«». Ecco le proposte concrete per uscire dalla crisi promuovendo il lavoro attraverso un forte intervento pubblico liberato dai "lacci e lacciuoli" del Mercato. Sbilanciamoci. info
La retorica dei governi insiste sulla ripresa. Ma la realtà dell'Europa è la stagnazione dei paesi «forti» e la depressione nella «periferia». Germania a parte, la crescita del Pil nel 2014 sarà sotto l'1% nei maggiori paesi dell'eurozona, l'Italia retrocessa allo 0,5%, la Grecia sempre sottozero.
Il senso di quello che sta succedendo ce lo dà l'industria: rispetto al 2008, l'Italia ha perso un quarto della produzione; Spagna, Grecia e Portogallo sono cadute ancora più in basso; gravi perdite si contano in Francia, Olanda, Finlandia e Irlanda. Questa distruzione di capacità produttiva in mezza Europa – il risvolto del successo tedesco – mette in discussione le fondamenta dell'integrazione europea più della crisi del debito o del salvataggio di qualche banca. Quale può essere l'interesse di un paese a «restare in Europa» quando le politiche europee cancellano un quarto delle fabbriche e dei posti di lavoro?
Se si vuole evitare questo deserto, è indispensabile un ritorno della politica industriale, che è stata essenziale nel novecento per la crescita dell'Europa e che trent'anni di neoliberismo hanno messo al bando in nome dell'efficienza del mercato. A mezza bocca l'ha capito anche Bruxelles, che parla di "Industrial Compact". In Francia il ministro Montebourg si sforza di limitare le delocalizzazioni e sostenere, con capitali pubblici e soci stranieri, imprese come la Peugeot. Ma le proposte più innovative pensano a una politica industriale a livello europeo, con risorse comuni investite soprattutto nei paesi in difficoltà. In questa direzione vanno le iniziative della Dgb, la confederazione sindacale tedesca e la versione un po' annacquata proposta dalla Confederazione europea dei sindacati.
Guarda più avanti la proposta di Sbilanciamoci! e EuroMemorandum di una ricostruzione della capacità produttiva a scala europea. Si potrebbe investire il 2% del Pil europeo per dieci anni in nuove produzioni – pubbliche e private – in tre settori prioritari: la conversione ecologica dell'economia, con abbattimento delle emissioni, energie rinnovabili e risparmio energetico; le tecnologie dell'informazione e le loro applicazioni; il sistema della salute, dell'assistenza e del welfare. Tre quarti degli investimenti potrebbero andare nella «periferia», il resto nelle regioni arretrate dei paesi del «centro». I fondi potrebbero venire dalla Bce, da Eurobond e dalla Bei, oppure da nuove entrate – una tassazione europea dei profitti, della ricchezza o delle transazioni finanziarie. A deliberare il piano il Parlamento europeo; a decidere su quali progetti spenderli un'Agenzia europea per gli investimenti dove non siedono banchieri, ma si raccolgono competenze economiche, organizzative, sociali e ambientali. A realizzare gli investimenti, imprese o soggetti pubblici locali, con uno stretto monitoraggio.
Un programma di questo tipo darebbe uno stimolo alla domanda e ci farebbe uscire dalla depressione. Porterebbe a nuove attività e posti di lavoro nei settori e nei luoghi «giusti». E ridarebbe un ruolo all'azione pubblica, rovesciando trent'anni di privatizzazioni che non hanno prodotto né sviluppo, né efficienza. Proprio qui sta il problema: si può davvero tornare a un forte intervento pubblico nell'economia? Fabrizio Barca, in queste pagine, sceglie ancora il mercato rispetto a una pubblica amministrazione incapace. Ma è sicuramente possibile avere un controllo democratico sulle scelte d'investimento senza regalare potere ai partiti. Organizzare lo sviluppo senza collusioni e corruzione. E, soprattutto, trovare una risposta più giusta alla domanda su che cosa produciamo, come, e per chi.
Di invecchiamento medio della popolazione si parla ormai da decenni, ma sembra che nonostante tutto l'unica reazione importante sia quella di escogitare nuovi prodotti ad hoc per anziani, scordandosi che la questione riguarda, per forza, tutti.
La Repubblica, 1 maggio 2014, postilla (f.b.)
Dal rinascimento delle bocciofile ai corsi per capire l’Ipad riservati agli over 65, dal boom delle crociere per soli nonni all’esplosione del turismo religioso: ecco i cento piccoli indizi che raccontano quanto stia diventando olders oriented la società italiana. Una mutazione inevitabile in un paese di diversamente giovani dove nel 2020 si venderanno più pannoloni che pannolini. La conseguenza più importante dell’invecchiamento della popolazione è economica e culturale: gli ex baby boomers, i nati tra il 1946 e il 1964 che avevano cambiato la società tra gli anni Sessanta e gli Ottanta, tornano a rivoluzionare le abitudini di oggi, trasformando il nostro in un mondo di anziani al potere.
È l’Economist a segnalare il «miliardo di sfumature di grigio » che sta per governarci. Un miliardo di ultrasessantacinquenni che nel 2035 avrà saldamente in mano le leve che contano nel pianeta. E sarà sempre meno disposto a cederle. Perché soprattutto i lavoratori qualificati e di esperienza in un mondo di anziani, saranno sempre preferiti a giovani con minore esperienza e minori rapporti. Tendenze che in Italia si esasperano: i dati di Eurostat spiegano che la Penisola è il paese che è invecchiato di più tra quelli europei nei venti anni tra il 1991 e il 2011. L’Italia è seconda solo alla Germania come percentuale di ultrasessantacinquenni (da noi sono il 20,3 per cento) ma i giovani tedeschi tra il 15 e i 24 anni sono l’11,2 per cento mentre i giovani italiani rappresentano solo il 10 per cento.
«Il potere degli anziani? In Italia nella scelta dei dirigenti conta molto l’esperienza e la rete di rapporti che ciascuno porta con sé. Nel resto del mondo questo è certamente un elemento di valutazione ma non è l’unico: è messo sullo stesso piano di altri come la capacità di leadership o l’abilità nel prendere decisioni di fronte a cambiamenti improvvisi». Parla così Antonio Baravalle, oggi amministratore delegato di Lavazza, negli anni scorsi alla guida di Alfa Romeo, uno dei Marchionne boys chiamati a rivoluzionare i protocolli sabaudi del Lingotto: «Quando siamo arrivati in Fiat ci guardavano come fossimo bambini ma eravamo già sui quarant’anni».
La società degli anziani cambia la vita di tutti. I primi ad accorgersene sono stati i politici. Fin dagli anni Novanta soprattutto il centrodestra ha spinto sul tasto della sicurezza, uno dei talloni d’Achille di chi non si sente più in forze. È in quell’epoca che nacque il concetto di «insicurezza percepita», a dispetto della discesa dei dati sulla criminalità. È insicuro soprattutto chi è solo. Gian Pietro Beghelli racconta come nacque l’idea del «Salvalavita», il sistema automatico di chiamata di soccorso e antintrusione: «Siamo nati e cresciuti in provincia. Vedevamo queste coppie di anziani che trascorrevano una vita insieme. Poi, quando uno dei due veniva a mancare, l’altro finiva in una casa di riposo pur essendo ancora autosufficiente. E toglierti dalla tua abitazione, dove hai sempre vissuto, ti fa invecchiare ancora di più. Per combattere questo malessere è nata l’idea dell’apparecchio».
Ci sono anche conseguenze più piacevoli dell’invecchiamento. «Abbiamo cambiato prodotti e modo di venderli», racconta Francesco Cecere, direttore marketing di Coop Italia. Un mondo che invecchia, spiega Cecere, «mangia meno proteine, sceglie cibi più leggeri e in quantità ridotte. Così sono in crescita le vendite di monoporzioni (per i singles, non solo anziani) e aumenta la quantità di carne bianca sugli scaffali rispetto a quella rossa». Cambiano anche gli scaffali: «Sono meno alti così come stanno diventando più piccoli e maneggevoli i carrelli». Il problema principale è che a una certa età non si ha la forza di guidare l’automobile e di portare la spesa a piedi per molti isolati: «Alla Coop abbiamo cominciato a fornire il servizio di trasporto a casa per gli anziani con difficoltà motorie».
Il marketing si adatta ai capelli grigi. Gianluigi Guido, docente all’Università del Salento, ha recentemente pubblicato per Il Mulino un saggio sul Comportamento di consumo degli anziani, passando in rassegna tutti gli studi compiuti sull’argomento negli ultimi quarant’anni. «Si fa in fretta a dire anziani», premette il professore. E ricorda i quattro senior- tipo secondo gli studiosi di marketing. Sono gli eremiti in buona salute, i socievoli acciaccati, i fragili reclusi e gli indulgenti in forma. Questi ultimi sono i consumatori migliori, quelliche hanno molto in comune con un’altra categoria costruita dai sociologi, gli anziani new age: «Normalmente — spiega Guido — una persona di età superiore ai 65 anni senza particolari problemi di salute si comporta come se avesse sette anni di meno. Gli anziani new age vivono come se avessero dodici anni meno della loro età». Sono loro la pacchia di chi vende: «In genere non badano a spese». Il loro giovanilismo li spinge a coronare sogni che i ventenni non possono permettersi: moto di grossa cilindrata, apparecchiature elettroniche costose. All’opposto sono i nostalgici, quelli che ascoltano una musica di gioventù e comperano il prodotto abbinato. Tra qualche anno vedremo gli spot delle dentiere con il jingle dei Rolling Stones.
Il marketing dice molto dei cambiamenti indotti dall’invecchiamento ma non tutto. «Il nodo vero — osserva il sociologo Bruno Manghi — è quello del potere. Soprattutto in Italia il potere si trasmette per cooptazione e spesso i giovani non sono capaci di rompere il meccanismo». Per questo per decenni in alcuni settori come quello bancario gli ottuagenari l’hanno fatta da padroni. E molti non hanno la forza di compiere il gesto di Diocleziano che ricostruì l’impero e poi abdicò ritirandosi nel suo palazzo di Spalato. Quando i figli tornarono a chiedergli di riprendere il potere, rifiutò: «Se voi sapeste come sono buoni i cavoli che crescono nel mio orto, non mi fareste una proposta simile ». Chi ha il coraggio di imitarlo?
postilla
Pare davvero incredibile che anche da un resoconto di respiro piuttosto ampio come quello dell'articolo manchi completamente la prospettiva secondo cui anziani lo diventano tutti, e sempre più tutti. Ovvero che l'allungamento della vita riguarda appunto la vita, non il potere e i consumi che questo potere (economico o altro) garantisce. Si dimentica in modo allegrone ai limiti del rimbecillimento (affatto senile) che riuscire a campare discretamente non è affatto frutto di potere o consumi, ma dei decenni di investimento pubblico in welfare: salute, servizi, ambiente, qualità della vita e dell'abitare, roba che non si compra, che non si può comprare. Non è un caso se, come dimostrano sempre più studi sociali sviluppati senza certe fette di salame sugli occhi, certi modelli abitativi sciagurati del '900, in primo luogo quelli della dispersione urbana o del quartiere segregato, e in generale il territorio macchina per produrre, si adattano malissimo ad esempio a chi ha superato una certa fase della vita, e per riflesso anche a chi non corrisponde a quel modello genericamente giovanilista produttivo conformista su cui continuano a costruirsi le retoriche della cosiddetta competitività applicata ad ogni aspetto dell'esistenza. Qualcuno, anche tra i progettisti di spazio e servizi e trasporti, sta iniziando a intuire questa necessità di trasformazione epocale, ma è ancora troppo poco, tra le tante cose da capire davvero c'è anche che La Città è un Buon Posto in cui Invecchiare (f.b.)
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Le persone e gli esuberi
Ho letto mercoledì su «l’Unità», in un editoriale di un economista che stimo, Paolo Leon, che gli «esuberi» (questa è la parola usata) alla Olivetti italiana sono quattromila. Gli esuberi: cioè quelli o quelle che all’Olivetti dovranno lasciare il lavoro. Gli esuberi: cioè le quantità esuberanti. Quelli che devono lasciare il lavoro sono una quantità esuberante. A conoscerli direttamente quelli che devono lasciare il lavoro sono – a seconda dei casi – biondi o bruni, irosi o calmi, alti, bassi. Si chiamano Giulio, Antonio, Luisa, Marco. Giovanna. Un giorno, un mattino, improvvisamente, essi diventano degli «esuberi».
Questi Giulio, Luisa, Marco sono non soltanto alti, o biondi o bruni: sono anche una determinata capacità lavorativa, e – alla Olivetti – un sapere molto qualificato: un sapere umano, fatto di mente, occhio, mano, tecnica, memoria, emozione, volontà. Un mattino si svegliano e si trovano quantità. Il loro essere bruni o biondi, il loro sapere – pure così moderno – si dissolvono. L’azienda non sa più che farsene. L’Ingegnere dice: non dipende da me. Essi sono un «esubero». La sorte che tocca a Giulio, Antonio, Luisa sta fuori di loro stessi: li trascende. Altri dicono invece: c’è stato nell’azienda uno sbaglio di strategia. Se è così, uno sbaglio di strategia dell’azienda porta esseri umani ad alta qualifica lavorativa a diventare degli esuberi. Altri invece dice che la causa è il «mercato». Se è cosi, la fonte che rende esuberi è ancora più lontana, spostata fuori, indifferente alla sorte di Giulio, Luisa, Antonio. E Giulio, Luisa, Antonio non hanno nemmeno la possibilità di prendersela con qualcuno, perché gli rispondono: è la congiuntura, o – come diceva l’articolo de «l’Unità» – la fase di recessione.
Si potrebbe dire che Giulio, Luisa. Antonio, di fronte alla congiuntura e all’azienda dell’Ingegnere, diventano «cosa». Qualcuno, esterno a loro, li riduce a «cosa». Oppure è come se venisse una pioggia, o un temporale che si è accumulato. Ma la pioggia e i temporali oggi i meteorologi sanno prevederli. Era prevedibile il temporale alla Olivetti? Forse sì. Allora, in questo caso, ricorriamo a un’altra immagine: potrebbe esserci stato un sisma di non si sa quanti gradi. In ogni caso: una irruzione esterna a Giulio, Luisa, Antonio, che li riduce a «cosa». Attenti però. Ci assicurano che gli esuberi non si troveranno senza un soldo. Ci sarà, pare, forse il prepensionamento. E lasciamo da parte da dove verranno i soldi per prepensionare.
Gli esuberi potranno quindi tornare a casa: riposare, portare a spasso i nipotini. O anche lavorare altrove o per proprio conto, con quella abilità del tecnico, dell’impiegato, dell’operaio qualificato che io non ho. E quindi anche, forse, guadagnare qualche quattrino in aggiunta alla pensione. Che si vuole di più? Perché allora – come sembra – alcuni di questi tecnici od operai sono in collera? Perché si sono sentiti, appunto, bruscamente, violentemente, «esuberi»; perché non hanno scelto loro di andare a casa. Altri ha detto: non servite più; siete esuberi. Cioè: cosa, quantità, numeri.
Non è così semplice apprendere da un giorno all’altro che uno è cosa, quantità, numero. Al mattino, gli uomini quando si fanno la barba, si guardano allo specchio. Cercano di scrutare il proprio viso. È una storia curiosa questa di farsi la barba: uno guarda la sua faccia. Io mi faccio male la barba: quasi tutte le volte. Mi restano sempre dei peli non rasati, perché mi distraggo a guardare nello specchio me stesso, domandandomi: che razza di tipo sono? Temo che alcuni di quei prepensionati – almeno per un po’ di tempo – si faranno male la barba. Essi, che si sono sentiti esuberi, si guarderanno negli occhi; e quindi alcuni peli, distrattamente, non verranno rasati. Quello che provano le donne diventando esuberi, e non facendosi la barba, lo possono raccontare solo loro. Ma alcuni pensieri – proprio di loro: donne che tornano a casa – qualcuno può anche immaginarli.
Io potrei invece raccontare delle testimonianze di «cassintegrati » FIAT degli anni Ottanta, che ho letto e che ho presentato in un libro. Il fatto che più colpiva, leggendo quelle testimonianze, era il tentativo angoscioso di restare aggrappati alla fabbrica. Eppure la FIAT non è dolce. Era per bisogno di lavoro? Sì. Ma mi sembra non solo per bisogno di pane: anche – e parecchio – per sentirsi parte di un fare e un sapere collettivo. Anche dopo, essendo in CIG (Cassa integrazione guadagni), volevano restare insieme. Sembravano avere una paura folle, proprio folle, di disperdersi: più esattamente di frantumarsi.
Esuberi. CIG. Che strano vocabolario. Non già Giulio, Antonio, Luisa, Laura: esuberi, CIG. Un mio amico poeta, Cesare Viviani, ha scritto un bellissimo libro di poesie, che ha un titolo significativo: Preghiera del nome. Perché, di fronte agli «esuberi», non dovrei sentirmi comunista? Io speriamo che me la cavo, come diceva quel bambino napoletano, nel libro di Dall’Orta. Ma non posso lamentarmi. Io posso firmare questo articolo col mio nome.
«L’introduzione di un reddito minimo per i poveri di tipo non categoriale è stata cancellata dall’agenda politica. Il Governo Renzi si interessa solo di lavoratori con scarso reddito o disoccupati. Dimenticando chi non è mai entrato nel mercato del lavoro»
. da www.lavoce.info, 11 aprile 2014 (m.p.r.)
Solo lavoratori e disoccupati.
L’introduzione di un reddito minimo per i poveri di tipo non categoriale sembra di nuovo sparita dall’agenda politica. Rimandata dal Governo Letta a un lontano futuro, a favore della carta acquisti riservata solo, in via sperimentale, a una categoria di poveri così ristretta e cervelloticamente definita che i comuni fanno fatica persino a individuarli (come hanno ammesso anche Maria Cecilia Guerra e Raffaele Tangorra), nonostante l’evidenza dell’aumento della povertà assoluta, non fa parte delle riforme radicali che questo esecutivo ha in mente. Tra le tante raccomandazioni europee, è quella più ignorata, anche a parole, ancora più delle pur trascuratissime politiche di conciliazione tra responsabilità famigliari e lavorative.
Un ritorno all'Ottocento
Nella delega, il requisito dello status di disoccupato che ha esaurito il diritto all’Aspi per ottenere sostegno economico sembrerebbe contraddetto dal successivo comma 6, dove si propone “l’eliminazione dello stato di disoccupazione come requisito per l’accesso a servizi di carattere assistenziale”. Dato che non posso pensare che chi ha scritto i commi si sia distratto, temo che si tratti non di un allargamento delle norme di accesso all’assistenza economica, ma di una restrizione, per altro legittima, all’accesso ad altre prestazioni assistenziali: non basterà più essere disoccupati per avere l’abbonamento scontato sui mezzi pubblici o per non pagare i ticket sanitari. Occorreranno anche altri requisiti, in primis di reddito.
Per avere assistenza economica, tuttavia, non basterà essere poveri ed essere disponibili a mettere in opera tutte le attività necessarie per migliorare le proprie chances occupazionali. Occorrerà, appunto, anche aver perso il lavoro ed esaurito l’Aspi.Un’ultima osservazione: mentre si identificano i soli disoccupati come possibili beneficiari si assistenza economica, si dà una interpretazione assistenziale anche della indennità di disoccupazione, o Aspi. Al punto c del comma 6, infatti, si propone di individuare meccanismi che prevedano un coinvolgimento attivo dei soggetti beneficiari sia di Aspi che del sussidio di secondo livello, al fine di favorirne “l’attività a beneficio delle comunità locali”. Non solo l’assistenza, anche la previdenza sono così trasformate in beneficenza da contraccambiare con lavoro gratuito, neppure con i discussi e discutibili mini-jobs imposti agli assistiti in Germania. Più che la(s)volta buona, sembra piuttosto un ritorno all’Ottocento.
«I robot sono dietro l’angolo, ma «le strategie manifatturiere costruite sul risparmio di costo del lavoro stanno diventando fuori moda». Le variabili in gioco sono di più e sono più complesse». La
Repubblica, 13 aprile 2014
IL FENOMENO è mondiale, dall’America all’Europa. Negli Stati Uniti, fa addirittura parlare di rinascita dell’industria manifatturiera nazionale. Forse, gli americani esagerano. I numeri, però, cominciano ad essere indicativi, dice Luciano Frattocchi, dell’università dell’Aquila. Insieme a colleghi di Catania, Udine, Bologna, Modena e Reggio, Frattocchi ha costruito un gruppo di ricerca — UniCLUB MoRe — che tiene il conto. Negli Usa, sono ormai 175 le decisioni di rimpatrio, totale e parziale, di produzione. Ma dopo gli Usa, la classifica mondiale dei ripensamenti vede le aziende italiane, con un’impennata a partire dal 2009. Sono 79 unità produttive, che coinvolgono una sessantina di aziende. Circa il doppio di quanto si registra in Germania, in Gran Bretagna o in Francia. In un momento di diffusa paralisi del sistema industriale italiano, le condizioni a cui questi rimpatri avvengono, le loro motivazioni, le scelte strategiche che sottintendono riescono a dire molto, già oggi, di come potrà essere la ripresa prossima ventura dell’economia italiana.
Greenreport, 27 febbraio 2014, con postilla
Dall’opposizione Sinistra ecologia libertà prova a inserirsi in grande stile nel dibattito sulle prime misure economiche annunciate dal nuovo presidente del consiglio Matteo Renzi. Ieri Giorgio Airaudo ha presentato la proposta di legge per la «istituzione di un programma nazionale sperimentale di interventi pubblici denominato «Green New Deal italiano» contro la recessione e la disoccupazione», da attuare tramite l’istituzione di una Agenzia nazionale per gli anni 2014-2016.
Airaudo, presentando la proposta, ha ricordato i dati sconvolgenti pubblicati dall’Istat nell’ottobre 2013, quando i disoccupati erano arrivati a 3.189.000 e ha evidenziato che con queste cifre, anche «se il quadro economico mutasse e vi fosse un boom, occorrerebbero non meno di 15 anni per riportare l’occupazione a livelli che si possano considerare fisiologici e non si riuscirebbe comunque a tornare ai livelli precedenti (ad esempio al dato del 2005, che ha costituito l’anno migliore del nuovo secolo per l’occupazione nei Paesi Ue), tenendo presente che la maggior parte delle imprese stanno provvedendo a sostituire in misura e rapidità crescente il lavoro umano con varie forme di automazione».
Sel parte da una convinzione che è l’esatto contrario della ricetta neoliberista: «È l’occupazione che genera sviluppo, non il contrario. I dati relativi al tasso di disoccupazione nel nostro Paese mostrano un quadro di assoluta gravità che continua a peggiorare. Si tratta di una vera e propria emorragia di posti di lavoro, che colpisce gli under 30, ma non di meno tutte le altre fasce di età. Quello che più turba è l’enorme crescita di quanti si dicono “scoraggiati”, che hanno smesso di cercare lavoro perché ritengono di non trovarlo. La disoccupazione continua a crescere anche nell’ambito del lavoro precario, a riprova del fatto che la scelta di favorire contratti non a tempo indeterminato ha poco o scarso impatto sul problema occupazionale, mentre priva i lavoratori di molti diritti fondamentali».
Airaudo, in una conferenza stampa con Luciano Gallino, vero ispiratore del Green New Deal, ha detto che l’obiettivo della proposta di legge è quello di «creare 1 milione e mezzo di posti di lavoro in tre anni, impegnando circa 17 miliardi, con lo Stato che diventa datore di lavoro di ultima istanza». Si tratta della trasposizione in proposta legislativa di quell’Agenzia per l’occupazione ipotizzata da tempo dal sociologo torinese, che ha descritto più di un anno fa anche sulle pagine di greenreport.it.
Gallino ha dunque sottolineato che «la priorità di questo Paese è il lavoro, che è una cosa molto concreta che richiede risposte precise. Se ci si affida al mercato e agli incentivi è impossibile risolvere il problema della disoccupazione». Per Gennaro Migliore, capogruppo di Sel alla Camera, il Green New Deal italiano sarebbe «uno choc positivo per l’economia che però dovrà avere effetti benefici anche sull’ambiente e non devastarlo. Anche la competitività delle imprese italiane non verrebbe intaccata dall’impegno pubblico. Non si può affidare al mercato quello che il mercato non vuole e non può fare».
Ma dove prendere i soldi? 17 miliardi di euro non sono così pochi, di questi tempi. Airaudo ha però puntualizzato subito che «la copertura dell’investimento triennale dovrebbe venire dall’uso dei fondi della Cassa depositi e prestiti, anche attraverso l’emissione di obbligazioni, e dai Fondi strutturali europei. Con una responsabilizzazione degli enti locali, attraverso l’allentamento del patto di stabilità interno. Ma attenzione, con una clausola sull’occupazione netta: chi vincesse a livello locale questi appalti dovrebbe non aver licenziato nei 24 mesi precedenti e impegnarsi a non licenziare nei 24 mesi successivi». Un punto controverso, questo. Se da una parte si tratta di una strategia per evitare escamotage da parte dei soliti furbi, dall’altra rischia di penalizzare anche quelle imprese che negli ultimi due anni hanno giocoforza dovuto affrontare licenziamenti per poter sopravvivere.
Il piano straordinario per il lavoro di Sel è in ogni caso una potente sfida politica al Pd, visto che dovrà essere discusso nel percorso parlamentare del Jobs Act di Matteo Renzi. «Serve un New Deal ispirato a quello rooseveltiano, e noi pensiamo che lo Stato possa diventare datore di lavoro di ultima istanza»: per far questo, secondo Gallino, «gli interventi vanno concentrati nei settori ad alta intensità di lavoro», che per Sel sono «il risanamento delle scuole, la ristrutturazione degli ospedali e la manutenzione del territorio per contrastare il dissesto idrogeologico». Si tratta di un tipo di occupazione in gran parte immune ai rischi da quell’informatizzazione e automatizzazione che attualmente spingono verso la disoccupazione tecnologica e, cosa non meno importante, si tratta di posti di lavoro che per loro natura non possono essere delocalizzati, come ha sottolineato proprio Gallino.
Gallino ha spiegato le differenze tra questo Green New Deal dal Jobs Act di Renzi: «La proposta di Sel è una proposta concreta, precisa, si potrebbe approvarla in una settimana e farla partire in 15 giorni. Si tratta di una proposta argomentata in 40 pagine di dati e statistiche. Da Renzi, sul lavoro, vorrei vedere qualcosa di più sostanzioso perché finora siamo sul piano dei discorsi. Il Jobs Act che ho scaricato dal sito di Renzi è soltanto un dossier di poche pagine che contiene alcune idee interessanti e altre a dire il vero mirabolanti. Ad esempio è mirabolante l’idea di cambiare per intero la legislazione sul lavoro in 8 mesi. In Italia, la legislazione sul lavoro ha cominciato a evolversi il 1 gennaio 1948, quando è nata la Costituzione. Otto mesi sono pochi date queste premesse di contenuto. Quelle del Jobs Act sono poche paginette che volano per aria. Aspetto che le paginette di Renzi diventino qualcosa di più concreto».
A Gallino – che nel suo ultimo libro parla, fin dal titolo de “Il colpo di Stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa” – gli è stato chiesto come questo ragionamento faccia da premessa alla necessità di un Green New Deal e lui ha risposto: «Tra il novembre 2011 e il febbraio 2012 la Bce ha prestato alle banche europee più di un trilione di euro, ovvero più di 1000 miliardi. Le banche italiane ne hanno approfittato per 300 miliardi. Una frazione minima di questi miliardi sono finiti alle imprese e per creare occupazione; gli altri sono stati depositati come collaterali alla Bce per impieghi prevalentemente bancari e finanziari privi di impatto sull’economia reale».
Postilla
Il manifesto, 18 febbraio 2014. In calce qualche riferimento
Che fare quando il padrone di un’azienda decide di chiuderla, o di trasferirla all’estero per pagare meno tasse, o per pagare meno gli operai, o per poter inquinare l’ambiente senza tante storie? A lume di naso, la prima cosa da fare è requisire l’azienda (i sindaci hanno il potere di farlo, se non altro per motivi di ordine pubblico) e impedirgli di portar via i macchinari. Poi bisognerebbe bloccargli i conti e farsi restituire i fondi che, 90 probabilità su 100, ha già ricevuto dallo Stato sotto forma di contributi a fondo perduto, credito agevolato, sconti fiscali e contributivi (ma qui dovrebbero intervenire anche altre istituzioni: Governo e magistratura). A maggior ragione questo vale se l’imprenditore in questione pone delle condizioni inaccettabili per “restare”: per esempio dimezzare i salari, come all’Electrolux.
Le minacce di “andarsene” o la decisione di chiudere o vendere sono altrettante mosse di una corsa al ribasso per spremere sempre di più i lavoratori: la vicenda Electrolux insegna. Se si accettano le regole della globalizzazione liberista, che affida alla concorrenza al ribasso l’organizzazione e la distribuzione territoriale e settoriale della produzione, a questa logica non c’è scampo. Ma, obiettano i cultori dell’ortodossia economica (che in questo ambito accomuna liberisti e keynesiani), per non sottostare a questa logica una strada c’è: passare a produzioni a più alto valore aggiunto e maggiori margini: invece di produrre utilitarie, produrre Maserati e Jeep, invece di lavatrici e frigo, impianti industriali di refrigerazione, ecc. Più in generale, passare a produzioni a maggior contenuto di tecnologie e di ricerca.
Intanto per i prodotti ad alto valore aggiunto bisogna trovare un mercato, per lo più già occupato da qualcun altro. Per esempio, la Fiat (ora Fca) ha ben poche carte in mano per sottrarre quote del mercato europeo di fascia alta a Mercedes, Bmw o Audi. Per questo la produzione automobilistica di Fca Italia, e con essa i suoi stabilimenti, sono in gran parte condannati a morte. Per additare una via di uscita i teorici dell’ortodossia ricorrono a una vecchia teoria dello sviluppo degli anni ’60 di Albert Hirschman, detta delle “anitre volanti”: le economie sono come uno stormo di anatre che volano una dietro l’altra. Mano a mano che quelle di testa passano a livelli tecnologici e più avanzati, quelle che seguono vanno a occupare le posizioni abbandonate dalle prime; e così, tutte insieme, promuovono lo sviluppo globale. Ma quella teoria rispecchiava l’andamento delle cose cinquant’anni fa (Stati uniti in testa e, a seguire, Europa, Giappone, Corea, ecc.). Ma oggi non funziona più per il semplice motivo che molti dei paesi a più bassi livelli salariali e di protezione dell’ambiente, che proprio per questo sono diventate le manifatture del mondo (prima tra essi, la Cina), oggi sono anche molto più avanti di noi — e non solo dell’Italia, ma anche dell’Europa — nella ricerca scientifica e tecnologica: è devastante competere con loro sui livelli salariali, anche se molte imprese non vedono altra strada per cercare di sopravvivere; ma in molti casi è anche impossibile competere sui livelli tecnologici; soprattutto in Italia dove istruzione e ricerca sono ambiti disprezzati e negletti.
È questo il presupposto di una ricostruzione su basi federaliste di un’economia europea autosufficiente (ma non autarchica), non competitiva (nel senso di non più impegnata in quella corsa al ribasso che è sotto gli occhi di tutti), che sappia utilizzare le tecnologie disponibili e i saperi diffusi, sia tecnici che “esperienziali”, per riagganciare la produzione ai bisogni condivisi della popolazione attraverso il potenziamento di una nuova “generazione” di servizi pubblici locali in forme partecipate, sotto il controllo dei governi dei territori: in campo energetico (impianti diffusi, differenziati e interconnessi di utilizzo delle fonti rinnovabili ed efficientamento dei carichi energetici) e in quello agroalimentare (agricoltura di qualità ed industria alimentare a km0); nel campo di una mobilità flessibile, integrando trasporto di massa e trasporto personalizzato, sia di merci che di passeggeri, attraverso la condivisione dei veicoli; nel campo del recupero e della valorizzazione delle risorse (quello che noi oggi chiamiamo gestione dei rifiuti), nella salvaguardia e nella valorizzazione del territorio (assetti idrogeologici, urbanistici, paesaggistici, monumentali, industria turistica, ecc.) e, soprattutto, nei campi della cultura, della ricerca, dell’istruzione, della difesa della salute fisica e mentale di tutti.
Ecco, allora, profilarsi un destino diverso per le aziende abbandonate e senza più sbocchi; ecco un ruolo strategico per le amministrazioni locali che intendono farsi carico delle condizioni di vita, ma anche del patrimonio di esperienza, di conoscenza, di saperi tecnici, di abitudine alla cooperazione delle maestranze messe alla porta dai loro datori di lavoro; ed ecco, infine, il presupposto irrinunciabile per promuovere un’alternativa di governo, a partire dall’iniziativa locale, per far fronte al caos a cui ci sta condannando l’attuale governance europea. Detta così sembra un’utopia: ma andiamo incontro a tempi in cui prospettare soluzioni estreme e finora “impensabili” diventerà necessario.
Il valore è prodotto dal lavoro del lavoratore, scriveva Adam Smith ne "La ricchezza delle nazioni". Una rilettura più che utile oggi. S
bilanciamoci.info, 7 febbraio 2014
«Il prodotto del lavoro costituisce la ricompensa naturale, o salario, del lavoro. Nella situazione originaria che precede sia l'appropriazione della terra sia l'accumulazione dei capitali, tutto il prodotto del lavoro appartiene al lavoratore, che non ha né proprietario fondiario né padrone con cui spartirlo. Se questa situazione fosse durata, i salari del lavoro sarebbero aumentati insieme ai progressi delle capacità cui dà luogo la divisione del lavoro» .
manifesto, 12 dicembre 2013
Con il sociologo torinese Luciano Gallino riflettiamo sulla constatazione della segretaria Cgil Susanna Camusso secondo la quale «nell’attuale quadro economico e sociale non è più sufficiente evocare lo sciopero generale come unica modalità in cui si determina il conflitto sul tema del lavoro». Su questa affermazione si è tornati a riflettere ieri a Roma durante la presentazione del libro Organizziamoci (Editori Riuniti) che racconta alcune forme alternative di protesta: il «community organizing» teorizzato dal grande teorico americano Saul Alinsky, quello praticato oggi da sindacalisti come Valery Alzaga nella sua forma di «labour organizing».
«È un’affermazione che cerca di rispondere ad una trasformazione epocale — risponde Gallino — La produzione è stata frammentata nelle catene globali del valore e questo ha indebolito il potere dei sindacati e dei lavoratori. Un conto è quando uno sciopero interrompe la produzione in uno stabilimento. Un altro è quando quella stessa produzione è divisa in dieci stabilimenti in quindici paesi. In queste catene il peso del singolo anello produttivo o aziendale è molto diminuito ed è anche facilmente sostituibile. Se un’azienda in Thailandia non funziona, si passa in India».
I sindacati hanno capito come contrastare questa strategia?
«Non mi pare si sia fatto abbastanza. Lo sciopero è storicamente nato per recare danno ad un’impresa. Si suppone che l’interruzione della produzione per un giorno o più sia un danno per il capitale. Con la gravissima crisi in cui sprofonda l’Europa, e il mondo intero, è paradossale constatare che questa astensione conviene alle imprese che soffrono di un eccesso di capacità produttiva. Questa concomitanza ha ridotto il potere del lavoro. A ciò si aggiunge l’azione politica contro i sindacati che nel nostro paese reggono ancora in qualche modo, mentre in altri paesi le iscrizioni sono crollate. Ciò non toglie che i sindacati abbiano responsabilità non da poco nella loro difficolta a chiamare a raccolta i lavoratori».
Lo sciopero, tuttavia, non è affatto tramontato come forma di lotta. Basti pensare a quelli auto-organizzati dai tranvieri a Genova o a Firenze contro la privatizzazione del trasporto pubblico. Che impatto hanno avuto, se ne hanno avuto uno, sulla Cgil?
«Quegli scioperi hanno avuto un obiettivo specifico e importante: cercare di interrompere la folle corsa contro la privatizzazione, per modificare le politiche gestionali ma soprattutto, come è accaduto anche a Torino, per fare cassa. Genova su questo tema ha richiamato una notevole attenzione, anche se non mi pare abbia influito sul governo il cui chiodo fisso è privatizzare. Contrapporsi oggi alle privatizzazioni significa battersi contro una forma di lotta politica che la classe dirigente del nostro paese conduce contro i beni pubblici, i beni comuni e la possibilità di partecipare in qualche modo alle decisioni politiche. In queste lotte, non mi pare che la Cgil abbia battuto con forza il pugno sul tavolo».
Com’è cambiato il ruolo della Cgil dalla manifestazione al Circo Massimo nel 2002 alla quale parteciparono 3 milioni di persone?
«È cambiato molto. Bisogna dire che il 2002 era l’anno in cui si stava tamponando lo scoppio della bolla delle dot com, le imprese internet con miliardi in borsa. Il processo che oggi abbiamo sotto gli occhi era già avanzato. Allora però c’era ancora la domanda aggregata e ciò permetteva una libertà di manovra che oggi non c’è più. Anche per questo lo sciopero diventa un’arma spuntata».
Nel frattempo sembra essere definitivamente saltato il classico legame tra partito e sindacato, tra Cgil e Pd che sembrava essere assicurato ancora da Epifani e oggi sembra escluso con Renzi. Un rapporto che già ai tempi di Cofferati aveva conosciuto tensioni, in particolare con la «sinistra» Pd…
Già ai tempi di Cofferati c’erano problemi, figuriamoci adesso che il rapporto è evanescente, visto che per quello che si sa, le proposte economiche e sul lavoro di Renzi vanno in direzione di un ulteriore allontamento. Quel po’ di sinistra che esisteva nel Pd mi pare che dopo gli ultimi cambiamenti si sia ridotta ulteriormente. Il sindacato, parlo soprattutto della Cgil, ha bisogno di un partito a cui appoggiarsi. Se non c’è un riferimento culturale o politico, si ritrova solo. Con la segreteria di Renzi quel po’ di sostegno che nonostante tutto c’era nel Pd scenderà ulteriormente. Mi piacerebbe essere smentito.
Cosa pensa di forme di lotta come quelle contro le grandi opere o per i beni comuni?
Servono, figuriamoci. In più abbiamo la necessità di pensare a migliaia di piccole opere per ridare un certo pregio alle cose che sono degenerate negli ultimi anni. Però il loro impatto sulla dimensione strutturale del capitalismo non c’è o è molto pallida. Queste lotte hanno un’utilità per certi scopi specifici, come si è visto con il referendum sull’acqua. Anche se poi i comuni se ne sono infischiati. Lo si è visto nello sciopero dei trasporti a Genova dove il discorso sui beni comuni ha avuto un’incidenza. Bisogna però chiedersi perchè i politici insistono per dare sempre più spazio alla vulgata neoliberale. Ci sono eccezioni, ma la maggioranza dei comuni è dominata dall’ideologia neoliberale che domina nel governo e nei partiti politici, nessuno escluso, o quasi.
Dunque, insieme alla ricerca di forme di proteste alternative bisogna partire da una battaglia culturale che contrasti l’ideologia dominante?
È così. Oggi siamo ad un bivio: da un lato c’è la democrazia, dall’altro il capitalismo. È possibile avere l’una senza l’altro? È possibile un qualche tipo di accettabile conciliazione tra i due come nel trentennio dopo la seconda guerra mondiale? Lo sarà solo se alcuni milioni di persone si sveglieranno, insieme ai partiti politici. Oggi, probabilmente, una qualche soluzione è possibile. Altrimenti andremo verso un capitalismo senza democrazia o con forme davvero povere di democrazia.
«il manifesto, 3 dicembre 2003
Quello toscano non è l'unico caso e neppure un'eccezione. Il «terzo mondo» di casa nostra è una realtà che colpevolmente facciamo finta di non vedere. Tutte le mattine nella piazza principale di Villa Literno si svolge un mercanteggiamento che ha per oggetto una merce particolare: braccia umane, africane soprattutto ma da qualche tempo anche rumene, da sfruttare in agricoltura come i ragazzini messi in vendita ogni 15 agosto nella piazza del Duomo di Benevento e raccontati da Corrado Alvaro. Nella cittadina del casertano la chiamano «piazza degli schiavi», e mai come in questo caso la vox populi è riuscita a trovare le parole giuste per descrivere la realtà.
Nella Terra di lavoro campana vive e lavora in condizioni terribili la più ampia comunità africana d'Italia. L'Italia si indignò solo quando, nel 2008, un commando dei Casalesi sterminò sette persone in una rappresaglia di stampo nazista.
Chi si trovasse a percorrere, sul far dell'alba, la via Pontina dalle parti di Sabaudia, potrà incrociare centinaia di ciclisti con i turbanti. Sono i bufalari sikh della «little India», dove le bufale non si chiamano più cantando, come faceva il Cosimo Montefusco incontrato da Rocco Scotellaro in Contadini del sud. «Un'immigrazione silenziosa e operosa», come l'ha definita il sociologo Marco Omizzolo, che fa notizia solo quando qualcuno di loro finisce vittima di un pirata della strada, meritandosi al massimo una breve nelle cronache locali.
Qualche giorno fa, a Rosarno, un africano è morto di stenti. Nelle campagne calabresi i raccoglitori di arance e mandarini vivono e lavorano in condizioni disumane, come ai tempi di Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini. La situazione è talmente precaria che Emergency ha aperto per loro un ambulatorio come in Afghanistan o in Sudan. Neppure la rivolta del 2010 è riuscita a modificare la loro condizione: quando le acque si sono calmate, sono tornati invisibili come il Garabombo di Manuel Scorza.
Si potrebbe continuare menzionando i «clandestini» dell'industria del falso che alimentano i roghi della Terra dei fuochi, o ricordare come, mentre si festeggiava la vittoria dell'Italia ai mondiali del 2006, un rogo in un materassificio ricavato in uno scantinato, in provincia di Salerno, uccise due operaie italiane che lavoravano al nero per due euro l'ora. Una di loro era anche minorenne e per questo la politica si commosse per qualche ora e poi passò a parlar d'altro.
I morti di Prato sono cinesi e non votano neppure alle primarie del Pd, ma come gli africani di Rosarno e i bufalari pontini sono indispensabili a far girare la ruota di un sistema economico che nessuno si sogna di mettere in discussione dalle fondamenta. Se ne parlerà meno e forse è persino preferibile. Almeno evitiamo eccessive ipocrisie.
Welfare, reddito di cittadinanza, reddito medio garantito, esclusione: temi in discussione, che rinviano a due grandi questioni: quella del diritto alla sopravvivenza e quella del lavoro. I
l manifesto, 15 novembre 2013Nel nostro paese il rischio di esclusione sociale e la crescita ininterrotta dei livelli di povertà (assoluta e relativa) sono tanto alti quanto miseri o inesistenti gli strumenti necessari a combatterli. A partire da condizioni così colpevolmente arretrate non si può che apprezzare il fatto che ben tre proposte di legge (di un gruppo di parlamentari Pd, di Sel e, infine del M5S) siano state presentate alle Camere nell'ultimo anno. Incontrando tuttavia una forte resistenza anche a sinistra dove la più grossa di tutte le balle, la promessa della piena occupazione, continua incredibilmente a godere di un vasto credito. Sentire parlare della insostituibile «dignità del lavoro» di fronte alle condizioni semiservili e ultraricattate in cui versa gran parte del lavoro precario e non poco lavoro dipendente fa accapponare la pelle. In realtà la proposta di legge dei 5Stelle, la più dettagliata delle tre, è più che altro una proposta di Reddito minimo garantito (Rmg) il quale a sua volta, ben lungi dall'assumere i caratteri universalistici e incondizionati del reddito di cittadinanza, costituisce una rivisitazione del sussidio di disoccupazione nell'epoca in cui quest'ultima ha assunto caratteri strutturali e permanenti. Cosicché l'erogazione del reddito è sottoposta a un complicato apparato di verifica e di controllo della «disponibilità all'impiego», che facilmente tende a trasformarsi in uno strumento di ricatto, quando non di coercizione. Incompatibile con quella salvaguardia della libertà e della dignità della persona stabilita dalla Carta di Nizza.
L'Rmg, in vigore in quasi tutti i paesi d'Europa, argina solo limitatamente l'imposizione di lavoro sottopagato e sovente a condizioni ben lontane anche dal più elastico concetto di «dignità». Basti pensare ai mini-job della competitiva Germania, molto simili a una istituzionalizzazione del lavoro nero e dei suoi tassi di sfruttamento, ritenuti indispensabili dalla confindustria tedesca per mantenere gli attuali livelli occupazionali.
Ma se perfino in Europa la questione di un reddito che garantisca a tutti i cittadini un livello di vita decente e libero da coazioni è lungi dall'aver trovato una risposta adeguata, in Italia siamo ancora, nel pieno di una crisi disastrosa, a sollevare la «questione morale» di un reddito svincolato dal lavoro che non c'è o non c'è in termini accettabili. E che quindi non può continuare a fungere da unità di misura dell'inclusione sociale, laddove ormai diverse forme di attività, estranee alle categorie classiche del lavoro, contribuiscono a mantenere e perfino a sviluppare quel legame sociale che i «mercati», compreso quello del lavoro, stanno finendo di devastare.
La questione del reddito di cittadinanza è la questione stessa delle società postindustriali, e ci impone un ripensamento complessivo del welfare, capace di contrastare quello smantellamento dello stato sociale che fa leva tanto sulla sua inefficienza burocratica quanto sull'insoddisfazione dei tanti che ne restano esclusi. E non è certo a partire dal sussidio elargito sotto il controllo di un ufficio di collocamento che questo ripensamento può prendere le mosse. Tuttavia il tema del reddito e di una redistribuzione delle risorse è posto. Si tratta di non fermarsi alle versioni minimaliste e inefficaci.
!La Consulta: l'esclusione dei sindacati che non firmano i contratti è incostituzionale. Ora il Lingotto volti pagina. Un colpo per la Fiat: «Ora una legge che ci tuteli». E in Parlamento si discuta di rappresentanza»Il manifesto, 4 luglio 2013
Una bella sorpresa d'estate. O una doccia gelata. A seconda di chi la guardi, la sentenza emessa ieri dalla Corte costituzionale è certamente importante, e potrebbe cambiare i rapporti di forza interni alla Fiat: bene l'ha presa la Fiom, a cui i giudici della Consulta hanno dato ragione. Male, malissimo l'ha accolta l'ad del Lingotto, Sergio Marchionne: che adesso chiede una legge, per operare con certezza sulla rappresentanza.
La vittoria della Fiom, attenzione, consiste nella bocciatura dell'articolo 19 (o meglio, di una parte di esso) di una legge amatissima a sinistra, lo Statuto dei lavoratori: quell'articolo, applicato alla lettera dalla Fiat, aveva escluso la Fiom dalla rappresentanza aziendale. I fatti erano avvenuti quando il Lingotto aveva deciso di uscire dalla Confindustria e crearsi un contratto su misura per le proprie fabbriche, e lo aveva successivamente siglato con tutti i sindacati, tranne la Fiom.
La Fiat aveva a quel punto deciso di applicare alla lettera l'articolo 19, escludendo - legalmente - la Fiom dall'elezione delle Rsa: lo Statuto dispone infatti all'articolo 19 che possano avere Rsa solo i sindacati firmatari del contratto. In realtà non è la formula originaria dello Statuto del 1970 ad aver introdotto queste regole: fu una riforma di quell'articolo, successiva a un referendum del 1995, a definirle. Ma, evidentemente, contro la Costituzione. La Fiom ha deciso quindi di fare immediatamente ricorso, in particolare appellandosi agli articoli 2, 3 e 39 della nostra Carta fondamentale: secondo i suoi legali, l'articolo 19 dello Statuto lede il principio solidaristico e viola i principi di uguaglianza e libertà sindacale, in particolare il «divieto» di discriminazione sulla base dell'appartenenza a un partito o a un sindacato. La Consulta, ieri, ha evidentemente ritenuto fondati i rilievi della Fiom.
La Corte, si legge nella nota emessa alla fine della camera di consiglio, «ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 19, 1 c. lett. b della legge 20 maggio 1970, n. 300 ("Statuto dei lavoratori") nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale sia costituita anche nell'ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie di contratti collettivi applicati nell'unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori».
In serata è arrivata una nota molto critica della Fiat: «Con questa decisione - dicono a Torino - la Corte ha ribaltato l'indirizzo che aveva espresso nelle precedenti numerose decisioni sull'argomento nei 17 anni durante i quali è in vigore l'articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori nella sua attuale formulazione. Sembra che la Consulta abbia collegato il diritto a nominare le Rsa alla partecipazione alla negoziazione dei contratti. Se questa lettura è corretta, la decisione non appare riferibile alla posizione assunta dalla Fiom, che, a priori, ha sempre rifiutato qualsiasi trattativa sui contenuti del contratto di Fiat S.p.A. e di Fiat Industrial».
«Fiat - continua l'azienda - ha sempre preso tutte le decisioni di tipo industriale tenendo conto della legislazione vigente e in particolare, dell'articolo 19 dello Statuto, modificato nel 1996 in seguito al referendum del 1995. Ricordiamo che il referendum che ha introdotto l'articolo 19 nella sua presente forma fu promosso da Rifondazione Comunista e dai Cobas con l'appoggio pieno della Fiom». «Viste le incertezze sollevate da questa decisione della Corte, la Fiat rimette piena fiducia nel legislatore affinchè definisca un criterio di rappresentatività più solido e più consapevole delle delicate dinamiche delle relazioni industriali, che dia certezza di applicazione degli accordi, garantisca la libertà di contrattazione e la libertà di fare impresa».
Incassa Maurizio Landini: «La Costituzione rientra in fabbrica - dice il leader Fiom - È una vittoria di tutti i lavoratori. Non ci sono più alibi: il governo convochi subito un tavolo con la Fiat e tutti i sindacati per garantire l'occupazione e un futuro industriale». «È ora - conclude - che il Parlamento approvi una legge sulla rappresentanza». Critica invece la Fim Cisl: «Nella sentenza ci sono contraddizioni». Soddisfazione per la pronuncia da Cgil, Pd, Sel e Prc.
il manifesto, 28 giugno 2012, Con postilla e qualche riferimento
Nelle storie parallele della sinistra e dello sviluppo capitalistico, lavoro e reddito hanno sempre costituito due facce della stessa medaglia e camminato nella stessa direzione: più lavoro e più reddito nelle fasi di crescita, meno lavoro e minori redditi in quelle di crisi. Nel tempo sinistra e sindacati hanno conquistato strumenti per affrontare le crisi con ammortizzatori sociali a difesa del reddito anche quando il lavoro diminuiva. Con essi la relazione diretta tra lavoro e reddito veniva incrinata nella convinzione comune che la tenuta dei redditi avrebbe evitato la caduta della domanda e favorito la ripresa dell'occupazione.
Negli ultimi anni un attacco a quella relazione è venuto dal fronte opposto: riducendo il lavoro stabile e sviluppando quello precario, anche nei pochi anni in cui il lavoro complessivo è aumentato, i redditi da lavoro sono diminuiti. Con la crisi, quella relazione è stata ripristinata - meno lavoro e meno redditi in una spirale recessiva di cui non si intravede la fine - ed adesso, tra disoccupati che corrispondono alle definizioni statistiche e scoraggiati con diverse sfumature, le persone cui viene negato il diritto sia al lavoro che al reddito superano i cinque milioni.
In questo contesto, ed a quanto sembra solo nella sinistra italiana, si sta sviluppando un dibattito sulle possibili vie d'uscita che introduce ulteriori elementi di separazione, anzi di vero e proprio divorzio, tra lavoro e redditi: le proposte di reddito di cittadinanza e di reddito inserimento, di reddito minimo e di reddito sociale nascono da questa linea di ricerca e tendono a garantire forme di reddito sganciate dalla prestazione lavorativa. A queste proposte si aggiungono quelle che intendono affrontare la lotta alla disoccupazione agendo non sul reddito, ma sul lavoro attraverso la ridistribuzione delle ore lavorate.
I sostenitori le due opzioni sono mossi dalla convinzione che i livelli di disoccupazione raggiunti non saranno facilmente assorbiti, mentre altri a sinistra vedono in queste ipotesi il pericolo di una accettazione della realtà e di una rinuncia al diritto al lavoro. Siamo di fronte, così, ad un dibattito sul futuro di lavoro e reddito che non è nuovo a sinistra. Senza risalire fino a Marx e Keynes, esso ha alle spalle, elaborazioni affascinanti come quelle degli anni ottanta e di Andrè Gorz, concrete sperimentazioni generali come quella francese sulle 35 ore ed applicazioni emergenziali per affrontare situazioni di crisi di settori produttivi.
Quale è il bilancio di quelle esperienze? Se si esclude quella tedesca nel settore auto che ha ricalcato il modello dei contratti di solidarietà tra lavoratori di una azienda per difendere il posto di tutti, l'esperienza delle "35 ore in un solo paese" è stata di fatto vanificata dalle leggi ferree della competizione globale, mentre le teorie di Gorz sulla distribuzione del lavoro tra persone e nell'arco della vita sono rimaste nel libro dei sogni della sinistra. Ci ritroviamo così con una disoccupazione che ha raggiunto dimensioni senza precedenti in tutti i paesi sviluppati, mentre niente lascia prevedere che ci potrà essere una ripresa con tassi di crescita tali da consentirne il riassorbimento.
Perché è accaduto tutto questo e siamo di fronte oggi ad una crisi che sta trascinando verso il baratro lavoro e redditi insieme? Erano quelle, teorie e pratiche infondate ed utopiche? Sono state promosse in tempi non ancora maturi? Ci sono oggi le condizioni per introdurre una vera e propria rivoluzione nel lavoro che riguarda tempi, redditi e loro distribuzione?
Le risposte debbono muoversi tra due esigenze estreme: quella di misure immediate per alleviare i drammi del lavoro perduto e la disperazione di chi lo cerca invano; quella di soluzioni convincenti e di lungo periodo adeguate al carattere strutturale della crisi. Tra questi due estremi si dovrebbe delineare un percorso di lavoro che vorrei provare a indicare per punti.
1) Una ripresa economica, incentrata sui settori produttivi avanzati, nel recupero - urbano ed ambientale - e nei servizi alla persona è senza dubbio condizione importante per bloccare la caduta e creare nuovo lavoro.
2) Ma questo processo difficilmente potrà dare risultati significativi a breve-medio termine. Quindi misure straordinarie che attenuino gli effetti più pesanti della disoccupazione si impongono.
3)L'istituzione di un reddito di cittadinanza può rispondere a questa esigenza fungendo da ammortizzatore sociale di emergenza.
4) Essa è l'unica capace di saldare presente e futuro introducendo un principio di valore strategico: la ricchezza va distribuita non solo a coloro che contribuiscono a produrla col lavoro prestato nella sfera del mercato creando valori di scambio, ma anche a coloro che prestano attività sociali, cooperative e di cura che generano valori d'uso senza riceverne, però, una remunerazione.
5)In questo modo il reddito di cittadinanza potrebbe diventare uno strumento di "emersione e riconoscimento" di quelle attività e di loro "valorizzazione".
6) Se è vero come è vero che tantissime attività (lavoro domestico e di cura in primo luogo) producono Pil se svolte come lavoro retribuito e valgono zero se svolte gratuitamente nell'ambito familiare e del volontariato sociale, una loro "valorizzazione" tramite un reddito di cittadinanza avrebbe un altro valore strategico: far cadere quel muro che separa artificiosamente lavoro e non lavoro. occupazione e disoccupazione.
7) La distinzione tra occupati e non, infatti, è sempre più lontana dal rappresentare la realtà: all'interno del mondo del lavoro esistono ormai tante posizioni in termini di sicurezza e durata del lavoro che si può parlare di veri e propri mondi differenziati e qualche volta addirittura configgenti. Non molto diversa è la situazione nella sfera dei non occupati dove convivono aree di disperata emarginazione accanto ad aree di creatività e di impegno sociale che, in alcuni casi sono veri e propri avamposti di una nuova relazione tra lavoro e vita.
8) Insomma oggi tra occupati e non si snoda un mondo estremamente variegato in un continuum con mille sfumature. Un mondo ancora molto ancora da indagare, ma certamente non più racchiudibile nello schema classico occupati-disoccupati.
9) In questo nuovo contesto la ridistribuzione del lavoro è il secondo sentiero da percorrere. Essa può offrire risposte all'emergenza nelle situazioni di crisi con contratti aziendali di solidarietà.
10) Ma la ridistribuzione del lavoro può essere anche una risposta strategica alla diminuzione strutturale del lavoro necessario: ridistribuire il lavoro significa mettere in discussione anche i ruoli sociali, la separazione tra lavoro produttivo e lavori domestici e di cura, la relazione tra tempi di vita e di lavoro.
11) Si potrebbe, insomma, pensare ad un contratto nazionale ed europeo di solidarietà per la liberazione del lavoro e dal lavoro.
12)Ed infine: un percorso così ambizioso e complesso può essere tracciato solo da economisti ed esperti senza una partecipazione attiva dei soggetti interessati, delle mille sfumature di occupati e non e senza una sinistra politica e sindacale che elabori, ed a livello europeo, un progetto di futuro di fronte ad una crisi epocale come quella in cui siamo immersi?
Postilla
Nel 6° punto l'autore allude alla questione di fondo: è accettabile il rapporto tra lavoro e persona proprio del sistema capitalistico? A nostro parere no. Abbiamo affrontato questo tema in più occasioni (come in questa nota), e vi ritorneremo. La questione oggi è sintetizzabile in due punti: (1) è necessario definire l'obiettivo da proporsi , cioè quale concezione del lavoro in relazione alla persona si voglia assumere; occorre poi (2) valutare quali siano le proposte necessarie e possibili oggi in relazione alla loro coerenza con l'obiettivo. Quest'ultimo, a nostro parere, deve partire dal riconoscimento del fatto che il lavoro è lo strumento universale che l'uomo impiega per conoscere e trasformare il mondo in relazione ai suoi crescenti bisogni (che non si riducono a quelli elementari): che quindi non può essere "alienato" (finalizzato ad altro da sè, nella fattispecie alla formazione di profitto), e deve essere socialmente riconosciuto (quindi retribuito), quale che sia la sua rilevanza ai fini della produzione di merci. Si veda in proposito il pragrafo "il bisogno, il lavoro" della mia relazione qui)) . Sull'argomento si vedano anche gli articoli di Giorgio Lunghini, Piero Bevilacqua, quelli di Chiara Saraceno, Marco Bascetta e Sandro Mezzadra nella cartelle Lavori e - last but not least - quelli di Carlo Marx e di Claudio Napoleoni
Due questioni inseparabili: come costruire una società e un'economia fondate su una concezione "umana" del lavoro; come cominciare a farlo da subito.
Il manifesto, 19 giugno 2013
A me sembra che ciò che il mondo contemporaneo consuma in un anno o in un giorno dipenda assai più da ciò che scommette, ipotizza, immagina, proietta che non da ciò che realmente produce. L'alea di un futuro consumabile è ogni giorno sul mercato. Il capitale finanziario e gli effetti che esso determina materialmente sulle nostre vite, non scompaiono semplicemente perché ne decretiamo l'irrealtà. Non si chiamano forse «prodotti» i pacchetti finanziari che il mellifluo funzionario della banca offre alla sua clientela? E ha ancora un senso parlare di «Repubblica fondata sul lavoro» a proposito di un paese in cui il più grande dei sindacati è quello che rappresenta i pensionati, massa crescente di rentiers di cui mi sembrerebbe un po' efferato reclamare l'eutanasia?
Dovremmo dunque evitare di ricondurre costantemente la discussione sul reddito di cittadinanza iuxta propria principia. Se non per un aspetto più filosofico che economico, ossia la contrapposizione o quantomeno l'attrito tra l'etica del lavoro e l'etica della libertà. Negare questo attrito comporta, come sappiamo, conseguenze assai funeste. Ma una volta messo al sicuro il principio converrà volgere lo sguardo alle condizioni in cui ci troviamo, sottraendo il lavoro a quell'astrattezza sovrastorica che ne maschera le metamorfosi formali e sostanziali, e collocare in questo contesto il tema del reddito incondizionato.
Quel reddito - sostiene Lunghini - «è semplicemente l'eccesso del salario percepito dai lavoratori occupati rispetto al costo di riproduzione di questi». Questa eccedenza, come sappiamo, è inerente al rapporto capitalistico e, più in generale, a ogni processo di accumulazione. Ma può prendere diverse strade, a seconda dei rapporti di forze e delle conseguenti politiche redistributive. Questione che, di fronte all'enorme concentrazione della ricchezza cui assistiamo, non è certo trascurabile. Tuttavia la questione più importante è un'altra.
Secondo Lunghini il reddito di cittadinanza costituirebbe un palliativo incapace di garantire autonomia politica ed economica ai non occupati, suscettibile di accrescerne il numero e l'emarginazione. Tutte queste conseguenze effettivamente negative derivano da un punto di vista che considera il reddito di cittadinanza, come un puro e semplice ammortizzatore sociale, una compensazione in termini di reddito garantito di quanto non offre più il mercato del lavoro salariato. Ed è un presupposto sbagliato. Per rendersene conto bisogna porsi almeno due domande: di cosa si occupano i non occupati? E cosa se ne fa il capitale delle loro vite? I cosiddetti non occupati, tra cui bisogna annoverare un gran numero di lavoratori intermittenti, temporanei, occasionali, costituiscono il più grande se non l'unico laboratorio di sperimentazione e progettazione di nuovi servizi e attività culturali, sociali, politiche, nonché di attività produttive minori, in perenne conflitto con norme e regolamentazioni imposte da burocrazie nazionali ed europee che operano al servizio di corporazioni e poteri forti. Il tutto fiscalmente penalizzato nell'illusione, di incrementare il mercato del posto fisso. Per tornare a una formula più volte ribadita esiste una vasta cooperazione sociale produttrice di ricchezza, non riconosciuta in termini di reddito e di garanzie. Quanto alla seconda domanda, il capitale cattura a piene mani, trasformando in sua proprietà o in suo prodotto, procedimenti e risultati di questo insieme complesso di attività, avvalendosi anche di un apparato giuridico e contrattuale che spudoratamente lo agevola.
Ma proprio qui si manifesta il punto decisivo del conflitto e cioè il controllo sulla cooperazione sociale e sull'attività dei singoli. Se, infatti, attraverso il reddito di cittadinanza retribuiamo, senza la sacra mediazione del mercato, un insieme di interazioni sociali e di scelte produttive a prescindere dalla forma o direzione che esse prenderanno, o dal genere di bisogni e di desideri che intendono soddisfare, allora, e qui torniamo ai principi, il lavoro sarà subordinato a un'etica della libertà. E ci troveremmo più dalle parti della costituzione americana che di quella italiana, il che non significa viaggiare verso la legittimazione del capitalismo selvaggio. Il feticismo del reddito da lavoro come unico fondamento dell'autonomia del singolo deriva dal fatto che il lavoro presuppone sempre un datore di lavoro o un committente, un comando, un controllo e dunque, in ultima analisi, una eteronomia.
Il presupposto da cui muove Lunghini non può che essere pienamente condiviso: «Il livello della produzione capitalistica non viene deciso in base al rapporto tra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di una umanità socialmente sviluppata, bensì in base al saggio dei profitti». Se si vuole sostenere una crescita dell'occupazione che poggi sulla soddisfazione dei bisogni insoddisfatti, e in quanto tali inesauribili, bisognerà avventurarsi «fuori dalla dimensione capitalistica e mercantile della società», agendo negli spazi, se ve ne sono, che essa non intende occupare.
Se è vero che i "lavori concreti" contribuirebbero, attraverso il soddisfacimento di bisogni sociali, anche alla produttività del lavoro astratto impegnato nella produzione di valori di scambio, e magari al contenimento del suo costo, non è altrettanto vero che contribuirebbero ad accrescere l'autonomia della comunità operosa del precariato. Il reddito di cittadinanza non è che la possibilità di agire, avendo garantite dignitose condizioni di vita, fuori dal mercato senza per questo dover sottostare all'esame di uno "stato etico", alla sua idea di "concretezza" e "utilità". È, al tempo stesso, un mezzo di produzione e uno strumento di libertà. Un investimento al buio sulle soggettività e sulla potenza della loro interazione. Bisogna fidarsi di questi "spiriti animali" senza scopo di lucro? Forse. Dello stato è abbastanza assodato che no. Tra le tante definizioni che del reddito di base sono state date se ne potrebbe allora aggiungere un'altra: reddito di libertà.
Il manifesto, 13 giugno 2013
Gestire i corpi
Rapporti di forze
Quando una improbabile crescita dell’economia è sì condizione necessaria per realizzare la piena occupazione, ma non anche sufficiente, il problema di fondo di una società capitalista si aggrava. Problema di fondo che si può evocare con questo disegnino:
Se si è d’accordo su ciò, e se si conviene che presupposto della democrazia è la democrazia economica; e che a sua volta la democrazia economica presuppone la massima occupazione possibile e una distribuzione della ricchezza e del reddito né arbitraria né iniqua, allora si deve anche convenire che nessuna forma di reddito garantito costituisce una soluzione del problema. Il reddito di cui dispongono i lavoratori non occupati è il risultato di un trasferimento da parte dei lavoratori occupati, attraverso lo Stato o direttamente all’interno della famiglia. Quel reddito è semplicemente l’eccesso del salario percepito dai lavoratori occupati rispetto al costo di riproduzione di questi. Il palliativo rappresentato da un reddito di cittadinanza o di esistenza non risolverebbe la questione dell’autonomia economica e politica dei non occupati, probabilmente ne aumenterebbe il numero, ne certificherebbe l’emarginazione, favorirebbe il voto di scambio e lascerebbe irrisolta la questione dei bisogni sociali insoddisfatti. L’autonomia economica e politica presuppone un reddito da lavoro.
Diverse e positive sarebbero le conseguenze dell’altra soluzione cui si può pensare: una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro; tuttavia una politica di riduzione dell’orario di lavoro (a parità di salario) suscita oggi ovvie e probabilmente insuperabili resistenze da parte dei capitalisti, e implicitamente assume che le merci possano soddisfare tutti i bisogni. Nello stato attuale del mondo, la redistribuzione del lavoro come forma di trascendimento è una prospettiva da perseguire con determinazione ma difficilissimamente praticabile in un paese solo, se non altro per i vincoli di competitività nel settore che produce sovrappiù. Per tutta la lunga durata della depressione che si annuncia, la riduzione dell’orario di lavoro rischia di essere una forma di rispettabile compromesso aziendale tra capitale e lavoratori occupati, che però non fa diminuire la disoccupazione e rimane confinato alla logica della produzione di merci. L’idea che giustifica le politiche di riduzione dell’orario di lavoro è quella di una ripartizione dei guadagni di produttività tra imprese e lavoratori, in termini, per questi ultimi, di minori tempi di lavoro anziché di maggior salario. Dunque presuppone salari di partenza relativamente elevati e una situazione economica e sociale florida, tendenzialmente di piena occupazione. L’esatto contrario della situazione attuale. Altrimenti si tratta di licenziamenti ‘parziali’ accettati in cambio di aspettative di stabilità del posto di lavoro, ma con una ulteriore divisione tra occupati e non occupati e con una maggiore ‘flessibilità’ all’interno della fabbrica e sul mercato del lavoro.
Il livello della produzione capitalistica non viene deciso in base al rapporto tra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di una umanità socialmente sviluppata, bensì in base al saggio dei profitti. La produzione di merci si arresta non quando i bisogni sono soddisfatti, ma quando la realizzazione del profitto impone questo arresto. Anche se la produzione di merci riprendesse a crescere, non si avranno variazioni significative nell’occupazione se non in lavori servili, precari e a basso reddito. Si avrà dunque una crescita sia dei bisogni sociali insoddisfatti sia della disoccupazione. La soluzione di questo problema – troppe merci, poco lavoro – va cercata altrove, al di fuori della dimensione capitalistica e mercantile della società. C’è oggi coincidenza tra una situazione di crisi gravissima e prospettive di nuovi spazî politici. Non si tratta di uscire dal capitalismo, ma di occupare quella terra di nessuno dell’economia e della società nella quale le merci non pagano. Questa terra esiste, lo dimostrano da un lato i tanti bisogni sociali insoddisfatti, dall’altro le tante attività che non sono mosse dall’obiettivo del profitto. Volontariato, associazionismo, movimenti ambientalisti, cooperative, centri sociali, attività tutte sospette in quanto non si piegano al criterio del calcolo e del lucro, sono tutti segni non sospetti di questa realtà (al punto che a queste attività si assegna una funzione surrogatoria).
Nella produzione di merci “col carattere di utilità dei prodotti del lavoro scompare il carattere di utilità dei lavori rappresentati in essi, scompaiono dunque anche le diverse forme concrete di questi lavori, le quali non si distinguono più, ma sono ridotte tutte insieme a lavoro umano eguale, lavoro umano in astratto”. Si tratta proprio di ciò, di promuovere e organizzare lavori concreti (in contrapposizione al lavoro astratto impiegato nella produzione di merci), lavori destinati immediatamente alla produzione di valori d’uso, lavori che non siano meri ammortizzatori sociali, ma lavori capaci di soddisfare i bisogni sociali che la produzione di merci non soddisfa. Così come ci sono bisogni assoluti e bisogni relativi, ci sono servizi tecnicamente individuali e servizi tecnicamente sociali. L’azione più importante dello Stato, attraverso istituzioni appropriate e tutte da inventare, si riferisce non a quelle attività che gli individui privati esplicano già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, a quelle decisioni che altrimenti nessuno prende, a quanto altrimenti non si fa del tutto.
Si tratterebbe dunque di destinare parte del sovrappiù realizzato nella produzione di merci, alla messa in moto non di lavoro improduttivo (nel senso smithiano-marxiano del termine) destinato al soddisfacimento di bisogni relativi, ma alla promozione di lavori immediatamente destinati alla soddisfazione dei bisogni sociali assoluti. Lavori prestati non nella sfera della produzione di merci ma nella sfera della riproduzione sociale e della manutenzione almeno dell’ambiente. Principalmente lavori di cura, in senso lato, delle persone e della natura. Lavori di cui vi è una domanda che i mercati del lavoro e delle merci non registrano, perché corrispondono a bisogni privi di potere d’acquisto individuale.
Mentre il lavoro astratto socialmente necessario dipende dalle tecniche di produzione adottate nella produzione di merci e si scambia sul mercato del lavoro, i lavori concreti dipendono dai bisogni sociali, questi sì inesauribili, e si scambiano non su un mercato ma nella società. In quanto intesi al soddisfacimento di bisogni sociali, i lavori concreti hanno di necessità una dimensione territoriale ben precisa e richiedono e impongono forme democratiche di rilevazione e controllo locale della domanda e di organizzazione decentrata dell’offerta. I lavori concreti non sono esposti alla concorrenza internazionale e devono rispondere a criteri di efficacia piuttosto che di efficienza competitiva. A parità dei salari monetari consentiti dalla congiuntura capitalistica e dai rapporti tra capitale e lavoro salariato, i valori d’uso prodotti dai lavori concreti comporterebbero un aumento dei salari reali e non avrebbero effetti inflazionistici. Per il lavoro astratto i lavori concreti non sarebbero un onere ma un arricchimento, poiché producendo valori d’uso servono direttamente a soddisfare i bisogni sociali, ma indirettamente servono anche a migliorare le condizioni e la stessa produttività dei valori di scambio prodotti dal lavoro astratto.
Le risorse si potrebbero trovare facilmente: se mai si volesse provvedere all’eutanasia delrentier, e alla costituzionale progressività delle imposte sui redditi e sulle ricchezze. Tuttavia di questo disegno occorre considerare gli aspetti politici, poiché si tratterebbe di governare una transizione dal paradosso della povertà nell’abbondanza a quello stato dell’economia e della società prefigurato da Lafargue e da Keynes. Anche per le sue implicazioni tecniche e organizzative, questa è una prospettiva di benessere nell’austerità, ma meglio sarebbe dire di benessere nella sobrietà. Un discorso sull’austerità che si limiti a una critica del consumismo e all’esortazione moralistica è un discorso politicamente sterile. L’alternativa non è tra benessere e austerità, è tra le possibili forme di austerità: la miseria che ci aspetta se si lascia fare, rivestita di forme nuove di fascismo, oppure una vitale sobrietà. L’apologia del mercato nasconde il disegno di cancellare la politica, riducendola a amministrazione dell’esistente. Questa opera di disvelamento e di persuasione è compito della politica, della politica in quanto critica, indirizzo e governo del processo economico-sociale di produzione e riproduzione. Utopia? Sì, ma è bene, ammonisce un grande intellettuale, che non tanto l’intellettuale quanto l’uomo in generale si senta responsabile di qualche cosa d’altro che di procacciare cibo ai suoi piccoli, finché non gli sarà segato l’albero su cui si è costruito il nido.
Non sono un economista e ho la massima stima per Giorgio Lunghini. Ma il suo interessante scritto(che in grandissima parte condivido) suscita in me un dubbio. Egli afferma che «la soluzione di questo problema – troppe merci, poco lavoro – va cercata altrove, al di fuori della dimensione capitalistica e mercantile della società. C’è oggi coincidenza tra una situazione di crisi gravissima e prospettive di nuovi spazî politici. Non si tratta di uscire dal capitalismo, ma di occupare quella terra di nessuno dell’economia e della società nella quale le merci non pagano. Questa terra esiste, lo dimostrano da un lato i tanti bisogni sociali insoddisfatti, dall’altro le tante attività che non sono mosse dall’obiettivo del profitto».
Una discussione sul"Reddito minimo garantito", e le sue implicazioni sul fronte del lavoro e delle politiche sociali.
Sbilanciamoci.info, 6 giugno 2013, con postilla
Nella riflessione teorica, in misura crescente il diritto alla sussistenza viene concepito come diritto costituzionale, a livello nazionale e dell'Unione Europea. Come osserva, ad esempio, Rodotà, il diritto all'esistenza appare con particolare nettezza nelle Costituzioni del secondo dopoguerra (...). Pur muovendo dalla garanzia di un reddito minimo da assicurare a chi non lo ha, l'ottica dovrebbe essere quella della cittadinanza nel senso di patrimonio di diritti inalienabili della persona in quanto tale. Diritti non solo a «sopravvivere», ma ad esistere (...). E' la stessa prospettiva, mi sembra, che ha mosso la Corte Costituzionale tedesca, allorché ha dichiarato parzialmente incostituzionale la modalità con cui la riforma dell'assistenza del 2000 aveva individuato le soglie massime di sostegno economico per i poveri (...). La costituzionalizzazione nazionale ed europea del diritto all'esistenza sembra non essere ancora riuscita a trasformare nei fatti il diritto all'esistenza in un diritto inalienabile e non a disposizione dei governanti di turno, neppure nella forma di garanzia innanzitutto per i poveri.
Non si tratta solo di questioni di bilancio, che vedono i poveri particolarmente deboli allorché si discute di che cosa e a chi tagliare. Si tratta anche della plurisecolare immagine del povero come tendenzialmente non meritevole, o con debole fibra morale. Nonostante sia chiaro che la disoccupazione crescente non è l'esito di scelte dei disoccupati e che l'inoccupazione sia in larga misura l'esito vuoi del carico di lavoro non pagato sopportato da molte donne, vuoi di fenomeni di scoraggiamento, si continua a pensare che i poveri debbano essere continuamente stimolati, attivati, per meritarsi un qualche sostegno, a prescindere dalla efficacia di tali «attivazioni».
Da questo punto di vista, è per molti versi paradossale la trasformazione, in diversi paesi, di misure di sostegno al reddito in misure welfare-to work , proprio mentre il lavoro sparisce. Allo stesso tempo, l'indebolimento, il mancato investimento, o la mercatizzazione di taluni beni pubblici - dalla scuola alla sanità - rischia di ridurre anche quel nocciolo di reddito autenticamente universale di cittadinanza che è costituito, appunto, dai beni comuni e dalla garanzia di accesso per tutti.
Per questo è opportuno continuare a mantenere aperto l'orizzonte discorsivo del reddito di cittadinanza, accettando i compromessi necessari, ma evitando confusioni.
Persino Hegel, teorizzatore dello stato etico, ha vigorosamente sostenuto che «l'uomo che muore di fame>> ha non solo il diritto, « ma il diritto assoluto di violare la proprietà di un altro»>>
per assicurarsi la sopravvivenza. Lo ricorda Domenico Losurdo in Hegel e la libertà dei moderni. Ecco un principio fondativo della modernità, quella categoria che designa un'epoca della spiritualità occidentale, oggi diventato un lemma sdrucito del linguaggio pubblicitario. Di fronte alla persona che giace nel più estremo bisogno, perfino la proprietà privata, il più solido architrave della società borghese, deve cedere il passo. Dopo la conquista dell'habeas corpus, uno dei diritti fondamentali della prima età moderna, volto a tutelare l'individuo dall'arbitrio del potere assoluto, ecco un principio eversore dell'ordine dominante: il diritto della persona umana a non soccombere a quella totale assenza di diritti generata dal bisogno estremo.
Oggi, com' è noto, il soccorso a quel bisogno, viene non solo praticato da gran parte degli stati europei, ma fa parte, grazie alla Carta dei diritti , della legislazione dell'Unione. Il reddito minimo, di cittadinanza, o comunque denominato, è una conquista della civiltà giuridica dello stato di diritto. E perciò stupisce non solo la sua assenza dall'ordinamento e dalla pratica statuale in Italia, ma anche la vaghezza, la ritrosia, la timidezza con cui il tema viene trattato dalle forze politiche e sindacali. Forse occorrerebbe collocare questo principio sullo sfondo storico che oggi lo mostra non solo necessario, ma lo proietta nel nuovo ordine possibile delle società avvenire. E' necessario rammentare che nelle odierne società industriali il reddito della grande maggioranza degli individui è dipendente dal loro lavoro salariato. Se questo viene meno, diventa precario, discontinuo, le condizioni della vita materiale precipitano e la dignità della persona, resa fragile ed esposta a forze incontrollabili, subisce uno scacco drammatico.
Eppure occorre inserire la richiesta del reddito di cittadinanza in una prospettiva più ampia di quanto oggi non sia visibile in un intervento che può apparire solo un soccorso congiunturale. Bisogna ricordarsi da dove ha origine la presente crisi. E' necessario cogliere un aspetto fondamentale dello sviluppo capitalistico degli ultimi 30 anni. E' qui che occorre scorgere la poderosa inversione strategica di cui è figlio il nostro tempo. Il capitalismo ha subito un evidente deragliamento, che lo ha posto fuori dal suo lungo percorso storico. Ciò che noi chiamavamo “sviluppo” - termine sopravvissuto nell'inerzia linguistica di chi non si è accorto di quanto è accaduto - era una crescita economica che si redistribuiva largamente grazie alla pressione operaia e sindacale, governata dal potere pubblico entro entro i confini nazionali. L'emarginazione del sindacato, la scomparsa del nemico con il crollo del comunismo, lo svuotamento dei partiti di massa, la libertà quasi eslege concessa al danaro, l'apertura di un mercato del lavoro illimitato su scala mondiale hanno dato al capitale poteri forse mai posseduti in tutta la sua storia.
E' dunque su questo perverso interesse che occorre intervenire, rendendo gli individui potenzialmente indipendenti, per la loro possibilità di vita, dal “ricatto” del lavoro. E' questo il punto archimedico su cui far leva. Occorre separare sempre più marcatamente il reddito per vivere dalla prestazione lavorativa. Ciò peraltro non costituisce semplicemente una “concessione” utile alla coesione sociale e al sostegno alla domanda interna. Nelle nostre società viene svolta una massa gigantesca di lavoro non pagato, che accresce incessantemente la valorizzazione del capitale. La fatica quotidiana delle donne che rendono la forza-lavoro dei mariti e dei figli, oltre che la propria, pronta per la prestazione in fabbrica o in ufficio, chi la paga? Chi paga il lavoro in casa, a qualsiasi ora, del giorno e della notte, mentre si sta collegati in rete o al telefono?Per milioni di individui la giornata lavorativa è ormai senza limiti. Mentre il capitalismo si appropria quotidianamente dei saperi, idee, creatività, del general intellect, per dirla con Marx, che la massa degli individui produce incessantemente con la propria operosità molecolare.
L'idea che il sapere serva solo a produrre e consumare, a furia di essere spacciata dalla destra e dai ragionieri di regime, introdotta nell'università in Italia dalla riforma Berlinguer, è filtrata un po' ovunque.
Il manifesto, 8 febbraio 2013 (f.b.)
Perché si va a scuola? Per trovare un lavoro da grandi. Sì, certo, ma se poi da grandi il lavoro non c'è perché siamo in piena crisi del mercato del lavoro, andare a scuola, allora, cosa serve? Risposta: a niente. O meglio: a tenere buoni alunni e studenti. Possibile? Sembra proprio così. Dunque, andiamo con ordine: negli ultimi venticinque anni si è fatta strada in Italia l'idea che la funzione principale dell'università e dell'intero sistema formativo sia fornire forza-lavoro al mondo del lavoro e dell'economia. Un'idea forte, che ha messo al centro dei processi educativi il concetto di formazione (a breve termine), mettendo nell'ombra quello di educazione (a lungo termine). È un'idea derivata dall'unione fondamentalmente economica dell'Europa. Che ha trovato diversi adepti anche tra pedagogisti e politici, non solo legati al centrodestra ma anche al centrosinistra. Potremmo chiamarla un'idea di politica scolastica di matrice neoliberista.
Anche il linguaggio dell'amministrazione scolastica è cambiato: si è parlato di scuola-azienda, con tutto ciò che questo comporta in termini didattici e pedagogici. Si sono ripetute parole d'ordine come meritocrazia, sorvolando sulla funzione sociale e di uguaglianza delle opportunità di un sistema scolastico statale. Si è provato in ogni modo a proporre test sulla qualità delle scuole e della formazione utili più a ricerche di mercato che a e nuove strategie educative; ricordiamoci sempre che l'Ocse che misura i nostri ragazzi è un organismo economico, non filosofico o pedagogico. La domanda che pongo è questa: che fine fa la visione di un'università e di una scuola che hanno come stella polare quello di creare forza-lavoro nel tempo della crisi del mercato del lavoro? Dove magari, come accade in Italia, il cui tessuto economico è fatto in gran parte di piccole aziende semiartigianali, il laureato specializzato è meno attraente di un lavoratore non specializzato, magari d'origine straniera e a basso costo? Non sono domande nuove: negli Stati Uniti e in Inghilterra, quel sistema scolastico anglosassone che noi oggi cerchiamo di replicare fuori tempo massimo in Italia, è già sotto accusa e si sta correndo ai ripari. Intanto il risultato delle cattive politiche scolastiche messe in atto dagli ultimi governi italiani ha portato ai primi cattivi frutti. Uno: la scuola primaria italiana che era prima per qualità in Europa nel 2008, dopo la controriforma Gelmini è precipitata in classifica. Due: oltre 50.000 immatricolazioni universitarie in meno negli ultimi dieci anni; che è assurdo attribuire solo al calo demografico.
Occorre riflettere, specie nel centrosinistra italiano, sulla visione di scuola e università che vogliamo. Magari rivalutando quella pedagogia popolare italiana del Novecento non togata, che va da Gianni Rodari a don Milani a Loris Malaguzzi, che parlavano più di educazione - permanente, civile, della persona - che di formazione temporanea. E che mettevano la scuola al centro della vita sociale e democratica di un Paese, come suo cuore pulsante, piuttosto che subordinarla acriticamente a un mercato o a ideologie.