sanitari. Occorreranno anche altri requisiti, in primis di reddito.

Per avere assistenza economica, tuttavia, non basterà essere poveri ed essere disponibili a mettere in opera tutte le attività necessarie per migliorare le proprie chances occupazionali. Occorrerà, appunto, anche aver perso il lavoro ed esaurito l’Aspi.Un’ultima osservazione: mentre si identificano i soli disoccupati come possibili beneficiari si assistenza economica, si dà una interpretazione assistenziale anche della indennità di disoccupazione, o Aspi. Al punto c del comma 6, infatti, si propone di individuare meccanismi che prevedano un coinvolgimento attivo dei soggetti beneficiari sia di Aspi che del sussidio di secondo livello, al fine di favorirne “l’attività a beneficio delle comunità locali”. Non solo l’assistenza, anche la previdenza sono così trasformate in beneficenza da contraccambiare con lavoro gratuito, neppure con i discussi e discutibili mini-jobs imposti agli assistiti in Germania. Più che la(s)volta buona, sembra piuttosto un ritorno all’Ottocento.

«I robot sono dietro l’angolo, ma «le strategie manifatturiere costruite sul risparmio di costo del lavoro stanno diventando fuori moda». Le variabili in gioco sono di più e sono più complesse». La

Repubblica, 13 aprile 2014

IL FENOMENO è mondiale, dall’America all’Europa. Negli Stati Uniti, fa addirittura parlare di rinascita dell’industria manifatturiera nazionale. Forse, gli americani esagerano. I numeri, però, cominciano ad essere indicativi, dice Luciano Frattocchi, dell’università dell’Aquila. Insieme a colleghi di Catania, Udine, Bologna, Modena e Reggio, Frattocchi ha costruito un gruppo di ricerca — UniCLUB MoRe — che tiene il conto. Negli Usa, sono ormai 175 le decisioni di rimpatrio, totale e parziale, di produzione. Ma dopo gli Usa, la classifica mondiale dei ripensamenti vede le aziende italiane, con un’impennata a partire dal 2009. Sono 79 unità produttive, che coinvolgono una sessantina di aziende. Circa il doppio di quanto si registra in Germania, in Gran Bretagna o in Francia. In un momento di diffusa paralisi del sistema industriale italiano, le condizioni a cui questi rimpatri avvengono, le loro motivazioni, le scelte strategiche che sottintendono riescono a dire molto, già oggi, di come potrà essere la ripresa prossima ventura dell’economia italiana.

Sulla Riviera del Brenta, non lontano da Verona, Gianni Ziliotto è sul punto di lanciare un progetto ambizioso per la B. Z. Moda. Produce scarpe da donna di fascia media (100-150 euro al paio) che esporta al 100%, soprattutto in Nord Europa. L’azienda è piccola — circa 11 milioni di euro il fatturato — ma Ziliotto pensa in grande. Rimpatriare il grosso della produzione dal Bangladesh e dalla Cina e puntare sui robot. «Si tratta di automatizzare 6-7 operazioni ripetitive, che oggi fanno solo gli extracomunitari » precisa. «Avremmo, invece, bisogno di periti e ingegneri ». É un investimento che si mangia, da solo, l’8-10% del fatturato e, per questo, Ziliotto si muove con i piedi di piombo. Ma è questa la strada maestra che sembrano indicare le ristrutturazioni che, nel mondo, America in testa, accompagnano il rimpatrio delle aziende. Il differenziale fra i salari cinesi e quelli occidentali non è più ampio come qualche anno fa e l’automazione consente di abbatterlo anche in patria. Insieme ai costi di trasporto è una delle motivazioni principali che spinge le imprese al “back-reshoring”, come lo chiamano Frattocchi e colleghi. «L’effetto netto sull’occupazione è che i posti di lavoro che si recuperano — conferma Frattocchi — non sono uguali, né per quantità, né per professionalità, a quelli che si erano persi originariamente con la delocalizzazione ». Del resto, i consulenti della McKinsey, la bibbia delle aziende, calcolano che, entro dieci anni, fra il 15 e il 25% dei posti di lavoro operai saranno occupati dai robot.
Eppure, se questo è un asse del futuro vicino, non è l’unico. Ce lo spiega la stessa bibbia McKinsey:
i robot sono dietro l’angolo, ma «le strategie manifatturiere costruite sul risparmio di costo del lavoro stanno diventando fuori moda». Le variabili in gioco sono di più e sono più complesse. Lo indica lo stesso fenomeno del back-reshoring italiano. A scappare erano state soprattutto le aziende del ciclo tessile-abbigliamento-calzature, colpiti al cuore dalla concorrenza dei salari cinesi o vietnamiti. Ma anche il grosso delle imprese italiane che tornano — quasi la metà — sono di quel settore. E meno del 14% motiva il cambio di strategia con i parametri di costo del lavoro. In media, nel mondo, quelli sono, invece, i fattori decisivi in quasi il 20% dei casi. Cosa spinge, allora, le aziende italiane dei jeans, delle borse e delle scarpe a ritentare l’avventura italiana?

Piquadro, 60 milioni di euro di fatturato negli accessori e nella pelletteria, oggi realizza l’80% della sua produzione in Cina e il 20% in Italia. Recentemente, tuttavia, ha deciso di riportare in Italia i prodotti della gamma più alta. «Li abbiamo affidati, come sempre — spiega l’amministratore delegato, Marco Palmieri — a terzisti, ma stiamo pensando di aprire, in collaborazione con loro, una vera e propria fabbrica nostra, qui nella nostra zona tradizionale, l’Appennino tosco-emiliano». Il motivo si può riassumere nella qualità della produzione artigianale più sofisticata che, in Italia, raggiunge la massima espressione e che è impensabile di trovare in Cina. É la stessa molla che, l’anno scorso, ha convinto un’altra azienda di accessori, la Nannini di Pontassieve a riaffidare a fornitori italiani tutta la propria linea in pelle. La qualità, però, non è l’unico elemento su cui insiste Palmieri. «Noi — dice — vogliamo avvicinarci alle esigenze del cliente. Oggi, uno, sul nostro sito, si può costruire un prodotto tutto per sé, secondo il proprio particolarissimo gusto. E sempre più queste vendite tailor-made online si faranno in futuro. Ora, noi abbiamo sempre usato, per i nostri prodotti, pellami italiani. Cosa facciamo? Prendiamo il pellame, lo spediamo in Cina e poi, quando la borsa è pronta, la reimportiamo in Italia? Magari il cliente si stufa». Quelli della McKinsey ne parlano come di corsa all’“in-time delivery” ed è un altro dei motivi centrali del rimpatrio di molte aziende.
Il 42% delle aziende censite da UniCLUB dichiara come decisivo per il rimpatrio l’effetto “made in”, made in Italy, nel caso. Una forma di “branding” nazionale, per dirla alla McKinsey, che schiude porte e spiana strade ed è una delle carte decisive della ripresa. Frattocchi racconta di un’azienda, ANDcamicie, che produce camicie in Cina e che è stata avvicinata da un imprenditore cinese che vorrebbe distribuire i prodotti AND in 40 diversi centri commerciali. Ad una condizione, però: che siano certificate come prodotte in Italia. A vendere camicie italiane made in China non ci pensa neanche.

Finalmente una proposta sensata e concreta per uscire dalla crisi, ispirata da Luciano Gallino e proposta dai parlamentari di SEL. Non solo le cose da fare ma anche le risorse da impiegare. Sarebbe l'inizio di un'inversione di tendenza, possibile se il PD fosse diverso.

Greenreport, 27 febbraio 2014, con postilla

Dall’opposizione Sinistra ecologia libertà prova a inserirsi in grande stile nel dibattito sulle prime misure economiche annunciate dal nuovo presidente del consiglio Matteo Renzi. Ieri Giorgio Airaudo ha presentato la proposta di legge per la «istituzione di un programma nazionale sperimentale di interventi pubblici denominato «Green New Deal italiano» contro la recessione e la disoccupazione», da attuare tramite l’istituzione di una Agenzia nazionale per gli anni 2014-2016.

Airaudo, presentando la proposta, ha ricordato i dati sconvolgenti pubblicati dall’Istat nell’ottobre 2013, quando i disoccupati erano arrivati a 3.189.000 e ha evidenziato che con queste cifre, anche «se il quadro economico mutasse e vi fosse un boom, occorrerebbero non meno di 15 anni per riportare l’occupazione a livelli che si possano considerare fisiologici e non si riuscirebbe comunque a tornare ai livelli precedenti (ad esempio al dato del 2005, che ha costituito l’anno migliore del nuovo secolo per l’occupazione nei Paesi Ue), tenendo presente che la maggior parte delle imprese stanno provvedendo a sostituire in misura e rapidità crescente il lavoro umano con varie forme di automazione».

Sel parte da una convinzione che è l’esatto contrario della ricetta neoliberista: «È l’occupazione che genera sviluppo, non il contrario. I dati relativi al tasso di disoccupazione nel nostro Paese mostrano un quadro di assoluta gravità che continua a peggiorare. Si tratta di una vera e propria emorragia di posti di lavoro, che colpisce gli under 30, ma non di meno tutte le altre fasce di età. Quello che più turba è l’enorme crescita di quanti si dicono “scoraggiati”, che hanno smesso di cercare lavoro perché ritengono di non trovarlo. La disoccupazione continua a crescere anche nell’ambito del lavoro precario, a riprova del fatto che la scelta di favorire contratti non a tempo indeterminato ha poco o scarso impatto sul problema occupazionale, mentre priva i lavoratori di molti diritti fondamentali».

Airaudo, in una conferenza stampa con Luciano Gallino, vero ispiratore del Green New Deal, ha detto che l’obiettivo della proposta di legge è quello di «creare 1 milione e mezzo di posti di lavoro in tre anni, impegnando circa 17 miliardi, con lo Stato che diventa datore di lavoro di ultima istanza». Si tratta della trasposizione in proposta legislativa di quell’Agenzia per l’occupazione ipotizzata da tempo dal sociologo torinese, che ha descritto più di un anno fa anche sulle pagine di greenreport.it.

Gallino ha dunque sottolineato che «la priorità di questo Paese è il lavoro, che è una cosa molto concreta che richiede risposte precise. Se ci si affida al mercato e agli incentivi è impossibile risolvere il problema della disoccupazione». Per Gennaro Migliore, capogruppo di Sel alla Camera, il Green New Deal italiano sarebbe «uno choc positivo per l’economia che però dovrà avere effetti benefici anche sull’ambiente e non devastarlo. Anche la competitività delle imprese italiane non verrebbe intaccata dall’impegno pubblico. Non si può affidare al mercato quello che il mercato non vuole e non può fare».

Ma dove prendere i soldi? 17 miliardi di euro non sono così pochi, di questi tempi. Airaudo ha però puntualizzato subito che «la copertura dell’investimento triennale dovrebbe venire dall’uso dei fondi della Cassa depositi e prestiti, anche attraverso l’emissione di obbligazioni, e dai Fondi strutturali europei. Con una responsabilizzazione degli enti locali, attraverso l’allentamento del patto di stabilità interno. Ma attenzione, con una clausola sull’occupazione netta: chi vincesse a livello locale questi appalti dovrebbe non aver licenziato nei 24 mesi precedenti e impegnarsi a non licenziare nei 24 mesi successivi». Un punto controverso, questo. Se da una parte si tratta di una strategia per evitare escamotage da parte dei soliti furbi, dall’altra rischia di penalizzare anche quelle imprese che negli ultimi due anni hanno giocoforza dovuto affrontare licenziamenti per poter sopravvivere.

Il piano straordinario per il lavoro di Sel è in ogni caso una potente sfida politica al Pd, visto che dovrà essere discusso nel percorso parlamentare del Jobs Act di Matteo Renzi. «Serve un New Deal ispirato a quello rooseveltiano, e noi pensiamo che lo Stato possa diventare datore di lavoro di ultima istanza»: per far questo, secondo Gallino, «gli interventi vanno concentrati nei settori ad alta intensità di lavoro», che per Sel sono «il risanamento delle scuole, la ristrutturazione degli ospedali e la manutenzione del territorio per contrastare il dissesto idrogeologico». Si tratta di un tipo di occupazione in gran parte immune ai rischi da quell’informatizzazione e automatizzazione che attualmente spingono verso la disoccupazione tecnologica e, cosa non meno importante, si tratta di posti di lavoro che per loro natura non possono essere delocalizzati, come ha sottolineato proprio Gallino.

Gallino ha spiegato le differenze tra questo Green New Deal dal Jobs Act di Renzi: «La proposta di Sel è una proposta concreta, precisa, si potrebbe approvarla in una settimana e farla partire in 15 giorni. Si tratta di una proposta argomentata in 40 pagine di dati e statistiche.
Da Renzi, sul lavoro, vorrei vedere qualcosa di più sostanzioso perché finora siamo sul piano dei discorsi. Il Jobs Act che ho scaricato dal sito di Renzi è soltanto un dossier di poche pagine che contiene alcune idee interessanti e altre a dire il vero mirabolanti. Ad esempio è mirabolante l’idea di cambiare per intero la legislazione sul lavoro in 8 mesi. In Italia, la legislazione sul lavoro ha cominciato a evolversi il 1 gennaio 1948, quando è nata la Costituzione. Otto mesi sono pochi date queste premesse di contenuto. Quelle del Jobs Act sono poche paginette che volano per aria. Aspetto che le paginette di Renzi diventino qualcosa di più concreto».

A Gallino – che nel suo ultimo libro parla, fin dal titolo de “Il colpo di Stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa” – gli è stato chiesto come questo ragionamento faccia da premessa alla necessità di un Green New Deal e lui ha risposto: «Tra il novembre 2011 e il febbraio 2012 la Bce ha prestato alle banche europee più di un trilione di euro, ovvero più di 1000 miliardi. Le banche italiane ne hanno approfittato per 300 miliardi. Una frazione minima di questi miliardi sono finiti alle imprese e per creare occupazione; gli altri sono stati depositati come collaterali alla Bce per impieghi prevalentemente bancari e finanziari privi di impatto sull’economia reale».

Postilla

La proposta di SEL è scaricabile qui.
Invitiamo e esaminare in particolare la tabellina sulle risorse che si propone di impiegare per uscire dal baratro: tra le altre, la riduzione delle spese impegnate dai governi social-liberisti per gli F35. per le fregate di classe Fremm, per la TAV Torino Lione. Ukteriori riduzioni delle spese per la guerra e per opere inutili e dannose sarebbero senz'altroi poissibili.
Perché l’ortodossia classica (liberista e keynesiana) che suggerisce di passare a produzioni ad alto valore aggiunto non risolve più, oggi, la crisi industriale italiana. Che chiede un’altra riconversione possibile. I contenuti di un possibile nuovo "piano del lavoro".

Il manifesto, 18 febbraio 2014. In calce qualche riferimento

Che fare quando il padrone di un’azienda decide di chiu­derla, o di tra­sfe­rirla all’estero per pagare meno tasse, o per pagare meno gli ope­rai, o per poter inqui­nare l’ambiente senza tante sto­rie? A lume di naso, la prima cosa da fare è requi­sire l’azienda (i sin­daci hanno il potere di farlo, se non altro per motivi di ordine pub­blico) e impe­dir­gli di por­tar via i mac­chi­nari. Poi biso­gne­rebbe bloc­car­gli i conti e farsi resti­tuire i fondi che, 90 pro­ba­bi­lità su 100, ha già rice­vuto dallo Stato sotto forma di con­tri­buti a fondo per­duto, cre­dito age­vo­lato, sconti fiscali e con­tri­bu­tivi (ma qui dovreb­bero inter­ve­nire anche altre isti­tu­zioni: Governo e magi­stra­tura). A mag­gior ragione que­sto vale se l’imprenditore in que­stione pone delle con­di­zioni inac­cet­ta­bili per “restare”: per esem­pio dimez­zare i salari, come all’Electrolux.

Ma quello che non biso­gne­rebbe asso­lu­ta­mente fare è cer­care un nuovo padrone, che è invece il modo in cui il Governo ita­liano finge di affron­tare le situa­zioni di crisi (sul tema sono aperti al mini­stero dello Svi­luppo eco­no­mico più di 160 “tavoli”). Se ci fosse un “impren­di­tore” o un gruppo dispo­sto a rile­vare l’impresa alle con­di­zioni esi­stenti si sarebbe già fatto avanti per conto suo. E infatti, le poche aziende ita­liane che vanno ancora bene, soprat­tutto sui mer­cati esteri, tro­vano facil­mente dei com­pra­tori: sono state sven­dute quasi tutte. Ma quelle che non reg­gono più hanno biso­gno di un’altra cura: devono ricon­ver­tire la pro­du­zione e cer­care nuovi sboc­chi, pos­si­bil­mente nei campi che hanno un futuro, per­ché sono quelli nei quali la crisi ambien­tale ren­derà pre­sto inde­ro­ga­bile inve­stire.
Natu­ral­mente una ricon­ver­sione del genere non può gra­vare solo sulle spalle delle mae­stranze abban­do­nate. Devono far­sene carico, accanto a loro, sin­daci e ammi­ni­stra­tori locali, sin­da­cati, uni­ver­sità e cen­tri di ricerca, asso­cia­zioni. Per­ché è pro­prio nel ter­ri­to­rio, o nei ter­ri­tori che sono tea­tro di vicende ana­lo­ghe, che si devono andare a cer­care gli sboc­chi per i nuovi assetti pro­dut­tivi.
Vice­versa, se un nuovo padrone - o impren­di­tore - si fa avanti solo ora, è per­ché si aspetta dallo Stato con­di­zioni di favore — cioè un sacco di soldi - e pos­siamo essere sicuri che lo fa per inta­scar­seli. Un esem­pio illu­mi­nante: i due ban­ca­rot­tieri che si erano fatti avanti per rile­vare l’impianto Fiat di Ter­mini Ime­rese. I risul­tati si vedono: l’impianto è ancora a lì, vuoto, a quat­tro anni da quando si sa per certo che sarebbe stato dismesso; e que­gli aspi­ranti impren­di­tori si sono dis­solti nel nulla; o sono in galera.
Un’azienda che “se ne vuole andare” non ha alcun inte­resse a lasciare a un poten­ziale con­cor­rente mar­chio, bre­vetti, mer­cati, o anche solo una mano­do­pera ben adde­strata; e quindi farà di tutto per ren­dere one­roso e non red­di­ti­zio il suben­tro. La Jabil di Cas­sina de’ Pecchi fa scuola; li c’era tutto per andare avanti: mano­do­pera com­pe­tente, impianti e pro­dotti di avan­guar­dia, clienti inte­res­sati; ma la pro­prietà non intende favo­rire un poten­ziale con­cor­rente e pre­fe­ri­sce man­dare tutto in malora. Tante le espe­rienze sotto i nostri occhi: Alcoa, Alca­tel, Jabil, Nokia, Lucent, Luc­chini, Maflow, Micron Tech­no­logy, e chi più ne ha più ne metta. Quando il Governo dice che biso­gna attrarre inve­sti­tori esteri, non è certo a impianti come que­sti che pensa. Pensa solo a “fare cassa” ven­dendo quello che fun­ziona ancora o che comun­que rende: auto­strade, fer­ro­vie, poste, Eni, Enel, Terna, ecc.

Le minacce di “andar­sene” o la deci­sione di chiu­dere o ven­dere sono altret­tante mosse di una corsa al ribasso per spre­mere sem­pre di più i lavo­ra­tori: la vicenda Elec­tro­lux inse­gna. Se si accet­tano le regole della glo­ba­liz­za­zione libe­ri­sta, che affida alla con­cor­renza al ribasso l’organizzazione e la distri­bu­zione ter­ri­to­riale e set­to­riale della pro­du­zione, a que­sta logica non c’è scampo. Ma, obiet­tano i cul­tori dell’ortodossia eco­no­mica (che in que­sto ambito acco­muna libe­ri­sti e key­ne­siani), per non sot­to­stare a que­sta logica una strada c’è: pas­sare a pro­du­zioni a più alto valore aggiunto e mag­giori mar­gini: invece di pro­durre uti­li­ta­rie, pro­durre Mase­rati e Jeep, invece di lava­trici e frigo, impianti indu­striali di refri­ge­ra­zione, ecc. Più in gene­rale, pas­sare a pro­du­zioni a mag­gior con­te­nuto di tec­no­lo­gie e di ricerca.

Intanto per i pro­dotti ad alto valore aggiunto biso­gna tro­vare un mer­cato, per lo più già occu­pato da qual­cun altro. Per esem­pio, la Fiat (ora Fca) ha ben poche carte in mano per sot­trarre quote del mer­cato euro­peo di fascia alta a Mer­ce­des, Bmw o Audi. Per que­sto la pro­du­zione auto­mo­bi­li­stica di Fca Ita­lia, e con essa i suoi sta­bi­li­menti, sono in gran parte con­dan­nati a morte. Per addi­tare una via di uscita i teo­rici dell’ortodossia ricor­rono a una vec­chia teo­ria dello svi­luppo degli anni ’60 di Albert Hir­sch­man, detta delle “ani­tre volanti”: le eco­no­mie sono come uno stormo di ana­tre che volano una die­tro l’altra. Mano a mano che quelle di testa pas­sano a livelli tec­no­lo­gici e più avan­zati, quelle che seguono vanno a occu­pare le posi­zioni abban­do­nate dalle prime; e così, tutte insieme, pro­muo­vono lo svi­luppo glo­bale. Ma quella teo­ria rispec­chiava l’andamento delle cose cinquant’anni fa (Stati uniti in testa e, a seguire, Europa, Giap­pone, Corea, ecc.). Ma oggi non fun­ziona più per il sem­plice motivo che molti dei paesi a più bassi livelli sala­riali e di pro­te­zione dell’ambiente, che pro­prio per que­sto sono diven­tate le mani­fat­ture del mondo (prima tra essi, la Cina), oggi sono anche molto più avanti di noi — e non solo dell’Italia, ma anche dell’Europa — nella ricerca scien­ti­fica e tec­no­lo­gica: è deva­stante com­pe­tere con loro sui livelli sala­riali, anche se molte imprese non vedono altra strada per cer­care di soprav­vi­vere; ma in molti casi è anche impos­si­bile com­pe­tere sui livelli tec­no­lo­gici; soprat­tutto in Ita­lia dove istru­zione e ricerca sono ambiti disprez­zati e negletti.

C’è un ambito in cui l’Italia e l’Europa man­ten­gono ancora qual­che van­tag­gio “com­pe­ti­tivo” (ma meglio sarebbe dire, in que­sto caso, coo­pe­ra­tivo), anche se è anch’esso in via di sman­tel­la­mento per via delle teo­rie libe­ri­ste che ridu­cono tutto al dollar-value, al denaro. Quest’ambito è la com­ples­sità sociale, l’abitudine alla vita asso­ciata, una dimen­sione fon­da­men­tale della socia­lità, il radi­ca­mento in una tra­di­zione di cui il patri­mo­nio cul­tu­rale rap­pre­senta la stra­ti­fi­ca­zione incom­presa (e per que­sto tra­scu­rata). È un fat­tore che non può essere costruito, rico­struito, o recu­pe­rato in pochi anni e di cui lo svi­luppo tumul­tuoso delle eco­no­mie emer­genti ha pri­vato gran parte delle rispet­tive comu­nità pro­prio nei loro punti di mag­gior forza; senza l’accortezza di con­ser­varlo o di sosti­tuirlo con qual­cosa di equivalente.

È que­sto il pre­sup­po­sto di una rico­stru­zione su basi fede­ra­li­ste di un’economia euro­pea auto­suf­fi­ciente (ma non autar­chica), non com­pe­ti­tiva (nel senso di non più impe­gnata in quella corsa al ribasso che è sotto gli occhi di tutti), che sap­pia uti­liz­zare le tec­no­lo­gie dispo­ni­bili e i saperi dif­fusi, sia tec­nici che “espe­rien­ziali”, per riag­gan­ciare la pro­du­zione ai biso­gni con­di­visi della popo­la­zione attra­verso il poten­zia­mento di una nuova “gene­ra­zione” di ser­vizi pub­blici locali in forme par­te­ci­pate, sotto il con­trollo dei governi dei ter­ri­tori: in campo ener­ge­tico (impianti dif­fusi, dif­fe­ren­ziati e inter­con­nessi di uti­lizzo delle fonti rin­no­va­bili ed effi­cien­ta­mento dei cari­chi ener­ge­tici) e in quello agroa­li­men­tare (agri­col­tura di qua­lità ed indu­stria ali­men­tare a km0); nel campo di una mobi­lità fles­si­bile, inte­grando tra­sporto di massa e tra­sporto per­so­na­liz­zato, sia di merci che di pas­seg­geri, attra­verso la con­di­vi­sione dei vei­coli; nel campo del recu­pero e della valo­riz­za­zione delle risorse (quello che noi oggi chia­miamo gestione dei rifiuti), nella sal­va­guar­dia e nella valo­riz­za­zione del ter­ri­to­rio (assetti idro­geo­lo­gici, urba­ni­stici, pae­sag­gi­stici, monu­men­tali, indu­stria turi­stica, ecc.) e, soprat­tutto, nei campi della cul­tura, della ricerca, dell’istruzione, della difesa della salute fisica e men­tale di tutti.

Ecco, allora, pro­fi­larsi un destino diverso per le aziende abban­do­nate e senza più sboc­chi; ecco un ruolo stra­te­gico per le ammi­ni­stra­zioni locali che inten­dono farsi carico delle con­di­zioni di vita, ma anche del patri­mo­nio di espe­rienza, di cono­scenza, di saperi tec­nici, di abi­tu­dine alla coo­pe­ra­zione delle mae­stranze messe alla porta dai loro datori di lavoro; ed ecco, infine, il pre­sup­po­sto irri­nun­cia­bile per pro­muo­vere un’alternativa di governo, a par­tire dall’iniziativa locale, per far fronte al caos a cui ci sta con­dan­nando l’attuale gover­nance euro­pea. Detta così sem­bra un’utopia: ma andiamo incon­tro a tempi in cui pro­spet­tare solu­zioni estreme e finora “impen­sa­bili” diven­terà necessario.

Riferimenti
Vedi, su eddyburg, tra i numerosi scritti dedicati all'argomento l'eddytoriale 144 del novembre 2010, gli articoli Un piano economico e sociale alternativo di Giprgio Cremaschi, Neo-operaismo e neo-ambientalismo di Alberto Asor Rosa, Un'altra economia per una nuova Europa di Guido Viale, L'economia e il lavoro fuori del mercato di Laura Balbo. Un approfondimento del tema da un punto di vista dell’economia come dimensione dell’uomo lo trovate in alcuni testi di Claudio Napoleoni, quali Scienza economica e lavoro dell’uomo nella definizione di Lionel Robbins, e nella sintetica ricostruzione del suo pensiero nella relazione introduttiva alla sesta edizione (2009) della Scuola di eddyburg.

Il valore è prodotto dal lavoro del lavoratore, scriveva Adam Smith ne "La ricchezza delle nazioni". Una rilettura più che utile oggi. S

bilanciamoci.info, 7 febbraio 2014

«Il prodotto del lavoro costituisce la ricompensa naturale, o salario, del lavoro. Nella situazione originaria che precede sia l'appropriazione della terra sia l'accumulazione dei capitali, tutto il prodotto del lavoro appartiene al lavoratore, che non ha né proprietario fondiario né padrone con cui spartirlo. Se questa situazione fosse durata, i salari del lavoro sarebbero aumentati insieme ai progressi delle capacità cui dà luogo la divisione del lavoro» .

Questo scriveva Smith (Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, 1776, ed. ital. Isedi, pag.65), per sottolineare che il valore è prodotto dal lavoro del lavoratore e basta. Ma poi, o subito, sono arrivati il proprietario fondiario e il padrone che si sono appropriati di buona parte della ricchezza prodotta dal lavoro del lavoratore, imponendo un sottosalario padronale.
Insomma anche il saggio Adam Smith era un po' comunista. E, nell'attuale stato di grave crisi dell'economia mondiale, bisognerebbe denunziare i danni prodotti da rendita e profitto e tornare a mettere in evidenza la lotta di classe, che oggi vede prevalere quelli che non lavorano e non producono.

«Con­trap­porsi alle pri­va­tiz­za­zioni signi­fica bat­tersi con­tro una lotta poli­tica che la classe diri­gente con­duce con­tro beni pub­blici, beni comuni, pos­si­bi­lità di par­te­ci­pare alle deci­sioni poli­ti­che. In que­ste lotte, non pare che la Cgil abbia bat­tuto con forza il pugno sul tavolo». Il

manifesto, 12 dicembre 2013

Con il socio­logo tori­nese Luciano Gal­lino riflet­tiamo sulla con­sta­ta­zione della segre­ta­ria Cgil Susanna Camusso secondo la quale «nell’attuale qua­dro eco­no­mico e sociale non è più suf­fi­ciente evo­care lo scio­pero gene­rale come unica moda­lità in cui si deter­mina il con­flitto sul tema del lavoro». Su que­sta affer­ma­zione si è tor­nati a riflet­tere ieri a Roma durante la pre­sen­ta­zione del libro Orga­niz­zia­moci (Edi­tori Riu­niti) che rac­conta alcune forme alter­na­tive di pro­te­sta: il «com­mu­nity orga­ni­zing» teo­riz­zato dal grande teo­rico ame­ri­cano Saul Alin­sky, quello pra­ti­cato oggi da sin­da­ca­li­sti come Valery Alzaga nella sua forma di «labour organizing».

«È un’affermazione che cerca di rispon­dere ad una tra­sfor­ma­zione epo­cale — risponde Gal­lino — La pro­du­zione è stata fram­men­tata nelle catene glo­bali del valore e que­sto ha inde­bo­lito il potere dei sin­da­cati e dei lavo­ra­tori. Un conto è quando uno scio­pero inter­rompe la pro­du­zione in uno sta­bi­li­mento. Un altro è quando quella stessa pro­du­zione è divisa in dieci sta­bi­li­menti in quin­dici paesi. In que­ste catene il peso del sin­golo anello pro­dut­tivo o azien­dale è molto dimi­nuito ed è anche facil­mente sosti­tui­bile. Se un’azienda in Thai­lan­dia non fun­ziona, si passa in India».

I sin­da­cati hanno capito come con­tra­stare que­sta stra­te­gia?
«Non mi pare si sia fatto abba­stanza. Lo scio­pero è sto­ri­ca­mente nato per recare danno ad un’impresa. Si sup­pone che l’interruzione della pro­du­zione per un giorno o più sia un danno per il capi­tale. Con la gra­vis­sima crisi in cui spro­fonda l’Europa, e il mondo intero, è para­dos­sale con­sta­tare che que­sta asten­sione con­viene alle imprese che sof­frono di un eccesso di capa­cità pro­dut­tiva. Que­sta con­co­mi­tanza ha ridotto il potere del lavoro. A ciò si aggiunge l’azione poli­tica con­tro i sin­da­cati che nel nostro paese reg­gono ancora in qual­che modo, men­tre in altri paesi le iscri­zioni sono crol­late. Ciò non toglie che i sin­da­cati abbiano respon­sa­bi­lità non da poco nella loro dif­fi­colta a chia­mare a rac­colta i lavoratori».

Lo scio­pero, tut­ta­via, non è affatto tra­mon­tato come forma di lotta. Basti pen­sare a quelli auto-organizzati dai tran­vieri a Genova o a Firenze con­tro la pri­va­tiz­za­zione del tra­sporto pub­blico. Che impatto hanno avuto, se ne hanno avuto uno, sulla Cgil?
«Que­gli scio­peri hanno avuto un obiet­tivo spe­ci­fico e impor­tante: cer­care di inter­rom­pere la folle corsa con­tro la pri­va­tiz­za­zione, per modi­fi­care le poli­ti­che gestio­nali ma soprat­tutto, come è acca­duto anche a Torino, per fare cassa. Genova su que­sto tema ha richia­mato una note­vole atten­zione, anche se non mi pare abbia influito sul governo il cui chiodo fisso è pri­va­tiz­zare. Con­trap­porsi oggi alle pri­va­tiz­za­zioni signi­fica bat­tersi con­tro una forma di lotta poli­tica che la classe diri­gente del nostro paese con­duce con­tro i beni pub­blici, i beni comuni e la pos­si­bi­lità di par­te­ci­pare in qual­che modo alle deci­sioni poli­ti­che. In que­ste lotte, non mi pare che la Cgil abbia bat­tuto con forza il pugno sul tavolo».

Com’è cam­biato il ruolo della Cgil dalla mani­fe­sta­zione al Circo Mas­simo nel 2002 alla quale par­te­ci­pa­rono 3 milioni di per­sone?
«È cam­biato molto. Biso­gna dire che il 2002 era l’anno in cui si stava tam­po­nando lo scop­pio della bolla delle dot com, le imprese inter­net con miliardi in borsa. Il pro­cesso che oggi abbiamo sotto gli occhi era già avan­zato. Allora però c’era ancora la domanda aggre­gata e ciò per­met­teva una libertà di mano­vra che oggi non c’è più. Anche per que­sto lo scio­pero diventa un’arma spuntata».

Nel frat­tempo sem­bra essere defi­ni­ti­va­mente sal­tato il clas­sico legame tra par­tito e sin­da­cato, tra Cgil e Pd che sem­brava essere assi­cu­rato ancora da Epi­fani e oggi sem­bra escluso con Renzi. Un rap­porto che già ai tempi di Cof­fe­rati aveva cono­sciuto ten­sioni, in par­ti­co­lare con la «sini­stra» Pd…
Già ai tempi di Cof­fe­rati c’erano pro­blemi, figu­ria­moci adesso che il rap­porto è eva­ne­scente, visto che per quello che si sa, le pro­po­ste eco­no­mi­che e sul lavoro di Renzi vanno in dire­zione di un ulte­riore allon­ta­mento. Quel po’ di sini­stra che esi­steva nel Pd mi pare che dopo gli ultimi cam­bia­menti si sia ridotta ulte­rior­mente. Il sin­da­cato, parlo soprat­tutto della Cgil, ha biso­gno di un par­tito a cui appog­giarsi. Se non c’è un rife­ri­mento cul­tu­rale o poli­tico, si ritrova solo. Con la segre­te­ria di Renzi quel po’ di soste­gno che nono­stante tutto c’era nel Pd scen­derà ulte­rior­mente. Mi pia­ce­rebbe essere smentito.

Cosa pensa di forme di lotta come quelle con­tro le grandi opere o per i beni comuni?
Ser­vono, figu­ria­moci. In più abbiamo la neces­sità di pen­sare a migliaia di pic­cole opere per ridare un certo pre­gio alle cose che sono dege­ne­rate negli ultimi anni. Però il loro impatto sulla dimen­sione strut­tu­rale del capi­ta­li­smo non c’è o è molto pal­lida. Que­ste lotte hanno un’utilità per certi scopi spe­ci­fici, come si è visto con il refe­ren­dum sull’acqua. Anche se poi i comuni se ne sono infi­schiati. Lo si è visto nello scio­pero dei tra­sporti a Genova dove il discorso sui beni comuni ha avuto un’incidenza. Biso­gna però chie­dersi per­chè i poli­tici insi­stono per dare sem­pre più spa­zio alla vul­gata neo­li­be­rale. Ci sono ecce­zioni, ma la mag­gio­ranza dei comuni è domi­nata dall’ideologia neo­li­be­rale che domina nel governo e nei par­titi poli­tici, nes­suno escluso, o quasi.

Dun­que, insieme alla ricerca di forme di pro­te­ste alter­na­tive biso­gna par­tire da una bat­ta­glia cul­tu­rale che con­tra­sti l’ideologia domi­nante?
È così. Oggi siamo ad un bivio: da un lato c’è la demo­cra­zia, dall’altro il capi­ta­li­smo. È pos­si­bile avere l’una senza l’altro? È pos­si­bile un qual­che tipo di accet­ta­bile con­ci­lia­zione tra i due come nel tren­ten­nio dopo la seconda guerra mon­diale? Lo sarà solo se alcuni milioni di per­sone si sve­glie­ranno, insieme ai par­titi poli­tici. Oggi, pro­ba­bil­mente, una qual­che solu­zione è pos­si­bile. Altri­menti andremo verso un capi­ta­li­smo senza demo­cra­zia o con forme dav­vero povere di democrazia.

«il manifesto, 3 dicembre 2003

La tragedia operaia dei cinesi di Prato illumina, per qualche ora, le condizioni di vita e di lavoro in un pezzo d'Asia italiana, «la più vasta area di lavoro nero d'Europa» - parole del presidente della Regione Toscana Enrico Rossi - in quell'«Italia di mezzo» generalmente additata come modello di buen vivir nostrano. La Grande Crisi europea e la recessione c'entrano poco o niente, in questo caso: nei capannoni della Chinatown toscana, a lavorare per sottomarche low cost e grandi griffe del mercato globale, sono passate due generazioni di cinesi, senza che la politica, i sindacati, la società civile muovessero un dito non per arginare il fenomeno, come piacerebbe a vecchie e nuove destre, bensì per portarlo nell'alveo del riconoscimento di diritti e protezione sociale. Della cittadinanza, in buona sostanza.

Quello toscano non è l'unico caso e neppure un'eccezione. Il «terzo mondo» di casa nostra è una realtà che colpevolmente facciamo finta di non vedere. Tutte le mattine nella piazza principale di Villa Literno si svolge un mercanteggiamento che ha per oggetto una merce particolare: braccia umane, africane soprattutto ma da qualche tempo anche rumene, da sfruttare in agricoltura come i ragazzini messi in vendita ogni 15 agosto nella piazza del Duomo di Benevento e raccontati da Corrado Alvaro. Nella cittadina del casertano la chiamano «piazza degli schiavi», e mai come in questo caso la vox populi è riuscita a trovare le parole giuste per descrivere la realtà.

Nella Terra di lavoro campana vive e lavora in condizioni terribili la più ampia comunità africana d'Italia. L'Italia si indignò solo quando, nel 2008, un commando dei Casalesi sterminò sette persone in una rappresaglia di stampo nazista.

Chi si trovasse a percorrere, sul far dell'alba, la via Pontina dalle parti di Sabaudia, potrà incrociare centinaia di ciclisti con i turbanti. Sono i bufalari sikh della «little India», dove le bufale non si chiamano più cantando, come faceva il Cosimo Montefusco incontrato da Rocco Scotellaro in Contadini del sud. «Un'immigrazione silenziosa e operosa», come l'ha definita il sociologo Marco Omizzolo, che fa notizia solo quando qualcuno di loro finisce vittima di un pirata della strada, meritandosi al massimo una breve nelle cronache locali.

Qualche giorno fa, a Rosarno, un africano è morto di stenti. Nelle campagne calabresi i raccoglitori di arance e mandarini vivono e lavorano in condizioni disumane, come ai tempi di Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini. La situazione è talmente precaria che Emergency ha aperto per loro un ambulatorio come in Afghanistan o in Sudan. Neppure la rivolta del 2010 è riuscita a modificare la loro condizione: quando le acque si sono calmate, sono tornati invisibili come il Garabombo di Manuel Scorza.

Si potrebbe continuare menzionando i «clandestini» dell'industria del falso che alimentano i roghi della Terra dei fuochi, o ricordare come, mentre si festeggiava la vittoria dell'Italia ai mondiali del 2006, un rogo in un materassificio ricavato in uno scantinato, in provincia di Salerno, uccise due operaie italiane che lavoravano al nero per due euro l'ora. Una di loro era anche minorenne e per questo la politica si commosse per qualche ora e poi passò a parlar d'altro.

I morti di Prato sono cinesi e non votano neppure alle primarie del Pd, ma come gli africani di Rosarno e i bufalari pontini sono indispensabili a far girare la ruota di un sistema economico che nessuno si sogna di mettere in discussione dalle fondamenta. Se ne parlerà meno e forse è persino preferibile. Almeno evitiamo eccessive ipocrisie.

Welfare, reddito di cittadinanza, reddito medio garantito, esclusione: temi in discussione, che rinviano a due grandi questioni: quella del diritto alla sopravvivenza e quella del lavoro. I

l manifesto, 15 novembre 2013Nel nostro paese il rischio di esclusione sociale e la crescita ininterrotta dei livelli di povertà (assoluta e relativa) sono tanto alti quanto miseri o inesistenti gli strumenti necessari a combatterli. A partire da condizioni così colpevolmente arretrate non si può che apprezzare il fatto che ben tre proposte di legge (di un gruppo di parlamentari Pd, di Sel e, infine del M5S) siano state presentate alle Camere nell'ultimo anno. Incontrando tuttavia una forte resistenza anche a sinistra dove la più grossa di tutte le balle, la promessa della piena occupazione, continua incredibilmente a godere di un vasto credito. Sentire parlare della insostituibile «dignità del lavoro» di fronte alle condizioni semiservili e ultraricattate in cui versa gran parte del lavoro precario e non poco lavoro dipendente fa accapponare la pelle. In realtà la proposta di legge dei 5Stelle, la più dettagliata delle tre, è più che altro una proposta di Reddito minimo garantito (Rmg) il quale a sua volta, ben lungi dall'assumere i caratteri universalistici e incondizionati del reddito di cittadinanza, costituisce una rivisitazione del sussidio di disoccupazione nell'epoca in cui quest'ultima ha assunto caratteri strutturali e permanenti. Cosicché l'erogazione del reddito è sottoposta a un complicato apparato di verifica e di controllo della «disponibilità all'impiego», che facilmente tende a trasformarsi in uno strumento di ricatto, quando non di coercizione. Incompatibile con quella salvaguardia della libertà e della dignità della persona stabilita dalla Carta di Nizza.

L'Rmg, in vigore in quasi tutti i paesi d'Europa, argina solo limitatamente l'imposizione di lavoro sottopagato e sovente a condizioni ben lontane anche dal più elastico concetto di «dignità». Basti pensare ai mini-job della competitiva Germania, molto simili a una istituzionalizzazione del lavoro nero e dei suoi tassi di sfruttamento, ritenuti indispensabili dalla confindustria tedesca per mantenere gli attuali livelli occupazionali.

Ma se perfino in Europa la questione di un reddito che garantisca a tutti i cittadini un livello di vita decente e libero da coazioni è lungi dall'aver trovato una risposta adeguata, in Italia siamo ancora, nel pieno di una crisi disastrosa, a sollevare la «questione morale» di un reddito svincolato dal lavoro che non c'è o non c'è in termini accettabili. E che quindi non può continuare a fungere da unità di misura dell'inclusione sociale, laddove ormai diverse forme di attività, estranee alle categorie classiche del lavoro, contribuiscono a mantenere e perfino a sviluppare quel legame sociale che i «mercati», compreso quello del lavoro, stanno finendo di devastare.

La questione del reddito di cittadinanza è la questione stessa delle società postindustriali, e ci impone un ripensamento complessivo del welfare, capace di contrastare quello smantellamento dello stato sociale che fa leva tanto sulla sua inefficienza burocratica quanto sull'insoddisfazione dei tanti che ne restano esclusi. E non è certo a partire dal sussidio elargito sotto il controllo di un ufficio di collocamento che questo ripensamento può prendere le mosse. Tuttavia il tema del reddito e di una redistribuzione delle risorse è posto. Si tratta di non fermarsi alle versioni minimaliste e inefficaci.

Riferimenti
Su edduburg vedi, tra l'altro, la bozza di "visita guidata" Il lavoro su eddyburg

!La Consulta: l'esclusione dei sindacati che non firmano i contratti è incostituzionale. Ora il Lingotto volti pagina. Un colpo per la Fiat: «Ora una legge che ci tuteli». E in Parlamento si discuta di rappresentanza»Il manifesto, 4 luglio 2013
Una bella sorpresa d'estate. O una doccia gelata. A seconda di chi la guardi, la sentenza emessa ieri dalla Corte costituzionale è certamente importante, e potrebbe cambiare i rapporti di forza interni alla Fiat: bene l'ha presa la Fiom, a cui i giudici della Consulta hanno dato ragione. Male, malissimo l'ha accolta l'ad del Lingotto, Sergio Marchionne: che adesso chiede una legge, per operare con certezza sulla rappresentanza.

La vittoria della Fiom, attenzione, consiste nella bocciatura dell'articolo 19 (o meglio, di una parte di esso) di una legge amatissima a sinistra, lo Statuto dei lavoratori: quell'articolo, applicato alla lettera dalla Fiat, aveva escluso la Fiom dalla rappresentanza aziendale. I fatti erano avvenuti quando il Lingotto aveva deciso di uscire dalla Confindustria e crearsi un contratto su misura per le proprie fabbriche, e lo aveva successivamente siglato con tutti i sindacati, tranne la Fiom.

La Fiat aveva a quel punto deciso di applicare alla lettera l'articolo 19, escludendo - legalmente - la Fiom dall'elezione delle Rsa: lo Statuto dispone infatti all'articolo 19 che possano avere Rsa solo i sindacati firmatari del contratto. In realtà non è la formula originaria dello Statuto del 1970 ad aver introdotto queste regole: fu una riforma di quell'articolo, successiva a un referendum del 1995, a definirle. Ma, evidentemente, contro la Costituzione. La Fiom ha deciso quindi di fare immediatamente ricorso, in particolare appellandosi agli articoli 2, 3 e 39 della nostra Carta fondamentale: secondo i suoi legali, l'articolo 19 dello Statuto lede il principio solidaristico e viola i principi di uguaglianza e libertà sindacale, in particolare il «divieto» di discriminazione sulla base dell'appartenenza a un partito o a un sindacato. La Consulta, ieri, ha evidentemente ritenuto fondati i rilievi della Fiom.

La Corte, si legge nella nota emessa alla fine della camera di consiglio, «ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 19, 1 c. lett. b della legge 20 maggio 1970, n. 300 ("Statuto dei lavoratori") nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale sia costituita anche nell'ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie di contratti collettivi applicati nell'unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori».

In serata è arrivata una nota molto critica della Fiat: «Con questa decisione - dicono a Torino - la Corte ha ribaltato l'indirizzo che aveva espresso nelle precedenti numerose decisioni sull'argomento nei 17 anni durante i quali è in vigore l'articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori nella sua attuale formulazione. Sembra che la Consulta abbia collegato il diritto a nominare le Rsa alla partecipazione alla negoziazione dei contratti. Se questa lettura è corretta, la decisione non appare riferibile alla posizione assunta dalla Fiom, che, a priori, ha sempre rifiutato qualsiasi trattativa sui contenuti del contratto di Fiat S.p.A. e di Fiat Industrial».

«Fiat - continua l'azienda - ha sempre preso tutte le decisioni di tipo industriale tenendo conto della legislazione vigente e in particolare, dell'articolo 19 dello Statuto, modificato nel 1996 in seguito al referendum del 1995. Ricordiamo che il referendum che ha introdotto l'articolo 19 nella sua presente forma fu promosso da Rifondazione Comunista e dai Cobas con l'appoggio pieno della Fiom». «Viste le incertezze sollevate da questa decisione della Corte, la Fiat rimette piena fiducia nel legislatore affinchè definisca un criterio di rappresentatività più solido e più consapevole delle delicate dinamiche delle relazioni industriali, che dia certezza di applicazione degli accordi, garantisca la libertà di contrattazione e la libertà di fare impresa».

Incassa Maurizio Landini: «La Costituzione rientra in fabbrica - dice il leader Fiom - È una vittoria di tutti i lavoratori. Non ci sono più alibi: il governo convochi subito un tavolo con la Fiat e tutti i sindacati per garantire l'occupazione e un futuro industriale». «È ora - conclude - che il Parlamento approvi una legge sulla rappresentanza». Critica invece la Fim Cisl: «Nella sentenza ci sono contraddizioni». Soddisfazione per la pronuncia da Cgil, Pd, Sel e Prc.

Nel dibattito aperto dall'articolo di Giorgio Lunghini sul lavoro e sul "reddito di cittadinanza" il tentativo di proporre un percorso in 12 punti per uscire dal dilemma più reddito o più occupazione.

il manifesto, 28 giugno 2012, Con postilla e qualche riferimento

Nelle storie parallele della sinistra e dello sviluppo capitalistico, lavoro e reddito hanno sempre costituito due facce della stessa medaglia e camminato nella stessa direzione: più lavoro e più reddito nelle fasi di crescita, meno lavoro e minori redditi in quelle di crisi. Nel tempo sinistra e sindacati hanno conquistato strumenti per affrontare le crisi con ammortizzatori sociali a difesa del reddito anche quando il lavoro diminuiva. Con essi la relazione diretta tra lavoro e reddito veniva incrinata nella convinzione comune che la tenuta dei redditi avrebbe evitato la caduta della domanda e favorito la ripresa dell'occupazione.

Negli ultimi anni un attacco a quella relazione è venuto dal fronte opposto: riducendo il lavoro stabile e sviluppando quello precario, anche nei pochi anni in cui il lavoro complessivo è aumentato, i redditi da lavoro sono diminuiti. Con la crisi, quella relazione è stata ripristinata - meno lavoro e meno redditi in una spirale recessiva di cui non si intravede la fine - ed adesso, tra disoccupati che corrispondono alle definizioni statistiche e scoraggiati con diverse sfumature, le persone cui viene negato il diritto sia al lavoro che al reddito superano i cinque milioni.

In questo contesto, ed a quanto sembra solo nella sinistra italiana, si sta sviluppando un dibattito sulle possibili vie d'uscita che introduce ulteriori elementi di separazione, anzi di vero e proprio divorzio, tra lavoro e redditi: le proposte di reddito di cittadinanza e di reddito inserimento, di reddito minimo e di reddito sociale nascono da questa linea di ricerca e tendono a garantire forme di reddito sganciate dalla prestazione lavorativa. A queste proposte si aggiungono quelle che intendono affrontare la lotta alla disoccupazione agendo non sul reddito, ma sul lavoro attraverso la ridistribuzione delle ore lavorate.
I sostenitori le due opzioni sono mossi dalla convinzione che i livelli di disoccupazione raggiunti non saranno facilmente assorbiti, mentre altri a sinistra vedono in queste ipotesi il pericolo di una accettazione della realtà e di una rinuncia al diritto al lavoro. Siamo di fronte, così, ad un dibattito sul futuro di lavoro e reddito che non è nuovo a sinistra. Senza risalire fino a Marx e Keynes, esso ha alle spalle, elaborazioni affascinanti come quelle degli anni ottanta e di Andrè Gorz, concrete sperimentazioni generali come quella francese sulle 35 ore ed applicazioni emergenziali per affrontare situazioni di crisi di settori produttivi.

Quale è il bilancio di quelle esperienze? Se si esclude quella tedesca nel settore auto che ha ricalcato il modello dei contratti di solidarietà tra lavoratori di una azienda per difendere il posto di tutti, l'esperienza delle "35 ore in un solo paese" è stata di fatto vanificata dalle leggi ferree della competizione globale, mentre le teorie di Gorz sulla distribuzione del lavoro tra persone e nell'arco della vita sono rimaste nel libro dei sogni della sinistra. Ci ritroviamo così con una disoccupazione che ha raggiunto dimensioni senza precedenti in tutti i paesi sviluppati, mentre niente lascia prevedere che ci potrà essere una ripresa con tassi di crescita tali da consentirne il riassorbimento.

Perché è accaduto tutto questo e siamo di fronte oggi ad una crisi che sta trascinando verso il baratro lavoro e redditi insieme? Erano quelle, teorie e pratiche infondate ed utopiche? Sono state promosse in tempi non ancora maturi? Ci sono oggi le condizioni per introdurre una vera e propria rivoluzione nel lavoro che riguarda tempi, redditi e loro distribuzione?

Le risposte debbono muoversi tra due esigenze estreme: quella di misure immediate per alleviare i drammi del lavoro perduto e la disperazione di chi lo cerca invano; quella di soluzioni convincenti e di lungo periodo adeguate al carattere strutturale della crisi. Tra questi due estremi si dovrebbe delineare un percorso di lavoro che vorrei provare a indicare per punti.

1) Una ripresa economica, incentrata sui settori produttivi avanzati, nel recupero - urbano ed ambientale - e nei servizi alla persona è senza dubbio condizione importante per bloccare la caduta e creare nuovo lavoro.

2) Ma questo processo difficilmente potrà dare risultati significativi a breve-medio termine. Quindi misure straordinarie che attenuino gli effetti più pesanti della disoccupazione si impongono.
3)L'istituzione di un reddito di cittadinanza può rispondere a questa esigenza fungendo da ammortizzatore sociale di emergenza.

4) Essa è l'unica capace di saldare presente e futuro introducendo un principio di valore strategico: la ricchezza va distribuita non solo a coloro che contribuiscono a produrla col lavoro prestato nella sfera del mercato creando valori di scambio, ma anche a coloro che prestano attività sociali, cooperative e di cura che generano valori d'uso senza riceverne, però, una remunerazione.

5)In questo modo il reddito di cittadinanza potrebbe diventare uno strumento di "emersione e riconoscimento" di quelle attività e di loro "valorizzazione".

6) Se è vero come è vero che tantissime attività (lavoro domestico e di cura in primo luogo) producono Pil se svolte come lavoro retribuito e valgono zero se svolte gratuitamente nell'ambito familiare e del volontariato sociale, una loro "valorizzazione" tramite un reddito di cittadinanza avrebbe un altro valore strategico: far cadere quel muro che separa artificiosamente lavoro e non lavoro. occupazione e disoccupazione.

7) La distinzione tra occupati e non, infatti, è sempre più lontana dal rappresentare la realtà: all'interno del mondo del lavoro esistono ormai tante posizioni in termini di sicurezza e durata del lavoro che si può parlare di veri e propri mondi differenziati e qualche volta addirittura configgenti. Non molto diversa è la situazione nella sfera dei non occupati dove convivono aree di disperata emarginazione accanto ad aree di creatività e di impegno sociale che, in alcuni casi sono veri e propri avamposti di una nuova relazione tra lavoro e vita.

8) Insomma oggi tra occupati e non si snoda un mondo estremamente variegato in un continuum con mille sfumature. Un mondo ancora molto ancora da indagare, ma certamente non più racchiudibile nello schema classico occupati-disoccupati.

9) In questo nuovo contesto la ridistribuzione del lavoro è il secondo sentiero da percorrere. Essa può offrire risposte all'emergenza nelle situazioni di crisi con contratti aziendali di solidarietà.

10) Ma la ridistribuzione del lavoro può essere anche una risposta strategica alla diminuzione strutturale del lavoro necessario: ridistribuire il lavoro significa mettere in discussione anche i ruoli sociali, la separazione tra lavoro produttivo e lavori domestici e di cura, la relazione tra tempi di vita e di lavoro.

11) Si potrebbe, insomma, pensare ad un contratto nazionale ed europeo di solidarietà per la liberazione del lavoro e dal lavoro.

12)Ed infine: un percorso così ambizioso e complesso può essere tracciato solo da economisti ed esperti senza una partecipazione attiva dei soggetti interessati, delle mille sfumature di occupati e non e senza una sinistra politica e sindacale che elabori, ed a livello europeo, un progetto di futuro di fronte ad una crisi epocale come quella in cui siamo immersi?

Postilla

Nel 6° punto l'autore allude alla questione di fondo: è accettabile il rapporto tra lavoro e persona proprio del sistema capitalistico? A nostro parere no. Abbiamo affrontato questo tema in più occasioni (come in questa nota), e vi ritorneremo. La questione oggi è sintetizzabile in due punti: (1) è necessario definire l'obiettivo da proporsi , cioè quale concezione del lavoro in relazione alla persona si voglia assumere; occorre poi (2) valutare quali siano le proposte necessarie e possibili oggi in relazione alla loro coerenza con l'obiettivo. Quest'ultimo, a nostro parere, deve partire dal riconoscimento del fatto che il lavoro è lo strumento universale che l'uomo impiega per conoscere e trasformare il mondo in relazione ai suoi crescenti bisogni (che non si riducono a quelli elementari): che quindi non può essere "alienato" (finalizzato ad altro da sè, nella fattispecie alla formazione di profitto), e deve essere socialmente riconosciuto (quindi retribuito), quale che sia la sua rilevanza ai fini della produzione di merci. Si veda in proposito il pragrafo "il bisogno, il lavoro" della mia relazione qui)) . Sull'argomento si vedano anche gli articoli di Giorgio Lunghini, Piero Bevilacqua, quelli di Chiara Saraceno, Marco Bascetta e Sandro Mezzadra nella cartelle Lavori e - last but not least - quelli di Carlo Marx e di Claudio Napoleoni

Due questioni inseparabili: come costruire una società e un'economia fondate su una concezione "umana" del lavoro; come cominciare a farlo da subito.

Il manifesto, 19 giugno 2013

Alla fine ci si torna sempre. A quella contrapposizione di principio tra reddito di cittadinanza e piena occupazione, impermeabile al mutare delle circostanze e indifferente al corso della storia e cioè, per dirla in una sola parola, squisitamente dottrinaria. Ci ritorna sul manifesto del 15 giugno Giorgio Lunghini a partire dalla sua dichiarata affezione per la seguente formulazione di Adam Smith: «Il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita che in un anno consuma».

A me sembra che ciò che il mondo contemporaneo consuma in un anno o in un giorno dipenda assai più da ciò che scommette, ipotizza, immagina, proietta che non da ciò che realmente produce. L'alea di un futuro consumabile è ogni giorno sul mercato. Il capitale finanziario e gli effetti che esso determina materialmente sulle nostre vite, non scompaiono semplicemente perché ne decretiamo l'irrealtà. Non si chiamano forse «prodotti» i pacchetti finanziari che il mellifluo funzionario della banca offre alla sua clientela? E ha ancora un senso parlare di «Repubblica fondata sul lavoro» a proposito di un paese in cui il più grande dei sindacati è quello che rappresenta i pensionati, massa crescente di rentiers di cui mi sembrerebbe un po' efferato reclamare l'eutanasia?

Dovremmo dunque evitare di ricondurre costantemente la discussione sul reddito di cittadinanza iuxta propria principia. Se non per un aspetto più filosofico che economico, ossia la contrapposizione o quantomeno l'attrito tra l'etica del lavoro e l'etica della libertà. Negare questo attrito comporta, come sappiamo, conseguenze assai funeste. Ma una volta messo al sicuro il principio converrà volgere lo sguardo alle condizioni in cui ci troviamo, sottraendo il lavoro a quell'astrattezza sovrastorica che ne maschera le metamorfosi formali e sostanziali, e collocare in questo contesto il tema del reddito incondizionato.

Quel reddito - sostiene Lunghini - «è semplicemente l'eccesso del salario percepito dai lavoratori occupati rispetto al costo di riproduzione di questi». Questa eccedenza, come sappiamo, è inerente al rapporto capitalistico e, più in generale, a ogni processo di accumulazione. Ma può prendere diverse strade, a seconda dei rapporti di forze e delle conseguenti politiche redistributive. Questione che, di fronte all'enorme concentrazione della ricchezza cui assistiamo, non è certo trascurabile. Tuttavia la questione più importante è un'altra.

Secondo Lunghini il reddito di cittadinanza costituirebbe un palliativo incapace di garantire autonomia politica ed economica ai non occupati, suscettibile di accrescerne il numero e l'emarginazione. Tutte queste conseguenze effettivamente negative derivano da un punto di vista che considera il reddito di cittadinanza, come un puro e semplice ammortizzatore sociale, una compensazione in termini di reddito garantito di quanto non offre più il mercato del lavoro salariato. Ed è un presupposto sbagliato. Per rendersene conto bisogna porsi almeno due domande: di cosa si occupano i non occupati? E cosa se ne fa il capitale delle loro vite? I cosiddetti non occupati, tra cui bisogna annoverare un gran numero di lavoratori intermittenti, temporanei, occasionali, costituiscono il più grande se non l'unico laboratorio di sperimentazione e progettazione di nuovi servizi e attività culturali, sociali, politiche, nonché di attività produttive minori, in perenne conflitto con norme e regolamentazioni imposte da burocrazie nazionali ed europee che operano al servizio di corporazioni e poteri forti. Il tutto fiscalmente penalizzato nell'illusione, di incrementare il mercato del posto fisso. Per tornare a una formula più volte ribadita esiste una vasta cooperazione sociale produttrice di ricchezza, non riconosciuta in termini di reddito e di garanzie. Quanto alla seconda domanda, il capitale cattura a piene mani, trasformando in sua proprietà o in suo prodotto, procedimenti e risultati di questo insieme complesso di attività, avvalendosi anche di un apparato giuridico e contrattuale che spudoratamente lo agevola.

Volendo dirla in maniera un po' sfacciatamente provocatoria, tutti i discorsi sulla piena occupazione non fanno i conti con il fatto che la piena occupazione esiste già e si dà appunto in questa forma e con queste modalità. Si potrà certo obiettare che siccome i singoli e le collettività cercano sempre di tirare a campare, messa così la piena occupazione c'è sempre stata, ragion per cui questo discorso sarebbe privo di senso. Tuttavia mi sentirei di controbattere che in altre epoche e in altri contesti la massa degli esclusi vegetava in condizioni soggettive e oggettive di sostanziale passività. Non è certo questo il caso della "inoccupazione" contemporanea segnata da un attivismo evoluto e inventivo che produce indirettamente profitti, ma non riceve direttamente alcun reddito. Considerare dunque il reddito di cittadinanza, non come un ammortizzatore sociale, ma come retribuzione della partecipazione a questo processo di produzione della ricchezza costituirebbe la base dell'autonomia economica e politica dei singoli e non la sua negazione. La possibilità di sottrarre il proprio agire a una condizione di ricatto.

Ma proprio qui si manifesta il punto decisivo del conflitto e cioè il controllo sulla cooperazione sociale e sull'attività dei singoli. Se, infatti, attraverso il reddito di cittadinanza retribuiamo, senza la sacra mediazione del mercato, un insieme di interazioni sociali e di scelte produttive a prescindere dalla forma o direzione che esse prenderanno, o dal genere di bisogni e di desideri che intendono soddisfare, allora, e qui torniamo ai principi, il lavoro sarà subordinato a un'etica della libertà. E ci troveremmo più dalle parti della costituzione americana che di quella italiana, il che non significa viaggiare verso la legittimazione del capitalismo selvaggio. Il feticismo del reddito da lavoro come unico fondamento dell'autonomia del singolo deriva dal fatto che il lavoro presuppone sempre un datore di lavoro o un committente, un comando, un controllo e dunque, in ultima analisi, una eteronomia.

Il presupposto da cui muove Lunghini non può che essere pienamente condiviso: «Il livello della produzione capitalistica non viene deciso in base al rapporto tra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di una umanità socialmente sviluppata, bensì in base al saggio dei profitti». Se si vuole sostenere una crescita dell'occupazione che poggi sulla soddisfazione dei bisogni insoddisfatti, e in quanto tali inesauribili, bisognerà avventurarsi «fuori dalla dimensione capitalistica e mercantile della società», agendo negli spazi, se ve ne sono, che essa non intende occupare.

Tutto il problema sta nella natura di quel «fuori». Ossia nella scelta e nella forme di esecuzione di quei lavori concreti strettamente vincolati ai valori d'uso, e soprattutto nel soggetto investito di questa scelta. Che per Lunghini è ancora una volta lo stato, sia pure attraverso «istituzioni tutte da inventare», che quelle già inventate a questo scopo sono piuttosto agghiaccianti. Chi deciderà se gli ausiliari del traffico siano lavoro socialmente utile? Se la street art risponda o meno a un bisogno sociale? In quali quantità e con quali modalità dovremo distribuire il nostro tempo nel mosaico di attività che compongono la vita precaria? E soprattutto quale sarà il livello di reddito equo per il nostro operare a favore dei bisogni sociali ossia per il "lavoro socialmente utile", certificato da qualcuno come tale? E anche, una volta usciti dall'economia di mercato continuerà ad imporsi una qualche forma di calcolo costi-benefici e con quali parametri? Le risposte che sono state date a questi quesiti non possono certo dirsi soddisfacenti.

Se è vero che i "lavori concreti" contribuirebbero, attraverso il soddisfacimento di bisogni sociali, anche alla produttività del lavoro astratto impegnato nella produzione di valori di scambio, e magari al contenimento del suo costo, non è altrettanto vero che contribuirebbero ad accrescere l'autonomia della comunità operosa del precariato. Il reddito di cittadinanza non è che la possibilità di agire, avendo garantite dignitose condizioni di vita, fuori dal mercato senza per questo dover sottostare all'esame di uno "stato etico", alla sua idea di "concretezza" e "utilità". È, al tempo stesso, un mezzo di produzione e uno strumento di libertà. Un investimento al buio sulle soggettività e sulla potenza della loro interazione. Bisogna fidarsi di questi "spiriti animali" senza scopo di lucro? Forse. Dello stato è abbastanza assodato che no. Tra le tante definizioni che del reddito di base sono state date se ne potrebbe allora aggiungere un'altra: reddito di libertà.

Sull'argomento vedi anche l'articolo di Piero Bevilacqua e la postilla di eddyburg all'articolo di Lunghini

Un libro ( "Il soggetto produttivo da Foucault a Marx" di Pierre Macherey) che esplora la celebre definizione metaeconomica del lavoro dell'uomo di Marx («L'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo») e le sue ricadute sulla società di oggi

Il manifesto, 13 giugno 2013

«Marx per me non esiste», dichiarò Michel Foucault in un dialogo del 1976 con la redazione della rivista Hérodote. E aggiungeva: «voglio dire questa specie d'entità che s'è costruita attorno a un nome proprio, e che si riferisce ora a un certo individuo, ora alla totalità di quel che ha scritto, ora a un immenso processo storico che deriva da lui». C'è qui una chiave per intendere il rapporto intrattenuto da Foucault con Marx, tema che continua a essere al centro di molti studi e dibattiti (si veda ad esempio il bel libro curato da Rudy Leonelli, Foucault-Marx. Paralleli e paradossi, Bulzoni, 2010): la radicale distanza di Foucault dal marxismo, inteso come compatto edificio dogmatico, si accompagnava in lui alla diffidenza nei confronti di ogni tentativo di «accademicizzare» Marx, di ridurlo a un «autore» come un altro. Quest'ultima è un'operazione certo legittima, continuava Foucault nell'intervista del 1976, ma equivale a «misconoscere la rottura che lo stesso Marx ha prodotto». Quella rottura nel cui solco Foucault ha continuato per molti versi a pensare - non senza produrre ulteriori rotture, che lo hanno spesso condotto lontano da Marx.
Il lungo saggio di Pierre Macherey, che la casa editrice ombre corte manda ora in libreria nella forma di un piccolo libro (Il soggetto produttivo. Da Foucault a Marx, pp. 95, postfazione di Toni Negri e Judith Revel, euro 10), interviene con grande originalità nel dibattito su questi temi. In questione non è, nel lavoro di Macherey, la ricerca delle influenze di Marx su Foucault, né l'alternativa tra l'«ipotesi di un Marx (già) foucaultiano e quella di un Foucault (ancora) marxista». Memore della lezione di Althusser, di cui fu uno dei collaboratori al tempo di Leggere il Capitale (1965), Macherey propone piuttosto una lettura «sintomatica» di alcuni testi di Marx, facendovi agire un insieme di ipotesi avanzate da Foucault, in primo luogo a proposito del potere. E al contempo, immergendole nella concettualità marxiana, punta a precisare e a ridefinire lo statuto teorico delle ipotesi di Foucault.

Gestire i corpi


L'indagine di Macherey prende le mosse dalla definizione di «bio-potere» offerta da Foucault in La volontà di sapere (1976). È lo stesso linguaggio qui utilizzato da Foucault - «l'investimento del corpo vivente, la sua valorizzazione e la gestione distributiva delle sue forze» - a segnalare lo scarto che la categoria di «bio-potere» determina nell'analisi del potere. Più che nell'ambito tradizionalmente politico è sul piano dell'«economia» che questa analisi deve ora situarsi: ma, commenta Macherey, l'economia non appare qui in primo luogo incentrata «sui valori dei beni scambiabili, sulla base di una economia delle cose; essa si preoccupa piuttosto principalmente della gestione della vita, dei corpi e delle loro 'forze'».
Vita, corpi, forze: sono termini essenziali nella critica marxiana dell'economia politica, e in particolare in quel concetto di forza lavoro che ne costituisce l'architrave. «L'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo»: così Marx definisce la forza lavoro nel primo libro del Capitale, e già Paolo Virno, in un libro di diversi anni fa (Il ricordo del presente, Bollati Boringhieri, 1999), aveva invitato a guardare a questo concetto per cogliere l'«origine non mitologica» della biopolitica foucaultiana. Macherey, per parte sua, assume la definizione marxiana della forza lavoro come filo conduttore di un'analisi del capitalismo che evidenzia la natura cruciale dei conflitti che al suo interno investono la produzione stessa di soggettività.
Decisiva, a questo riguardo, è la natura «potenziale» della forza lavoro, la distinzione fra le attitudini e le facoltà che ne definiscono il concetto e il «lavoro» vero e proprio: una volta ceduto al capitalista il diritto all'«uso» della propria forza lavoro, il possessore di quest'ultima «diventa actu», per citare ancora Marx, «quel che prima era solo potentia, forza lavoro in azione, lavoratore». È in questa distinzione, che riprende e riformula quella aristotelica tra potenza e atto, è nel «genio» con cui il capitale sfrutta il differenziale tra ciò che il lavoratore «può fare» e ciò che «concretamente fa» che Marx individua il «segreto» della produzione del plusvalore - e dunque l'origine dello sfruttamento. Commenta Macherey: «la metafisica funziona a condizione di prenderla per il verso giusto, facendola entrare in fabbrica».
La mercificazione della potenza umana, ovvero il fatto che una classe di donne e uomini sia costretta a rendere merce la propria forza lavoro (a vestire i panni dei «possessori di forza lavoro»), è il fondamento del capitalismo. Le conseguenze che ne derivano dal punto di vista della soggettività sono evidentemente di enorme importanza. Il lavoratore appare un «soggetto diviso», nel senso che, pur rimanendo «interamente padrone della propria forza lavoro», ne ha alienato l'uso (il che porta Macherey a sottolineare come il contratto di lavoro vada inteso propriamente come un contratto di «locazione» della forza lavoro e non, secondo la lettera del testo marxiano, come contratto di «compravendita»). Ma soprattutto doppia appare la natura della stessa forza lavoro: quando il capitalista acquista il diritto all'«uso» della forza lavoro, paga con il salario quello che essa «è già», ne retribuisce per così dire il valore «a riposo». Mentre quando la forza lavoro, sotto il suo comando, viene messa al lavoro, essa non è semplicemente «forza produttrice» ma forza produttiva, ovvero creatrice di valore in eccesso rispetto a quello corrisposto originariamente dal capitalista al suo possessore. E soprattutto, la «forza lavoro» come forza produttiva appare come «portatrice di potenzialità sulle quali possono essere esercitati una pressione e un controllo atti a intensificare tali potenzialità».

Rapporti di forze


Si vede bene, in questo senso, come il concetto marxiano di forza lavoro apra immediatamente lo spazio per indagare le operazioni del «bio-potere». Lavorando sulla traccia del riferimento esplicito a Marx in uno dei primi testi di Foucault in cui compare questo concetto (la conferenza tenuta a Bahia nel 1976, Le maglie del potere), Macherey rilegge in modo molto efficace alcuni concetti e temi marxiani - dal «lavoro sociale» alla «cooperazione», dal «dispotismo» di fabbrica al «campo di lavoro» - per mostrare come lo svolgimento della problematica della forza lavoro determini un'implicazione reciproca di «bio-potere» e produzione di soggettività. Si potrebbe perfino dire, annota Macherey, che «la produzione industriale capitalistica inventa l'essenza umana, sotto forma di forza produttiva, per sfruttarla». Sono in particolare le figure collettive assunte dal lavoro (a partire da quella del «lavoro sociale») a determinare l'entrata in scena di tecnologie di potere del tutto immanenti alla cooperazione produttiva, e che dunque soltanto per una sorta di paradossale illusione ottica possono essere considerate come parte di una «sovra-struttura».
Leggendo in particolare i capitoli del primo libro del Capitale dedicati alla cooperazione e alla giornata lavorativa, Macherey svolge considerazioni di grande interesse sul tema foucaultiano della «società di norme», lavorando sul doppio significato (descrittivo e prescrittivo) del termine «norma». La produzione di norme per la razionalizzazione dell'organizzazione del lavoro (ovvero per l'intensificazione della sua «produttività») appare da questo punto di vista un terreno essenziale di analisi, per comprendere tanto la tendenza delle norme a porsi come una «seconda natura», come un habitus «che orienta i comportamenti umani senza apparire alla coscienza come il principio che li dirige», quanto i limiti e le «resistenze» con cui quella tendenza necessariamente si scontra. Capitale e potere (lo notano nella loro postfazione Negri e Revel) sono in fondo definiti da Marx e Foucault in termini di «rapporti di forze», e l'elemento della lotta ne è dunque costitutivo.
Se un appunto si può muovere al lavoro di Macherey è di non aver svolto fino in fondo questo aspetto del suo discorso, di aver indicato con grande precisione il terreno su cui opera il «bio-potere» nel capitalismo ma di non aver intrapreso (riservandola forse a un'occasione successiva) l'analisi delle modalità con cui l'eccesso costitutivo del «lavoro vivo» marxiano può essere appropriato dai suoi soggetti come base di una diversa «forza produttiva», di una cooperazione nel segno dell'eguaglianza e della libertà. Non è certo una questione che si presti a scorciatoie analitiche o politiche, ma proprio oggi - di fronte a un capitalismo che pare esaltare la duttilità e la «flessibilità» della forza lavoro marxiana, rovesciandole nella crisi in precarietà e immiserimento di massa - mi sembra indispensabile ribadirne l'urgenza.

«L
L’autonomia economica e politica delle persone presuppone un reddito da lavoro. Il reddito di cittadinanza corre il rischio di far aumentare il numero dei non occupati e la loro l'emarginazione, lasciando irrisolta la questione dei bisogni sociali insoddisfatti
Forse per ragioni di età, sono ancora affezionato alla idea di Adam Smith e alla Costituzione. Secondo Smith, “Il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita che in un anno consuma”. Più breve e efficace, l’Articolo 1 della Costituzione recita: “L’Italia è una Repubblica democratica [corsivo aggiunto], fondata sul lavoro”. Sul lavoro, non sul reddito. Circa il reddito di cittadinanza o altre forme di reddito garantito, d’altra parte, non ho cambiato l’idea che coltivavo qualche anno fa, e qui la riprendo.

Quando una improbabile crescita dell’economia è sì condizione necessaria per realizzare la piena occupazione, ma non anche sufficiente, il problema di fondo di una società capitalista si aggrava. Problema di fondo che si può evocare con questo disegnino:


Se si è d’accordo su ciò, e se si conviene che presupposto della democrazia è la democrazia economica; e che a sua volta la democrazia economica presuppone la massima occupazione possibile e una distribuzione della ricchezza e del reddito né arbitraria né iniqua, allora si deve anche convenire che nessuna forma di reddito garantito costituisce una soluzione del problema. Il reddito di cui dispongono i lavoratori non occupati è il risultato di un trasferimento da parte dei lavoratori occupati, attraverso lo Stato o direttamente all’interno della famiglia. Quel reddito è semplicemente l’eccesso del salario percepito dai lavoratori occupati rispetto al costo di riproduzione di questi. Il palliativo rappresentato da un reddito di cittadinanza o di esistenza non risolverebbe la questione dell’autonomia economica e politica dei non occupati, probabilmente ne aumenterebbe il numero, ne certificherebbe l’emarginazione, favorirebbe il voto di scambio e lascerebbe irrisolta la questione dei bisogni sociali insoddisfatti. L’autonomia economica e politica presuppone un reddito da lavoro.

Diverse e positive sarebbero le conseguenze dell’altra soluzione cui si può pensare: una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro; tuttavia una politica di riduzione dell’orario di lavoro (a parità di salario) suscita oggi ovvie e probabilmente insuperabili resistenze da parte dei capitalisti, e implicitamente assume che le merci possano soddisfare tutti i bisogni. Nello stato attuale del mondo, la redistribuzione del lavoro come forma di trascendimento è una prospettiva da perseguire con determinazione ma difficilissimamente praticabile in un paese solo, se non altro per i vincoli di competitività nel settore che produce sovrappiù. Per tutta la lunga durata della depressione che si annuncia, la riduzione dell’orario di lavoro rischia di essere una forma di rispettabile compromesso aziendale tra capitale e lavoratori occupati, che però non fa diminuire la disoccupazione e rimane confinato alla logica della produzione di merci. L’idea che giustifica le politiche di riduzione dell’orario di lavoro è quella di una ripartizione dei guadagni di produttività tra imprese e lavoratori, in termini, per questi ultimi, di minori tempi di lavoro anziché di maggior salario. Dunque presuppone salari di partenza relativamente elevati e una situazione economica e sociale florida, tendenzialmente di piena occupazione. L’esatto contrario della situazione attuale. Altrimenti si tratta di licenziamenti ‘parziali’ accettati in cambio di aspettative di stabilità del posto di lavoro, ma con una ulteriore divisione tra occupati e non occupati e con una maggiore ‘flessibilità’ all’interno della fabbrica e sul mercato del lavoro.

Il livello della produzione capitalistica non viene deciso in base al rapporto tra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di una umanità socialmente sviluppata, bensì in base al saggio dei profitti. La produzione di merci si arresta non quando i bisogni sono soddisfatti, ma quando la realizzazione del profitto impone questo arresto. Anche se la produzione di merci riprendesse a crescere, non si avranno variazioni significative nell’occupazione se non in lavori servili, precari e a basso reddito. Si avrà dunque una crescita sia dei bisogni sociali insoddisfatti sia della disoccupazione. La soluzione di questo problema – troppe merci, poco lavoro – va cercata altrove, al di fuori della dimensione capitalistica e mercantile della società. C’è oggi coincidenza tra una situazione di crisi gravissima e prospettive di nuovi spazî politici. Non si tratta di uscire dal capitalismo, ma di occupare quella terra di nessuno dell’economia e della società nella quale le merci non pagano. Questa terra esiste, lo dimostrano da un lato i tanti bisogni sociali insoddisfatti, dall’altro le tante attività che non sono mosse dall’obiettivo del profitto. Volontariato, associazionismo, movimenti ambientalisti, cooperative, centri sociali, attività tutte sospette in quanto non si piegano al criterio del calcolo e del lucro, sono tutti segni non sospetti di questa realtà (al punto che a queste attività si assegna una funzione surrogatoria).

Nella produzione di merci “col carattere di utilità dei prodotti del lavoro scompare il carattere di utilità dei lavori rappresentati in essi, scompaiono dunque anche le diverse forme concrete di questi lavori, le quali non si distinguono più, ma sono ridotte tutte insieme a lavoro umano eguale, lavoro umano in astratto”. Si tratta proprio di ciò, di promuovere e organizzare lavori concreti (in contrapposizione al lavoro astratto impiegato nella produzione di merci), lavori destinati immediatamente alla produzione di valori d’uso, lavori che non siano meri ammortizzatori sociali, ma lavori capaci di soddisfare i bisogni sociali che la produzione di merci non soddisfa. Così come ci sono bisogni assoluti e bisogni relativi, ci sono servizi tecnicamente individuali e servizi tecnicamente sociali. L’azione più importante dello Stato, attraverso istituzioni appropriate e tutte da inventare, si riferisce non a quelle attività che gli individui privati esplicano già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, a quelle decisioni che altrimenti nessuno prende, a quanto altrimenti non si fa del tutto.

Si tratterebbe dunque di destinare parte del sovrappiù realizzato nella produzione di merci, alla messa in moto non di lavoro improduttivo (nel senso smithiano-marxiano del termine) destinato al soddisfacimento di bisogni relativi, ma alla promozione di lavori immediatamente destinati alla soddisfazione dei bisogni sociali assoluti. Lavori prestati non nella sfera della produzione di merci ma nella sfera della riproduzione sociale e della manutenzione almeno dell’ambiente. Principalmente lavori di cura, in senso lato, delle persone e della natura. Lavori di cui vi è una domanda che i mercati del lavoro e delle merci non registrano, perché corrispondono a bisogni privi di potere d’acquisto individuale.

Mentre il lavoro astratto socialmente necessario dipende dalle tecniche di produzione adottate nella produzione di merci e si scambia sul mercato del lavoro, i lavori concreti dipendono dai bisogni sociali, questi sì inesauribili, e si scambiano non su un mercato ma nella società. In quanto intesi al soddisfacimento di bisogni sociali, i lavori concreti hanno di necessità una dimensione territoriale ben precisa e richiedono e impongono forme democratiche di rilevazione e controllo locale della domanda e di organizzazione decentrata dell’offerta. I lavori concreti non sono esposti alla concorrenza internazionale e devono rispondere a criteri di efficacia piuttosto che di efficienza competitiva. A parità dei salari monetari consentiti dalla congiuntura capitalistica e dai rapporti tra capitale e lavoro salariato, i valori d’uso prodotti dai lavori concreti comporterebbero un aumento dei salari reali e non avrebbero effetti inflazionistici. Per il lavoro astratto i lavori concreti non sarebbero un onere ma un arricchimento, poiché producendo valori d’uso servono direttamente a soddisfare i bisogni sociali, ma indirettamente servono anche a migliorare le condizioni e la stessa produttività dei valori di scambio prodotti dal lavoro astratto.

Le risorse si potrebbero trovare facilmente: se mai si volesse provvedere all’eutanasia delrentier, e alla costituzionale progressività delle imposte sui redditi e sulle ricchezze. Tuttavia di questo disegno occorre considerare gli aspetti politici, poiché si tratterebbe di governare una transizione dal paradosso della povertà nell’abbondanza a quello stato dell’economia e della società prefigurato da Lafargue e da Keynes. Anche per le sue implicazioni tecniche e organizzative, questa è una prospettiva di benessere nell’austerità, ma meglio sarebbe dire di benessere nella sobrietà. Un discorso sull’austerità che si limiti a una critica del consumismo e all’esortazione moralistica è un discorso politicamente sterile. L’alternativa non è tra benessere e austerità, è tra le possibili forme di austerità: la miseria che ci aspetta se si lascia fare, rivestita di forme nuove di fascismo, oppure una vitale sobrietà. L’apologia del mercato nasconde il disegno di cancellare la politica, riducendola a amministrazione dell’esistente. Questa opera di disvelamento e di persuasione è compito della politica, della politica in quanto critica, indirizzo e governo del processo economico-sociale di produzione e riproduzione. Utopia? Sì, ma è bene, ammonisce un grande intellettuale, che non tanto l’intellettuale quanto l’uomo in generale si senta responsabile di qualche cosa d’altro che di procacciare cibo ai suoi piccoli, finché non gli sarà segato l’albero su cui si è costruito il nido.

Postilla

Non sono un economista e ho la massima stima per Giorgio Lunghini. Ma il suo interessante scritto(che in grandissima parte condivido) suscita in me un dubbio. Egli afferma che «la soluzione di questo problema – troppe merci, poco lavoro – va cercata altrove, al di fuori della dimensione capitalistica e mercantile della società. C’è oggi coincidenza tra una situazione di crisi gravissima e prospettive di nuovi spazî politici. Non si tratta di uscire dal capitalismo, ma di occupare quella terra di nessuno dell’economia e della società nella quale le merci non pagano. Questa terra esiste, lo dimostrano da un lato i tanti bisogni sociali insoddisfatti, dall’altro le tante attività che non sono mosse dall’obiettivo del profitto».

Concordo pienamente nel ritenere con Lunghini che la soluzione del problema del lavoro va cercata «al di fuori della dimensione capitalistica». Mi domando però (e sarei lieto di poter chiedere a Lunghini) se questo debba invece significare anche – come mi sembra che egli ritenga – cercare al di fuori della dimensione stessa dell’economia, oppure che di possa, e quindi si debba, cercare una diversa economia, superiore a quella del capitalismo così come questo è stato superiore alle altre forme dieconomia: un’economia che non polarizzi la sua attenzione sul valore discambio, ma sulil valore d’uso (rinvio una pagina in cui ho cercato diesprimere con maggiore ampiezza il mio pensiero in proposito. Mi sembra che inquesta direzione andassero il pensiero e la volontà di un comune maestro,Claudio Napoleoni (e.s.)

Una discussione sul"Reddito minimo garantito", e le sue implicazioni sul fronte del lavoro e delle politiche sociali.

Sbilanciamoci.info, 6 giugno 2013, con postilla

Nella riflessione teorica, in misura crescente il diritto alla sussistenza viene concepito come diritto costituzionale, a livello nazionale e dell'Unione Europea. Come osserva, ad esempio, Rodotà, il diritto all'esistenza appare con particolare nettezza nelle Costituzioni del secondo dopoguerra (...). Pur muovendo dalla garanzia di un reddito minimo da assicurare a chi non lo ha, l'ottica dovrebbe essere quella della cittadinanza nel senso di patrimonio di diritti inalienabili della persona in quanto tale. Diritti non solo a «sopravvivere», ma ad esistere (...). E' la stessa prospettiva, mi sembra, che ha mosso la Corte Costituzionale tedesca, allorché ha dichiarato parzialmente incostituzionale la modalità con cui la riforma dell'assistenza del 2000 aveva individuato le soglie massime di sostegno economico per i poveri (...). La costituzionalizzazione nazionale ed europea del diritto all'esistenza sembra non essere ancora riuscita a trasformare nei fatti il diritto all'esistenza in un diritto inalienabile e non a disposizione dei governanti di turno, neppure nella forma di garanzia innanzitutto per i poveri.

Non si tratta solo di questioni di bilancio, che vedono i poveri particolarmente deboli allorché si discute di che cosa e a chi tagliare. Si tratta anche della plurisecolare immagine del povero come tendenzialmente non meritevole, o con debole fibra morale. Nonostante sia chiaro che la disoccupazione crescente non è l'esito di scelte dei disoccupati e che l'inoccupazione sia in larga misura l'esito vuoi del carico di lavoro non pagato sopportato da molte donne, vuoi di fenomeni di scoraggiamento, si continua a pensare che i poveri debbano essere continuamente stimolati, attivati, per meritarsi un qualche sostegno, a prescindere dalla efficacia di tali «attivazioni».
Da questo punto di vista, è per molti versi paradossale la trasformazione, in diversi paesi, di misure di sostegno al reddito in misure welfare-to work , proprio mentre il lavoro sparisce. Allo stesso tempo, l'indebolimento, il mancato investimento, o la mercatizzazione di taluni beni pubblici - dalla scuola alla sanità - rischia di ridurre anche quel nocciolo di reddito autenticamente universale di cittadinanza che è costituito, appunto, dai beni comuni e dalla garanzia di accesso per tutti.
Per questo è opportuno continuare a mantenere aperto l'orizzonte discorsivo del reddito di cittadinanza, accettando i compromessi necessari, ma evitando confusioni.

Postilla
Forse per qualcuno non è «paradossale la trasformazione, in diversi paesi, di misure di sostegno al reddito in misure welfare-to work , proprio mentre il lavoro sparisce». Forse per qualcuno l'impiego delle capacità psicofisiche dell'uomo (del lavoro) è una risorsa essenziale se impiegataal fine non di produrre profitto ma di conoscere e governare il mondo. Forse per qualcuno non è l'economia (capitalistica) a dover stabilire la finalità del lavoro. In questa logica la questione del "reddito di cittadinanza si porrebbe in modo diverso. Magari, in modo radicale.

Persino Hegel, teorizzatore dello stato etico, ha vigorosamente sostenuto che «l'uomo che muore di fame>> ha non solo il diritto, « ma il diritto assoluto di violare la proprietà di un altro»>>

per assicurarsi la sopravvivenza. Lo ricorda Domenico Losurdo in Hegel e la libertà dei moderni. Ecco un principio fondativo della modernità, quella categoria che designa un'epoca della spiritualità occidentale, oggi diventato un lemma sdrucito del linguaggio pubblicitario. Di fronte alla persona che giace nel più estremo bisogno, perfino la proprietà privata, il più solido architrave della società borghese, deve cedere il passo. Dopo la conquista dell'habeas corpus, uno dei diritti fondamentali della prima età moderna, volto a tutelare l'individuo dall'arbitrio del potere assoluto, ecco un principio eversore dell'ordine dominante: il diritto della persona umana a non soccombere a quella totale assenza di diritti generata dal bisogno estremo.

Oggi, com' è noto, il soccorso a quel bisogno, viene non solo praticato da gran parte degli stati europei, ma fa parte, grazie alla Carta dei diritti , della legislazione dell'Unione. Il reddito minimo, di cittadinanza, o comunque denominato, è una conquista della civiltà giuridica dello stato di diritto. E perciò stupisce non solo la sua assenza dall'ordinamento e dalla pratica statuale in Italia, ma anche la vaghezza, la ritrosia, la timidezza con cui il tema viene trattato dalle forze politiche e sindacali. Forse occorrerebbe collocare questo principio sullo sfondo storico che oggi lo mostra non solo necessario, ma lo proietta nel nuovo ordine possibile delle società avvenire. E' necessario rammentare che nelle odierne società industriali il reddito della grande maggioranza degli individui è dipendente dal loro lavoro salariato. Se questo viene meno, diventa precario, discontinuo, le condizioni della vita materiale precipitano e la dignità della persona, resa fragile ed esposta a forze incontrollabili, subisce uno scacco drammatico.

Oggi tanto più grave quanto più elevati sono i bisogni generali e quanto più vanno deperendo le conquiste novecentesche del welfare. Ora, quali sono le possibilità che, nell'attuale modello di accumulazione capitalistica, si crei sempre nuova e stabile occupazione? Al momento appare perfino ridicolo, con una disoccupazione che in Europa investe circa 50 milioni di persone, argomentare sulle possibilità future del sistema capitalistico di assicurare lavoro stabile alla grande maggioranza dalla popolazione. Un lunghissimo inverno attende la vita di decine di milioni di cittadini, che nei prossimi anni non troveranno di che vivere. E già tale drammatico quadro consiglierebbe a governanti avveduti e prudenti di metter mano al più presto a forme di redistribuzione del reddito in forma stabile e sistematica.

Eppure occorre inserire la richiesta del reddito di cittadinanza in una prospettiva più ampia di quanto oggi non sia visibile in un intervento che può apparire solo un soccorso congiunturale. Bisogna ricordarsi da dove ha origine la presente crisi. E' necessario cogliere un aspetto fondamentale dello sviluppo capitalistico degli ultimi 30 anni. E' qui che occorre scorgere la poderosa inversione strategica di cui è figlio il nostro tempo. Il capitalismo ha subito un evidente deragliamento, che lo ha posto fuori dal suo lungo percorso storico. Ciò che noi chiamavamo “sviluppo” - termine sopravvissuto nell'inerzia linguistica di chi non si è accorto di quanto è accaduto - era una crescita economica che si redistribuiva largamente grazie alla pressione operaia e sindacale, governata dal potere pubblico entro entro i confini nazionali. L'emarginazione del sindacato, la scomparsa del nemico con il crollo del comunismo, lo svuotamento dei partiti di massa, la libertà quasi eslege concessa al danaro, l'apertura di un mercato del lavoro illimitato su scala mondiale hanno dato al capitale poteri forse mai posseduti in tutta la sua storia.

Tali rapporti di forza così unilateralmente vantaggiosi li abbiamo visti all'opera negli ultimi decenni, nel paese-guida del capitalismo, gli USA. Qui abbiamo assistito a un “ritorno indietro” nella condizione delle masse lavoratrici che illumina tutto il senso dell' inversione strategica. La giornata lavorativa si è allungata di quasi due mesi all'anno rispetto ai lavoratori europei – dopo quasi due secoli di progressiva riduzione - i salari sono rimasti congelati, sono nati i “lavoratori poveri”, è dilagato l'indebitamento delle famiglie. E oggi, dopo 5 anni di turbolenza endemica, il capitalismo continua la sua strada invertita grazie alla libertà mondiale di cui gode, sia nella speculazione finanziaria che nella disponibilità di forza lavoro. L'imprenditoria capitalistica non aveva mai avuto a disposizione tante braccia libere, un “esercito di riserva” disposto a lavorare a qualsiasi condizione.
Diciamolo con chiarezza: il capitale e il ceto politico che oggi lo rappresenta, in Europa e nel mondo, hanno un interesse strategico – e la possibilità politica di praticarlo – a mantenere una disoccupazione e una precarietà del lavoro sotto controllo, ma mediamente diffuse e costanti. Sono decisive per conservare la posizione storica di vantaggio conseguita, che consente loro di controllare una variabile importante, i salari, e continuare il processo di accumulazione nelle acque agitate della competizione mondiale. Che cosa invocano, se non tale vantaggio, le litanie quotidiane di politici ed economisti sulla necessità di riformare il mercato del lavoro? Ma tale immensa asimmetria tra capitale e lavoro, che si avvolge su se stessa e si autoperpetua, sta spingendo all'indietro il processo di civilizzazione industriale del '900.

E' dunque su questo perverso interesse che occorre intervenire, rendendo gli individui potenzialmente indipendenti, per la loro possibilità di vita, dal “ricatto” del lavoro. E' questo il punto archimedico su cui far leva. Occorre separare sempre più marcatamente il reddito per vivere dalla prestazione lavorativa. Ciò peraltro non costituisce semplicemente una “concessione” utile alla coesione sociale e al sostegno alla domanda interna. Nelle nostre società viene svolta una massa gigantesca di lavoro non pagato, che accresce incessantemente la valorizzazione del capitale. La fatica quotidiana delle donne che rendono la forza-lavoro dei mariti e dei figli, oltre che la propria, pronta per la prestazione in fabbrica o in ufficio, chi la paga? Chi paga il lavoro in casa, a qualsiasi ora, del giorno e della notte, mentre si sta collegati in rete o al telefono?Per milioni di individui la giornata lavorativa è ormai senza limiti. Mentre il capitalismo si appropria quotidianamente dei saperi, idee, creatività, del general intellect, per dirla con Marx, che la massa degli individui produce incessantemente con la propria operosità molecolare.

Per questo, come dice Rodotà « Il reddito minimo si configura come punto di partenza>> mentre <<L'approdo è il reddito di base incondizionato per tutti, o reddito universale>> (Il diritto ad avere diritti). E' una prospettiva non remota, diversa da quella preconizzata da Keynes nel 1930, nel noto saggio – tanto evocato quanto poco letto – sulle Possibilità economiche per i nostri nipoti, che prevedeva l'accorciamento a 15 ore settimanali dell'orario lavorativo. E perciò si affrettava a rassicurare i moralisti di allora: « tre ore al giorno (di lavoro) sono abbastanza per soddisfare il vecchio Adamo che è nella maggior parte di noi.>> Forse oggi appare più percorribile la strada – preconizzata nel 1999 da Ulrich Beck, di « una società delle attività plurali>>.
Un reddito di cittadinanza, infatti, potrebbe consentire di alternare lavoro salariato con prestazioni familiari, attività di impegno civile con l'impiego in altri servigi di volontariato. Il lavoro che esce finalmente dal regno della servitù quotidiana e si libera dalle prestazioni unilaterali che schiacciano la persona umana. Troppo ricco è diventato il capitalismo perché possa ulteriormente impedire, a chi produce la ricchezza, di essere padrone della propria vita.
articolo spedito anche a il manifesto

L'idea che il sapere serva solo a produrre e consumare, a furia di essere spacciata dalla destra e dai ragionieri di regime, introdotta nell'università in Italia dalla riforma Berlinguer, è filtrata un po' ovunque.

Il manifesto, 8 febbraio 2013 (f.b.)

Perché si va a scuola? Per trovare un lavoro da grandi. Sì, certo, ma se poi da grandi il lavoro non c'è perché siamo in piena crisi del mercato del lavoro, andare a scuola, allora, cosa serve? Risposta: a niente. O meglio: a tenere buoni alunni e studenti. Possibile? Sembra proprio così. Dunque, andiamo con ordine: negli ultimi venticinque anni si è fatta strada in Italia l'idea che la funzione principale dell'università e dell'intero sistema formativo sia fornire forza-lavoro al mondo del lavoro e dell'economia. Un'idea forte, che ha messo al centro dei processi educativi il concetto di formazione (a breve termine), mettendo nell'ombra quello di educazione (a lungo termine). È un'idea derivata dall'unione fondamentalmente economica dell'Europa. Che ha trovato diversi adepti anche tra pedagogisti e politici, non solo legati al centrodestra ma anche al centrosinistra. Potremmo chiamarla un'idea di politica scolastica di matrice neoliberista.

Anche il linguaggio dell'amministrazione scolastica è cambiato: si è parlato di scuola-azienda, con tutto ciò che questo comporta in termini didattici e pedagogici. Si sono ripetute parole d'ordine come meritocrazia, sorvolando sulla funzione sociale e di uguaglianza delle opportunità di un sistema scolastico statale. Si è provato in ogni modo a proporre test sulla qualità delle scuole e della formazione utili più a ricerche di mercato che a e nuove strategie educative; ricordiamoci sempre che l'Ocse che misura i nostri ragazzi è un organismo economico, non filosofico o pedagogico. La domanda che pongo è questa: che fine fa la visione di un'università e di una scuola che hanno come stella polare quello di creare forza-lavoro nel tempo della crisi del mercato del lavoro? Dove magari, come accade in Italia, il cui tessuto economico è fatto in gran parte di piccole aziende semiartigianali, il laureato specializzato è meno attraente di un lavoratore non specializzato, magari d'origine straniera e a basso costo? Non sono domande nuove: negli Stati Uniti e in Inghilterra, quel sistema scolastico anglosassone che noi oggi cerchiamo di replicare fuori tempo massimo in Italia, è già sotto accusa e si sta correndo ai ripari. Intanto il risultato delle cattive politiche scolastiche messe in atto dagli ultimi governi italiani ha portato ai primi cattivi frutti. Uno: la scuola primaria italiana che era prima per qualità in Europa nel 2008, dopo la controriforma Gelmini è precipitata in classifica. Due: oltre 50.000 immatricolazioni universitarie in meno negli ultimi dieci anni; che è assurdo attribuire solo al calo demografico.

Occorre riflettere, specie nel centrosinistra italiano, sulla visione di scuola e università che vogliamo. Magari rivalutando quella pedagogia popolare italiana del Novecento non togata, che va da Gianni Rodari a don Milani a Loris Malaguzzi, che parlavano più di educazione - permanente, civile, della persona - che di formazione temporanea. E che mettevano la scuola al centro della vita sociale e democratica di un Paese, come suo cuore pulsante, piuttosto che subordinarla acriticamente a un mercato o a ideologie.

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