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Le persone di religione islamica residenti a Milano sono ormai decine di migliaia, ma non dispongono di edifici idonei .>>>
1. Le persone di religione islamica residenti a Milano sono ormai decine di migliaia, ma non dispongono di edifici idonei per il loro culto religioso. Di recente l’associazione islamica turca Millî Görüş ha avviato lavori di adeguamento di un capannone in una zona periferica della città, ma la diffusione della notizia ha subito suscitato una reazione contraria. Secondo le cronache giornalistiche dello scorso mese di marzo un noto uomo politico, già vicesindaco nelle precedenti giunte Albertini e Moratti, avrebbe richiesto il sequestro dell’immobile e avrebbe anche proposto un referendum di zona per decidere se rilasciare le autorizzazioni alla realizzazione della moschea. Per contro risulta che l’attuale assessore comunale all’educazione non abbia posto veti in linea generale alla realizzazione di moschee, purché costruite nel rispetto delle norme sull’edilizia. Intanto però, sempre secondo le cronache della stampa di informazione, i lavori sono stati sospesi per irregolarità edilizie, non essendo stato chiesto al Comune il cambio di destinazione d’uso dell’immobile.

Certamente lo scopo di culto religioso non costituisce una giustificazione per irregolarità edilizie, eppure l’episodio di cronaca merita qualche riflessione di carattere generale.

2. La Costituzione della Repubblica italiana tutela la libertà di religione, ma questa libertà acquista miglior risalto se essa viene considerata in un contesto più ampio.

Il 6 gennaio 1941 il presidente degli Stati Uniti d’America, Franklin Delano Roosevelt, pronunciava il suo discorso al Parlamento sullo stato dell’Unione passato alla storia come "il discorso delle quattro libertà", poiché prefigurava un mondo fondato sulle quattro essenziali libertà umane, la libertà di parola e di espressione, la libertà religiosa, la libertà dal timore (del nemico esterno), la libertà dal bisogno. Roosevelt confermava così il carattere basilare della libertà di religione che giusto centocinquant’anni prima, nel 1791, sempre negli Stati Uniti d’America aveva ricevuto tutela, ma anche grande risalto, col primo dei dieci emendamenti alla Costituzione federale che costituiscono il Bill of Rights, la Dichiarazione dei diritti.

Dopo la seconda guerra mondiale la libertà di religione è stata tutelata dalla "Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo" approvata dall’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, dalla Convenzione europea del 1950 per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dal Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York nel 1966. Essa, inoltre, ha cominciato a vivere nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ed è passata infine nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nella prima versione del 7 dicembre 2000 (Carta di Nizza) e poi in quella adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo.

Ma anche la Chiesa cattolica ha definitivamente superato il Sillabo del 1864. La dichiarazione del Concilio Vaticano II su "La libertà religiosa", la Dignitatis Humanae, ha affermato che «la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa», la quale «si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana (…). Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell’ordinamento giuridico della società».

La libertà religiosa, da qualsiasi lato la si consideri, è dunque un diritto fondamentale della persona umana. Su questo punto la Costituzione è limpida: «Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa» (art. 19), senza alcun riferimento al requisito della cittadinanza. E d’altra parte non vi è dubbio che la libertà di religione comprende anche il diritto a costituire e mantenere luoghi di culto, come riconosciuto nel 1986 a Vienna dalla CSCE, la Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa e, nel 2000, dalla risoluzione 55/97 approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

3. Cosa bisogna attendersi dunque dal Comune di Milano in tema di luoghi di culto per le confessioni religiose che non ne dispongono? Semplicemente il rispetto della libertà di religione che è un diritto fondamentale della persona umana e quindi non può essere ostacolata da decisioni amministrative arbitrarie e neanche da decisioni di democrazia diretta come quelle referendarie: i diritti fondamentali della persona proprio in quanto tali non sono disponibili da parte di una maggioranza politica.

Non solo lo Stato, ma anche il Comune ha il dovere di farsi promotore dell’attuazione in concreto dei diritti delle persone e dei valori costituzionali, seguendo l’indicazione della Corte costituzionale, per la quale «il principio di laicità implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale» (sentenza 203/1989).

E, del resto, il partito del sindaco milanese Pisapia, Sinistra ecologia libertà, nel capitolo "Diritti" del suo programma afferma: «Per noi, la sinistra, scegliere il primato della laicità e della libertà degli individui è un fondamento della propria identità politica e civile».

Non è difficile svolgere questa affermazione generale. Come è stato ricordato da ultimo, con felice sintesi, dalla costituzionalista Giuditta Brunelli, la laicità «ha una precisa funzione: tutelare la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, i quali in nessun modo possono subire discriminazioni o acquisire privilegi sulla base della loro appartenenza confessionale (essendo la laicità, tra l’altro, dissociazione tra cittadinanza e appartenenza religiosa). (..) La costruzione dei rapporti tra Stato e fattore religioso (…) è destinata a conformare in concreto rapporti sociali fondati sul libero esercizio da parte dei singoli della loro libertà di coscienza, in un contesto di eguale rispetto di ogni scelta individuale».

Non si dimentichi, infine, che già nel 2008, proprio a Milano, in occasione delle celebrazioni di Sant’Ambrogio l’arcivescovo Tettamanzi aveva manifestato il proprio favore per la realizzazione di luoghi di culto per le confessioni religiose diverse dalla cattolica. Quella presa di posizione aveva suscitato la dura contestazione di un esponente politico locale: ma l’arcivescovo si era espresso in piena sintonia con la dottrina ufficiale della Chiesa, con la Costituzione, con gli atti internazionali di tutela dei diritti umani.

La finalità di culto non può essere una giustificazione per violare la disciplina dell’attività edilizia. Ma vale sicuramente, e ancor di più, anche la proposizione inversa: la disciplina dell’attività edilizia non deve diventare un pretesto per violare un diritto fondamentale come la libertà religiosa. E dunque dal Comune bisogna attendersi che si faccia parte attiva perché, nel rispetto delle leggi, ma anche adeguando se del caso la propria disciplina urbanistica, tutte le persone possano disporre di luoghi di culto, secondo le necessità delle diverse confessioni religiose. Anche i poteri comunali di governo del territorio devono essere usati per concorrere al pieno riconoscimento delle libertà fondamentali. La libertà religiosa non costa alle finanze pubbliche e la garanzia del diritto delle minoranze religiose rende tutti più liberi.

Con questo intervento Alberto Roccella, tra i più lucidi e competenti giuristi nel campo del diritto urbanistico, inizia la sua collaborazione come "opinionista" di eddyburg. Lo ringraziamo

Anche la senatrice veneta invita a raccogliere l'allarme di Daniele Ferrazza, pubblicato su eddyburg pochi giorni fa, perchè sia cancellato l'obbrobrio delle villette e delle nuove (inutili) zone industriali. Il Fatto quotidiano online. "Ambiente e veleni", 8 aprile 2013

Ad Asolo, uno dei borghi più belli d’Italia, a manifestare assieme a centinaia di cittadini che si oppongono alla cementificazione dei loro colli e della campagna. Metti un’amministrazione comunale guidata dalla Lega Nord che propone, senza partecipazione e alcuna trasparenza, un Piano di Assetto del Territorio nel quale si prevedono oltre un milione di nuovi metri cubi di cemento con destinazione residenziale, commerciale e artigianale. Metti un Veneto che, come gran parte d’Italia, è una regione in cui si è costruito più del dovuto e non si contano più i cartelli “vendesi” o “affittasi”….

Sono le conseguenze di uno “sviluppo senza progresso” e senza pianificazione che tenga finalmente conto dei flussi demografici e dell’andamento economico. Ora questa nuova espansione urbana, priva di ogni ragione, mette a rischio una delle ultime isole felici di un Veneto da tempo diventato terra d’infelicità urbanistica e di povertà culturale. La campagna urbanizzata che fa parte del “paesaggio” veneto contemporaneo non è un bel biglietto da visita per il nostro turismo (Andrea Zanzotto grande poeta del ’900 ebbe a dire che dopo i campi di sterminio vi era in corso lo sterminio dei campi…). Asolo infatti è nota a livello mondiale per la sua storia, i suoi palazzi medioevali, le sue chiese, Asolo è stata lungamente amata dalla Regina d’Inghilterra e da Freya Stark, da Eleonora Duse e D’Annunzio…. Da secoli è luogo di soggiorno di personaggi e artisti e meta turistica di migliaia di visitatori che trovano in questa perla della pedemontana veneta un’oasi di pace.

Ad Asolo la cementificazione interesserà anche i colli e la campagna grazie a un criterio che consente di costruire nuove abitazioni in un contesto di case sparse in zona agricola. Secondo la relazione tecnica si mira alla ”riqualificazione e completamento degli ambiti di edilizia diffusa, per corrispondere alle esigenze dei nuclei familiari, favorendo la permanenza delle nuove generazioni”. Anche se gli alloggi non occupati di Asolo e delle sue frazioni sono quasi 400, la volumetria prevista dal PAT è di altri 285.000 metri cubi. Questo partendo dal presupposto che in futuro, oltre a un importante incremento demografico, aumenterà significativamente anche il numero delle famiglie residenti ad Asolo e con esse la domanda di abitazioni. Nei tempi lunghi, con una popolazione attestata sopra le 11.000 unità (oggi sono 9.325), si prevede un incremento di oltre 1.200 famiglie. Previsioni del tutto infondate, visto l’andamento demografico degli ultimi anni e il rallentamento dei flussi migratori. Per le attività produttive, commerciali, direzionali e logistiche, sono 20 gli ettari previsti, interamente corrispondenti al fabbisogno insediativo strategico. Ciò a fronte di oltre 60 ettari di aree produttive già presenti sul territorio comunale.

La lotta contro il consumo del suolo deve essere una priorità per le amministrazioni locali, oltre che un punto fermo della prossima agenda di governo. Asolo può diventare il simbolo di questa battaglia, da qui deve prendere le mosse una nuova sensibilità nei confronti dell’ambiente. Chiunque abbia a cuore il bello è invitato ad una mobilitazione per fermare questo ennesimo attentato al territorio e a sostenere tutti gli appelli di coloro che si oppongono a questa sciagurata ipotesi di nuova espansione urbanistica. Invito tutte le personalità che si battono per un futuro a “cemento mq zero”, da Salvatore Settis a Domenico Finiguerra, a sostenere questa causa. Affinché non si possa più affermare che “l’Italia è una Repubblica fondata sul cemento”.

Corriere della Sera, 8 aprile 2013, postilla (f.b.)

CASERTA — Non si fa in tempo ad arrivare alla Reggia di Caserta: le indicazioni per il parcheggio sembrano fatte apposta per scoraggiare i turisti. Sono tutte sbagliate. Ti fanno girare in tondo. Ti fanno passare la voglia della visita. E, alla fine devono essere riuscite a farla passare davvero, perlomeno a giudicare dalle cifre: da 12 anni a questa parte la Reggia di Caserta perde ogni anno oltre 50 mila visitatori. Se riusciamo ad uscire dal parcheggio (dribblando le scale mobili rotte) non sarà difficile capire il motivo.

Benvenuti nella meraviglia Vanvitelliana. L'Unesco l'ha dichiarata patrimonio dell'Umanità nel 1997. E da quel momento la dimora che i Borboni vollero come il cuore del regno di Napoli ce l'ha messa tutta per perdere di prestigio e di credibilità. Ci siete mai stati dentro la Reggia di Caserta? Avete percorso per intero il vialone che attraversa il meraviglioso parco, costeggia le fontane, arriva a quello spettacolo mitologico che è la fontana di Diana e Atteone?

Giovedì scorso avreste visto una masnada di ragazzini tuffarsi in mezzo ai marmi di quel celebre gruppo scultoreo della fontana, come fossero stati in mare aperto. Si sono arrampicati sul Torrione, ovvero la parte terminale dell'acquedotto, e nessuno ha saputo come fermare quell'orda barbarica.
Nessuno, del resto, ogni giorno pensa che sarebbe il momento di arrestare il traffico delle automobili che sfilano lungo il viale tra le biciclette e le carrozzelle, e non sono certo soltanto le auto dei custodi, perché a giudicare dalla frequenza delle macchine che tagliano il parco, la Reggia sarebbe il luogo più controllato del mondo.

Non è un luogo controllato la Reggia, a dispetto della miriadi di uffici militari e di carabinieri che hanno occupato una parte del palazzo. Non lo è. E basta vedere la sequela di venditori abusivi che affollano il viale prima, e i cortili poi, e si infilano persino dentro le stanze degli appartamenti. Vendono guide taroccate e tarocchi della felicità, ombrelli, palloncini, biglietti per i ristoranti, persino numeri da giocare al lotto. Ormai fanno parte dell'arredamento.

Come, del resto, stanno diventando parte della Reggia quelle recinzioni in alluminio. Era il 5 ottobre scorso quando cadde dal cornicione un capitello, evitando miracolosamente i turisti. Una settimana prima era venuto giù un timpano. E da quel momento le recinzioni di alluminio sono state messe attorno alla facciata esterna, ma anche dentro tutti e quattro i cortili interni. Le impalcature per fare i lavori sono state montate da poco, cioè dopo quasi sette mesi dai crolli, e fino adesso sono servite soltanto a porsi un interrogativo: si sono arrampicati lungo quei tubi lì i ladri che sono saliti sul tetto a rubarsi il rame della gabbia di Faraday, ovvero il parafulmine della Reggia? Già, hanno rubato la gabbia di Faraday, senza che nessuno se ne accorgesse. Del resto i sistemi di allarmi sono precari da quando i fondi sono stati tagliati e alla Reggia deve essere difficile persino comprare la carta igienica, almeno a valutare dai bagni.

Benvenuti nella meraviglia Vanvitelliana dove c'è un gioiello chiamato Teatro della Corte, chiuso al pubblico da oltre dieci anni per problemi con le uscite di sicurezza, o forse per mancanza di personale, nessuno lo sa dire con precisione. Benvenuti alla Reggia. Tornando indietro dalla fontana di Diana e Atteone avrete visto la fontana di Venere e Adone e le dodici cascatelle ricoperte dai muschi e da parecchia immondizia. Vi sarete chiesti perché nel criptoparco dello spettacolare giardino all'inglese nessuno si sia mai occupato di pulire le statue divorate dalla muffa. Vorreste ricrearvi con la visione degli appartamenti e la bellezza in effetti non manca a filare per le Sale Reali e l'importante è non abbassare gli occhi a terra: i pavimenti sono sbeccati, distrutti, devastatati da enormi macchie rosse come quelle nella sala della Primavera, dell'Estate, dell'Autunno. E questo perché?

Perché nonostante il crollo, ci sono ancora una media di millecinquecento persone che ogni giorno vengono a visitare la Reggia di Caserta e i loro passi non fanno bene a pavimenti settecenteschi che un tempo erano protetti e i visitatori camminavano sopra le guide. Ma un giorno, una decina di anni fa, è arrivato un sovrintendente e ha detto: via tutte le guide. Nessuno ha più pensato di rimetterle.

Postilla

Ascoltando qualche anno fa alla Scuola di Eddyburg di Asolo - altro luogo minacciato da analoghe prospettive distorte - l'intervento di Maria Carmela Caiola su Caserta, poi pubblicato su Spazio Pubblico, emergeva tra l'altro come in assenza di un approccio adeguato e contestuale, la Reggia finisse per svolgere ruoli che non le erano propri, diventando anche vittima di un eccesso di pressione dovuto all'assenza di altri spazi. Il racconto del Corriere ce ne segnala alcuni piccoli casi: certo esistono malcostume e disorganizzazione, ma c'è soprattutto un bene culturale che si trova a fungere da tutt'altro, e si logora irrimediabilmente nel farlo. Forse è davvero convinzione collettiva che, come diceva quel genio di Tremonti la cultura non si mangia, ed è ovvio che la si consideri così, fuori da un contesto in cui non riesce a “fare il suo mestiere” oberata da altri ruoli, come quello di unico sfogo per voglie di tempo libero, piccoli appetiti corporativi e simili. Solo all'interno di un'idea innovativa e organica di territorio, società, città e sviluppo, si possono contestualizzare e presumibilmente risolvere questioni del genere, e poi forse iniziare eventualmente a gridare contro malcostume e sprechi (f.b.)

Corriere della Sera Milano, 7 aprile 2013 (f.b.)

Milano Quartiere Adriano - foto F. Bottini

Cemento e fango, grattacieli e abbandono. Il quartiere Parco Adriano, sulla carta quartiere modello a cominciare dal nome, lotta per non rimanere un pezzo di città fantasma. La storia di questa incompiuta s'arricchisce ogni giorno di un dettaglio. Ed ecco il manifesto davanti a uno sterrato reso acquitrino dalla pioggia: «Questa è la nostra piscina». Non è semplice conservare la speranza quando «per prendere un mezzo pubblico devi camminare per un chilometro, quando Atm e la Zona 2 storcono il naso alla supplica dei residenti di far entrare l'autobus 58 nel quartiere», perché «s'allungherebbe il tempo di percorrenza», o quando «non avendo né nidi né scuole materne ed elementari, ogni mattina ti fai in quattro per portare un figlio al nido a Precotto e il più grandicello alle elementari dall'altra parte della città».

Con i loro bimbi le famiglie di Parco Adriano raccontano di aver fatto «saltare gli equilibri dei quartieri vicini. Nidi, materne, elementari, medie sono tutte sature». In quel deserto urbano, dove solo un anno fa le strade hanno avuto un nome, i quattromila abitanti già insediati sono rimasti al buio per tre settimane. Furti di rame a ripetizione e in grande stile hanno spento i lampioni che «ci facevano sentire parte della città». Solo quelli. Per fermare, una volta per sempre, l'assalto ai tombini, gli uomini di A2A hanno dovuto coprire ogni accesso di terra.

Quartiere Adriano - foto F. Bottini

Sono i destini di due PII (piani integrati di intervento) che s'incrociano in questo spazio immenso - mezzo milione di metri quadrati - situata a Nord est della metropoli, al confine con Sesto San Giovanni, dove un tempo sorgevano i grandi impianti della Magneti Marelli. L'idea di trasformare l'area industriale in una città da vivere è del 2001. La convenzione firmata con il Comune di cinque anni più tardi. Due PII, “Adriano-Marelli” e "Adriano-Cascina San Giuseppe”, e diversi operatori. La metà dell'area doveva diventare parco. La crisi ha azzoppato un progetto che a vederlo sulle mappe disegnava la «città ideale».

I residenti sono sul piede di guerra. Voci della richiesta di variante di un operatore, che vorrebbe spalmare le tre torri non ancora costruite in orizzontale (per ridurre i costi) hanno fatto alzare gli scudi: «Case orizzontali, fine del parco» è l'equazione. Ma l'assessore all'Urbanistica, Ada De Cesaris, che ha ereditato questa incompiuta insieme ad altre questioni che scottano in città, spiega che il quartiere un vigilato speciale: «Un operatore ha cominciato i lavori per realizzare il polmone verde. All'altro abbiamo dato un ultimatum». L'altro è il Gruppo Pasini di Sesto. La trattativa prosegue. Il Comune ha «avviato il processo di escussione delle fideiussioni bancarie», ma la partita è delicata. Interesse di tutti non è togliere ossigeno all'operatore. Un fallimento avrebbe ricadute pesanti per il futuro del quartiere, consegnandolo all'immobilità a tempo indefinito.

In via Gassman abitano famiglie di giovani con bimbi piccoli. Nessuno vuole un futuro incerto. Tra le ipotesi allo studio c'è la ricerca di un investitore che possa rilevare la Rsa del Villaggio San Giuseppe, una volta chiuse le urbanizzazioni (impegno che Pasini s'è assunto). Ma l'assessore De Cesaris sta studiando anche l'ipotesi di «intervenire noi direttamente nella realizzazione di questa

Un comunicato stampa del Comitato per lo sviluppo sostenibile e di qualità della zona industriale di Osoppo (UD) illustra le ragioni dell'opposizione ad un consistente ampliamento della zona industriale e le alternative formulate da cittadini e associazioni (m.b.)

La zona industriale di Osoppo e Buja, che è un’opportunità di lavoro e crescita per l’intera zona, si sta trasformando, per cattiva gestione, in una minaccia per i centri abitati di Osoppo, Rivoli e Saletti e per la sicurezza, la salute e l’ambiente.

E' cronaca di questi giorni la notizia dell'approvazione, da parte della Regione, della Variante del Comune di Osoppo che prevede l'ampliamento della zona industriale, già bocciato dai cittadini con 529 osservazioni e opposizioni. Legambiente, il Comitato per lo sviluppo sostenibile e di qualità della zona industriale e il Comitato ARCA hanno elaborato proposte tese a ridurre e rendere sostenibile l'impatto dell'ampliamento, che prevede un avvicinamento al centro abitato dagli attuali 1.200 metri a soli 400 metri, e del previsto tracciato della bretella autostradale Cimpello - Sequals - Gemona.

Si chiede un ampliamento meno esteso e impattante, la creazione di adeguate zone cuscinetto e di barriere di separazione verso i centri abitati di Osoppo, Rivoli e Saletti, la ristrutturazione delle viabilità Esistenti per realizzare adeguati collegamenti tra le aree produttive della pedemontana del gemonese e del pordenonese in alternativa alla bretella autostradale Cimpello-Gemona, una crescita produttiva e occupazionale basata su ricerca e innovazione, la certificazione ambientale dell’Area industriale su modello europeo, il riuso e il recupero delle aree e dei capannoni inutilizzati presenti nel territorio, la creazione di un parco agricolo del territorio per la promozione e recupero di produzioni agricole di qualità.

Attualmente la zona industriale ha una superficie di 2.316.125 mq. Con l’ampliamento previsto di 815.000 mq si raggiungerà una estensione di 3.131.125 mq. Attualmente la zona è sottoutilizzata con una superficie edificata di 441.841 mq, la nuova estensione prevista permetterebbe la costruzione di capannoni per 1.292.457 mq triplicando così la superficie coperta realizzabile rispetto a quella esistente. Adottando un rapporto di un occupato ogni 200 mq si avrebbe la possibilità di insediare attività per un’occupazione di 6.400 unità sui 1.700 occupati oggi presenti: una dimensione del tutto insostenibile e sovradimensionata per il territorio in cui la zona industriale è collocata. Questo senza considerare il recupero delle strutture e infrastrutture che la recessione economica lascia inutilizzate!

Si sostiene, verso l’Opinione pubblica, che l’Ampliamento porterà nuova occupazione, ma se questi sono i numeri c’è sproporzione tra la sostenibilità occupazionale e la tutela della salute e dell’Ambiente.
Questa zona industriale è nata già troppo vicino a centri abitati preesistenti e ad aree di pregio agricolo e ambientale e l’Insediamento è sorto su un “Lago” Sotterraneo che alimenta un acquedotto che serve un bacino di popolazione superiore ai 300.000 abitanti.
Numerosi sono i problemi ambientali irrisolti e che richiedono di essere affrontati alla radice: presenza di uno stabilimento a rischio incidente rilevante, scarichi in atmosfera non completamente rilevati e indagati, scarichi idrici con una fognatura colabrodo e un sistema di “Depurazione” Degli scarichi industriali basato sulla dispersione nelle falde acquifere e nella zona delle risorgive e sulla loro diluizione, il depuratore sotto sequestro da parte della Procura della Repubblica, mancanza di una zonizzazione acustica, insufficiente approccio alla questione delle energie rinnovabili e al recupero e risparmio energetico, mancanza di uno studio di inserimento paesaggistico rispetto agli elementi di pregio ambientale e monumentale anche molto prossime come il greto del Tagliamento, la zona delle Risorgive e il Colle di Osoppo.

Gravi anomalie sono presenti nelle procedure seguite dal CIPAF e dai Comuni di Gemona, Osoppo e Buja ai fini dell'ampliamento di cui si parla ormai da oltre dieci anni. Anomalie presenti anche nella recente approvazione regionale. Sono improvvisamente decadute, senza che nulla di nuovo si verificasse (anzi in presenza di un aggravamento della crisi economica), le richieste degli Uffici regionali di motivazione dell’Entità dell’Ampliamento. Queste richieste erano state all’Origine della riserva vincolante formulata dalla Regione nel 2009 e avevano determinato la richiesta del Sindaco di Osoppo, ai medesimi Uffici “Di non dare corso temporaneamente all’Iter di competenza in quanto, su richiesta del CIPAF, si intendono approfondire i contenuti del superamento di alcune riserve”. Questo aveva portato a una sospensione della procedura di quattro anni. Oggi questa richiesta di motivazioni di fatto “Decade”.

Ed è certamente anomalo che nel frattempo, da parte di alcuni industriali insediati nella zona industriale, si sia proceduto ad acquisire terreni agricoli per circa 180.000 mq che, nel momento in cui divenissero edificabili per insediamenti industriali, triplicherebbero il loro valore.

Corriere della Sera Milano, 6 aprile 2013 (f.b.)

A differenza dei grandi progetti urbani che stanno cambiando il volto di Milano, l'area dell'ex ospedale psichiatrico Paolo Pini, 270 mila mq ai confini settentrionali della città, si connota come un caso a sé. Di nuovi edifici qui non c'è nemmeno l'ombra mentre gli esistenti sono stati ristrutturati e destinati a nuove funzioni. Un intervento «leggero» ma definito da scelte coraggiose, lungimiranti e innovative. Nel '78, l'emanazione della Legge Basaglia, che sanciva la chiusura degli ospedali psichiatrici, ha avviato il processo di metamorfosi dell'area. Nel 2000 l'ospedale ha definitivamente cessato le sue attività. Da allora i trenta padiglioni immersi nel parco sono stati via via ristrutturati e riutilizzati ma attraverso piccole trasformazioni.

Oggi l'area ospita servizi sanitari, ricettivi, ricreativi, religiosi. Alcuni amministrati da strutture pubbliche, altri gestiti da gruppi non profit come Olinda, cooperativa nata nel '96 che impiega il 50% di persone svantaggiate. Olinda, il cui presidente è Thomas Emmenegger, organizza durante l'estate il festival di teatro, musica, poesia «Da vicino nessuno è normale» che rappresenta uno degli eventi culturali di punta della città. Il parco ospita inoltre giardini e orti comunitari utilizzati dagli abitanti dei quartieri vicini. Massimo Bricocoli, ricercatore presso il Dipartimento di architettura e studi urbani del Politecnico di Milano, che ha condotto per il Ministero francese della pianificazione una ricerca sul Pini, ci ha accompagnati sul posto.

Com'è che proprio in assenza di un progetto urbano d'insieme si è realizzato uno degli interventi urbani più interessanti in città? «Sembra paradossale ma in realtà esiste un vincolo urbanistico importante che si è mantenuto nel corso degli anni, quello della destinazione di tutti gli edifici a "servizi alla persona". In più, sia le aree sia gli immobili sono sempre stati di proprietà pubblica — anche se di enti diversi — e questo ne ha sicuramente facilitato il complesso processo di assegnazione e riuso».

Quanto hanno giocato l'intraprendenza e la lungimiranza della cooperativa Olinda?«Olinda è il nome di una delle città invisibili di Calvino quella che cresce e non produce periferia. È quello che si è cercato di fare qui adoperandosi affinché la periferia diventasse attrattiva quanto o più del centro. Organizzare un concerto con Piero Pelù o uno spettacolo teatrale di Marco Paolini significa richiamare persone non solo da Milano ma da tutta Italia».

Si è puntato molto sulla cultura, è questa la chiave di volta?«Sicuramente superare la nicchia del sociale tout court è stato il modo per rendere il luogo attrattivo per tutti. Oggi, tanto per fare due esempi, il Teatro LaCucina (dove un tempo c'era la mensa dell'ospedale psichiatrico) gode di fama crescente mentre il ristorante slow food Jodok (ricavato nell'ex obitorio) è frequentato da chi lavora e vive all'esterno del Pini».

Che rapporti hanno oggi gli abitanti della Comasina con questo luogo?«Un tempo quest'area era off limits, la grande scommessa è stata quella di aprirla alla città. Oggi gli abitanti dei quartieri vicini la descrivono come un grande parco con tanti servizi di qualità. Ormai dire "abito vicino al Pini" ha un'accezione positiva. Anche il progetto dell'associazione Il Giardino degli aromi con i suoi orti comunitari ha contribuito a questo processo di apertura: oggi i soci sono circa 120 ma le persone che li frequentano sono più di 400».

Proprio le aree minacciate dal progetto di nuova edificazione inserito nel Piano di governo del territorio… «Sì. Un progetto che solleva molte questioni rispetto allo sviluppo di Milano. In città ci sono già molti progetti residenziali avviati o approvati che rischiano di rimanere invenduti a causa della crisi. È giusto chiedersi: è opportuno creare ulteriore offerta consumando oltretutto suolo vergine?».

Al Pini l'amministrazione pubblica è stata distratta ma benevola, un binomio proficuo…«Guardare alla valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico non solo in un'ottica economica ma anche sociale è fondamentale. Cedere gli immobili in comodato d'uso gratuito o agevolato è sicuramente un buon viatico. Con la delibera Benelli-Castellano che definisce la messa a disposizione di spazi di proprietà comunale per attività con valenza sociale o culturale l'amministrazione attuale ha imboccato una strada feconda».

per chi non l'avesse ancora firmata QUI la petizione per l'ex OP Pini (f.b.)

L'urbanista, come insinuano mica troppo sottilmente i grandi flussi di comunicazione di massa, è in fondo una specie di narratore folcloristico novecentesco, roba buona per le sagre paesane, quando attorno a una tavolata di vino e salame a filiera corta equi e solidali si rievoca il tempo che fu. Quando si facevano quei piani superati dalla storia, e giustamente soppiantati poi dalla misura d'uomo, dal diritto del cittadino, dall'efficienza dello sviluppo del territorio, dalle misure urgenti per superare la crisi senza dimenticare l'equità sociale. Il tutto in una prospettiva di sostenibilità, lotta al consumo di suolo, rispetto per l'ambiente eccetera eccetera. Quindi, ciò premesso, quanto segue è solo folklore per bambini curiosi, mica roba seria, che lasciamo agli ingegneri trasportisti sostenibili e ai conti delle imprese di grandi costruzioni.

Ieri mattina sul presto, dato che mi si era tranciato in due per la seconda volta il telaio della bici (la spesa moderna da supermarket nei cestini esercita una leva pari al peso del reddito spostato) sono uscito in macchina. E già che c'ero mi sono preso una vacanzina sul territorio metropolitano, andando a curiosare dentro la nuova Grande Opera che il mondo ci invidia, il tunnel che scavalcando l'abitato di Monza promettevano avrebbe dato senso a un cartello piazzato orgogliosamente parecchio più a nord: Roma Km 600. L'incongrua segnalazione fa umoristica mostra di sé là dove scendendo con orgogliosa sicurezza dalle valli alpine confluiscono i tracciati della SS38 dello Stelvio e della SS36 dello Spluga. Peccato che da lì a Roma, nonostante la biblica promessa e lo sforacchiamento miliardario di tutto un versante prealpino, della città di Lecco, di una montagna subito dopo, ci fossero di mezzo un paio di semafori. Il marinettiano futurista del terzo millennio si sentiva già scagliato zang-tumb-tumb verso l'ineluttabile destino della Capitale, e si ritrovava invece obbligato a inchiodare davanti a una casalinga e un pensionato brianzoli col sacchettino della spesa, intenti al gesto sacrilego di attraversare sulle strisce.

Benvenuti a Monza, di cui lo scomparso Califano cantava che “la gente fa gara a chi è più stronza”. Per esempio piazzando dei semafori tra l'automobilista moderno e l'anello delle tangenziali milanesi. Semafori che facevano quotidianamente incolonnare per chilometri mezzi a motore di varie stazze e potenze di inquinamento, accumulando veleni poi inopinatamente aspirati anche dalla casalinga, dal pensionato col sacchetto della spesa, e dai loro parenti che risiedono nei quartieri affacciati sulle otto corsie del cosiddetto tratto urbano. Giustamente i parenti tutti, insieme alle loro vie respiratorie, non erano entusiasti della situazione, e uniti in lobby democratica e sostenibile hanno dato ulteriore impulso a un progetto che era nell'aria da tempo: un megatunnel (in qualche modo gemello di quanto già sforacchiato a Lecco anni fa) sotto i quartieri semisoffocati, che finalmente sbolognasse il serpentone semovibile là dove deve andare, ovvero nella rete autostradale metropolitana, magari per scagliarsi poi proprio verso Roma Km 600 meno qualcosa.

Monza San Fruttuoso: sei corsie da attraversare ogni giorno

Dopo alcuni anni, e revisioni in corso d'opera, la suddetta opera è stata inaugurata l'altro ieri da neogovernatore padano Maroni e notabili vari, e insieme ai comuni mortali mi ci sono cacciato dentro anch'io, per vedere di nascosto l'effetto che fa. Scoprendo che, come hanno riferito e continuano a riferire gli organi di informazione, superata la strettoia se ne è subito creata un'altra, peggio della prima perché il tunnel funge un po' da canna di fucile, concentrando il fuoco sulle carenze del tracciato che già esistevano. Dicono un'ecatombe, e in effetti stare intrappolati dentro una galleria per tanto, tanto tempo, sperando di tornare e riveder le stelle, non è carino, era quasi meglio il semaforo con lo spettacolo della signora Maria intenta a guardarsi la punta delle scarpe inzaccherata. Ora speriamo che i supertecnici facciano cadere anche l'ultimo diaframma verso le tangenziali, ma sospetto che poi sarà là dentro che si scarica il casino suppletivo, con richiesta di nuove corsie, nuove tangenziali esterne a quelle esterne … Ma torniamo indietro, nello spazio e nel tempo.

Nello spazio, percorrendo il tunnel al contrario, se ne scopre una funzione abbastanza interessante: ci sono un centro commerciale con ancora Auchan all'estremità meridionale, e un centro commerciale con ancora Auchan allo sbocco settentrionale. La grande opera miliardaria verrebbe così a configurarsi come meta-shopping mall virtuale, delineando nuove frontiere del consumo e dell'esperienza commerciale a orientamento automobilistico per il terzo millennio. Oltre ad andare a ritroso nello spazio, ovvero giusto risalire un po' in disordine e con poca speranza la SS36, si può però anche andare indietro nel tempo usando il desueto metodo urbanistico. Al 1933 ad esempio: ah, memorabile quell'anno!

Quando nel pieno della modernizzazione fascista-futurista del paese i giovani virgulti dell'intellighenzia nazionale adottavano il meglio del dibattito internazionale sulle città, ad esempio aderendo ai nascenti CIAM di le Corbusier. I quali congressi di architettura moderna, come abbastanza noto, divulgavano una modellistica territoriale magari a posteriori discutibile, ma senza dubbio dotata di senso: una città ordinata, relativamente divisa per funzioni e spazi specializzati, e distesa sul territorio secondo schemi efficienti. Per esempio organizzando l'espansione per quartieri autosufficienti, separati dal centro attraverso cunei e fasce a verde a evitare piccole conurbazioni, e con le infrastrutture stradali concepite organicamente dentro questo disegno. Al concorso per il piano regolatore di Monza bandito in quel fatidico 1933 vinse il progetto del gruppo coordinato da Aldo Putelli, architetto già inserito nel gruppo del Piano Provinciale milanese per l'Abitazione Operaia, e in seguito nel famoso Piano AR. Il suo era un piano di schietta matrice razionalista.

Fondo Archivio RAPu da una mia ricerchina di qualche anno fa
Senza entrare troppo nei particolari, lo schema territoriale si organizzava per quartieri satellite, attestati su una circonvallazione stradale di raccordo con le reti regionali. Guardando quel disegno, molto abbozzato come si addice all'elaborato di un concorso, salta abbastanza all'occhio allenato un'anomalia, rispetto alle carte contemporanee: l'asse della nuova Milano Lecco (prolungamento dell'idea Pirelli di inizio secolo per un corridoio regionale industriale) non è più attestato esclusivamente sul tracciato che separa alcuni quartieri dal centro e interferisce con le aree monumentali della Villa e dei Giardini Reali. Quell'asse ha invece un suo doppione esterno, pronto a trasformarsi in percorso principale, e poi a articolarsi verso nord su almeno tre direttrici. Siamo all'alba della cosiddetta pianificazione metropolitana/regionale, e non è dato di sapere quale consistenza reale abbia quel pur vistoso segno sulla mappa, ma lo schema è perfettamente coerente e il tracciato pure, a scala comunale e provinciale.

Quello “stradone” nei decenni avrebbe potuto ad esempio guarnirsi di polverosi guard-rail, piazzali di sosta per il rifornimento di benzina, occasionali sovrappassi in corrispondenza delle vie intercomunali, o che diavolo d'altro. Non un eden o terra promessa, quindi, solo una stramaledetta ennesima superstrada detestabile per il fracasso, l'inquinamento, ma arteria che alimenta le attività dell'operosa Brianza e più oltre collega direttamente i flussi economici della fascia alpina al core metropolitano milanese. Soprattutto avrebbe svolto il suo ruolo, quell'asse viario, senza tagliar fuori una fetta di città dal resto dell'insediamento, visto che nel disegno si capisce benissimo l'organizzazione dei quartieri satellite e il loro rapporto coi nuclei storici, centrale e secondari. E il tunnel? Sarebbe servito il tunnel? Domanda retorica. Qui viene davvero da dire: “il problema è un altro”. E si lascia la risposta al lettore, ricordando che la pianificazione territoriale è roba folcloristica, superata, novecentesca, da raccontare ai bambini curiosi attorno al fuoco. Che oggi i problemi si risolvono a misura d'uomo, sostenibile, equa e solidale. Che chissà cosa vuol dire, ma intanto ci teniamo il tunnel e i nuovi problemi che ha creato puntualmente all'altra estremità.

La suburbanizzazione di fatto dei centri città, con quartieri recintati virtuali come denunciato da Anna Minton nel suo Ground Control, ormai salta agli occhi. Corriere della Sera, 3 aprile 2013, postilla (f.b.)

LONDRA — I «fantasmi» più ricchi al mondo abitano a Belgravia, quel lussuosissimo miglio quadrato schiacciato fra Buckingham Palace e Chelsea. Ci sono, si nascondono e scappano. Le loro case sono fra le più care, o forse sono le più care, sulla faccia della Terra ma la sera hanno sempre le luci spente e le finestre sbarrate. Case di «fantasmi», appunto. Ma che «fantasmi». Tipo l'oligarca russo Oleg Deripaska che ha la residenza in Belgrave Square, un palazzo a tre piani. Tirò fuori, nel 2003, dalle sue finanze private ben blindate nel paradiso fiscale delle British Virgin Islands qualcosa come venticinque milioni di sterline per acquistare il meraviglioso palazzo una volta di proprietà, parliamo degli anni Trenta, del parlamentare conservatore Henry Channon. L'aristocratico tory lo usava per i ricevimenti e per ospitare l'allora principe di Galles, il re Edoardo VIII che poi abdicò per amore di Wallis Simpson.

Pur avendo investito una fortuna (briciole per l'ex studente di Fisica all'Università di Mosca divenuto, secondo la rivista americana Forbes, il nono uomo più facoltoso del pianeta), Oleg Deripaska e la moglie a Belgrave Square non si vedono mai, o quasi. Nelle pieghe di una delle tante guerre giudiziarie fra oligarchi russi è venuto fuori, ad esempio, che nel 2005 l'imprenditore amico di Putin non vi passò che 27 notti. E solo 19 nel 2006. Mai per più di tre o quattro giorni consecutivi. Davvero, Oleg Deripaska, il principe dei «fantasmi» di questa Londra a mille carati dove un immobile può costare anche 75 milioni di sterline e un appartamento 21 milioni, quello di Eaton Square venduto dalla scrittrice Nigella Lawson e dal marito Charles Saatchi collezionista d'arte, cofondatore col fratello della agenzia pubblicitaria Saatchi&Saatchi, proprietario della Saatchi Gallery. Tutta gente che c'è ma non si vede. Una toccata e fuga.

Un rapporto della Savills, società di intermediazione immobiliare, pubblicato dal New York Times in un servizio di Sarah Lyall, rivela che il 37 per cento degli acquirenti di case a Belgravia non vi risiede. Avere una «base» nell'enclave più esclusiva di Londra è una questione d'immagine per russi, per arabi, per cinesi e per indiani. Un capriccio per i nuovi «fantasmi». Ma si può ben comprendere vista la storia passata e recente di Belgravia, dove per altro ci sono pure il consolato e l'istituto di cultura italiani. Poco dà più lustro di un «rifugio» nella zona che all'inizio dell'Ottocento fu sviluppata dal duca di Westminster, quel Richard Grosvenor col titolo pure di duca di Belgrave, proprietario dei terreni a sud di Buckingham Palace.

L'elenco dei cittadini famosi di Belgravia è lungo. Miliardari di oggi (Roman Abramovich ha ceduto alla ex moglie Irina un palazzo con 19 camere da letto) e premier di ieri (Margaret Thatcher in Chester Square). E poi musicisti immensi: Mozart in Ebury Street 180 pare abbia composto la sua prima sinfonia. O manager di musicisti immensi: Brian Epstein dei Beatles. Autori e attori di prima grandezza: Ian Fleming (padre di 007) al 22b di Ebury Street e nella stessa via, dopo, Michael Caine. Vivien Leigh (la Rossella O'Hara diVia col Vento) col marito Laurence Olivier stava invece in Eaton Square al 48, e non lontano, più avanti, sarebbero arrivati Cristopher Lee (Dracula, Il Signore degli anelli,Star Wars) e i due James Bond, Sean Connery e Roger Moore. Infine le modelle: Elle Macpherson il «fantasma» più bello.

Difficile sfuggire, per oligarchi e sceicchi, per imprenditori indiani o cinesi, al richiamo di Belgravia. Solo che hanno trasformato il quartiere in un covo di «fantasmi». Se non è coprifuoco, la sera, quasi ci siamo. Case miliardarie usate pochi giorni all'anno. E allora ecco che si aggira l'incubo del gruppo degli squatters di Belgravia. Specializzati in occupazioni. Nel 2009, tanto per citare un caso, nel giro di pochi giorni sei «senza dimora» si divertirono a impadronirsi di due palazzine in Belgrave Square, con la loro biancheria appesa fuori, lasciando attonita la famiglia vicina degli Abramovich.

Ora chi fa discutere è la signora Stephanie Demouh, 38 anni, sei figli, africana del Togo. È povera ma è riuscita a entrare nei programmi di assistenza edilizia: i servizi sociali pagano la residenza (e che residenza) nel cuore di Belgravia, a lei e famiglia. E non intende muoversi. Un po' di vivacità e di colore. Pure la notte. Nella cittadella dei «fantasmi».

Postilla

Val la pena ricordare qui che un paio di estati fa, ai tempi delle rivolte giovanili nelle città britanniche, mentre ancora fumavano le braci di negozi saccheggiati e incendiati, qualcuno sottolineò come esistesse una stretta correlazione fra urbanistica e rivolte, nel senso che queste erano scoppiate di preferenza là dove convivevano fasce di reddito diverse. Forse non è un caso che le spinte della destra ad allentare i vincoli di cambio di destinazione d'uso, di espulsione dei ceti popolari dai nuclei centrali, di pressione per nuovi quartieri ghetto rigorosamente in area greenfield, si siano intensificate nel medesimo periodo. Insomma, anche queste gated communities per ricchi, come gli shopping mall chiusi in zone di riqualificazione, o altri organismi suburbani geneticamente modificati, fanno parte (volenti o nolenti) dell'assalto alla città moderna come l'abbiamo conosciuta. Esiste una risposta? Forse, ma forse non è molto progressista né intelligente cercarla predigerita nelle solite formule novecentesche (f.b.)

per i veri appassionati – un po' masochisti - oltre a ripassarsi o leggersi per la prima volta le anticipazioni di Anna Minton, anche un giro nel ricco sito della Savils Real Estate United Kingdom http://www.savills.co.uk/

La Repubblica Milano, 2 aprile 2013, postilla (f.b.)

IN UNA città dall’altissima domanda (e bisogno) di abitazioni low cost, l’11 per cento degli uffici è inutilizzato. Il censimento del patrimonio terziario sfitto è emerso da un recente meeting tra operatori e banche a cui anche il Comune è stato invitato. Gli ultimi dati milanesi, aggiornati a fine 2012 ed elaborati dall’organizzazione immobiliare Urban land institute e dalla banca Bnp Paribas, collocano i due terzi del terziario fantasma nelle zone (semi) periferiche della città, talvolta più lontane dalla rete di trasporto metropolitano — è in questa fascia che sorgono i principali Office district come Maciachini-Farini, Portello, Certosa, Lorenteggio, Ripamonti, Porta Romana- Centro Leoni, Missaglia-Business park e Bicocca — e nell’hinterland milanese, come San Donato. Il restante 30 per cento circa è dentro la Cerchia dei Bastioni, di cui l’11 per cento in pienissimo centro. Un fenomeno cresciuto negli anni, quello degli uffici senza affittuario o compratore.

Più se ne sono costruiti e più è cresciuta la quota rimasta vuota che nel 2007 si attestava sugli 800mila metri quadri. E il mercato fatica ad assorbire questo eccesso di offerta: nel 2012 i metri quadri terziari venduti o affittati sono stati 200mila contro i 290mila del 2011. Che fare allora oggi? Palazzo Marino pone la questione sul tavolo: «La grande scommessa per il futuro è il riutilizzo del patrimonio esistente». E lancia un’ipotesi di lavoro: «Sulla gestione dell’invenduto e degli sfitti — dice il vicesindaco e assessore all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris — il Comune intende far partire un confronto con tutti i soggetti interessati, dagli operatori ai sindacati, per avviare anche in via sperimentale modalità di trasformazione degli uffici in alloggi con affitto a prezzi accessibili ». Un’opportunità che potrebbe convenire a tutti, per sbloccare lo stallo di tutti quegli immobili.

In Inghilterra l’hanno fatto: a fine gennaio il governo ha deregolamentato il cambio di destinazione d’uso da uffici a residenza, consentendo di farlo senza pagare oneri. Una misura contenuta in un più ampio pacchetto di sostegno alla crescita economica. Il sistema anglosassone, più leggero dal punto di vista normativo, lo permette; in Italia, e a Milano, la ricetta inglese è ancora tutta da costruire. Ma le premesse ci sono. L’operazione nasce per sanare «le scelte sbagliate del passato che oggi si portano dietro criticità significative con le quali è necessario confrontarsi» afferma De Cesaris. Errore doppio, secondo l’amministrazione: l’esagerata realizzazione di locali destinati al terziario, causata dalla “forzatura” da parte degli operatori delle valutazioni sul mercato, e la mancanza di un corretto disegno della città, imputabile anche alla pubblica amministrazione. E il Pgt, piano di governo del territorio, e la delibera con cui si applica a Milano il Piano casa regionale, riescono solo in parte a far fronte al fenomeno.

Crisi a parte, il boom di uffici sfitti secondo gli esperti si giustifica così: «Per un verso pesa il divario tra domanda e offerta in termini di prezzo, specie in centro — ragiona il Country manager
per l’Italia di Bnp Paribas Real Estate, Cesare Ferrero — in secondo luogo molti stabili sono obsolescenti, per struttura e funzioni; terzo, spesso le ubicazioni non sono coerenti con le attuali necessità di prossimità alle infrastrutture di trasporto, o a zone con servizi pubblici». Prezzo, prodotto e posizione, insomma, le tre cause del diffondersi dello sfitto. Così il Comune prova a farsi regista del piano di recupero. Su cui serve partecipazione anche dalle altre istituzioni: «È necessario — aggiunge il vicesindaco — un progetto condiviso che preveda incentivi fiscali, nuove e diverse modalità di accesso al credito, e che coinvolga governo, Regioni e Comuni. A ciò, poi, deve seguire l’impegno di tutti a realizzare interventi che rispondano alla domanda effettiva di abitazioni e di terziario, partendo dai dati reali e dalle effettive esigenze di chi abita in città».

Postilla

Ci sono almeno due aspetti della faccenda che consigliano di andare coi piedi di piombo: l'origine dello studio alla base di questa proposta, e il riferimento all'esperienza britannica. Se cominciamo da quest'ultima, di sicuro non sfugge ai lettori del sito come da quando si è insediato il governo di coalizione Tory-Liberaldemocratico ci sia una poderosa spinta alla deregolamentazione del planning nazionale, entro la quale si inserisce anche questa abolizione di buona parte delle autorizzazioni al cambio di destinazione d'uso, sulla spinta di una assai vociferata emergenza casa che, a parere della sinistra di opposizione, viene spudoratamente sfruttata per far altro. Sul versante dell'origine degli studi alla base della pensata milanese, chiaramente immobiliarista, la si può inserire nel più vasto panorama mondiale dei tentativi di rilancio del settore, devastato dalle proprie passate intemperanze, ad esempio con una offerta di cubature terziarie senza capo né coda, che oggi producono proposte di “soluzione” tra le più stravaganti, come quella di demolizione generalizzata degli edifici curtain wall di Manhattan (sic) e ricostruzione con caratteristiche a basse emissioni, sostenuta da studi di origine assai simile a quelli milanesi. Ciò premesso, ben vengano le sperimentazioni puntuali, ma sempre evitando di ripetere le prospettive delle giunte di centrodestra passate, totalmente succubi di spinte particolaristiche, che hanno combinato esattamente i guai attuali (f.b.)

Visto che si sono citati due esempi, anche due links di eventuale riferimento
1) un esempio di "politiche per la casa" britanniche di amministrazione locale Conservatrice sotto un governo Conservatore (che dovrebbe dimostrare quantomeno la contraddittorietà di queste idee di riconversione uffici/case tanto sbandierate)
2) in che logica si inserisce a ben vedere l'attivismo dei centri studi legati a interessi particolari, quando si discute di "riuso dello stock edilizio terziario obsoleto" nelle grandi città (vedi anche links e allegati)

Corriere della Sera Milano, 31 marzo 2013, postilla (f.b.)

Il futuro del Cerba, il Centro europeo di ricerca biomedica avanzata di Umberto Veronesi, è appeso a un filo. Sottile. Il Comune ha lanciato il suo ultimatum: se entro 90 giorni non si provvederà alla firma della convenzione l'intero progetto verrà considerato decaduto e le aree torneranno di pertinenza del Parco Sud. In gergo tecnico quella di Palazzo Marino è una «diffida» che arriva alla fine di un lunghissimo e travagliatissimo iter culminato con il fallimento di Imco e Sinergia, le due società della famiglia Ligresti, proprietarie dell'area. Senza «proprietari» in grado di assumersi gli impegni assunti (tra cui 90 milioni da versare nelle casse di Palazzo Marino) e senza una «prova» dell'avvenuto acquisto dei terreni non è possibile arrivare alla stipula della convenzione per l'attuazione del programma integrato di intervento. Una firma che doveva arrivare già un anno fa ma che è slittata nel tempo a causa dei guai economici del gruppo Ligresti. Sono intervenuti i curatori fallimentari.

Sono intervenute anche le banche creditrici che devono rientrare dei 330 milioni di euro prestati a Ligresti. Ma nonostante le sollecitazioni del Comune, i curatori fallimentari non hanno fornito i chiarimenti necessari, a partire da chi saranno i «nuovi proprietari» delle aree. Si è parlato di un interessamento del gruppo Hines, ma fino a ora senza esiti concreti. Neanche le banche hanno messo nero su bianco le loro intenzioni, anche se da più parti spunta l'ipotesi del concordato.
Adesso, la diffida del Comune cambia le carte in tavola. O meglio, le accelera. Se le banche sono disposte a sottoscrivere il concordato hanno tre mesi di tempo per farlo. Stesso discorso per il gruppo Hines. C'è anche un'altra possibilità per non far naufragare tutto: sia i curatori fallimentari sia la Fondazione Cerba hanno chiesto delle modifiche al progetto che comporterebbe un'integrazione all'accordo di programma siglato tra Comune, Regione, Provincia, Parco Sud e Fondazione Cerba nel 2009.

Il Pirellone potrebbe decidere di rivedere e rimodulare l'Accordo di programma. Strada tentata nei mesi scorsi con la precedente giunta Formigoni ma che non ha portato a esiti in quanto l'allora assessore si era dichiarato incompetente. Il neo-presidente, Roberto Maroni potrebbe pensarla in maniera diversa e riaprire la partita. Anche dal punto di vista urbanistico. E qui Palazzo Marino potrebbe giocare un ruolo fondamentale in un'area considerata strategica dal punto di vista ambientale come quella del Parco Sud. La rimodulazione dell'intervento, visto che si tratta di un progetto «rilevante ed esteso», deve tenere conto dell'interesse pubblico in un «disegno urbanistico condiviso». Condivisione significa molte cose. Anche che si possa arrivare a una mediazione tra diverse aree della città. La partita è delicatissima. Gli attori in gioco sono tanti. La mossa del Comune cerca di fare chiarezza. È ora di mettere sul piatto le carte. Chi è veramente interessato al futuro del Cerba si faccia avanti. Ci sono 90 giorni di tempo per capire se il sogno di Umberto Veronesi potrà diventare realtà.

Postilla

“Anche che si possa arrivare a una mediazione fra diverse aree della città” insinua cautamente l'articolo. Ovvero farla finita con l'ignobile ricatto culturale, ampiamente sostenuto dalla politica bipartisan (do you remember Penati?) tra i sostenitori del progresso scientifico e gli oscurantisti sotto sotto amici del cancro, che volevano tutelare chissà perché qualche campicello fangoso accanto a un viottolo di periferia. Ecco, adesso si può ragionare, Regione leghista permettendo, la stessa Lega che in campagna elettorale si è sbracciata a favore del contenimento del consumo di suolo. Ecco, spiegateglielo anche voi: la cosa su cui andrebbe il progettone di Veronesi, si chiama appunto “suolo”. Per i particolari il riferimento è sempre al primo articolo descrittivo del CERBA comparso su queste pagine qualche anno fa (f.b.)

Come ha ben intuito da anni chiunque si oppone all'appiattimento implicito in certe idee di città moderna, spazi fisici e virtuali autoritari sono da respingere. Financial Times, 27 marzo 2013 (f.b.)

Titolo originale: New York’s wonder shows planners’ limits – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

I lettori di questo giornale in visita a New York di solito girano in centro, fanno compere, si spingono fino a Wall Street, in macchina o in metropolitana. Quando ho un po' di tempo in più, io vagabondo in tutta quell'area senza una destinazione particolare. Greenwich Village, Chelsea, la Bowery e il Lower East Side sono ricche di architetture curiose, negozi particolari, bar affascinanti, strati su strati di storia sociale americana. Non scopro certo nulla di particolare, niente che vada oltre quanto osservato brillantemente cinquant'anni fa da Jane Jacobs nel suo La Vita e la Morte delle Grandi Città. Un libro nato dalla battaglia contro Robert Moses, responsabile statale e cittadino delle grandi opere che voleva costruire anche una Lower Manhattan Expressway, superstrada sopraelevata che portasse gli automobilisti direttamente da Queens al New Jersey attraverso il ponte di Williamsburg e l'Holland Tunnel. Distruggendo nel suo passaggio interi quartieri e la loro storia.

La Jacobs raccontava, attraverso meticolose osservazioni, come la vita delle città fosse il prodotto di una serie di interazioni sociali difficili da programmare. Vivere in un ambiente denso, lungi da rappresentare un male, era invece fonte di vitalità. Vie brevi, articolate su parecchi isolati, consentivano ad abitanti e passanti di imboccare vari percorsi, fare varie esperienze. La Jacobs spiegava anche perché le città fortemente progettate di tutto il mondo, come Canberra, Brasilia, Chandigarh o anche la città giardino di Letchworth, sono tanto monotone. E i suoi lettori capivano come tutte le superstrade realizzate da Moses avessero fortemente minato la vitalità dei quartieri periferici di New York.

La battaglia fu vinta: l'idea della Lower Manhattan Expressway venne abbandonata. Ma si vinse anche una assai più importante guerra, quando Moses, probabilmente la persona più potente a New York per mezzo secolo, alla fine fu destituito nel 1968. Le ruspe che avevano abbattuto la Penn Station si fermarono davanti alla Grand Central, e gli effetti non si limitarono ad una sola città. Nell'arco di un decennio, finiva tutta l'epoca del predominio di certa architettura modernista. I progetti urbani si fecero più modesti, e da attuarsi in modo incrementale.

Se le interazioni sociali impreviste stanno alla base di una città vitale, stanno anche alla base di organizzazioni altrettanto vitali. Non credo proprio che Marissa Mayer di Yahoo abbia mai conosciuto Jane Jacobs, e probabilmente questa alta dirigente di impresa tecnologica avrebbe avuto poco da dirsi con la militante di quartiere. Ma esistono comunque evidenti analogie fra la decisione di Yahoo di abbandonare le strategie di telelavoro, e il rifiuto della Jacobs di certa piatta progettazione urbana.

Anche gli entusiasti delle strutture virtuali, così come i progettisti della città razionalista, vorrebbero imporre una certa forma organizzativa a sistemi complessi che riescono a comprendere solo in parte. Il telelavoro, è l'equivalente cyber-spaziale di uno schematico corridoio di uffici, ciascuno con la porta chiusa. Oggi gli architetti che progettano uffici hanno abbandonato questa idea di corridoio, per ambienti aperti in cui le relazioni non hanno bisogno di passare per l'apertura di una porta, né per una telefonata o email. “Comunicazione e collaborazione sono importanti dobbiamo lavorare fianco a fianco” spiega una circolare interna di Yahoo, che potrebbe anche essere stata scritta dalla Jacobs.

La Jacobs suscitava le ire degli urbanisti di allora, convinti che dai loro progetti potesse nascere un mondo razionale, popolato da quelle facce sorridenti che si vedono nei disegni degli architetti. Anche Yahoo si attirerà critiche del genere da parte dei tecnofili, quelli che hanno difficoltà a distinguere tra un'amicizia via Facebook e il contatto fisico. Gente come Ray Kurzweil, quello che ha inventato il riconoscimento ottico del carattere e il passaggio dalla voce al testo scritto. Il suo ultimo libro, How to Create a Mind, ha come sottotitolo la promessa decisamente poco modesta di “rivelare i segreti del pensiero umano. Kurzweil sostiene che questo pensiero sia basato su un numero di schemi definito e riconoscibile. Ne segue che le macchine potranno – e abbastanza presto, esattamente nel 2029 – sostituirsi all'intelligenza umana. Basta avere sottomano una specie di grossa enciclopedia di schemi di funzionamento.

Anche gli urbanisti modernisti erano convinti di poter elencare tutte le funzioni di una città, e organizzarle ciascuna per spazi definiti. Allo stesso modo di Robert Moses, oggi Kurzweil certamente capisce una parte del pensiero umano e delle esigenze contemporanee, ma non basta. La prospettiva scelta da Jane Jacobs era molto più sottile e sfumata sui comportamenti quotidiani. E basta una passeggiata per le zone di Manhattan dove abitava e che tanto amava, per capire quanto poco corrispondano a certe idee dei programmatori, di ieri come di oggi.

Insistono per far rivivere un vecchio scandalo (per loro era un ottimo affare solidamente sponsorizzato), al quale sia eddyburg che Report dedicarono molta attenzione. Il Fatto quotidiano, 27 marzo 2013

Richiesta di risarcimento del fratello del Cavaliere per la mancata costruzione di "Milano 4" sull'area della Cascinazza. La giunta di centrodestra non era riuscita a sbloccare la pratica nonostante l'impegno dell'assessore Paolo Romani (poi indagato), quella di centrosinistra ha definitivamente vincolato l'area a parco. Dovrà dire addio a ruspe e cazzuola e ai suoi sogni di costruire Milano 4, ma Berlusconi junior non ha alcuna intenzione di arrendersi e ha deciso di chiedere i danni per la mancata edificazione per una cifra che si aggira sui 60 milioni di euro.

Non arriveranno più i 420mila metri cubi di cemento sul celebre terreno della Cascinazza di Monza acquistato negli anni Ottanta da Paolo Berlusconi, fratello del Cavaliere, perché tutti i suoi50 ettari sono destinati ad entrare nel Parco della media valle del Lambro. , revocando la Variante al Pgt costruita dall’ex ministro Paolo Romani mandato come assessore all’Urbanistica proprio per chiudere la questione nel 2008). La Giunta «rossa», tra l’altro, non solo ha deciso che non sarebbe arrivato nuovo cemento, ma ha perfino vincolato per sempre l’area a Parco, stabilendone la tutela e impedendo edificazioni future se non con qualche recupero della vecchia cascina.

Un bello sgambetto per la proprietà dell’area (che oggi è la Lenta Ginestra, società che ha incorporato la Istedin di Paolo Berlusconi con un finanziamento soci infruttifero di scopo per corrispettivi 40 milioni di euro) che però non ha alcuna intenzione di arrendersi.

Stavolta, considerando che la Variante al Pgt redatta quando era assessore Paolo Romani aveva fatto rivalutare il terreno di almeno 60 milioni di euro, la società si è rivolta al Tar chiedendo il risarcimento per danni patiti per un corrispettivo pari al valore economico dell’edificabilità, una cifra che sfiora appunto i 60 milioni. Il Comune di Monza ha dato ora mandato all’avvocato per resistere in giudizio e l’assessore all’Urbanistica Claudio Colombo si è detto tranquillo. «Anche perché – ha svelato – la proprietà nel notificare il ricorso impugnando la delibera di revoca aveva commesso un errore e al posto di inviarla a Monza, l’aveva spedita al comune di Milano. Con conseguente decadimento del ricorso e scadenza dei termini per agire contro la decisione dell’Amministrazione».

Naufragata così la possibilità di contestare la mancata edificazione, adesso la società si può limitare a chiedere i danni. La vicenda, insomma, dopo trent’anni continua. Acquistato nel 1980 dai Ramazzotti (quelli dell’Amaro), il terreno era costato 11mila lire al metro quadro perché era considerato agricolo (vi sorgeva solo l’antica Cascina, da cui la zona prende il nome oltre ad essere a rischio esondazione del fiume Lambro). I nuovi proprietari però avevano chiesto subito l’edificabilità appellandosi a un vecchio piano di lottizzazione del 1962 già decaduto. Tentativi di edificare tutti falliti, fino a quando la Cassazione nel dicembre 2006 aveva espresso l’ultima parola, dando ragione al Comune che non permetteva l’edificazione e torto alla Istedin. «Deve essere rigettato il ricorso che chiedeva diritto ad edificare e nessun indennizzo è dovuto alla proprietà», stabilì la Corte, chiudendo così la questione. Ma adesso la società che ha acquisito per incorporazione Istedin ha deciso di riprovarci.

Riferimenti: Vedi su eddyburg questo servizio e numerosi altri articoli nella cartella SOS Padania

Auguri al sindaco di Rimini. Gli ricordiamo che i proprietari di terreni resi edificabili dal piano regolatorevigente non hanno alcun “diritto edificatorio” da rivendicare contro unasaggia, motivata ed equa variante delle previsioni urbanistiche comunali. La Repubblica,ed. Bologna, 26 marzo 2013

Rimini è l’unica città nel Paese che può vantarsi (?) di avere procreato un verbo, presente in ogni vocabolario della lingua italiana: riminizzare. Sinonimo, più o meno, di «costruire in maniera disordinata e selvaggia». La domanda che mi faccio in queste ore, le più dure da quando nel giugno 2011 sono stato eletto sindaco, è questa: sarà consentito a Rimini di lasciare il poco onorevole spazio dedicato dal dizionario nazionale? E mi rispondo: no. Non bastassero il patto di stabilità che, di fatto, ha azzerato qualunque capacità di investimento da parte dei Comuni; oppure il combinato disposto tra Comune “esattore per conto terzi” di tasse odiose, pressione sociale centuplicata dalla crisi economica, desertificazione di qualunque credibilità partitica. Nella “capitale delle vacanze” la matassa va ingarbugliandosi intorno al tema urbanistico. I fatti sono presto detti: ventidue mesi fa, al suo insediamento, questa Amministrazione comunale e questa maggioranza avevano investito gran parte del proprio mandato sullo stop al consumo del territorio. E non per un ideologico “basta al cemento” ma sulla base di una semplice lettura che vedeva nel cambiamento epocale determinato da una società in crisi le ragioni di una svolta nel modello di sviluppo. Così, mentre l’Europa si attrezza con quartieri senz’auto, alimentati esclusivamente da energie rinnovabili, in Italia, in Emilia Romagna e a Rimini, lo sviluppo non può prescindere dal mattone. E sul mattone Governi vanno silenziosamente in crisi.

Nel tortuoso passaggio da Piano regolatore a Piano strutturale e Masterplan, l’amministrazione comunale di Rimini sta tentando di fermare il milione e 200 mila metri quadrati di nuove richieste di ‘capacità edificatoria’ avanzate con le osservazioni. Sono circa 20 mila nuove case o uffici o negozi che calerebbero in un contesto che già si fregia del titolo onorario di cui sopra e che in questo momento conta già su 15 mila abitazioni sfitte. Secondo pareri, normative, prassi, non si può dire ‘no’. C’è quindi chi pensa che il Comune non debba che vidimare le precedenti scelte o assecondare le nuove richieste. A questa apparente inevitabilità, ci siamo opposti.

Il risultato? Dubbi affioranti in maggioranza causa “intimidazioni” legali dei costruttori, una denuncia per abuso d’ufficio nei miei confronti, la pressione ormai insostenibile di chi ti sbatte in faccia anche i drammi occupazionali per giustificare la resa alle antiche consuetudini. Da parte mia, andrò fino in fondo, sino alle estreme conseguenze, legali e politiche. Non mi troverei a mio agio nella parte di chi, come il mio collega di Parma, dopo una campagna elettorale fiammeggiante ha alzato le mani davanti all’inceneritore acceso, dicendo “non potevo fare altro”. E non voglio neanche rifugiarmi nello speakers’ corner tanto di moda del riformismo: a Rimini e in Emilia Romagna, sull’urbanistica, non basta più dirsi riformisti, occorre una determinazione più alta e soprattutto più coraggiosa. Altrimenti… anche nei prossimi 50 anni basterà sfogliare il dizionario e andare alla lettera R, sicuri di ritrovarci, incancellabili.

Novità nelle elezioni per il Campidoglio: il teatrino nel Palazzo, la politica in piazza. Il manifesto, 26 marzo 2013
Da alcuni mesi un vasto numero di comitati e di associazioni ambientaliste presidia il consiglio comunale di Roma per scongiurare l’ennesimo diluvio di cemento che si vuole infliggere ad una città sull’orlo del disastro urbanistico. Salviamo il paesaggio, Italia nostra, i comitati no pup, i 5 stelle, Carte in regola e i tanti comitati che in questi anni hanno tentato di affermare un’altra idea di città nell’indifferenza delle politica politicante, insieme agli unici consiglieri che si oppongono allo scempio (Alzetta e Azuni) stanno tentando di bloccare la prepotenza della giunta Alemanno che pur in scadenza e travolta da continui scandali ieri è stato arrestato il fedelissimo Mancini vuole infliggere il colpo definitivo al riscatto della città.

Ma ieri in piazza del Campidoglio e poi in una sala del Carroccio gremita è andata in scena una rilevante novità. Il gruppo Liberare Roma e la confederazione dei comitati metropolitani (co.co.me.ro) hanno dato un appuntamento per sensibilizzare l’opinione pubblica. A provocare l’allarme è stata anche la sconcertante vicenda del dibattito sulle prossime elezioni comunali. Sia l’attuale maggioranza che l’opposizione del Pd stanno accuratamente censurando ogni discussione sui veri problemi della città, ad iniziare dal buco di bilancio che ammonta a 11, 5 miliardi che arrivano a 15 per l’allegra gestione delle aziende comunali. Il governo Monti ha recentemente dichiarato fallita Alessandria per un deficit di 200 milioni: circa 2 mila euro per ciascun abitante. La capitale ne ha circa 6.000 per ogni romano. Il fatto è che la capitale è troppo grande per fallire e così si va avanti nella commedia degli equivoci. Proprio ieri i candidato a sindaco dei 5 stelle ha chiesto accesso agli atti per conoscere l’ammontare del debito in finanza creativa e sembra che esso ammonti a 7 miliardi di euro.

Ma di questo non si parla. Assistiamo soltanto ad una sconcertante passerella di vuoti slogan e di educati endorsement che tentano ancora una volta di addormentare la città. Il debito ha invece origine nel dissennato modello di sviluppo urbanistico che da venti anni è stato imposto alla città: un’espansione inaudita che arricchisce pochi proprietari di aree e impoverisce fino al fallimento un’intera città. Di più, alcuni pseudo comitati che pensano più al cemento che al benessere delle periferie producono incredibili documenti in cui si afferma che questo processo distruttivo non può aver fine perché esistono i «diritti edificatori». Una menzogna inesistente sul piano giuridico di chi cerca soltanto di perpetuare un modello distruttivo di crescita infinita.

Quanto è avvenuto ieri dice però che la misura è colma e chi ha governato la città per 15 anni (centro sinistra) e 5 (centro destra) deve assumersi pubblicamente la responsabilità del fallimento e bloccare per sempre l’espansione urbana. Non è più soltanto un tema urbanistico: ne va della stessa sopravvivenza della rete dei servizi pubblici, ad iniziare da sanità e scuola, e del welfare urbano.

I tanti comitati presenti ieri in Campidoglio vogliono una sola cosa: cambiare l’agenda del futuro della città, aprire una speranza per i giovani che, se possono, se ne vanno all’estero o sono altrimenti condannati a vivere nella più disumana periferia dell’Europa occidentale.


Fra due mesi si voterà a Roma: pubblichiamo, in anteprima per eddyburg, il prologo dell’ultimo volume di Francesco Erbani, Roma, Il tramonto della città pubblica, Laterza 2013, la migliore lettura per un voto più consapevole. (m.p.g.)

Le storie che seguono sono raccontate con la lingua delle inchieste giornalistiche. Il loro fulcro sono le trasformazioni che Roma ha vissuto o subìto negli ultimi decenni. Trasformazioni che hanno investito molte delle sue parti e che sono quasi tutte riconducibili a un vorticoso aumento dell’edificato o, almeno, all’elaborazione di progetti in quella direzione. Quanto poi alla crescita dell’edificato abbia corrisposto un proporzionato incremento degli spazi di comunità e un generale benessere è questione che queste storie vorrebbero accertare. Dietro, accanto, sotto le trasformazioni fisiche si delinea inoltre il progressivo impoverimento della città pubblica, mentre è avanzata l’idea che soltanto l’estendersi di un controllo privato su parti crescenti di essa possa contribuire a diffondere quel generale benessere e a fronteggiare la crisi che si è abbattuta su Roma come su tutto il mondo occidentale.

Proveremo a documentare che cosa è avvenuto e sta avvenendo a Roma usando gli strumenti del cronista, visitando luoghi, intervistando persone, facendo parlare atti e delibere e tentando di capire se quel che accade nella capitale è una vicenda per alcuni aspetti esemplare della condizione urbana oggi in Italia, e non solo. Da tempo studiosi di diverse discipline discutono il tema delle ricadute nello spazio cittadino delle ricette che invocano una progressiva e forse definitiva ritirata del pubblico entro recinti sempre più stretti. Quando urbanisti e sociologi parlano di città pubblica, il riferimento è, storicamente, a quelle parti di città di proprietà pubblica, dove si è realizzata edilizia pubblica, dove risiede un parco pubblico. In fondo, però, tutta la città nel suo insieme è pubblica anche se costituita di tante parti private che, decidendo di condividere uno stesso spazio, realizzano qualcosa di pubblico.

Attraverso le storie che seguono cercheremo di capire se le trasformazioni avvenute o che stanno avvenendo a Roma rispondono a criteri urbanistici corretti, se vanno incontro a bisogni collettivi o se invece sono l’effetto di strategie immobiliari che arrecano profitto a chi costruisce e un utile molto dubbio alla città. Se, cioè, danno lustro e soldi ai privati e scaricano oneri sul pubblico. Percorreremo poi la strada delle decisioni politiche, per appurare quanto le amministrazioni pubbliche abbiano esercitato un governo effettivo delle trasformazioni e quanto, viceversa, si siano piegate a interessi privati, lasciando che venisse consumato suolo pregiato (che pur essendo proprietà di qualcuno assolve comunque a funzioni ecologiche di interesse collettivo, dall’assorbimento di acqua piovana allo stoccaggio del carbonio, alla produzione agricola...) senza che la città ne guadagnasse in termini di qualità urbana e, anzi, vedesse aggravati i propri affanni. Oppure consentendo, persino sollecitando, che parti crescenti di città migrassero dalla mano pubblica o da un uso pubblico al controllo privato (siano edifici o aree libere, mercati rionali o depositi dimessi, suoli o sottosuoli). A Roma si è teorizzata ed esercitata molta contrattazione urbanistica. È finito il tempo, ha sostenuto chi ha governato la città, della cosiddetta urbanistica autoritativa (l’autorità pubblica che tutto decide e tutto pianifica), ogni cosa si negozia. O si scambia. Se c’è bisogno di un’opera pubblica, essendoci sempre meno soldi, questa si paga elargendo concessioni edilizie. Ma molto spesso – quanto spesso si cercherà di capirlo nelle storie che seguono – è il privato che, pur di avere un permesso di costruire, suggerisce al pubblico un’opera da realizzare in cambio di quel permesso.

Interrogheremo poi chi la città ha studiato e studia, nelle università e nei centri di ricerca, per raccogliere analisi e riflessioni. E sonderemo il vasto fronte dei comitati di cittadini, di gruppi e associazioni che producono una mole imponente di indagini sul proprio quartiere e che avviano vertenze per salvaguardare quel che appartiene a una collettività e che invece si vorrebbe alienare a vantaggio di pochi. Le loro azioni vanno dalla semplice cura di uno spazio – un edificio dismesso, un orto, un paesaggio, un giardino – intorno al quale si tessono o si rigenerano relazioni comunitarie che si vorrebbero annientate in una bulimia consumistica, fino ai flash-mob, alle battaglie, alle iniziative legali per non perdere ciò che è proprietà di tutti e tanto più delle generazioni future. In queste fatiche, compiute con energie volontarie e senso del gratuito, colpisce un dato: la controparte è quasi sempre il pubblico che smette di fare il pubblico, sono l’amministrazione e l’ente che si sottraggono al compito di tutelare interessi generali. Il fenomeno è relativamente recente, una quindicina d’anni al massimo, ha dimensioni nazionali e Roma ne è investita, documenta il passaggio dall’indignazione individuale a un sentimento civile. È uno dei tanti segnali che attestano la crisi della rappresentanza politica tradizionale, ed è anche il sintomo di una rinascita democratica, banalmente rubricato ad antipolitica o a episodio Nimby (Not in my backyard). Molti di questi gruppi si affiancano alle associazioni storiche, Italia Nostra, Legambiente, il Wwf, ma sempre più spesso le sostituiscono o le condizionano. Tentano di compiere un salto di scala, riuscendo solo in parte a collegarsi fra loro e mettendo in comune un patrimonio culturale, di passione politica, di competenze e di battaglie ambientaliste. Ma i numeri sono consistenti e ormai formano una massa critica. La dimensione locale e il carattere spontaneo si esprimono in iniziative di documentazione storica sul proprio quartiere, in occasioni di recupero della memoria, in piccole forme di welfare e poi in lavori di progettazione alternativa rispetto alle proposte del Comune o di un Municipio. Ed è evidente in molti dei comitati romani lo slancio a creare coordinamenti, a cercare ciò che di simile esiste in tante vicende dissimili e dunque a passare dalla singola vertenza a un’elaborazione più politica, di cui l’urbanistica rappresenta uno dei cardini.

Roma per molti aspetti è esemplare di una condizione urbana che riguarda altre città del paese, si diceva. Le sue patologie si rintracciano anche altrove, e anche altrove, in proporzioni diverse, queste affliggono la qualità del vivere e l’esistenza materiale delle persone. Quanto, per dirne una, il disegno di Roma è pianificato e quanto invece è affidato al caso per caso? Quanto conta l’idea che la città ha di sé, e quanto invece vale la sommatoria di interessi, a volte conflittuale a volte consensuale? Quanto Roma si sforza di garantire a tutti i suoi residenti il diritto alla città, un’accessibilità che è condizione perché chiunque vi abiti si senta anche cittadino? A Roma, inoltre, è possibile definire la fisionomia esemplare di un potere, quello legato all’edilizia e alla proprietà dei suoli, che è stato il motore secolare dell’economia cittadina, e che tuttora è alimentato più dal propellente della rendita fondiaria che dal profitto d’impresa, ed è intrecciato alla finanza. L’espressione “poteri forti” è adulterata dall’abuso: ma in pochi altri casi, come a Roma, definisce bene un grumo di interessi ampiamente addossato alla politica e all’amministrazione, che agisce come impresa privata, ma non disdegna, anzi, di colonizzare le aziende municipalizzate oppure di tracciare le linee guida delle Grandi opere, chiedendo per sé un perenne regime di deroghe e dunque auspicando Grandi eventi – Olimpiadi, Mondiali di nuoto, Giubilei – e sistemi da Protezione civile. Questi poteri sono in grado, quando andava bene e ora che va male, di condizionare il tenore di vita della città. E anche di proporsi come protagonisti per fissare la direzione di marcia dell’urbanistica. Direzione di marcia che spetterebbe alla politica e all’amministrazione pubblica di dettare, ma la cui formulazione è spesso culturalmente incerta e altrettanto spesso è il prodotto di mediazioni al ribasso, sintomo di una fragilità sia della politica sia dell’amministrazione pubblica che non è solo prerogativa della capitale, ma di altre città e di un paese intero.

Roma sembra essere progredita per parti separate. A pezzi. Per tendenze, ha scritto uno dei massimi studiosi della sua storia urbana, Italo Insolera, scomparso a fine agosto del 2012. Quasi nelle pagine d’esordio del suo Roma moderna, a proposito di come vennero distribuiti i ministeri negli anni immediatamente successivi alla breccia di Porta Pia, Insolera scrive che «il non trasformare nessuna tendenza in un piano, in una legge precisa che modelli la struttura stessa della città, è una caratteristica tipica e costante dell’amministrazione romana. Ogni provvedimento deve sempre lasciare un margine al provvedimento opposto. Qualsiasi iniziativa viene subito svilita nel compromesso: per evitare che si accusi l’amministrazione di favori eventualmente disonesti nei confronti dei proprietari e impresari di una zona; non ci si cura tanto di creare gli strumenti fondiari e tecnici per prevenire da ogni parte possibili corruzioni, ma di distribuirne un po’ dappertutto le premesse».

Le storie che seguono proveranno anche a rispondere a domande che, a Roma, incalzano con la stessa energia con la quale i problemi si aggravano. Non è detto che le risposte si riescano a trovare o che, trovate, sia semplice metterle distesamente in fila. Perché, per esempio, Roma è la città con più macchine e motorini in Europa? In rapporto alla popolazione, ovviamente. Perché a Roma – sono dati elaborati nel 2009, fonte lo stesso Comune di Roma – circolano 978 veicoli a motore ogni 1.000 abitanti, comprendendo fra i 1.000 abitanti anche i ragazzi con meno di 18 e anche di 14 anni, i neonati e gli ultra ottantacinquenni, praticamente una macchina o un motorino ogni abitante? Perché questo accade a Roma, che conta 2 milioni 700 mila abitanti, mentre a Londra i veicoli a motore sono 3 milioni 10 mila e gli abitanti 7 milioni e mezzo, con un rapporto di 398 ogni 1.000? Parigi e Barcellona stanno un po’ peggio di Londra, ma nella capitale francese il rapporto è di 415 su 1.000, e nel capoluogo catalano di 621 su 1.000. Perché? Non è conveniente introdurre un racconto sparando cifre. E neanche ponendo domande. Ma quelle cifre e quelle domande contengono un problema. Più macchine ci sono in giro, meno si va in giro. La ragion d’essere di una macchina sta nel facilitare la mobilità. Ma troppe macchine sono l’antitesi della mobilità. E la mobilità è il presupposto dell’accessibilità, che a sua volta consente di esercitare degnamente il diritto alla città. Inoltre troppe macchine inquinano insopportabilmente l’aria. Se parcheggiate ostacolano la viabilità, se parcheggiate male la ostruiscono in un crescendo di illegalità che la Polizia municipale ha rinunciato a perseguire. Troppe macchine sono causa di incidenti, anche mortali (un altro po’ di numeri: 19.960 gli incidenti a Roma ogni anno, 23.210 a Londra, con una popolazione quasi tre volte superiore; 201 i morti a Roma, 222 a Londra). Se questi sono solo alcuni dei problemi e altri li vedremo in seguito, diventa ancora più incisivo domandarsi perché tutto ciò accada. Perché questi dati crescono costantemente nel tempo e non si vedono indicazioni che vadano in senso contrario. E perché il problema traffico viene affidato a una gestione emergenziale, che con tutta evidenza ha prodotto assai poco e che, dopo sette anni di proroghe, il governo Monti nel gennaio 2013 ha nuovamente prorogato con il consenso di centrodestra e centrosinistra.

Alle domande sul numero di macchine che circolano a Roma, se ne incrociano altre, apparentemente disomogenee, ma che pure dimorano nello stesso spazio e hanno a che fare con il modo in cui questo spazio si organizza. A Roma si sono costruite nel primo decennio del Duemila moltissime case. 8.598 alloggi nel 2003, 11.056 nel 2004, 14.889 nel 2005, 8.433 nel 2006 e 8.919 nel 2007. In cinque anni si sono completati quasi 52 mila alloggi, 10 mila ogni anno in media: Roma ha avuto un tasso di crescita dello stock edilizio dell’1,4 per cento, il doppio di quello di Milano (+0,7). Ci sono ragioni demografiche, di riorganizzazione dei nuclei familiari, ragioni produttive che giustifichino questi incrementi, che hanno poi rallentato il proprio ritmo, fin quasi ad arrestarlo fra la fine del decennio e l’inizio di quello successivo? E perché ancora tante persone non trovano una casa che possano permettersi e un numero sempre crescente di queste persone va a vivere fuori Roma, in provincia o addirittura in altre province e persino oltre i confini della regione, al punto che qualcuno, in onore a questi paradossi, sostiene che Roma cresca a Orte (sono 163 mila i romani che tra il 2003 e il 2010 hanno lasciato la città e si sono trasferiti nei comuni della provincia)?

Chi conosce non solo Roma, ma la letteratura su Roma, sa che il disagio abitativo non è un problema di oggi o dell’ultimo decennio. È uno degli aspetti strutturali di uno scadente diritto alla città. Si è scritto – è ormai acquisito – che una certa quota di fabbisogno inevaso è sempre funzionale al mantenimento di un livello accettabile dei prezzi delle case – accettabile per chi quelle case costruisce. Si è scritto che più case si costruiscono, più ce ne vorrebbero; lo si è scritto per Roma, ma anche per l’Italia intera. Quanta gente, fin dall’alba del Novecento, si è ammassata in baracche addossate alle Mura Aureliane? E poi si è costruita una casa in mattoncini di tufo senza intonaco lungo le vie consolari? E in quanti hanno popolato i borghetti fino a tutti gli anni Settanta del secolo scorso? Insolera e poi Giovanni Berlinguer e Piero Della Seta, autori di Borgate di Roma, fra i più illustri esponenti di quella letteratura sulla capitale prima richiamata, hanno calcolato che alla fine degli anni Settanta erano fra 800 e 830 mila i romani che vivevano in case abusive, costruite senza alcuna licenza, poi in qualche modo rientrate nella legalità. Una città come Palermo. Altre stime parlano di 10 mila ettari abusivi, poco meno del 20 per cento di tutto l’attuale edificato a Roma. Nel 1997, quando l’amministrazione Rutelli approva un importante documento urbanistico, la Variante di salvaguardia, gli insediamenti abusivi conteggiati a partire dal Piano regolatore del 1962 ammontavano a 204.

Le pagine su Roma, le immagini di Roma, sono piene di case che si tirano su e di gente che cerca casa. Ma perché si costruiscono o si progettano ancora oggi tante case se 250 mila restano a vario titolo vuote (secondo una stima di Legambiente; erano comunque 193 mila al censimento del 2001)? Perché a pochi mesi dalla chiusura della legislatura in Consiglio comunale l’amministrazione di Gianni Alemanno cercava di far approvare in tutta fretta 64 delibere, molte in variante al Piano regolatore approvato nel 2008 e tutte proponenti ulteriori espansioni edilizie per un totale stimato fra i venti e i trenta milioni di metri cubi? Perché si progettano bretelle autostradali, raddoppi di aeroporti, perché le società di calcio cittadine, appartenenti a potenti famiglie di costruttori o a fondi immobiliari esteri, immaginano nuovi stadi che costituiranno la piccola parte di insediamenti contenenti centri commerciali, alberghi e, ancora, case? E poi: le domande sulle macchine e quelle sulle case si tengono insieme, si incrociano in qualche punto del discorso? Forse perché quelle case le si va a sistemare fuori dalla città già edificata, che pure conserva molti spazi vuoti, essendo bassissima la sua densità abitativa? Forse perché, nonostante tante dichiarazioni solenni e formalmente codificate, i nuovi insediamenti sorgono lontano o lontanissimo da una fermata di metropolitana, di tram e persino di autobus?

E perché, come effetto non secondario, di questa frammentazione abitativa, si decide di sacrificare porzioni di campagna romana, “l’erme contrade” che Giacomo Leopardi racconta nella Ginestra e che irrorano la facoltà immaginativa di Montaigne, Montesquieu, Charles de Brosses, Goethe e che ancora nel Novecento offrono materiali a Ennio Flaiano, Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini? Con la cultura non si mangia, disse un ministro della Repubblica, e tanto meno con la letteratura, ma con quel che l’agricoltura produce sì: e allora perché si lascia che quelle case, in gran numero restate invendute, minaccino le migliaia di aziende che l’agricoltura insistono a praticarla (Roma è ancora il comune o uno dei comuni più agricoli d’Italia) coltivando carciofi, innestando vigneti, allevando pecore e confezionando formaggi?

Le domande diventano perentorie. E, come in una struttura frattale, ne producono altre, che poi vanno a raggrupparsi. Fino a formare accorpamenti e gerarchie. E domande capofila, del tipo: chi decide che tutto ciò accada? Chi decide perché si costruisce, che cosa, per chi, come e dove? Chi stabilisce che un edificio, un’area di proprietà pubblica, un mercato rionale, con la scusa di ridurre il debito, finiscano in mano a un privato che ne fa quel che vuole ignorando ciò di cui ha bisogno la parte di città in cui quell’edificio, quell’area e quel mercato risiedono? Quali sono i soggetti, le forze, le aggregazioni sociali, economiche e politiche che definiscono gli assetti della città? E quanto costa ai cittadini romani, e non solo ai cittadini romani, una Roma così fatta, che ha un debito di oltre 9 miliardi, scarsissima liquidità, un bilancio sempre a rischio di censure dalla Corte dei Conti e che, per evitare l’indecenza, dichiara per acquisite anche le entrate presunte, come le multe?

Quanto spazio i temi urbanistici occupano nel dibattito politico? È possibile, per esempio, fare anche minimamente un raffronto con le polemiche aspre, le divisioni profonde, appassionate e culturalmente motivate che si agitarono negli anni Cinquanta, quando si scriveva il Piano regolatore della città? Che durata hanno i fenomeni che oggi investono Roma? Quand’è che Roma ha cominciato a farsi del male? Forse quando compì il vertiginoso salto da misero borgo papalino a capitale del Regno? Oppure quando il cardinale de Mérode acquistò i terreni sui quali avrebbe fatto costruire via Nazionale? Quando furono distrutte Villa Ludovisi e decine di altre ville patrizie sostituite da lottizzazioni? Quando fu stravolto il Piano regolatore del sindaco Ernesto Nathan? Quando furono inventate le borgate? La caccia alle origini del malessere di Roma è stata condotta e prosegue in sede storiografica con risultati a volte ottimi. Ma non è questa la sede per spingersi così lontano. Qui si può fissare, non tanto arbitrariamente, un punto nella storia secolare di Roma. Quel punto è l’articolo che Antonio Cederna pubblica su Il Mondo il 15 marzo 1955 e che il direttore del settimanale, Mario Pannunzio, intitola La macchia d’olio. Come una goccia d’olio che cade da un recipiente produce su una superficie una macchia la quale si espande in modo irregolare e si dilata in ogni direzione, così la città di Roma è cresciuta fin dagli anni successivi al 1870 allargandosi in tutti i punti cardinali e seguendo non la linea di marcia dettata da una corretta pianificazione, ma le forze di trascinamento delle proprietà fondiarie – la speculazione edilizia – le quali, chi a est, chi a ovest, chi a sud e chi a nord, spingono la città sui loro terreni.

Dal 1951, comunque, mescolando interventi di edilizia pubblica e privata, in proporzioni a tutto vantaggio di quest’ultima, la città si espande a un ritmo che non ha eguali nella propria storia. Vediamo qualche dato. Il Piano regolatore del 1931 dimensiona l’edificato di Roma, per i futuri 25 anni, in 14 mila ettari. Non è la fotografia dell’esistente, sono previsioni. Se anche le dessimo per acquisite nei decenni successivi, e non lo sono, queste previsioni fissano la città costruita entro un decimo del territorio comunale (che allora comprendeva anche Fiumicino). Va da sé che nei 14 mila ettari non sono compresi i numerosi “nuclei edilizi”, così li chiamavano, sparsi già allora nella campagna. Roma ha impiegato 2.500 anni per arrivare a quelle dimensioni. La grandissima parte dell’incremento avviene dopo Porta Pia e accompagna un ritmo di crescita demografica altrettanto imponente: 240 mila gli abitanti nel 1870, 691 mila nel 1921 (quasi triplicati), 1 milione 8 mila nel 1931, 1 milione 415 mila nel 1941, 1 milione 651 mila nel 1951. In ottant’anni la popolazione aumenta di 6,7 volte.

Nel 2010, stando alle previsioni del Piano regolatore approvato nel 2008, l’area urbanizzata raggiunge i 60 mila ettari. In sessant’anni la superficie del costruito è aumentata di 4,5 volte (sempre che sia corretto il dimensionamento a 14 mila ettari fra 1931 e 1951). E la popolazione? Il censimento del 2011 indica che i romani residenti sono 2 milioni 760 mila, 1 milione e 100 mila più del 1951 (grosso modo 0,7 volte), ma appena 210 mila più del 2001 e praticamente gli stessi del 1991 e del 1971. Da quarant’anni, con lievi oscillazioni, Roma è demograficamente stabilizzata. Inoltre, a conferma di quanto si diceva prima, a proposito di Roma che cresce a Orte, mentre dal 2001 al 2011 la capitale conta un +8,4 per cento di residenti, la provincia di Roma si ingrossa di un +13,3. C’è dunque sproporzione fra il ritmo di crescita dei romani e quello di Roma, considerando anche l’aumento del numero delle famiglie e segnalando che l’incremento di residenti è soprattutto prodotto dagli immigrati. Le case invendute sono uno degli effetti di queste sproporzioni. Sono contemporaneamente il prodotto di un boom edilizio e il referto di una crisi drammatica.

Il costruito è tanto, troppo, ed è andato per ogni dove anche dopo l’inizio del millennio. Perché? È frutto di intenzioni speculative o di un disegno, di un’idea della città? E qual è il vantaggio che resta alla città e ai romani, vantaggio in termini di benessere economico e di benessere e basta? Quando Cederna coglie con la metafora della macchia d’olio la forma che prende la crescita di Roma, quella crescita è in atto già da decenni. L’articolo su Il Mondo viene riprodotto in I vandali in casa, pubblicato da Laterza nel 1956. L’espressione “macchia d’olio” diventa proverbiale. Il libro di Cederna può leggerlo chiunque abbia responsabilità amministrative da allora in poi: lo hanno letto? Ne hanno tratto qualche istruzione per mettere mano al governo della città? Roma che si espande come si espande una macchia d’olio è una città che si fa del male o del bene? Nessun sistema di trasporto supporta in modo minimamente adeguato questo sviluppo e se fosse adeguato sarebbe insopportabile finanziariamente, una condizione già in atto se si osservano i disastrosi bilanci dell’Atac e il debito che affligge il Comune. Nascono quartieri inospitali che hanno scarsi punti di raccordo fra loro e con il centro della città. Roma è una metropoli che esclude. La letteratura su questi fenomeni è abbondante. Riprendiamo Roma moderna, laddove Insolera fa il resoconto delle ville distrutte dopo il 1870. Molte di queste ville, annota, si sarebbero salvate se solo si fossero applicate le prescrizioni contenute nel Piano regolatore del 1883. «Ma i Piani regolatori a Roma sembrano essere sempre esistiti per dividere le opere in due categorie: quelle dentro al Piano e quelle fuori. Realizzabili poi tutte quante, indifferentemente e quasi sempre prima e più facilmente quelle fuori».

Alla vigilia della formazione del nuovo governo è utile riflettere su alcuni discutibili, e a volte addirittura perversi, episodi dell'urbanistica della vecchia sinistra. Il PRG di Roma è una buona occasione per farlo. L'Unità, 18 marzo 2013, con postilla

Mentre impazza il toto-nomi per il Campidoglio, il libro di un vecchio leone dell'urbanistica, quello di Giuseppe Campos Venuti, Amministrare l'Urbanistica Oggi (remake del titolo di un fortunato volume degli anni '60. edizione INU), dà l'opportunità di parlare di Roma, delle trasformazioni dagli anni 80, del dilagare del cemento oltre il Raccordo, fino a far sparire, in molti casi, la cesura fra città e campagna, consumo di suolo e scarsità di servizi. Di parlare anche dei contrasti che, dopo una stagione felice, hanno segnato, con l'arrivo di Alemanno in Campidoglio, la sconfitta di una stagione di progettualità che proiettava Roma nel firmamento delle capitali europee e anche di amministrazione «forte». Basti un dato: nel 1994 Berlusconi annunciò il condono ma a Roma gli abusi scesero (in contro tendenza rispetto al paese) da 300 al mese nel 1994 a 50 al mese nel 1997. Sconfitta tutta politica o sconfitta di quello che per anni è stato chiamato «modello Roma»?

Giuseppe Campos Venuti ha lavorato al Prg di Roma dal 1993 al 2003 (Rutelli Veltroni) ma, al momento della approvazione, tolse la firma, pur confermando stima e fiducia nel sindaco. L'esperienza romana è stata dice «un insuccesso», aggiungendo un riformistico «per ora». L'ossessione della lunga attività di urbanista di Campos Venuti è il contrasto alla rendita: «Si deve a un regime immobiliare completamente dominato dalla rendita urbana» se in Italia si è passati da 47 milioni di stanze negli anni 60 ai 111 milioni attuali, senza risolvere il bisogno di abitazioni sociali, «forzando il reddito delle famiglie all'acquisto della casa, spingendo la finanza verso il settore immobiliare».

Il piano regolatore approvato in consiglio comunale nel 2003 mantiene molte delle caratteristiche originali: cura del ferro, salvaguardia ambientale per il 69% del territorio, 18.000 ettari vincolati a verde, dimensione metropolitana, riduzione drastica delle previsioni del 1962 da un milione di stanze a 350.000. Queste ultime, ricorda Campos, sono una quantità residua difficilmente eliminabile, che il comune propose di distribuire in parte nelle nuove centralità (un quarto a terziario e servizi) in parte trasferendole vicino alle stazioni, per favorire la mobilità su ferro. Operazione che riesce con la nuova stazione Tiburtina (vi lavorò Alfio Marchini). Dov'è, allora, la sconfitta? Nella posizione, scrive l’urbanista, di Rifondazione comunista, alleata del centro sinistra al Campidoglio e alla Regione. Saltò a livello nazionale e regionale la proposta di una nuova legge urbanistica che affidava al Prg una funzione programmatica, condensando quella prescrittiva in 5 anni.

Rifondazione resta legata allo strumento dell'esproprio che si fa, ormai, a prezzi di mercato, impossibili per le vuote casse delle amministrazioni comunali. Non piace al Prc nemmeno la compensazione perequativa che chiede ai costruttori la quota gratuita di verde e servizi. Un maxi-emendamento che Walter Veltroni concorda, in cambio dell’approvazione del Prg, spinge Campos al gesto di rottura: «Cancellava 40.000 stanze direzionali nelle nuove centralità, eliminava le aree di riserva in prossimità del ferro, riduceva 1700 ettari di acquisizioni compensative gratuite quadruplicando le aree da espropriare a prezzi irraggiungibili». La tesi di Campos Venuti è che lo scontro ideologico dei «massimalisti» è andato a tutto vantaggio della «proprietà fondiaria».

Ancor prima si era consumato un altro scontro, al tempo della giunta Rutelli, l’urbanista e l'assessore all'urbanistica Domenico Cecchini da una parte, l'assessore alla mobilità e vicesindaco Walter Tocci dall’altra. Fu Goffredo Bettini a tagliare il nodo, sostenendo gli urbanisti.

Nel libro scritto da Tocci con Italo Insolera e Daniela Morandi, Avanti c'è posto. Storie e progetti del trasporto pubblico a Roma (Donzelli 2008), c'è un paragrafo che si intitola «modestia rivoluzionaria» mentre Campos preferisce orgogliosamente la definizione di «riformista». Ma Tocci non è un massimalista, da assessore alla mobilità scopre il paradosso romano: «A Roma il problema del traffico non esiste». La Prenestina o la Cassia si bloccano tutte le mattine ma «i flussi non sono impossibili, 1000 auto l'ora». Il traffico è un problema a Londra, con un numero di abitanti 3 o 4 volte superiore, mentre a Roma è «una patologia urbanistica». «Se avessimo gestito in modo diverso l'esodo di 600.000 romani nell’hinterland in cerca di migliori condizioni abitative, non ci sarebbe l'ingorgo delle consolari». Il dissenso di Tocci sul Prg si espresse sulle 20 centralità previste dal Prg, «sono troppe, non possono centralizzare alcunché».

Scrive in un documento del 2001, prima di lasciare il mandato: «Se non si modificano le regole della trasformazione urbanistica, nessuna politica della mobilità può risolvere il problema». Le cubature ereditate dal Prg del 1962, sostiene «andavano concentrate dove sono le stazioni di trasporto, soprattutto quelle interne, per riportare le residenze nella città consolidata». La preoccupazione è verso le periferie fuori del Gra, la parte più sofferente della città, che non vota più a sinistra. Walter Tocci pubblica un biglietto di Insolera del 1995, che suona autocritica per l’assessore alla mobilità: «Bisognava rilanciare il tram sulla Prenestina, razionalizzare Centocelle, attaccarci la Togliatti: lì c'è l'utenza, lì è facile, lì ci sono i voti ... La tua scelta è stata opposta: buona fortuna!».

Postilla

Campos Venuti trascura un elemento importante della recente storia, urbanistica di Roma che è ben documentata nelle pagine di eddyburg (vedi in calce). Ciò che sta alla radice della critica al prg Rutelli-Veltroni, il cui padre è stato Campos, è la critica della scelta nefasta di quel piano di considerare diritti acquisiti, quindi non eliminabili se non pagando pesanti indennizzi, le previsioni edificatorie del piano precedentemente vigente. Campos coniò per l’occasione una espressione, all’apparenza indiscutibile, che voleva significare appunto la tesi dell’irreversibilità delle destinazioni urbanistiche: l’espressione “diritti edificatori”, allora de tutto assente nello jure italiano.

Fu grazie all’alibi fornito da quell’espressione che il piano non solo consolidò le aspettative di edificabilità su vastissime porzioni dell’Agro romano ma le ampliò, portando nel suo complesso la quantità di edificazione consentita dal piano ai 70 milioni metri cubi spalmati su 15mila ettari. Quell’errore (tale voglio considerarlo) non fu solo un gigantesco regalo alla rendita immobiliare romana, ma un contributo che fu colto in ogni parte d’Italia da amministrazioni locali incompetenti o disoneste, abbacinate dal mito di una “crescita infinita” delle aree urbanizzate come “motore” dello sviluppo” e giustificarono la loro remissività nei confronti della speculazione come un olocausto che era obbligatorio sacrificare al magico totem dei “diritti edificatori”.

Sull’argomento vedi su eddyburg i numerosi testi raccolti nella cartella Roma , e in particolare il saggio di Vezio De Lucia su Meridiana , la relazione di Paolo Berdini al convegno polis (2002) e il suo articolo per eddyburg (2006) , la nota di Edoardo Salzano sui diritti edificatori e il parere di Vincenzo Cerulli Irelli

Corriere della Sera, 18 marzo 2013 (f.b.)

Ottanta mini isole per i rifiuti, shopper biodegradabili e totem informativi con aneddoti e curiosità in latino. Saranno installate nell'area degli Scavi archeologici di Pompei e nel Parco nazionale del Vesuvio. Gli slogan, multilingue, sono del tipo: «Hospitum discrimina, barbarorum incuria», «La differenziata è dell'ospite, l'indifferenziata del barbaro», «Don't Be a Barbarian Civilize Guests Recycle». Per il ministro dell'Ambiente Corrado Clini «avviare la raccolta differenziata negli Scavi di Pompei significa rilanciare l'immagine della Campania nel mondo». Superfluo dire quanto sia importante la raccolta differenziata: e ancor più superfluo insistere sull'importanza che essa dovrebbe assumere in luoghi come il sito archeologico di Pompei, frequentati da ben due milioni e mezzo di visitatori all'anno.

Non può essere che positiva, dunque, la prima reazione all'iniziativa del Conai di realizzare un progetto di potenziamento del riciclo che coinvolge, accanto al sito archeologico, il Parco nazionale del Vesuvio con i suoi ulteriori 500.000 visitatori. Un progetto articolato e complesso, che prevede la costituzione di ottanta mini isole per i rifiuti, shopper biodegradabili, buste «compostabili» per contenere i propri rifiuti da deporre, al termine della visita, in appositi contenitori... Ma il problema è che questo non è tutto. Il problema sta, come spesso accade, nella «comunicazione», vale a dire negli incentivi che dovrebbero invogliare i visitatori a rispettare le regole: per cominciare, lo slogan della campagna. Ahimè in latino: hospitum discrimina, barbarorum incuria (la differenziata è dell'ospite, l'indifferenziata del barbaro).

Inizia qui, con questo dotto monito, quello che a mio giudizio rischia di essere il potenziamento di una tendenza già fin troppo visibile a Pompei, vale a dire la «Disneylandizzazione». Alla quale, temo fortemente, contribuiranno non poco i totem installati lungo gli scavi e il parco, con messaggi a loro volta intesi a invogliare alla differenziata, rappresentati da aforismi latini famosi: ignorantia legis non excusat, ad esempio (l'ignoranza della legge non scusa), oppure carpe diem (cogli l'attimo). Brevissima parentesi: come interpreterà questo invito il turista? Come la concessione a gettare i rifiuti nel primo posto che gli capita a tiro?

Ma torniamo all'effetto Disneyland: Pompei è ormai piena di cartelli, avvisi, superfetazioni di ogni genere che la privano di quella che, come tutti sanno, è la sua unicità: solo Pompei consente al visitatore un viaggio nel tempo, un sogno, un momento di astrazione della realtà... Pompei è una città antica vera, non una falsa città antica, come la moda delle inserzioni, dei totem, delle scritte (peggio ancora se in latino maccheronico) tendono a trasformarla. Per non parlare di una seconda, non meno grave causa di sofferenza: pensare — come è inevitabile fare — alla differenza tra i costi di simili operazioni e la mancanza di fondi destinati alla manutenzione del sito.

Corriere della Sera Milano, 14 marzo 2013, postilla (f.b.)

La richiesta di un vincolo di tutela sulla via Gluck è già depositato alla Soprintendenza per i Beni culturali e paesaggistici. Ma domenica attraverso il sito www.amicidellamartesana.it viene promossa una petizione popolare che sarà indirizzata al ministro dei Beni culturali. Nei giorni scorsi, intanto, le commissioni Cultura e Urbanistica di Zona 2, decise a far propria la battaglia dell'associazione di quartiere, hanno programmato un sopralluogo in via Gluck, primo passo per uno studio di riqualificazione complessiva dell'area, assediata dal cemento. La proposta al Comune è che l'intero tratto di via, dai civici 11 al 23 e dall'8 al 16, sia inserito nel Pgt tra gli immobili con vincolo di tutela.

Una battaglia che il molleggiato ha dimostrato di gradire. Al 14 della via Gluck egli è nato e cresciuto. Adriano Celentano l'ha scritto in una breve mail indirizzata al presidente del comitato, Pippo Amato, autorizzandolo a «riportare il testo della mia canzone "il ragazzo della via Gluck" nella vostra relazione, a sostegno della richiesta di dimostrare la storicità degli edifici del tratto che coinvolge anche la Via Gluck quali beni culturale e paesaggistici e a testimonianza di un mondo operaio/ industriale/sociale, ormai scomparso». Per la petizione si potrà firmare presso i negozianti che aderiranno alle iniziative tutte le domeniche di svolgimento del Mercatel su la Martesana. La raccolta di firme potrà essere fatta anche online con un modulo che sarà presto pubblicato.

E c'è chi, già, in Zona 2 pensa ad una via Gluck piena di verde, alberi... ma prima di tutto pedonalizzata. Sono novanta metri di strada in tutto. Gli edifici in questo tratto della via Gluck furono costruiti tra la fine dell'800 e i primi del Novecento. Era un borgo di periferia, un agglomerato di case popolari di ringhiera ma cui gli architetti del tempo non fecero mancare ornamenti del primo Liberty, le ringhiere in ferro battuto lavorato, le finestre con i vetri a «cattedrale». «Non hanno caratteristiche monumentali architettoniche di particolare pregio — spiega Pippo Amato — ma sono una testimonianza importante storico-culturale degli insediamenti sorti nelle periferie milanesi in concomitanza con lo sviluppo industriale». La Pirelli cominciò ai primi del Novecento la produzione dei pneumatici per automobili. A Greco, piccolo comune della cinta orientale della metropoli, dalla quale sarebbe stato assorbito nel 1923, la vita costava meno e la via Gluck fu il centro del nucleo abitato dagli operai della Pirelli.

Era un piccolissimo borgo autosufficiente: oggi non ci sono più il panettiere, il macellaio, hanno chiuso l'idraulico e la gelateria. Sono però ancora le stesse «case fuori città...» e «la gente tranquilla che lavorava» cantate da Celentano. E il retrobottega al piano terra, dove Adriano Celentano visse con la famiglia (mamma Giuditta era sartina e aveva il negozio affacciato sulla strada), poi deposito di pesce congelato e dopo ancora panetteria, è tornato all'antica funzione abitativa. L'iniziativa milanese ha dei precedenti: in Inghilterra, la casa dove abitava Paul McCartney a Liverpool in Forthlin Road 20, è stata inserita da tempo tra gli edifici storici da tutelare, a cura del National Trust.

Postilla

“Castelfranco Veneto, 14 marzo 2030 - Il comitato promotore del Parco Distretto Diffuso inoltra all'Unesco la richiesta per il riconoscimento di Patrimonio dell'Umanità di tutto il territorio compreso tra la fascia settentrionale urbana e le colline di Asolo inclusa l'area ex industriale di Caselle, dove rischiano la demolizione alcuni capannoni realizzati con una particolare tecnica di prefabbricati. L'obiettivo è di promuovere e tutelare lo stile di vita di un tempo, quando questa ampia zona era uno dei tanti territori dello scomparso Modello Veneto”. Quello che mi sono inventato qui è un possibile articolo di giornale futuro se, indipendentemente dal merito specifico della tutela di qualche edificio (a quanto pare in sé di scarso valore) passerà il metodo di estendere a tutto ciò che è considerato in qualche modo “tradizionale” il criterio affermatosi a metà '900 coi tessuti storici. In definitiva: se ci sono problemi urbanistici, andrebbero affrontati a viso aperto con quegli strumenti, magari cambiando le regole, e non scimmiottando obiettivi di conservazione degni di migliora causa, che così rischiano solo di essere banalizzati da un uso improprio (f.b.)

La posizione dell’assessore all’urbanistica De Falco: come ricostituire la città della scienza, restituire all’uso degli abitanti l’area dell’ex Ilva e ripristinare la legalità. Il Mattino, 12 marzo 2013
Si può fare, a patto che ci sia un dibattito, che non si divida, che si faccia presto nella ricostruzione di Città della Scienza. Però l’ipotesi di delocalizzaione all’interno del grande parco di Bagnoli della struttura distrutta dalle fiamme a Palazzo San Giacomo nessuno la nega. Nel senso che è nel novero delle possibilità.

A scriverlo è l’assessore all’Urbanistica della giunta de Magistris Luigi De Falco (la lettera integrale dell’assessore è di fianco). «Il recupero dell’identità di Bagnoli - scrive De Falco - non può prescindere dalla rinascita di Città della scienza, e allora le due cose si mettano assieme, così come il piano regolatore indirizza per perseguire quell’obbiettivo. Con Città della scienza sono andati in fumo anche gli ulteriori quasi cinquant’anni per attendere l’ammortamento dei fondi utilizzati per la sua costruzione, prima di avviare il trasferimento del complesso appena al di là della strada. Ma a questo punto l’occasione va colta».
Cosa significa? De Falco semplicemente si rifà al Prg che prevede la linea di costa libera da Coroglio fino a Piazza Bagnoli quindi senza Città della scienza (e senza colmata) perché diventi la spiaggia e il mare dei napoletani. Non un atto rivoluzionario ma semplicemente l’applicazione della legge. Una riflessione che in questi giorni attraversa la città ed è trasversale: c’è chi è d’accordo, chi teme che lo spostamento possa allungare i tempi della ricostruzione.

Altri ancora, come i dipendenti di Città della scienza possa essere simbolicamente una resa a chi quel rogo lo ha voluto. «Città della scienza va ricostruita subito - scrive ancora l’assessore - non in altri quartieri della città, messa in rete con i gioielli della zona occidentale che motivarono la prima iniziativa della pianificazione urbanistica negli anni del rinascimento napoletano: la Mostra d’Oltremare, le terme di Agnano, con i poli della ricerca e delle comunicazioni (il Cnr, le Università, la Rai), il complesso Ciano, lo stadio San Paolo, l’ippodromo di Agnano».

Un omaggio, se si vuole, al grande sforzo fatto all’epoca di Bassolino sindaco per mano di Vezio De Lucia titolare dell’urbanistica. Il padre della Variante occidentale che così si è espresso sulla materia: «C’è stata la tragedia e tutta ci siamo commossi però questo potrebbe consentire di tornare all’idea originale: la spiaggia e solo spiaggia tutto il resto va via. Ora si possono determinare le condizioni. Sfruttiamo la tragedia in modo positivo per fare la Città della scienza più bella di prima, del resto un pezzo della struttura sta già a monte di Coroglio».

Il riferimento è ai manufatti di archeologia industriale. In particolare l’ex acciaieria il cui rilancio è interamente finanziato dalla Ue. Sulla questione si sono espressi favorevolmente anche Raimondo Pasquino presidente del Consiglio comunale nelle vesti tecnico. E anche le asssisi di Bagnoli che addirittura si stanno battendo per promuovere un referendum comunale.

Al di là del dibattito vale la pena aprire una discussione di tipo tecnico, come suggerisce lo stesso De Falco. «In fumo sono andati anche i 50 anni che restano per ammortizzare i costi di Città della scienza». Ora che i capannoni non esistono più - il ragionamento dell’assessore - ci sono buoni motivi per immaginare anche altro alla luce di una serie di fatti. Se si volesse ricostruire in loco ci vorrebbe una nuova legge dell’ente di Santa Lucia con la quale consentire costruzioni sulla spiaggia. In secondo luogo serve fare la bonifica che da sola costerebbe i 20 milioni messi a disposizione dal governo. In terzo luogo l’escamotage tecnico per tenerla li dove si trovava e spostare in avanti nel tempo la sua delocalizzazione è stato inserire nella mission l’obbligo di recuperare i costi di investimento entro più o meno un secolo dalla sua andata in funzione. Ora quest’obbligo non c’è più.

«Il grandioso progetto Petroselli-Cederna di un parco dai Fori ai Castelli è tuttora un’idea-forza se la si sa riproporre assieme alla tutela attiva del centro storico». L'Unità, 11 marzo 2013

A Roma si voterà, per il Campidoglio, il 26 maggio. Gli ultimi risultati elettorali – ottimi per il successo finale di Nicola Zingaretti – hanno visto molto vicini, nel Comune di Roma, Pd e M5s. Si andrà al ballottaggio fra i loro candidati? In tal caso, i voti del declinante centrodestra confluiranno sul candidato 5 Stelle? Qualunque sia l’esito del primo turno, credo che fra i temi che più coinvolgono l’elettorato giovanile e popolare vi siano l’ulteriore avanzata del cemento nell’Agro romano a danno dell’ambiente naturale, ma anche dell’agricoltura, spesso di qualità, che vi si pratica, di altri possibili posti di lavoro, produttivi e stabili. La superficie urbanizzata copre già 55.000 ettari. Contro i 6.000 del 1951: + 816 %, mentre i residenti sono cresciuti del 58 % e molti “emigrano” fuori Comune.

Il grandioso progetto Petroselli-Cederna di un parco archeologico-agricolo-naturalistico dai Fori ai Castelli è tuttora un’idea-forza se la si sa riproporre assieme alla tutela attiva del centro storico (sempre più mortificato da un intensivo uso “bottegaio”), al recupero e al riuso corretto di tante zone dismesse, della precaria edilizia anni ’40-’50 semi-periferica e periferica, di almeno 150.000 alloggi realmente vuoti, invenduti o sfitti. Per proporre tutto ciò e non altro cemento, ci vogliono le mani (e le teste) libere da rapporti coi maggiori costruttori-immobiliaristi-proprietari che tanto hanno deciso delle sorti dell’area metropolitana di Roma, incatenandola all’idea vecchia e statica di uno sviluppo edilizio senza limiti quale “motore” di sviluppo. Col risultato di sottrarre capitali ad altre e più dinamiche attività, di far retrocedere Roma da primo a terzo Comune agricolo d’Italia, dopo Foggia e Cerignola, di creare nuove periferie tanto ricche di centri commerciali quanto povere di centri culturali, di servizi sociali e civili. Per non parlare dei tentativi di Alemanno di “ristrutturare” Tor Bellamonaca, dando ai costruttori premi tali da peggiorare l’esistente.

L’ultima “trovata” riguarda il centro storico, addirittura la regale via Giulia e il Lungotevere che fronteggia il Gianicolo e Sant’Onofrio. Alemanno ha insistito, pervicacemente, nel progetto di un mega-parcheggio sotto l’area fra il Liceo Visconti e la Moretta. Puntualmente le ruspe hanno incontrato importanti resti romani, le rimesse degli aurighi del Circo Massimo. Tutto incagliato ? No, perché la società privata Cam ha avanzato l’estrosa proposta di realizzare lì sotto, in project financing, un museo degli aurighi medesimi (ecco il fine pubblico che giustifica i mezzi privati). Da assegnare, s’intende, a loro per 45 anni, assieme al parking sotterraneo.

Parere preliminare della Soprintendenza archeologica? Sbalorditivo ma vero: favorevole. Sopra al parcheggio-museo la bellezza di 40.000 metri cubi divisi in cinque fabbricati, albergo e ristorante, uno “urban center”, attività commerciali, ecc. Sottraendo al Liceo Visconti l’area sportiva all’aperto esistente e oggetto, nel 2010, cioè ieri, di una convenzione col Comune per riqualificarla. Si costruisce verso via Giulia, ma anche su via Bravaria, fronte sul Lungotevere. Parere preliminare del direttore generale per il Lazio dei beni culturali, Federica Galloni? Sbalorditivo ma vero: favorevole. Del resto, è la stessa che ha lasciato infilare senza fare una piega una Pizzeria dentro la medioevale Torre Sanguigna (zona Navona). Pareri preliminari favorevoli di tutti i Dipartimenti comunali. Ma ora, di fronte a vibrate proteste, Alemanno e la CAM (che, dice, ha speso molto…), al posto del ristorante, propone appartamenti di lusso e un laboratorio di arte contemporanea, la dove il progetto dello svizzero Roger Diener, votato dai residenti, prevedeva un parco. Quindi, sono sempre migliaia di metri cubi in una delle zone più pregiate di Roma antica. La pratica dovrà andare in Regione dove, per fortuna, non c’è più Renata Polverini. Ma intanto ci si prova. A Roma e in tutta Italia. A volte, anche da parte di giunte di centrosinistra, minacciando l’integrità di splendidi centri storici nei quali bisogna invece far rientrare abitanti di ogni ceto sociale, laboratori artigiani, la vita vera e vissuta.

Servi degli interessi degli affaristi urbani, promotori della mercificazione della città e distruttori del patrimonio culturale operano nelle amministrazioni di moltissime città italiane, alimentando il disgusto per la “politica”. Il Fatto Quotidiano, 9 marzo 2013

La più bella delle strade dell’antichità (l'Appia, regina viarum) fu a stento salvata dal grande Antonio Cederna, in una battaglia contro il cemento culminata vent'anni fa con la creazione del Parco. Oggi la partita si gioca sulla regina delle strade dell'età moderna, quella Via Giulia che corre parallela al Tevere nel cuore di Roma, un’“utopia urbanistica del ’500”. In qualunque paese una strada immaginata e voluta da un papa come Giulio II Della Rovere (quello che commissionò a Michelangelo gli affreschi della volta della Cappella Sistina, per intenderci), e progettata e costruita, nei secoli, da architetti come Bramante, Michelangelo e Borromini sarebbe considerata un testo prezioso come la Divina Commedia o il Furioso, essendo in più una cosa viva e traboccante di esseri umani: e dunque sarebbe sacra e intoccabile.

E invece no. Alcuni anni fa il Comune di Roma ha deciso di “riempire” il vuoto che fu creato alla metà di Via Giulia dai dissennati sventramenti fascisti. Ma invece di farlo nel più ovvio e civile dei modi (e cioè con un discreto e funzionalissimo parco pubblico), si è pensato bene di realizzare un cosiddetto “urban center” da 1.900 metri quadrati, un auditorium, un albergo con ristorante di lusso e 28 appartamenti, non meno esclusivi, contenuti in un cubo di cemento di quattro piani destinato a deturpare per sempre la strada di papa Giulio. Senza contare i parcheggi (circa 350 posti auto, su tre livelli), che non potranno essere tutti sotterranei a causa del ritrovamento delle stalle dei gladiatori di età augustea, e che dunque deborderanno anche nelle vie contigue. La notizia incredibile è che le soprintendenze hanno detto di sì a questo scempio. E l'hanno fatto nonostante che il 20 febbraio Italia Nostra di Roma sia arrivata a compiere l'inaudito (ma sacrosanto) passo di diffidare il tramontante ministro Lorenzo Ornaghi dal “concedere qualsiasi parere favorevole al rilascio dell’autorizzazione”, perché il progetto attuale è “un inaccettabile baratto tra affari e tutela delle aree storiche ed archeologiche”. Le pressioni erano così forti che si è tirato diritto nonostante che l'integerrimo funzionario della Soprintendenza architettonica di Roma a cui è stato ordinato di predisporre il parere favorevole si sia categoricamente rifiutato di controfirmare quello stesso parere. Siamo ridotti al punto in cui chi dovrebbe difendere il bene comune è costretto all'obiezione di coscienza. E non è un caso isolato. A Padova il sindaco Zanonato non recede dal progetto di costruire un auditorium e due grattacieli che, oltre a cambiare l'aspetto della città affogandola in ulteriore cemento, rischiano di alterare la circolazione delle acque sotterranee e conseguentemente di far crollare la Cappella degli Scrovegni affrescata da Giotto. A Milano solo la perseveranza di una parte di Italia Nostra ha ottenuto finalmente che un tribunale disponesse nuovi e accurati studi che dicano se è possibile aprire piazza Sant'Ambrogio (con le sue tombe di varia epoca) per trasformarla nel coperchio di un gigantesco parcheggio interrato. In una L’Aquila ancora distrutta si è proposto di scavare un centro commerciale sotto la piazza del Duomo. E a Firenze una partecipata del Comune governata da uno dei più stretti sodali di Matteo Renzi (la Firenze Parcheggi) pensa di sventrare Piazza del Carmine per realizzare un parcheggio sotterraneo che rischia di “gentrificare” il quartiere ancora popolare dell'Oltrarno (cioè di espellerne i cittadini residenti), e di mettere a rischio gli affreschi di Masaccio nella Cappella Brancacci che si affaccia sulla piazza.

Un unico filo lega questi episodi, in male e in bene: da una parte un’oscura decadenza intellettuale spinge le amministrazioni comunali a cannibalizzare e distruggere i luoghi più belli e importanti delle loro stesse città, dall'altra si creano e si consolidano reti e comitati di cittadini che studiano, manifestano, si espongono per difendere i luoghi che danno forma e senso alla loro vita quotidiana. Nell'analisi del voto che due settimane fa ha (forse felicemente) sconquassato la geografia politica italiana non ci si può limitare ad un'analisi nazionale: è anche il tradimento della politica locale, dei poteri che dovrebbero essere vicini ai cittadini, a motivare un violento desiderio di fare tabula rasa. Perché è evidente che quando i cittadini di Via Giulia traditi dal Comune e dalle soprintendenze andranno a votare, vorranno affermare con forza che il potere pubblico deve realizzare i progetti e i desideri dei cittadini stessi, e non curare gli interessi già fortissimi del mercato e della speculazione immobiliare. È questa non è antipolitica, è Politica con la “p” maiuscola. Cioè, letteralmente, arte di costruire armonicamente le città, e dunque il Paese.

La Repubblica Milano, 9 marzo 2013, postilla (f.b.)

ROBERTO Maroni vara un piano per salvare i cantieri della grandi opere autostradali in vista di Expo 2015. La posizione della Regione è chiara: «I cantieri non possono fermarsi, le grandi opere vanno completate ». I costruttori di Tem, la nuova Tangenziale est esterna, Pizzarotti, Impregilo e Coopsette sono disponibili a discutere il versamento di una parte della quota dell’aumento di capitale necessario per completare la realizzazione dell’opera. Pari ai restanti 34 milioni di euro che dovranno essere sottoscritti entro il 15 marzo. Tem ha già infatti sottoscritto 72 dei circa cento milioni del totale del nuovo finanziamento previsto. Banca Intesa si è detta disponibile a fare la sua parte, successivamente. Asam, la holding delle partecipazioni societarie che fanno capo alla Provincia, al contrario, ha ribadito di non essere in grado di dare il suo contributo. Mentre la Cassa depositi e prestiti condivide l’operazione dell’aumento di capitale di Tem.

La svolta ieri durante un vertice in Regione tra il neogovernatore Maroni, l’assessore regionale alle Infrastrutture uscente Andrea Gilardoni, il presidente della Provincia Guido Podestà, l’amministratore delegato della Cassa depositi e prestiti Giovanni Gorno Tempini e i rappresentanti di Banca Intesa e dei costruttori di Tem e Brebemi. Del resto, Maroni lo aveva preannunciato due giorni fa. Quando al termine di un nuovo incontro con i dirigenti della Regione aveva precisato che le tre questioni più importanti di cui si sarebbe occupato sarebbero state: Expo, le grandi opere e la crisi economica. Tanto che martedì mattina ha già convocato i sindacati per discutere del rifinanzimento della cassa integrazione in deroga. E nel pomeriggio volerà a Roma per incontrare il ministro del Welfare Elsa Forneno, per tentare di sbloccare la situazione.

Sul tavolo dei vertice di ieri sulle infrastrutture anche il nodo della Pedemontana. La nuova autostrada che dovrà collegare tutte le province del Nord della Lombardia che rischia di fermarsi al primo lotto, la tratta tra le autostrade A8 e A9 da Cassano Magnago a Lomazzo in via di completamento. Quando mancano ancora 32 milioni di euro da aggiungere ai 64 già versati da Milano- Serravalle, la società autostradale che detiene il 68,36 per cento di Pedemontana spa. Nel frattempo, la quota di finanziamento del governo è ancora al vaglio dell’Authority sulle autostrade. Soddisfatto il presidente di Milano Serravalle Marzio Agnoloni presente alla riunione, che ha ribadito come la società stia compiendo un ulteriore sforzo per garantire la prosecuzione dei
lavori.

L’accelerazione di Maroni sulla realizzazione delle nuove autostrade, però, non convince l’opposizione di centrosinistra. «Ci vuole senso di responsabilità — osserva Andrea Di Stefano, ex candidato alle primarie per il Patto civico — Se la Tem non fosse completata sarebbe un disastro. Ma gli studi tecnici ci dicono che c’è stata una netta flessione sia del traffico civile che di quello commerciale. Siamo sicuri che il progetto originale della Pedemontana sia ancora valido»? Legambiente boccia senza appello lo sblocco delle grandi opere. «Da Maroni ci aspettiamo un segno di discontinuità rispetto al lasciar fare del passato sulla realizzazione delle grandi infrastrutture — attacca il presidente Damiano Di Simine — Se il nuovo governatore intende continuare nella missione suicida aperta dal precedente assessore regionale alle Infrastrutture Raffaele Cattaneo, sarà una sciagura per tutti i lombardi ».

postilla

Qualche ottimista, o frescaccione, chissà, nel corso della campagna elettorale tuonava da pulpiti di centrosinistra “La Città Infinita è Finita”. Come se bastassero gli slogan a vanvera per convincere un elettorato già scettico di suo: ci voleva un programma alternativo, che rilanciasse le economie del territorio, l'occupazione, l'abitabilità, in una prospettiva radicalmente diversa da quella dello sprawl. Il traballante schieramento che voleva opporsi a Lega, Pdl, 'ndrangheta e interessi affini non ha saputo esprimere niente del genere. Gli elettori, morsi alle chiappe dalla crisi, non se la sono proprio sentita di mettersi nelle mani di possibili rappresentanti del forse, mah, chissà. E adesso l'opposizione alla micidiale Città Infinita potranno farla solo soggetti extra-istituzionali, con tutti i limiti del caso, e col rischio di caricarsi dei contenuti sostanzialmente nimby-conservatori già emersi chiaramente (f.b.)

La ricostruzione della Città della Scienza, distrutta da un gesto criminoso, può essere occasione per realizzare finalmente uno dei migliori progetti del "Rinascimento napolitano": è la speranza non solo dell'assessore alla vivibilità della prima giunta Bassolino, ma di chiunque abbia seguito le vicende di quella felice stagione

Bagnoli è stato il punto d’avvio del cosiddetto rinascimento napoletano. Quando si insediò la prima amministrazione Bassolino era stato appena spento l'ultimo altoforno. In un incontro a Palazzo Chigi mi chiesero di sottoscrivere un’intesa fra governo, regione, Iri per affidare all’Italstat un progetto di “valorizzazione” dell’area. Rifiutai, spiegando che il futuro dell’ex Italsider doveva deciderlo il consiglio comunale di Napoli. Fu questa l’origine dei nuovi indirizzi urbanistici e poi della variante di Bagnoli che prevedeva, tra l’altro, un parco di centoventi ettari e il recupero della spiaggia di Coroglio. La filosofia era di sfruttare l’occasione fornita dalla dismissione dell’acciaieria per risarcire la città di tutto ciò di cui era stata privata a causa del mostruoso sviluppo del dopoguerra, tutto asfalto e cemento, senza un metro quadrato di verde. A Napoli, l’impatto dell’Italsider era lo stesso dell’Ilva su Taranto: un inferno. Volevamo trasformalo in un paradiso, restituendo alla città spazio aperto, ossigeno, il libero godimento di uno dei luoghi – senza retorica – più belli del mondo.

Fu molto faticoso far passare la nostra proposta. L'idea prevalente era che Bagnoli industria era e industria dovesse essere, anche se non più inquinante. Durante un convegno Bertinotti mi additò: “Compagno De Lucia, il bello non ci salverà”. Fu decisiva per far partire il progetto la credibilità di Antonio Bassolino. Ingraiano operaista, andò a parlare sulla spiaggia di Bagnoli ai cassintegrati Italsider, l'aristocrazia operaia napoletana a cui era devoto, e disse: “Lo spazio che sta alle vostre spalle sarà il parco pubblico più grande di Napoli”. Arrivò un'ovazione, mentre un sindacalista sconcertato commentò: “Vuole trasformare i metalmeccanici in boscaioli”.

Ma a Napoli il parco di Bagnoli continua a essere considerato un lusso che la città non può permettersi (quando Ferrara, con poco più di un decimo degli abitanti gestisce la cosiddetta addizione verde di mille duecento ettari). Detto questo mi pare importante chiarire che a Bagnoli – a differenza di altre grandi operazioni di trasformazione di aree ex industriali, come quelle, per esempio, dell’ex Falck di Sesto San Giovanni – non ci sono scandali. L’unico grande scandalo è l’immane ritardo rispetto ai tempi originariamente previsti. Un ritardo ingiustificabile, derivante dal fatto che la società di trasformazione urbana, istituita per rendere rapida ed efficiente l'attuazione del progetto, superando le difficoltà tradizionali della pubblica amministrazione, si è trasformata invece in un feudo autoreferenziale, una sinecura lottizzata dai partiti, dominata da una logica di piccolo cabotaggio. Come se bastasse la gestione pubblica a garantire buoni risultati. La gestione pubblica di Bagnoli è inadeguata e ha finito per scoraggiare l’intervento degli operatori privati.

La paralisi non è però irreversibile. Nulla è perduto: il progetto è ancora valido, a condizione che si sviluppi una coraggiosa ripresa dell’iniziativa istituzionale. Mi riferisco in primo luogo al sindaco e al comune. E mi piace sperare che proprio dalla tragedia della Città della Scienza, che è stata la prima e unica realizzazione del progetto Bagnoli, si tragga la forza per ricominciare. Contando anche sulla vasta e commovente solidarietà manifestata in questa circostanza dalla comunità nazionale. La Città della scienza bisogna ricostruirla, come e meglio di prima, allontanandola dalla spiaggia che il piano regolatore destina alla balneazione. A Bagnoli non mancano certo le aree adatte.

I nudi fatti di cronaca e le possibili interpretazioni e prospettive del disastro napoletano, in due articoli di Maurizio De Giovanni e Raffaele Nespoli. L'Unità, 7 marzo 2013

Una speculazione edilizia
di Raffaele Nespoli

Alle 21.40 un allarme scuote la centrale operativa dei vigili del fuoco. Sei minuti dopo le autobotti sono sul posto, ma è troppo tardi. Non c’è vento, non quanto ne servirebbe per creare un fronte di fuoco tanto vasto in soli sei minuti. Eppure l’incendio a Città della Scienza è già fuori controllo. Ecco perché, in attesa che dalla scientifica arrivino risposte certe, l’ipotesi più accreditata sul disastro che ha colpito il polo culturale di via Coroglio resta quella di un incendio doloso.

A ribadirlo è stato anche il procuratore della Repubblica Giovanni Colangelo, ieri con il ministro Paola Severino nei locali distrutti dalle fiamme. Il procuratore non ha escluso che con il passare delle ore si possano acquisire elementi più concreti. Prove «che consentano di indirizzare le indagini verso una direzione precisa». Al vaglio degli inquirenti anche alcune immagini che potrebbero rivelare dettagli importanti. Intanto, ieri, prima che la pioggia spazzasse via ogni possibile traccia, gli investigatori hanno acquisito una serie di campioni prelevati dall’area distrutta. E non si esclude affatto la possibilità di un coinvolgimento della camorra, anche perché è difficile credere che qualcuno possa aver agito senza ottenere prima il consenso dei clan che controllano la zona.

Quello che serve è un movente. A chi fa gioco la devastazione di Città della Scienza? Impossibile stabilirlo, ma diverse piste porterebbero ad un giro di affari di milioni di euro che ruota attorno alla bonifica di Bagnoli e alla vendita dei suoli. E come sempre, quando non ci sono indizi certi, la cosa migliore da fare è guardare alle «note stonate». Dettagli apparentemente irrilevanti che possono creare vere e proprie piste. Un primo elemento che non quadra è nella genesi dell’incendio. Dalle immagini che da subito hanno invaso internet e i social network sembrerebbe chiaro che le fiamme siano divampate contemporaneamente in diversi punti della struttura. La sensazione è quella di un vero e proprio blitz. Come se una squadra fosse entrata in azione dal mare, con le idee ben chiare sui punti da colpire.

Un’altra stranezza emerge poi dai racconti dei vigili del fuoco. Gli uomini impegnati sul posto hanno dovuto combattere per tredici ore prima di riuscire a domare la fiamme. Quasi che a contatto con l’acqua degli idranti il fuoco riprendesse vigore. Questo suggerirebbe la presenza di una sostanza accelerante. Non convince gli inquirenti, nella ricerca di un movente, l’idea di un legame con il premio assicurativo. Così come si esclude un collegamento tra le fiamme e la crisi che attanagliava la struttura, per la quale i dipendenti non ricevevano lo stipendio da undici mesi. Torna allora la pista degli appalti, degli interessi che ruotano attorno alla bonifica dell’area che un tempo ospitò l’Ilva di Bagnoli. Torna alla mente anche un indagine coordinata dal pm Michele Del Prete; tre anni fa si arrivò al sequestro di un appunto con i nomi di tutte le imprese interessate ai lavori di Bagnolifutura. La nota fu ritrovata nell’auto di un esponente di un clan locale.

Sospetti, ombre che si allungano su ciò che resta di un sogno, di una piccola città andata in fumo in una notte. Intanto, l’enorme risonanza dell’incendio ha dato origine a decine e decine di iniziative di solidarietà. Ma anche in questo caso le polemiche non mancano. Sulla rete si moltiplicano infatti gli avvertimenti alla cautela per «alcuni Iban “farlocchi”».

Accanto ad una raccolta ufficiale, organizzata grazie al sito di Città della Scienza, ce ne sono altre che in realtà nascondono delle truffe. Vere e proprie forme di sciacallaggio elettronico. Del tutto reale è invece il falsh mob in programma per il 10 marzo, alle 11, in via Coroglio. Una manifestazione che non avrà bandiere, nata dal passaparola virale creatosi sul web. In attesa che si faccia luce sulle cause dell’incendio è probabilmente il modo migliore per reagire alla distruzione di un simbolo. Sul posto ci saranno anche i dipendenti della struttura.
Per loro un piccolo segno di speranza già c’è, l’assessorato al Lavoro della Regione ha infatti autorizzato la cassa integrazione in deroga fino alla fine del 2013.

Quelle fiamme che non si spengono
di Maurizio De Giovanni

C’è ferita e ferita. I due colpi che hanno deturpato Napoli, nel terribile lunedì nero, corrono il rischio di lasciare un segno profondo, oltre che nel territorio, nella coscienza dei cittadini: e nella loro fiducia nella sopravvivenza della città.
Da qualche giorno era in corso un dibattito, sul principale giornale locale, avviato dalla lettera di un adolescente che a seguito di una rapina subita aveva dichiarato la propria intenzione di andare via per cercare migliori condizioni di vita. Asseriva, il ragazzo, di non voler nemmeno provare a rimanere a Napoli: che in questo luogo disperato non c’è modo di procurarsi un futuro accettabile. Molti personaggi appartenenti alla cultura, allo spettacolo, all’informazione sono intervenuti asserendo che le cose possono essere cambiate dall’interno, che le forze positive devono restare, per guarire col lavoro e l’onestà le malattie gravi di questa terra.

Il crollo del palazzo della Riviera di Chiaia, e l’incendio, a questo punto evidentemente doloso, della Città della Scienza a Bagnoli costituiscono il più violento e raccapricciante degli interventi nel dibattito. Sia chiaro: si tratta di avvenimenti radicalmente diversi nella genesi e negli effetti, che non hanno in comune che la tragica coincidenza temporale. Ma testimoniano dell’abbandono, dell’incuria e del mancato governo del territorio da parte degli stessi napoletani.

Il palazzo semicrollato appartiene al prospetto nobile che la città propone dal mare, ed era là dagli inizi dell’ottocento. Una delle immagini, per intenderci, che rimanevano negli occhi pieni di lacrime degli emigranti che partivano alla ricerca della speranza, come l’adolescente rapinato si propone di fare oggi. Una costruzione di valore, abitata da professionisti del massimo livello, che ospitava uffici di rappresentanza, a pochi metri dal Consolato statunitense e dal mare. Niente ignoranza, nessun degrado: niente povertà, nessuna mancanza di cultura a giustificare una ritardata segnalazione. A brevissima distanza, il perenne cantiere della linea sei della metropolitana, e la sua profonda camera stagna che impedisce la millenaria discesa a mare delle acque reflue delle colline sovrastanti. Ovvio, dite? Ovvio. Ma nessuno che si sia posto il problema. Ora si discute con preoccupazione dello stato dei palazzi confinanti, che da tempo emettono scricchiolii di avvertimento: come se annunciare una disgrazia fosse sufficiente a prevenirla. La risposta televisiva del vicesindaco Sodano, a un geologo che definiva i termini del problema, è stata: ma lei la vuole o no, la metropolitana? Come se fosse un’alternativa.

Il rogo della Città della Scienza, a quanto appurato sinora, è un’altra cosa. I responsabili sarebbero arrivati dal mare, come un commando della seconda guerra mondiale, e avrebbero completato con cura e precisione il proprio disegno attraverso ben sei inneschi, collocati con la massima attenzione. Colpendo al cuore la Cultura della città, distruggendo un simbolo della riacquisizione da parte della cittadinanza di un’area, quella della ex Italsider, che è un simbolo dello stupro subito dal territorio fin dagli inizi del secolo scorso. Un’area, Bagnoli, di una bellezza commovente nonostante la nuova, profonda ferita.

La Cultura colpita è la risorsa principale di un luogo che di risorse ne ha poche. Napoli è ricchissima di scrittura, teatro, musica, arte: in ogni settore dello spettacolo, del mondo accademico, della letteratura tra i personaggi più autorevoli numerosi sono quelli nati qui. E nella loro espressione, nei linguaggi, nelle luci e nelle ombre, molto deriva dalle peculiarità di una città che nel bene come nel male è profondamente diversa da qualsiasi altra. Sarebbe ora che, dopo aver tanto preso, si pensasse a restituire al territorio diventando finalmente, senza aspettare interventi dall’alto, parte integrante e nutritiva di questa terra.

Le fiamme che hanno divorato in poche ore una delle pochissime strutture culturali moderne corrono il rischio di continuare a bruciare, distruggendo i sogni e le speranze di migliaia di bambini che si sono accostati proprio là a una modalità divulgativa della scienza che altrove è la normalità. Sono fiamme che bruceranno finché non ci si renderà conto che Napoli è una città italiana, la terza per popolazione: che la distruzione della speranza di una generazione è un problema per tutto il Paese, non circoscritto a un territorio limitato. Fiamme che bisogna spegnere immediatamente, perché non distruggano il poco che rimane.

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