Una breve interessante riflessione sui famosi limiti dello sviluppo o sostenibilità che dir si voglia, ma che coinvolge virtuosamente anche i nostri stili di vita. L'Unità, 12 aprile 2013 (f.b.)
Vivere a spreco zero: un auspicio semplice, un verbo a due parole messe in fila per enunciare una piccola rivoluzione, non solo grammaticale. Una visione che si è già tradotta in azione, il presente che vive e vede il futuro. La via d’uscita da una crisi economica, ecologica, etica, estetica – tante «e» – che non solo sembra senza fine ma è anche estrema – un’altra e – nelle sue profonde e crescenti disuguaglianze. Senza fine perché è in crisi ciò che sta a monte dell’economia e delle altre «e»richiamate: la politica. Che non riesce più a proporre nulla di nuovo, una visione lungimirante, che preveda – nel senso letterale del verbo – un investimento sul futuro, prestando attenzione prima di tutto ai giovani, alla loro formazione e al loro lavoro.
La nostra, quella italiana in particolare, è una politica poco sostenibile. Ma non nel senso dei sui costi, anche quello certamente. Una politica che non vede la sostenibilità - per definizione la durata nel tempo - come orizzonte. L’epoca che stiamo vivendo non ha pari nella storia dell’umanità per il livello di conoscenza e il progresso raggiunti. Ma è altrettanto impari nella distribuzione delle risorse, delle ricchezze, delle tecnologie. Ricchezza e povertà, fame e sazietà, sviluppo e sotto- sviluppo: tutto si oppone.
E la forbice fra chi ha e chi non ha si allarga sempre di più. Nella crisi, e tutti i dati disponibili lo confermano, i poveri aumentano e stanno sempre peggio, mentre i ricchi diminuiscono ma stanno sempre meglio. In Italia come altrove nel mon- do. È falso, come dice Zygmut Bauman, che la ricchezza di pochi è la via maestra per il benessere di tutti. Le disuguaglianze crescono sempre più velocemente, come se il tempo scorresse in un’altra dimensione che non si misura più nella «lunga durata», quella di Ferdinand Braudel per intenderci, ma nel fast and low, veloce e minimo, scarso, basso.
EGUALI E DISEGUALI
Tuttavia, se è vero che «tutti gli esseri umani nascono uguali», questa retorica ci suggerisce che in realtà non lo siamo, almeno nell'accesso alle risorse e alle opportunità, punto di partenza molto spesso della discriminazione sociale. Anche solo considerando il punto di vista economico, i dati della Banca d'Italia pubblicati alla fine del 2012 fanno ben comprendere il nostro squilibrio: il 10% delle famiglie italiane ha in mano il 45,9% della (cosiddetta) «ricchezza complessiva del Paese». In altre parole, a proposito di parole (molto) usate negli ultimi tempi, nel nostro Paese cresce lo spread fra ricchi, sempre di meno ma più ricchi, e poveri, sempre di più e più poveri. Del resto, già don Lorenzo Milani nella sua Lettera a una professoressa diceva: «Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra diseguali».
Ma accanto alla disuguaglianza sociale, creata dai sistemi economici e politici, vi è anche quella naturale. Che di per sé non è affatto catastrofica. Il sociologo tedesco Ulrich Beck spiega questa «naturalizzazione» dei rapporti sociali di disuguaglianza e di dominio: «Mentre la disuguaglianza delle opportunità di vita dovuta al reddito, al titolo di studio, al passaporto (…) reca per così dire scritto sulla fronte il suo carattere sociale, la disuguaglianza radicale delle conseguenze climatiche si materializza nel moltiplicarsi o nell’intensificarsi di eventi naturali di per sé “familiari” (inondazioni, uragani), a cui non sta scritto sulla fronte che sono il prodotto delle decisioni sociali».
Ma quanto tempo potranno durare queste tanto crescenti quanto insopportabili disuguaglianze? Che mondo è questo? Un mondo che deve durare nel tempo, che deve mantenere la sua musica, che è la vita, allungando le note e la loro risonanza come si fa con il pedale del pianoforte, sustain in inglese. La sostenibilità dunque, meglio ancora durabilité in francese: durare, mantenersi nel tempo, di generazione in generazione, essere capaci di adottare una visione-azione di lungo periodo, sia in campo economico sia ecologico, per tenere conto dei diritti di chi verrà dopo di noi e delle conseguenze future delle nostre azioni dell'oggi. Le risorse naturali alla base dei nostri bisogni fondamentali – il suolo, l'acqua, l'energia – non sono infinite e neppure scarse come sostiene qualcuno. Se le dobbiamo consumare – ci servono per vivere – dobbiamo anche consentire la loro rigenerazione nel tempo, che poi è il compimento della sostenibilità. La società sostenibile deve dunque rinnovarsi continuamente. Del resto, rinnovare contiene anche il verbo innovare che significa ricercare e sperimentare, nuovi prodotti, processi, tecnologie. Paradossalmente, l’ideale è proprio partire da un fenomeno assai negativo nella percezione comune: lo spreco. Di cibo, di acqua, di tempo, di vite, di risorse...c’è sempre qualcosa o qualcuno che si spreca. Eppure la stessa parola fornisce la strada, la formula. Basta dividerla in due e aggiungerci un meno e un più: lo «spr» è la parte negativa, l’«eco» quella positiva. Dobbiamo ridurre l’eccesso, il surplus, il troppo e far crescere l’eco, la casa grande (Natura) e piccola (Uomo). Lo «zero» numera, al minimo, l’obiettivo. Che in questo modo diventa il più alto, pur essendo il più basso in assoluto.
Vivere a spreco zero si gioca dunque fra due sostantivi che sono la base dello stare al mondo: sostenibilità e rinnovabilità, ovvero durare e rigenerare. Una società fatta di donne e uomini che, nella riduzione al minimo assoluto dello spreco, dell’eccesso, dello sperpero, del surplus, dell’eccedenza, dell’inutile, del di più, vive (sta al mondo appunto) per durare nel tempo rinnovandosi continuamente. Un’utopia? No, se l’utopia la consideriamo come un orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo: «serve per continuare a camminare»(Eduardo Galeano).
il manifesto, 11 aprile 2013
La straordinaria e controversa esperienza del Black Power, la capacità di valorizzare la cooperazione sociale, creando nuove istituzioni; la potente irruzione del femminismo nero, i nodi irrisolti dei percorsi politici costruiti sul terreno delle identità, il tema spinoso della solidarietà e l'eredità di quell'esperienza nei movimenti contemporanei. Sono questi i temi affrontati da Robin Kelley, eclettico studioso e militante, figura di spicco del radicalismo nero in America che ha attraversato da protagonista diverse stagioni di attivismo politico, compresa l'esperienza di «Occupy». Kelley, con lo sguardo interno del militante, riafferma le peculiarità, a volte nascoste, di «Occupy», rintracciandone la «genealogia».
Anche se i media hanno insistito sulla presenza di giovani di classe media, iscritti al college, che soffrono la mobilità sociale traducendola in rabbia contro il mondo della finanza, Occupy ha visto, sostiene Kelley, una significava presenza di african american. Ma soprattutto è stato il prodotto di reti sociali sviluppatesi nei decenni precedenti intorno a organizzazioni multirazziali attive sul tema del lavoro, della povertà. Vanno quindi analizzati l'impatto politico e gli insegnamenti lasciati dal Black Power - di fatto smantellato dal «controspionaggio» del Fbi - che hanno influenzato e continuano a influenzare le successive generazioni di militanti. Non c'è però una linea diretta. L'unica connessione evidente con il Black Power è il Black Panther Party (che non è mai stata una formazione del potere nero, ma un'organizzazione socialista con una forte vocazione multinazionale) attraverso la «Rainbow Coalition», di cui fu artefice Fred Hampton a Chicago. Una «coalizione» tesa ad organizzare portoricani e altri lavoratori latinos, anche se al suo interno erano presenti anche molti bianchi, gran parte di origine asiatica. A Los Angeles, ad esempio, il «Labor Community Strategies Centre» ha tra i suoi fondatori un ragazzo della working class newyorchese, membro del «Congress Observation Equality», che dopo alcuni anni di prigione come militante dei «Weather Undergound» si è dedicato alla lotta multirazziale. Quando dilaga la protesta di Occupy, lo «Strategies Centre», che combatte le politiche razziste delle agenzie di trasporto, ma anche la criminalizzazione dei giovani blacks e latinos, è una delle più importanti strutture di mobilitazione, con circa trent'anni di esperienza alle sue spalle.
La presenza african american dentro Occupy è un tema controverso e ampiamente dibattuto... Qual è il suo punto di vista?
Il movimento Occupy a New York e Los Angeles non ha una critica radicale al razzismo. È per questo che non attrae molti afroamericani. Diverso è il caso di Okland: qui esiste una working class nera organizzata e sindacalizzata che fa la differenza. Non è un'eccezione isolata. Conosciamo anche un movimento parallelo a Occupy, guidato da african american: è «Occupy the Hood». Nato a Detroit, si è poi diffuso in tutto il paese, concentrandosi sul fatto che a neri e latinos, in misura esponenzialmente maggiore, viene pignorata la casa. Negli Usa, i mutui sono cresciuti in modo predatorio per l'intervento di agenzie di intermediazione che propongono di rinegoziare il debito, usando in una cornice razzista la necessità economica e i dati individuali. «Occupy the Hood» funziona a binari paralleli. Alla battaglia contro il pignoramento delle case si affianca quello contro la criminalizzazione degli african american.
La capacità di agire contemporaneamente su piani differenti è un punto di contatto con le pratiche del Black Panther Party...
Sul finire degli anni Sessanta, nel movimento afroamericano c'è stata una profonda discussione su quale fosse il vero luogo del processo organizzativo. Una parte lo individuava nel posto di lavoro, l'altra nella comunità nera; le due strategie sono state combinate. In particolare, sono state le università a rappresentare il punto di convergenza. Nel 1968, alla Columbia University, la protesta si è trasformata in una critica alle collaborazioni dell'ateneo con le agenzie militari, ai processi di gentrification avviati nella vicina Harlem, battendosi per l'istituzionalizzazione degli «ethnic studies» e per cambiare i curricula universitari. Oltre alla «riforma» delle università: l'altro obiettivo perseguito era il coinvolgimento di tutta la comunità dentro le mobilitazioni. Insomma, c'era la difesa della popolazione di Harlem, ma anche la volontà di coinvolgerla nella mobilitazione dentro e contro l'istituzione universitaria. Ad anni di distanza, la posta in gioco, per i neri, è ancora la fine di tutte le forme di oppressione.
Proprio intorno al tema dell'identità e al senso della politica si è prodotta una delle più radicali e produttive rotture dentro il Black Power, quella del femminismo nero...
Molte delle iniziali militanti femministe nere provengono dal «Black Power». Il loro punto di partenza era il conflitto verso chi le voleva tacitare, dentro e fuori la comunità nera, sulle loro critiche verso la politica di genere. Nello stesso tempo, hanno prodotto una critica del femminismo bianco, spesso indifferente verso il razzismo nella società americana. Detto questo, resta la modalità specifica con la quale hanno espresso un dissenso radicale rispetto l'oppressione patriarcale di classe, il razzismo e la sessualità. Era in gioco contemporaneamente la loro identità come donne, african american e in quanto destinatarie degli aiuti di Stato. Negli anni Novanta, la lotta contro la «Milion Man March» della Nation of Islam e le battaglie contro gli attacchi al welfare avevano come protagoniste donne nere. Anche sul tema dell'anti-imperialismo, le più lucide critiche afroamericane sono arrivate da Angela Davis, Gina Dent e Barbara Smith.
Un'altra delle preziose intuizioni del femminismo nero è stata la critica alla solidarietà, parola spesso usata per mascherare processi di vittimizzazione...
Si tratta di capire in che termini parliamo di solidarietà. Se è il rapporto tra un gruppo che rivendica un'identità per migliorare la propria posizione all'interno di gerarchie capitaliste e un altro che non ha alcun potere, non è solidarietà. I nativi americani, le donne nere, la classe operaia afroamericana hanno sempre spinto per politiche di solidarietà basate sulla demolizione dei regimi razziali, del patriarcato e del più complessivo stato di oppressione. I lavoratori bianchi negli Stati Uniti non sono stati in grado di comprendere che anche la loro emancipazione era legata alla distruzione del regime razziale. Non sono d'accordo, invece, con chi propone di superarare le politiche delle identità. La solidarietà dipende dall'identificazione con le lotte di altri soggetti. Per esempio negli anni Ottanta a Los Angeles, il «Sanctuary Movement» combatteva il sostegno del governo statunitense ai regimi dittatoriali in solidarietà con i rifugiati politici che scappavano dagli squadroni della morte in Salvador, Guatemala e altri paesi dell'America latina. Nessuno di noi aveva mai visto in faccia uno squadrone della morte, ma con un salto d'immaginazione abbiamo capito che quella era anche la nostra lotta. Oggi invece i processi politici sono basati sugli interessi. La nostra battaglia diventa allora comprendere come poter costruire solidarietà in una società in cui le identità sono imposte dall'alto e utilizzate per strutturare le forme di politica attorno ai gruppi di interesse.
Ma come si può sfuggire alla gabbia ideologica che il concetto di identità produce?
Negli Stati Uniti, i liberal bianchi hanno accusato donne, african american, disabili e poveri di mettere in discussione le conquiste degli anni Venti e Trenta del Novecento: l'argomento sbandierato era proprio la questione identitaria. Ma queste identità stanno dentro sistemi di «razzializzazione» e di autorità patriarcale che creano gerarchie di potere. Detto questo non ha mai creduto alle favole in base alle quali un giorno ti svegli e dici: «Sono orgoglioso di essere nero o di essere donna». Le identità devono essere parte di un processo dinamico in cui diventano risorsa. Per esempio, non c'è whiteness senza black o senza brown: l'abolizione del concetto di «bianchezza», dell'identità bianca del privilegio, è il primo passo verso una forma profondamente radicale di solidarietà.
Per restare in tema di identità, un'ultima domanda è sul ruolo di Obama all'interno della black community che continua a sostenerlo, benché siano ormai tramontate le speranze che molti afroamericani avevano riposto nel presidente....
Oggi in America il potere della politica spettacolo ha reso impossibile una critica di massa a Obama e soprattutto ha reso arduo discutere di razzismo. In tanti vogliono credere che il razzismo sia finito. Obama è però il presidente che ha deportato il maggior numero di lavoratori senza documenti, che ha intensificato gli attacchi di droni. Tra gli afroamericani è tuttavia diffuso la convinzione di «non criticare il nostro presidente». Siamo così abituati alla logica neoliberale che non ce ne rendiamo conto. Diverso è il pensiero tra gli attivisti nella tradizione radicale nera: sono molto critici su Obama, ma non hanno una piattaforma condivisa. Io dico sempre che non si impara niente dalla pelle. Bisogna invece saper come costruire un terreno di condivisione. Chiedersi: perché le persone hanno il salario minimo? O sono in carcere? Per quale motivo uomini e donne continuano ad essere buttate fuori dalle loro case? E come mai i banchieri fanno così tanti soldi? Discuto spesso con i miei studenti che pensano di sapere tutto solo per il fatto di essere neri o latinos. È necessario invece leggere, criticare, impegnarsi, mettere in discussione, discutere e produrre un'analisi che sia dinamica e mai statica. E questo in una situazione dove l'infotaitment ha reso quasi impossibile una formazione critica.
Scaffale
L'invisibile classe operaia nera e i movimenti sociali urbani
Robin D.G. Kelley, figura chiave del «Black Marxism» e docente di storia americana alla Ucla, è considerato uno dei principali storici afro-americani contemporanei. Nei suoi lavori si trovano registri assai differenti. Studioso della classe operai nera negli Stati Uniti, ha portato alla luce la storia in gran parte invisibile del Partito comunista in Alabama durante la Grande Depressione (storia raccolta nei volume Hammer and Hoe del 1990 e Race Rebels. Culture, Politics and the Black Working Class, 1994). Ma è anche uno dei più attenti osservatori e critici dei fenomeni culturali e sociali afro-americani. Tra i suoi lavori, va ricordato Yo' Mama's Disfunktional del 1997, un autentico viaggio tra la poesia, la musica e la cultura di strada afroamericana e insieme una caustica critica agli stereotipi «made in Usa» con un punto di vista saldamente radicate nei movimenti urbani afroamericani. «Analogamente Freedom Dreams. The Black Radical Imagination» del 2002, considerato il «romanzo di formazione» dell'autore, attinge dalla tradizione del radicalismo nero, femminista e socialista per cogliere il nesso tra linguaggi politici, espressioni culturali e pratiche artistiche. Il confluire insieme di registri discorsivi così eterogenei è specchio della sua formazione politica e culturale. Cresciuto ad Harlem tra gli anni Sessanta e Settanta, ha sempre coltivato l'interesse per i movimenti sociali, politici e culturali, di cui è stato anche protagonista, e per la musica: dal jazz al reggae all'hip hop. Attualmente vive e lavora a Los Angeles.
La domanda è sempre la stessa: di che parliamo quando diciamo “città”, o "urbanizzazione"? Dalla recensione non sembra che il nuovo libro di Glaeser sul “trionfo delle città” aiuti a comprenderlo. La Repubblica, 10 aprile 2013
Esce il saggio di Edward Glaeser sul trionfo dell’urbanesimo. In questo libro «osserveremo da vicino ciò che rende le città l’invenzione più grande della nostra specie», si legge nelle prime pagine del libro di Edward Glaeser dal titolo inequivocabile Il trionfo delle città. Come la nostra più grande invenzione ci rende più ricchi e felici (Bompiani, pagg. 586, euro 23, trad. Giuseppe Bernardi). Il professore di economia ad Harvard guarda la città da un angolo insolito, ché l’urbanesimo da sempre è terreno privilegiato da storici e sociologi: l’autore conosce bene la letteratura anglo-americana, in bibliografia trovo isolato Pirenne, non Cattaneo, né Engels e potrei continuare su clamorose assenze.
La demografia è un filo rosso perché attraverso essa si legge in modo lampante come quella della città sia stata un’ascesa irresistibile: Glaeser si muove nelle metropoli occidentali e, con pari destrezza, tra le sconfinate metropoli asiatiche e sudamericane. Si capisce dai nove capitoli che non ha problemi agorafobici e più sono grandi le città — l’area di Tokyo conta 36 milioni di anime, Mumbai e Shanghai 12 — più gli piacciono. Il suo entusiasmo tocca l’acme quando beve una birra sulla spiaggia di Ipanema a Rio, uno degli spazi più “edonistici” che ci siano al mondo, ma non gli sfuggono le favelas che l’assediano. Platone d’altronde scriveva che qualunque città è divisa in due: la città dei poveri e quella dei ricchi. Nulla di nuovo sotto il cielo: tanti uomini senza alcuna speranza si accalcano in città fin dal tempo della rivoluzione industriale che Engels studiò così bene a Manchester. Per sfuggire all’idiotismo delle campagne scrisse Marx, dove la vita era più ingrata che non nella sordida Londra di Dickens o nella fetida Parigi distrutta dal barone Haussmann. Ma quando si mostra orrore per le favelas ce ne dimentichiamo, dice Glaeser. In Ancien Régime
le capitali europee erano devastate da epidemie che periodicamente falcidiavano le popolazioni. Oggi le condizioni igieniche e sanitarie sono migliori anche a Mumbai e le possibilità di sopravvivenza negli slum di Detroit sono preferibili a devastate campagne. Va da sé che l’attenzione sugli States è dominante, e nelle analisi sulla caduta e la rinascita di New York negli ultimi decenni l’economista dà il meglio. Un economista che ha spiccata sensibilità per l’organizzazione urbanistica, il sistema dei trasporti, il governo della città: una propensione che fa difetto ai suoi colleghi che assai spesso muovono le loro analisi o previsioni, come se il dollaro o lo yen fossero fiches su un tavolo verde. Così non è, e Glaeser l’ha capito benissimo, ché le città sono fatte di fiumi, coste, montagne e la geografia si riprende una rivincita sulle vicende della storia e dell’econometria.
Le sette piaghe dell’urbanesimo contemporaneo sono al centro del volume: le alte densità creano problemi enormi alla salute dei poveri e le soluzioni fanno capo a una governance energica e ciò ha richiesto enormi investimenti; com’è accaduto a New York e, più di recente, a Shanghai che è una «città pulita e sicura». Già, è questo un altro problema che tanti saggi hanno studiato, ma soprattutto tanti film ci hanno mostrato con crudele evidenza. I problemi della povertà e della delinquenza — un groviglio che è difficile sciogliere — non possono essere affrontati dalla “signora della porta accanto”, che ha la sventura di abitare vicina a un ghetto di immigrati, va affrontato non in sede locale, ma dal governo centrale. Aspetto politico ed economico nelle competenze specifiche dell’autore: in Italia siamo ben lungi dall’averlo capito. Ancora: «Gli interventi estetici non possono mai sostituire gli elementi fondamentali della realtà urbana », scrive Glaeser: vien di pensare al Metrò dell’Arte, specchietto per le allodole a spese del contribuente, in una (piccola) città come Napoli che ha tutte le piaghe dell’urbanesimo contemporaneo.
La fortuna di Shanghai e di Hong Kong non è dovuta alla selva di grattacieli pagati dai privati, ma dalla libertà economica di cui hanno goduto e dalla capacità di far prosperare i loro Pil: i grattacieli delle archistar sono venuti dopo, a decollo economico avviato. Dubai, che non ebbe mai l’opportunità di divenire città imperiale, deve la sua prosperità al porto che è divenuto un centro di scambio d’oro nero proprio o proveniente da altri paesi, come l’Arabia Saudita. Mi vien di pensare che Palermo — alla lettera “città tutta porto” — è al centro del Mediterraneo con un porto ridotto alla sopravvivenza, come quelli di Genova e Napoli. India e Cina sono destinate a divenire un concentrato di conurbazioni, anche se i tempi potranno essere più o meno rapidi. È una facile previsione che ogni indagine, compresa quella dell’autore, largamente confermano.
The Guardian, 9 aprile 2013, postilla (f.b.)
Titolo originale: Italy roused to halt plunder of Asolo village – Traduzione di Fabrizio Bottini
Il piccolo centro di Asolo, nel nord-est italiano “città dei mille orizzonti” ha una bellezza cantata da secoli. Tra chi ci ha abitato si contano l'esploratrice Freya Stark o l'attrice Eleonora Duse. La amava così tanto il poeta Robert Browning, da intitolarle la sua ultima raccolta di versi: “Asolando”. Oggi però questo idillio rurale è al centro di un'aspra disputa per le trasformazioni edilizie, che vede opporsi da un lato l'amministrazione locale, e dall'altro politici e abitanti, che la accusano di mettere a rischio l'integrità di questa “perla diTreviso”.
Settimana scorsa la maggioranza, Lega Nord, ha reso noto un progetto di costruzione residenziale e uno industriale nell'area, quest'ultimo per una superficie di circa trenta ettari. Il sindaco Loredana Baldisser sostiene che sono necessari per lo sviluppo locale. Questo progetto di trasformazione, approvato mercoledì, ha fatto sollevare sia l'opposizione in consiglio alla giunta Baldisser che numerosi abitanti, che lo considerano una inutile e orribile espansione urbana in una zona nota per le sue bellezze naturali. Domenica si è svolta una manifestazione nella piazza centrale, ed è stata firmata da quasi 500 persone una petizione per fermare il progetto. L'ex sindaco di Asolo, Daniele Ferrazza, scrive sul documento “Per l'amore che provo verso questo angolo d'Italia, farò di tutto per difenderlo dall'aggressione dell'avidità di pochi insensibili alla storia e privi di scrupoli di coscienza”.
Laura Puppato, senatrice del Partito Democratico di centrosinistra eletta in Veneto, stigmatizza gli amministratori di Asolo per i loro tentativi di “cementificazione” della campagna: “Questa espansione urbana non ha alcun senso, mette a rischio una delle ultime zone intatte in un Veneto ormai preda di degrado urbanistico e miseria culturale” ha scritto sul Fatto Quotidiano. Le intenzioni dell'amministrazione locale di Asolo paiono contrastare con quanto dichiarato l'anno scorso dal presidente della giunta regionale veneta, pure della LegaNord, Luca Zaia, che aveva giudicato eccessive le trasformazioni insediative nella regione, chiedendone la fine. Auspicando una “nuova sensibilità” ambientale, la Puppato sostiene che Asolo può diventare invece simbolo della battaglia in tutto il paese contro un'edilizia che “divora” territorio..
“Chiunque sia sensibile alla bellezza deve mobilitarsi per contrastare quest'ultimo assalto e sostenere chi si oppone ad una teoria distorta dello sviluppo urbano” scrive. Anche un articolo da più venduto quotidiano del paese, il Corriere della Sera, giudica il progetto “assurdo”. Il rappresentanti locali del Movimento Cinque Stelle sono del medesimo parere. “Si sta distruggendo il nostro territorio” ha detto il rappresentante del partito Michele Ballan, definendo l'idea “assurda e devastante”.
A una sessantina di chilometri circa da Venezia, Asolo con le sue tortuose stradine e le sontuose ville rinascimentali attira ancora oggi molti turisti, così come in passato affascinava scrittori e artisti. La Stark, straordinaria giramondo britannico, ci passò lunghi anni della sua giovinezza, tornandoci poi a morire all'età di cent'anni. È sepolta nel cimitero di Sant'Anna. Browning, uno dei principali poeti vittoriani, subì profondamente l'influenza dell'ambiente di questa cittadina, ambientandoci nel 1841 la vicenda di Pippa Passes e trascorrendoci gli ultimi anni di vita. La raccolta Asolando venne pubblicata il giorno della sua morte nel 1889, e Robert Barrett Browning, figlio del poeta e di Elizabeth Barrett, è morto a Asolo nel 1912.
Postilla
Forse è il caso di sottolineare, come già fatto da Laura Puppato nel suo articolo, l'importanza del caso di Asolo e della sua risonanza internazionale, come punto di partenza di una più generale riflessione sul modello di sviluppo territoriale e socioeconomico del paese, dove l'aspetto particolare delle società locali come custodi del paesaggio diventa metafora di sostenibilità, non certamente da esaurire nei pur importanti aspetti estetici, culturali, letterari (f.b.)
Qui su Eddyburg anche gli articoli di Laura Puppato dal Fatto Quotidiano, di Gian Antonio Stella dal Corriere della Sera, e l'appello originale dell'ex sindaco Daniele Ferrazza
Ma diciamola qualcosa di più. Corriere della Sera, 9 aprile 2013. Con postilla.
«A chi appartiene Asolo?». Cominciava così, anni fa, un grande reportage di Sergio Saviane. A tutti i cittadini del mondo che amano la bellezza, è la risposta. Per questo l'aggressione cementizia contro uno dei borghi più belli del pianeta va fermata: non è coi capannoni tra le ville palladiane che si esce dalla crisi. Fosse ancora vivo, Indro Montanelli che nel '72 scatenò l'iradiddio contro lo scellerato piano regolatore della cittadina trevisana, incenerirebbe gli autori del nuovo Pat, il piano di assetto territoriale. Piano che, in cambio del versamento nelle casse comunali d'un milione scarso di euro (a rate) concede a un pugno di immobiliaristi di tirar su oltre un milione di metri cubi di cemento, in larga parte capannoni.
Cosa sia Asolo è presto detto. Un gioiello urbanistico adagiato sulle colline care al Giorgione, dominato da un'antichissima Rocca e dal castello che ospitò la regina di Cipro Caterina Cornaro e la sua corte rinascimentale. Un borgo che ha preso il cuore di mitiche attrici come Eleonora Duse (che sospirava sul «bello e tranquillo paesetto di merletti e di poesia» e riposa nel cimitero di Sant'Anna), poeti come Robert Browning (che scrisse «Asolando») e la moglie Elizabeth Barrett, esploratrici eccentriche come Freya Stark, amica di Churchill, Gandhi e della Regina Madre, architetti come Carlo Scarpa che sulla colata di cemento degli anni Settanta tuonò: «Mi batterò con la mitraglia».
Amatissima dai nobili veneziani, Asolo ospita 29 ville venete una più bella dell'altra. Da villa Contarini a Ca' Zen, dalla Malombra a villa Falier, dove durante un banchetto un «fanciulletto» parente di un tagliapietra scolpì in un pane di burro un leone di San Marco e l'opera impressionò a tal punto gli ospiti che vollero conoscere l'«artigianello»: era Antonio Canova.
C'è tutto, ad Asolo. L'intera nostra storia dalle fortificazioni romaniche alla violenza di Ezzelino, da Gli Asolani di Pietro Bembo al fascino delle culture che si sovrappongono: «Ogni edificio pubblico ha un suo garbo», scrisse Paolo Monelli, «e i palazzotti dei patrizi si intonano alle modeste case vicine, Medioevo e Seicento, Rinascimento e Settecento si alternano senza urto». Dedicò due intere terze pagine sul Corriere, il grande giornalista, alla guerra contro il piano regolatore di Asolo del 1972. E con lui scese in campo Montanelli, chiedendo «perché il tecnico o l'operaio di Sesto San Giovanni dovrebbero scomodarsi a venire fino ad Asolo per ritrovarvi le stesse colate di cemento, lo stesso frastuono, gli stessi puzzi, la stessa nuvolaglia di gas?». Nel nome di Asolo il pioniere dell'ecologia Franz Weber convocò gli amanti dell'arte a Parigi esordendo con una frustata: «Era bella, un tempo, l'Italia…».
Quarant'anni dopo, miracolosamente scampato agli scempi più osceni grazie a quella campagna, il paese trevigiano adorato da quelle donne straordinarie corre oggi, dicevamo, nuovi rischi. Ed è uno strano destino che li corra con un sindaco donna, la giovane e bella Loredana Baldisser, che guida una giunta leghista bollata da Vittorio Sgarbi come «barbarica». Nei guai finanziari come quasi tutti i Comuni italiani, la giunta del Carroccio ha accettato mesi fa la richiesta della Srl «Agribox» (spuntata dal nulla con un capitale minimo e l'«attività prevalente: coltivazione di cereali, legumi da gramella e semi oleosi») di trasformare 57 mila metri quadri di un grande terreno agricolo lungo la strada che porta verso Bassano del Grappa, a ridosso dell'area vincolata, davanti a villa Rinaldi Barbini in una nuova area industriale in cambio d'un versamento al Comune di 960 mila euro dei quali 300 mila entro il 31 dicembre 2012 per consentirgli di chiudere il bilancio senza violare il patto di Stabilità.
Ma è solo l'inizio. La settimana scorsa, con un blitz, la giunta presenta un nuovo piano. Tutto moltiplicato. Tra la zona collinare e la pianura è previsto il via libera a 285 mila metri cubi di nuovi insediamenti residenziali (l'equivalente di settecento villette da 400 metri cubi l'una o un migliaio di appartamenti) e una nuova area industriale di 30 ettari tolti all'agricoltura. Un'enormità. I capannoni esistenti occupano già 62 ettari, uno su cinque porta il cartello «affittasi» o «vendesi» e quell'aumento del 50% appare senza senso. Sono già 1.077, stando ai dati regionali, le aree industriali nella provincia di Treviso: 14 a Comune. Tanto che lo stesso governatore leghista Luca Zaia ha riconosciuto: «Nel Veneto si è costruito troppo, non possiamo continuare così. È necessario fermarsi». Di più: «Quanti capannoni dismessi vanno all'asta e le aste deserte? Che destino avranno queste cubature? Se fossi un sindaco vincolerei ogni nuova concessione a un preciso piano industriale: vuoi costruire un nuovo capannone? Spiegami per farci cosa, per quanto tempo, con quante persone. È vero, la terra è tua. Ma l'ambiente è un patrimonio della comunità».
Stando all'anagrafe, spiega l'urbanista Tiziano Tempesta, non solo gli abitanti di Asolo sono in calo dal 2010 ma «il trend demografico è in flessione dal 2003». Eppure se i residenti dal 2002 al 2010 sono cresciuti del 17% (in larga parte stranieri), le case lo sono del 32%. Che senso c'è, oggi, con molti immigrati che se ne vanno, prevederne 1.900 in più? Fatto sta che nonostante sia quel gioiello che è, il paese tra zone produttive, residenziali, servizi, ha oggi il 18,4% del territorio «artificializzato». Una percentuale del 4% più alta di quella già altissima del resto del Veneto. Assurdo.
«È un saccheggio deciso da un manipolo di persone senza storia e senza scrupoli di coscienza», accusa Daniele Ferrazza, già sindaco di una lista civica vicina al centrosinistra. «Sono pazzi — accusa Gino Gregoris, già candidato sindaco di una lista vicina al Pdl — e sono sempre più isolati». Vittoriosi grazie alla spaccature degli avversari, i leghisti conquistarono il Comune con appena il 36% dei voti. Ma via via hanno perso per strada non solo elettori (alle ultime Politiche il Carroccio è crollato al 17% dal 42% del 2008) ma vari consiglieri col risultato che oggi il consiglio è spaccato: 9 contro 8. Votano domani. La prospettiva di campi e vigneti davanti alla villa Rinaldi Barbini, una vista meravigliosa che potrebbe essere stravolta dai capannoni, è appesa a un voto.
Postilla
Tutto vero, tutto giusto. E siamo particolarmente lieti che l'allarme di Daniele Ferrazza sia rimbalzato da eddyburg fino ad approdare con evidenza sulle pagine principali dei media nazionali. Abbiamo conosciuto Ferrazza come valoroso sindaco di Asolo anni or sono, quando abbiamo organizzato con lui due belle edizioni della Scuola di eddyburg e un interessante convegno sui centri storici. Il fatto che un ex sindaco sia sceso in campo per rivendicare le ragioni della bellezza e della ragione in una fase nella quale i sindaci appaiono troppo spesso complici, o ignavi succubi, del saccheggio dei beni comuni ci sembra significativo, così come ci appare significativa la capacità di denuncia e di protesta subito emersa dagli abitanti di Asolo. Speriamo che lo scempio di Asolo sia evitato, grazie anche alla lucida e argomentata invettiva di Gian Antonio Stella. Bisogna ricordare però che di casi come quello di Asolo ve ne sono a decine, tutte le settimane, in ogni parte d'Italia, il più delle volte con la vittoria dei saccheggiatori. Ciò anche per due ragioni che ai giornalisti attenti non dovrebbero sfuggire: che per il pensiero corrente (e per l'ideologia dominante) il territorio è considerato come una merce da sfruttare per l'arricchimento dei suoi proprietari (quella che chiamiamo "la città della rendita"), e perchè sono state abbandonate le regole della buona pianificazione territoriale e urbanistiche. Ci piacerebbe molto leggere, e riprendere su questo sito, servizi giornalistici che analizzassero e divulgassero la conoscenza su queste radici dei mille episodi di degrado che sfigurano, giorno per giorno, il volto dell'Italia.
Le persone di religione islamica residenti a Milano sono ormai decine di migliaia, ma non dispongono di edifici idonei .>>>
1. Le persone di religione islamica residenti a Milano sono ormai decine di migliaia, ma non dispongono di edifici idonei per il loro culto religioso. Di recente l’associazione islamica turca Millî Görüş ha avviato lavori di adeguamento di un capannone in una zona periferica della città, ma la diffusione della notizia ha subito suscitato una reazione contraria. Secondo le cronache giornalistiche dello scorso mese di marzo un noto uomo politico, già vicesindaco nelle precedenti giunte Albertini e Moratti, avrebbe richiesto il sequestro dell’immobile e avrebbe anche proposto un referendum di zona per decidere se rilasciare le autorizzazioni alla realizzazione della moschea. Per contro risulta che l’attuale assessore comunale all’educazione non abbia posto veti in linea generale alla realizzazione di moschee, purché costruite nel rispetto delle norme sull’edilizia. Intanto però, sempre secondo le cronache della stampa di informazione, i lavori sono stati sospesi per irregolarità edilizie, non essendo stato chiesto al Comune il cambio di destinazione d’uso dell’immobile.
2. La Costituzione della Repubblica italiana tutela la libertà di religione, ma questa libertà acquista miglior risalto se essa viene considerata in un contesto più ampio.
Il 6 gennaio 1941 il presidente degli Stati Uniti d’America, Franklin Delano Roosevelt, pronunciava il suo discorso al Parlamento sullo stato dell’Unione passato alla storia come "il discorso delle quattro libertà", poiché prefigurava un mondo fondato sulle quattro essenziali libertà umane, la libertà di parola e di espressione, la libertà religiosa, la libertà dal timore (del nemico esterno), la libertà dal bisogno. Roosevelt confermava così il carattere basilare della libertà di religione che giusto centocinquant’anni prima, nel 1791, sempre negli Stati Uniti d’America aveva ricevuto tutela, ma anche grande risalto, col primo dei dieci emendamenti alla Costituzione federale che costituiscono il Bill of Rights, la Dichiarazione dei diritti.
Dopo la seconda guerra mondiale la libertà di religione è stata tutelata dalla "Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo" approvata dall’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, dalla Convenzione europea del 1950 per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dal Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York nel 1966. Essa, inoltre, ha cominciato a vivere nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ed è passata infine nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nella prima versione del 7 dicembre 2000 (Carta di Nizza) e poi in quella adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo.
Ma anche la Chiesa cattolica ha definitivamente superato il Sillabo del 1864. La dichiarazione del Concilio Vaticano II su "La libertà religiosa", la Dignitatis Humanae, ha affermato che «la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa», la quale «si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana (…). Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell’ordinamento giuridico della società».
La libertà religiosa, da qualsiasi lato la si consideri, è dunque un diritto fondamentale della persona umana. Su questo punto la Costituzione è limpida: «Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa» (art. 19), senza alcun riferimento al requisito della cittadinanza. E d’altra parte non vi è dubbio che la libertà di religione comprende anche il diritto a costituire e mantenere luoghi di culto, come riconosciuto nel 1986 a Vienna dalla CSCE, la Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa e, nel 2000, dalla risoluzione 55/97 approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
3. Cosa bisogna attendersi dunque dal Comune di Milano in tema di luoghi di culto per le confessioni religiose che non ne dispongono? Semplicemente il rispetto della libertà di religione che è un diritto fondamentale della persona umana e quindi non può essere ostacolata da decisioni amministrative arbitrarie e neanche da decisioni di democrazia diretta come quelle referendarie: i diritti fondamentali della persona proprio in quanto tali non sono disponibili da parte di una maggioranza politica.
Non solo lo Stato, ma anche il Comune ha il dovere di farsi promotore dell’attuazione in concreto dei diritti delle persone e dei valori costituzionali, seguendo l’indicazione della Corte costituzionale, per la quale «il principio di laicità implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale» (sentenza 203/1989).
E, del resto, il partito del sindaco milanese Pisapia, Sinistra ecologia libertà, nel capitolo "Diritti" del suo programma afferma: «Per noi, la sinistra, scegliere il primato della laicità e della libertà degli individui è un fondamento della propria identità politica e civile».
Non è difficile svolgere questa affermazione generale. Come è stato ricordato da ultimo, con felice sintesi, dalla costituzionalista Giuditta Brunelli, la laicità «ha una precisa funzione: tutelare la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, i quali in nessun modo possono subire discriminazioni o acquisire privilegi sulla base della loro appartenenza confessionale (essendo la laicità, tra l’altro, dissociazione tra cittadinanza e appartenenza religiosa). (..) La costruzione dei rapporti tra Stato e fattore religioso (…) è destinata a conformare in concreto rapporti sociali fondati sul libero esercizio da parte dei singoli della loro libertà di coscienza, in un contesto di eguale rispetto di ogni scelta individuale».
Non si dimentichi, infine, che già nel 2008, proprio a Milano, in occasione delle celebrazioni di Sant’Ambrogio l’arcivescovo Tettamanzi aveva manifestato il proprio favore per la realizzazione di luoghi di culto per le confessioni religiose diverse dalla cattolica. Quella presa di posizione aveva suscitato la dura contestazione di un esponente politico locale: ma l’arcivescovo si era espresso in piena sintonia con la dottrina ufficiale della Chiesa, con la Costituzione, con gli atti internazionali di tutela dei diritti umani.
La finalità di culto non può essere una giustificazione per violare la disciplina dell’attività edilizia. Ma vale sicuramente, e ancor di più, anche la proposizione inversa: la disciplina dell’attività edilizia non deve diventare un pretesto per violare un diritto fondamentale come la libertà religiosa. E dunque dal Comune bisogna attendersi che si faccia parte attiva perché, nel rispetto delle leggi, ma anche adeguando se del caso la propria disciplina urbanistica, tutte le persone possano disporre di luoghi di culto, secondo le necessità delle diverse confessioni religiose. Anche i poteri comunali di governo del territorio devono essere usati per concorrere al pieno riconoscimento delle libertà fondamentali. La libertà religiosa non costa alle finanze pubbliche e la garanzia del diritto delle minoranze religiose rende tutti più liberi.
Con questo intervento Alberto Roccella, tra i più lucidi e competenti giuristi nel campo del diritto urbanistico, inizia la sua collaborazione come "opinionista" di eddyburg. Lo ringraziamo
Anche la senatrice veneta invita a raccogliere l'allarme di Daniele Ferrazza, pubblicato su eddyburg pochi giorni fa, perchè sia cancellato l'obbrobrio delle villette e delle nuove (inutili) zone industriali. Il Fatto quotidiano online. "Ambiente e veleni", 8 aprile 2013
Ad Asolo, uno dei borghi più belli d’Italia, a manifestare assieme a centinaia di cittadini che si oppongono alla cementificazione dei loro colli e della campagna. Metti un’amministrazione comunale guidata dalla Lega Nord che propone, senza partecipazione e alcuna trasparenza, un Piano di Assetto del Territorio nel quale si prevedono oltre un milione di nuovi metri cubi di cemento con destinazione residenziale, commerciale e artigianale. Metti un Veneto che, come gran parte d’Italia, è una regione in cui si è costruito più del dovuto e non si contano più i cartelli “vendesi” o “affittasi”….
Sono le conseguenze di uno “sviluppo senza progresso” e senza pianificazione che tenga finalmente conto dei flussi demografici e dell’andamento economico. Ora questa nuova espansione urbana, priva di ogni ragione, mette a rischio una delle ultime isole felici di un Veneto da tempo diventato terra d’infelicità urbanistica e di povertà culturale. La campagna urbanizzata che fa parte del “paesaggio” veneto contemporaneo non è un bel biglietto da visita per il nostro turismo (Andrea Zanzotto grande poeta del ’900 ebbe a dire che dopo i campi di sterminio vi era in corso lo sterminio dei campi…). Asolo infatti è nota a livello mondiale per la sua storia, i suoi palazzi medioevali, le sue chiese, Asolo è stata lungamente amata dalla Regina d’Inghilterra e da Freya Stark, da Eleonora Duse e D’Annunzio…. Da secoli è luogo di soggiorno di personaggi e artisti e meta turistica di migliaia di visitatori che trovano in questa perla della pedemontana veneta un’oasi di pace.
Ad Asolo la cementificazione interesserà anche i colli e la campagna grazie a un criterio che consente di costruire nuove abitazioni in un contesto di case sparse in zona agricola. Secondo la relazione tecnica si mira alla ”riqualificazione e completamento degli ambiti di edilizia diffusa, per corrispondere alle esigenze dei nuclei familiari, favorendo la permanenza delle nuove generazioni”. Anche se gli alloggi non occupati di Asolo e delle sue frazioni sono quasi 400, la volumetria prevista dal PAT è di altri 285.000 metri cubi. Questo partendo dal presupposto che in futuro, oltre a un importante incremento demografico, aumenterà significativamente anche il numero delle famiglie residenti ad Asolo e con esse la domanda di abitazioni. Nei tempi lunghi, con una popolazione attestata sopra le 11.000 unità (oggi sono 9.325), si prevede un incremento di oltre 1.200 famiglie. Previsioni del tutto infondate, visto l’andamento demografico degli ultimi anni e il rallentamento dei flussi migratori. Per le attività produttive, commerciali, direzionali e logistiche, sono 20 gli ettari previsti, interamente corrispondenti al fabbisogno insediativo strategico. Ciò a fronte di oltre 60 ettari di aree produttive già presenti sul territorio comunale.
La lotta contro il consumo del suolo deve essere una priorità per le amministrazioni locali, oltre che un punto fermo della prossima agenda di governo. Asolo può diventare il simbolo di questa battaglia, da qui deve prendere le mosse una nuova sensibilità nei confronti dell’ambiente. Chiunque abbia a cuore il bello è invitato ad una mobilitazione per fermare questo ennesimo attentato al territorio e a sostenere tutti gli appelli di coloro che si oppongono a questa sciagurata ipotesi di nuova espansione urbanistica. Invito tutte le personalità che si battono per un futuro a “cemento mq zero”, da Salvatore Settis a Domenico Finiguerra, a sostenere questa causa. Affinché non si possa più affermare che “l’Italia è una Repubblica fondata sul cemento”.
Corriere della Sera, 8 aprile 2013, postilla (f.b.)
CASERTA — Non si fa in tempo ad arrivare alla Reggia di Caserta: le indicazioni per il parcheggio sembrano fatte apposta per scoraggiare i turisti. Sono tutte sbagliate. Ti fanno girare in tondo. Ti fanno passare la voglia della visita. E, alla fine devono essere riuscite a farla passare davvero, perlomeno a giudicare dalle cifre: da 12 anni a questa parte la Reggia di Caserta perde ogni anno oltre 50 mila visitatori. Se riusciamo ad uscire dal parcheggio (dribblando le scale mobili rotte) non sarà difficile capire il motivo.
Benvenuti nella meraviglia Vanvitelliana. L'Unesco l'ha dichiarata patrimonio dell'Umanità nel 1997. E da quel momento la dimora che i Borboni vollero come il cuore del regno di Napoli ce l'ha messa tutta per perdere di prestigio e di credibilità. Ci siete mai stati dentro la Reggia di Caserta? Avete percorso per intero il vialone che attraversa il meraviglioso parco, costeggia le fontane, arriva a quello spettacolo mitologico che è la fontana di Diana e Atteone?
Giovedì scorso avreste visto una masnada di ragazzini tuffarsi in mezzo ai marmi di quel celebre gruppo scultoreo della fontana, come fossero stati in mare aperto. Si sono arrampicati sul Torrione, ovvero la parte terminale dell'acquedotto, e nessuno ha saputo come fermare quell'orda barbarica.
Nessuno, del resto, ogni giorno pensa che sarebbe il momento di arrestare il traffico delle automobili che sfilano lungo il viale tra le biciclette e le carrozzelle, e non sono certo soltanto le auto dei custodi, perché a giudicare dalla frequenza delle macchine che tagliano il parco, la Reggia sarebbe il luogo più controllato del mondo.
Non è un luogo controllato la Reggia, a dispetto della miriadi di uffici militari e di carabinieri che hanno occupato una parte del palazzo. Non lo è. E basta vedere la sequela di venditori abusivi che affollano il viale prima, e i cortili poi, e si infilano persino dentro le stanze degli appartamenti. Vendono guide taroccate e tarocchi della felicità, ombrelli, palloncini, biglietti per i ristoranti, persino numeri da giocare al lotto. Ormai fanno parte dell'arredamento.
Come, del resto, stanno diventando parte della Reggia quelle recinzioni in alluminio. Era il 5 ottobre scorso quando cadde dal cornicione un capitello, evitando miracolosamente i turisti. Una settimana prima era venuto giù un timpano. E da quel momento le recinzioni di alluminio sono state messe attorno alla facciata esterna, ma anche dentro tutti e quattro i cortili interni. Le impalcature per fare i lavori sono state montate da poco, cioè dopo quasi sette mesi dai crolli, e fino adesso sono servite soltanto a porsi un interrogativo: si sono arrampicati lungo quei tubi lì i ladri che sono saliti sul tetto a rubarsi il rame della gabbia di Faraday, ovvero il parafulmine della Reggia? Già, hanno rubato la gabbia di Faraday, senza che nessuno se ne accorgesse. Del resto i sistemi di allarmi sono precari da quando i fondi sono stati tagliati e alla Reggia deve essere difficile persino comprare la carta igienica, almeno a valutare dai bagni.
Benvenuti nella meraviglia Vanvitelliana dove c'è un gioiello chiamato Teatro della Corte, chiuso al pubblico da oltre dieci anni per problemi con le uscite di sicurezza, o forse per mancanza di personale, nessuno lo sa dire con precisione. Benvenuti alla Reggia. Tornando indietro dalla fontana di Diana e Atteone avrete visto la fontana di Venere e Adone e le dodici cascatelle ricoperte dai muschi e da parecchia immondizia. Vi sarete chiesti perché nel criptoparco dello spettacolare giardino all'inglese nessuno si sia mai occupato di pulire le statue divorate dalla muffa. Vorreste ricrearvi con la visione degli appartamenti e la bellezza in effetti non manca a filare per le Sale Reali e l'importante è non abbassare gli occhi a terra: i pavimenti sono sbeccati, distrutti, devastatati da enormi macchie rosse come quelle nella sala della Primavera, dell'Estate, dell'Autunno. E questo perché?
Perché nonostante il crollo, ci sono ancora una media di millecinquecento persone che ogni giorno vengono a visitare la Reggia di Caserta e i loro passi non fanno bene a pavimenti settecenteschi che un tempo erano protetti e i visitatori camminavano sopra le guide. Ma un giorno, una decina di anni fa, è arrivato un sovrintendente e ha detto: via tutte le guide. Nessuno ha più pensato di rimetterle.
Ascoltando qualche anno fa alla Scuola di Eddyburg di Asolo - altro luogo minacciato da analoghe prospettive distorte - l'intervento di Maria Carmela Caiola su Caserta, poi pubblicato su Spazio Pubblico, emergeva tra l'altro come in assenza di un approccio adeguato e contestuale, la Reggia finisse per svolgere ruoli che non le erano propri, diventando anche vittima di un eccesso di pressione dovuto all'assenza di altri spazi. Il racconto del Corriere ce ne segnala alcuni piccoli casi: certo esistono malcostume e disorganizzazione, ma c'è soprattutto un bene culturale che si trova a fungere da tutt'altro, e si logora irrimediabilmente nel farlo. Forse è davvero convinzione collettiva che, come diceva quel genio di Tremonti la cultura non si mangia, ed è ovvio che la si consideri così, fuori da un contesto in cui non riesce a “fare il suo mestiere” oberata da altri ruoli, come quello di unico sfogo per voglie di tempo libero, piccoli appetiti corporativi e simili. Solo all'interno di un'idea innovativa e organica di territorio, società, città e sviluppo, si possono contestualizzare e presumibilmente risolvere questioni del genere, e poi forse iniziare eventualmente a gridare contro malcostume e sprechi (f.b.)
Corriere della Sera Milano, 7 aprile 2013 (f.b.)
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| Milano Quartiere Adriano - foto F. Bottini |
Cemento e fango, grattacieli e abbandono. Il quartiere Parco Adriano, sulla carta quartiere modello a cominciare dal nome, lotta per non rimanere un pezzo di città fantasma. La storia di questa incompiuta s'arricchisce ogni giorno di un dettaglio. Ed ecco il manifesto davanti a uno sterrato reso acquitrino dalla pioggia: «Questa è la nostra piscina». Non è semplice conservare la speranza quando «per prendere un mezzo pubblico devi camminare per un chilometro, quando Atm e la Zona 2 storcono il naso alla supplica dei residenti di far entrare l'autobus 58 nel quartiere», perché «s'allungherebbe il tempo di percorrenza», o quando «non avendo né nidi né scuole materne ed elementari, ogni mattina ti fai in quattro per portare un figlio al nido a Precotto e il più grandicello alle elementari dall'altra parte della città».
Con i loro bimbi le famiglie di Parco Adriano raccontano di aver fatto «saltare gli equilibri dei quartieri vicini. Nidi, materne, elementari, medie sono tutte sature». In quel deserto urbano, dove solo un anno fa le strade hanno avuto un nome, i quattromila abitanti già insediati sono rimasti al buio per tre settimane. Furti di rame a ripetizione e in grande stile hanno spento i lampioni che «ci facevano sentire parte della città». Solo quelli. Per fermare, una volta per sempre, l'assalto ai tombini, gli uomini di A2A hanno dovuto coprire ogni accesso di terra.
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| Quartiere Adriano - foto F. Bottini |
Sono i destini di due PII (piani integrati di intervento) che s'incrociano in questo spazio immenso - mezzo milione di metri quadrati - situata a Nord est della metropoli, al confine con Sesto San Giovanni, dove un tempo sorgevano i grandi impianti della Magneti Marelli. L'idea di trasformare l'area industriale in una città da vivere è del 2001. La convenzione firmata con il Comune di cinque anni più tardi. Due PII, “Adriano-Marelli” e "Adriano-Cascina San Giuseppe”, e diversi operatori. La metà dell'area doveva diventare parco. La crisi ha azzoppato un progetto che a vederlo sulle mappe disegnava la «città ideale».
I residenti sono sul piede di guerra. Voci della richiesta di variante di un operatore, che vorrebbe spalmare le tre torri non ancora costruite in orizzontale (per ridurre i costi) hanno fatto alzare gli scudi: «Case orizzontali, fine del parco» è l'equazione. Ma l'assessore all'Urbanistica, Ada De Cesaris, che ha ereditato questa incompiuta insieme ad altre questioni che scottano in città, spiega che il quartiere un vigilato speciale: «Un operatore ha cominciato i lavori per realizzare il polmone verde. All'altro abbiamo dato un ultimatum». L'altro è il Gruppo Pasini di Sesto. La trattativa prosegue. Il Comune ha «avviato il processo di escussione delle fideiussioni bancarie», ma la partita è delicata. Interesse di tutti non è togliere ossigeno all'operatore. Un fallimento avrebbe ricadute pesanti per il futuro del quartiere, consegnandolo all'immobilità a tempo indefinito.
In via Gassman abitano famiglie di giovani con bimbi piccoli. Nessuno vuole un futuro incerto. Tra le ipotesi allo studio c'è la ricerca di un investitore che possa rilevare la Rsa del Villaggio San Giuseppe, una volta chiuse le urbanizzazioni (impegno che Pasini s'è assunto). Ma l'assessore De Cesaris sta studiando anche l'ipotesi di «intervenire noi direttamente nella realizzazione di questa
Un comunicato stampa del Comitato per lo sviluppo sostenibile e di qualità della zona industriale di Osoppo (UD) illustra le ragioni dell'opposizione ad un consistente ampliamento della zona industriale e le alternative formulate da cittadini e associazioni (m.b.)
La zona industriale di Osoppo e Buja, che è un’opportunità di lavoro e crescita per l’intera zona, si sta trasformando, per cattiva gestione, in una minaccia per i centri abitati di Osoppo, Rivoli e Saletti e per la sicurezza, la salute e l’ambiente.
E' cronaca di questi giorni la notizia dell'approvazione, da parte della Regione, della Variante del Comune di Osoppo che prevede l'ampliamento della zona industriale, già bocciato dai cittadini con 529 osservazioni e opposizioni. Legambiente, il Comitato per lo sviluppo sostenibile e di qualità della zona industriale e il Comitato ARCA hanno elaborato proposte tese a ridurre e rendere sostenibile l'impatto dell'ampliamento, che prevede un avvicinamento al centro abitato dagli attuali 1.200 metri a soli 400 metri, e del previsto tracciato della bretella autostradale Cimpello - Sequals - Gemona.
Si chiede un ampliamento meno esteso e impattante, la creazione di adeguate zone cuscinetto e di barriere di separazione verso i centri abitati di Osoppo, Rivoli e Saletti, la ristrutturazione delle viabilità Esistenti per realizzare adeguati collegamenti tra le aree produttive della pedemontana del gemonese e del pordenonese in alternativa alla bretella autostradale Cimpello-Gemona, una crescita produttiva e occupazionale basata su ricerca e innovazione, la certificazione ambientale dell’Area industriale su modello europeo, il riuso e il recupero delle aree e dei capannoni inutilizzati presenti nel territorio, la creazione di un parco agricolo del territorio per la promozione e recupero di produzioni agricole di qualità.
Attualmente la zona industriale ha una superficie di 2.316.125 mq. Con l’ampliamento previsto di 815.000 mq si raggiungerà una estensione di 3.131.125 mq. Attualmente la zona è sottoutilizzata con una superficie edificata di 441.841 mq, la nuova estensione prevista permetterebbe la costruzione di capannoni per 1.292.457 mq triplicando così la superficie coperta realizzabile rispetto a quella esistente. Adottando un rapporto di un occupato ogni 200 mq si avrebbe la possibilità di insediare attività per un’occupazione di 6.400 unità sui 1.700 occupati oggi presenti: una dimensione del tutto insostenibile e sovradimensionata per il territorio in cui la zona industriale è collocata. Questo senza considerare il recupero delle strutture e infrastrutture che la recessione economica lascia inutilizzate!
Si sostiene, verso l’Opinione pubblica, che l’Ampliamento porterà nuova occupazione, ma se questi sono i numeri c’è sproporzione tra la sostenibilità occupazionale e la tutela della salute e dell’Ambiente.
Questa zona industriale è nata già troppo vicino a centri abitati preesistenti e ad aree di pregio agricolo e ambientale e l’Insediamento è sorto su un “Lago” Sotterraneo che alimenta un acquedotto che serve un bacino di popolazione superiore ai 300.000 abitanti.
Numerosi sono i problemi ambientali irrisolti e che richiedono di essere affrontati alla radice: presenza di uno stabilimento a rischio incidente rilevante, scarichi in atmosfera non completamente rilevati e indagati, scarichi idrici con una fognatura colabrodo e un sistema di “Depurazione” Degli scarichi industriali basato sulla dispersione nelle falde acquifere e nella zona delle risorgive e sulla loro diluizione, il depuratore sotto sequestro da parte della Procura della Repubblica, mancanza di una zonizzazione acustica, insufficiente approccio alla questione delle energie rinnovabili e al recupero e risparmio energetico, mancanza di uno studio di inserimento paesaggistico rispetto agli elementi di pregio ambientale e monumentale anche molto prossime come il greto del Tagliamento, la zona delle Risorgive e il Colle di Osoppo.
Gravi anomalie sono presenti nelle procedure seguite dal CIPAF e dai Comuni di Gemona, Osoppo e Buja ai fini dell'ampliamento di cui si parla ormai da oltre dieci anni. Anomalie presenti anche nella recente approvazione regionale. Sono improvvisamente decadute, senza che nulla di nuovo si verificasse (anzi in presenza di un aggravamento della crisi economica), le richieste degli Uffici regionali di motivazione dell’Entità dell’Ampliamento. Queste richieste erano state all’Origine della riserva vincolante formulata dalla Regione nel 2009 e avevano determinato la richiesta del Sindaco di Osoppo, ai medesimi Uffici “Di non dare corso temporaneamente all’Iter di competenza in quanto, su richiesta del CIPAF, si intendono approfondire i contenuti del superamento di alcune riserve”. Questo aveva portato a una sospensione della procedura di quattro anni. Oggi questa richiesta di motivazioni di fatto “Decade”.
Ed è certamente anomalo che nel frattempo, da parte di alcuni industriali insediati nella zona industriale, si sia proceduto ad acquisire terreni agricoli per circa 180.000 mq che, nel momento in cui divenissero edificabili per insediamenti industriali, triplicherebbero il loro valore.
Corriere della Sera Milano, 6 aprile 2013 (f.b.)
A differenza dei grandi progetti urbani che stanno cambiando il volto di Milano, l'area dell'ex ospedale psichiatrico Paolo Pini, 270 mila mq ai confini settentrionali della città, si connota come un caso a sé. Di nuovi edifici qui non c'è nemmeno l'ombra mentre gli esistenti sono stati ristrutturati e destinati a nuove funzioni. Un intervento «leggero» ma definito da scelte coraggiose, lungimiranti e innovative. Nel '78, l'emanazione della Legge Basaglia, che sanciva la chiusura degli ospedali psichiatrici, ha avviato il processo di metamorfosi dell'area. Nel 2000 l'ospedale ha definitivamente cessato le sue attività. Da allora i trenta padiglioni immersi nel parco sono stati via via ristrutturati e riutilizzati ma attraverso piccole trasformazioni.
Oggi l'area ospita servizi sanitari, ricettivi, ricreativi, religiosi. Alcuni amministrati da strutture pubbliche, altri gestiti da gruppi non profit come Olinda, cooperativa nata nel '96 che impiega il 50% di persone svantaggiate. Olinda, il cui presidente è Thomas Emmenegger, organizza durante l'estate il festival di teatro, musica, poesia «Da vicino nessuno è normale» che rappresenta uno degli eventi culturali di punta della città. Il parco ospita inoltre giardini e orti comunitari utilizzati dagli abitanti dei quartieri vicini. Massimo Bricocoli, ricercatore presso il Dipartimento di architettura e studi urbani del Politecnico di Milano, che ha condotto per il Ministero francese della pianificazione una ricerca sul Pini, ci ha accompagnati sul posto.
Com'è che proprio in assenza di un progetto urbano d'insieme si è realizzato uno degli interventi urbani più interessanti in città? «Sembra paradossale ma in realtà esiste un vincolo urbanistico importante che si è mantenuto nel corso degli anni, quello della destinazione di tutti gli edifici a "servizi alla persona". In più, sia le aree sia gli immobili sono sempre stati di proprietà pubblica — anche se di enti diversi — e questo ne ha sicuramente facilitato il complesso processo di assegnazione e riuso».
Quanto hanno giocato l'intraprendenza e la lungimiranza della cooperativa Olinda?«Olinda è il nome di una delle città invisibili di Calvino quella che cresce e non produce periferia. È quello che si è cercato di fare qui adoperandosi affinché la periferia diventasse attrattiva quanto o più del centro. Organizzare un concerto con Piero Pelù o uno spettacolo teatrale di Marco Paolini significa richiamare persone non solo da Milano ma da tutta Italia».
Si è puntato molto sulla cultura, è questa la chiave di volta?«Sicuramente superare la nicchia del sociale tout court è stato il modo per rendere il luogo attrattivo per tutti. Oggi, tanto per fare due esempi, il Teatro LaCucina (dove un tempo c'era la mensa dell'ospedale psichiatrico) gode di fama crescente mentre il ristorante slow food Jodok (ricavato nell'ex obitorio) è frequentato da chi lavora e vive all'esterno del Pini».
Che rapporti hanno oggi gli abitanti della Comasina con questo luogo?«Un tempo quest'area era off limits, la grande scommessa è stata quella di aprirla alla città. Oggi gli abitanti dei quartieri vicini la descrivono come un grande parco con tanti servizi di qualità. Ormai dire "abito vicino al Pini" ha un'accezione positiva. Anche il progetto dell'associazione Il Giardino degli aromi con i suoi orti comunitari ha contribuito a questo processo di apertura: oggi i soci sono circa 120 ma le persone che li frequentano sono più di 400».
Proprio le aree minacciate dal progetto di nuova edificazione inserito nel Piano di governo del territorio… «Sì. Un progetto che solleva molte questioni rispetto allo sviluppo di Milano. In città ci sono già molti progetti residenziali avviati o approvati che rischiano di rimanere invenduti a causa della crisi. È giusto chiedersi: è opportuno creare ulteriore offerta consumando oltretutto suolo vergine?».
Al Pini l'amministrazione pubblica è stata distratta ma benevola, un binomio proficuo…«Guardare alla valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico non solo in un'ottica economica ma anche sociale è fondamentale. Cedere gli immobili in comodato d'uso gratuito o agevolato è sicuramente un buon viatico. Con la delibera Benelli-Castellano che definisce la messa a disposizione di spazi di proprietà comunale per attività con valenza sociale o culturale l'amministrazione attuale ha imboccato una strada feconda».
L'urbanista, come insinuano mica troppo sottilmente i grandi flussi di comunicazione di massa, è in fondo una specie di narratore folcloristico novecentesco, roba buona per le sagre paesane, quando attorno a una tavolata di vino e salame a filiera corta equi e solidali si rievoca il tempo che fu. Quando si facevano quei piani superati dalla storia, e giustamente soppiantati poi dalla misura d'uomo, dal diritto del cittadino, dall'efficienza dello sviluppo del territorio, dalle misure urgenti per superare la crisi senza dimenticare l'equità sociale. Il tutto in una prospettiva di sostenibilità, lotta al consumo di suolo, rispetto per l'ambiente eccetera eccetera. Quindi, ciò premesso, quanto segue è solo folklore per bambini curiosi, mica roba seria, che lasciamo agli ingegneri trasportisti sostenibili e ai conti delle imprese di grandi costruzioni.
Ieri mattina sul presto, dato che mi si era tranciato in due per la seconda volta il telaio della bici (la spesa moderna da supermarket nei cestini esercita una leva pari al peso del reddito spostato) sono uscito in macchina. E già che c'ero mi sono preso una vacanzina sul territorio metropolitano, andando a curiosare dentro la nuova Grande Opera che il mondo ci invidia, il tunnel che scavalcando l'abitato di Monza promettevano avrebbe dato senso a un cartello piazzato orgogliosamente parecchio più a nord: Roma Km 600. L'incongrua segnalazione fa umoristica mostra di sé là dove scendendo con orgogliosa sicurezza dalle valli alpine confluiscono i tracciati della SS38 dello Stelvio e della SS36 dello Spluga. Peccato che da lì a Roma, nonostante la biblica promessa e lo sforacchiamento miliardario di tutto un versante prealpino, della città di Lecco, di una montagna subito dopo, ci fossero di mezzo un paio di semafori. Il marinettiano futurista del terzo millennio si sentiva già scagliato zang-tumb-tumb verso l'ineluttabile destino della Capitale, e si ritrovava invece obbligato a inchiodare davanti a una casalinga e un pensionato brianzoli col sacchettino della spesa, intenti al gesto sacrilego di attraversare sulle strisce.
Benvenuti a Monza, di cui lo scomparso Califano cantava che “la gente fa gara a chi è più stronza”. Per esempio piazzando dei semafori tra l'automobilista moderno e l'anello delle tangenziali milanesi. Semafori che facevano quotidianamente incolonnare per chilometri mezzi a motore di varie stazze e potenze di inquinamento, accumulando veleni poi inopinatamente aspirati anche dalla casalinga, dal pensionato col sacchetto della spesa, e dai loro parenti che risiedono nei quartieri affacciati sulle otto corsie del cosiddetto tratto urbano. Giustamente i parenti tutti, insieme alle loro vie respiratorie, non erano entusiasti della situazione, e uniti in lobby democratica e sostenibile hanno dato ulteriore impulso a un progetto che era nell'aria da tempo: un megatunnel (in qualche modo gemello di quanto già sforacchiato a Lecco anni fa) sotto i quartieri semisoffocati, che finalmente sbolognasse il serpentone semovibile là dove deve andare, ovvero nella rete autostradale metropolitana, magari per scagliarsi poi proprio verso Roma Km 600 meno qualcosa.
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| Monza San Fruttuoso: sei corsie da attraversare ogni giorno |
Dopo alcuni anni, e revisioni in corso d'opera, la suddetta opera è stata inaugurata l'altro ieri da neogovernatore padano Maroni e notabili vari, e insieme ai comuni mortali mi ci sono cacciato dentro anch'io, per vedere di nascosto l'effetto che fa. Scoprendo che, come hanno riferito e continuano a riferire gli organi di informazione, superata la strettoia se ne è subito creata un'altra, peggio della prima perché il tunnel funge un po' da canna di fucile, concentrando il fuoco sulle carenze del tracciato che già esistevano. Dicono un'ecatombe, e in effetti stare intrappolati dentro una galleria per tanto, tanto tempo, sperando di tornare e riveder le stelle, non è carino, era quasi meglio il semaforo con lo spettacolo della signora Maria intenta a guardarsi la punta delle scarpe inzaccherata. Ora speriamo che i supertecnici facciano cadere anche l'ultimo diaframma verso le tangenziali, ma sospetto che poi sarà là dentro che si scarica il casino suppletivo, con richiesta di nuove corsie, nuove tangenziali esterne a quelle esterne … Ma torniamo indietro, nello spazio e nel tempo.
Nello spazio, percorrendo il tunnel al contrario, se ne scopre una funzione abbastanza interessante: ci sono un centro commerciale con ancora Auchan all'estremità meridionale, e un centro commerciale con ancora Auchan allo sbocco settentrionale. La grande opera miliardaria verrebbe così a configurarsi come meta-shopping mall virtuale, delineando nuove frontiere del consumo e dell'esperienza commerciale a orientamento automobilistico per il terzo millennio. Oltre ad andare a ritroso nello spazio, ovvero giusto risalire un po' in disordine e con poca speranza la SS36, si può però anche andare indietro nel tempo usando il desueto metodo urbanistico. Al 1933 ad esempio: ah, memorabile quell'anno!
Quando nel pieno della modernizzazione fascista-futurista del paese i giovani virgulti dell'intellighenzia nazionale adottavano il meglio del dibattito internazionale sulle città, ad esempio aderendo ai nascenti CIAM di le Corbusier. I quali congressi di architettura moderna, come abbastanza noto, divulgavano una modellistica territoriale magari a posteriori discutibile, ma senza dubbio dotata di senso: una città ordinata, relativamente divisa per funzioni e spazi specializzati, e distesa sul territorio secondo schemi efficienti. Per esempio organizzando l'espansione per quartieri autosufficienti, separati dal centro attraverso cunei e fasce a verde a evitare piccole conurbazioni, e con le infrastrutture stradali concepite organicamente dentro questo disegno. Al concorso per il piano regolatore di Monza bandito in quel fatidico 1933 vinse il progetto del gruppo coordinato da Aldo Putelli, architetto già inserito nel gruppo del Piano Provinciale milanese per l'Abitazione Operaia, e in seguito nel famoso Piano AR. Il suo era un piano di schietta matrice razionalista.
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| Fondo Archivio RAPu da una mia ricerchina di qualche anno fa |
Quello “stradone” nei decenni avrebbe potuto ad esempio guarnirsi di polverosi guard-rail, piazzali di sosta per il rifornimento di benzina, occasionali sovrappassi in corrispondenza delle vie intercomunali, o che diavolo d'altro. Non un eden o terra promessa, quindi, solo una stramaledetta ennesima superstrada detestabile per il fracasso, l'inquinamento, ma arteria che alimenta le attività dell'operosa Brianza e più oltre collega direttamente i flussi economici della fascia alpina al core metropolitano milanese. Soprattutto avrebbe svolto il suo ruolo, quell'asse viario, senza tagliar fuori una fetta di città dal resto dell'insediamento, visto che nel disegno si capisce benissimo l'organizzazione dei quartieri satellite e il loro rapporto coi nuclei storici, centrale e secondari. E il tunnel? Sarebbe servito il tunnel? Domanda retorica. Qui viene davvero da dire: “il problema è un altro”. E si lascia la risposta al lettore, ricordando che la pianificazione territoriale è roba folcloristica, superata, novecentesca, da raccontare ai bambini curiosi attorno al fuoco. Che oggi i problemi si risolvono a misura d'uomo, sostenibile, equa e solidale. Che chissà cosa vuol dire, ma intanto ci teniamo il tunnel e i nuovi problemi che ha creato puntualmente all'altra estremità.
Riceviamo da ReTe (rete dei comitati per la difesa del territorio) un documento del Forum Sociale Mondiale di Tunisi. Risposta dal basso alla costruzione della "infrastruttura globale" (Sassen) programmata per sfruttare le risorse planetarie e favorire i già dotati, impoverendo gli altri. postilla
Noi, cittadine e cittadini, associazioni e movimenti che lottano contro le Grandi Opere Inutili e Imposte
Constatiamo che:
- questi progetti costituiscono per i territori interessati un disastro ecologico, socio-economico e umano, la distruzione di aree naturali e terreni agricoli, di beni artistici e culturali, generano nocività e degradazione, inquinamento ambientale con gravi conseguenze negative per gli abitanti,
- questi progetti escludono la partecipazione effettiva delle popolazioni dal processo decisionale e le privano dell’accesso ai mezzi di comunicazione,
- di fronte ai gravi conflitti sociali che questi progetti generano, i governi e le amministrazioni operano nell’opacità e trattano con disprezzo le proposte dei cittadini,
- la giustificazione ufficiale per la realizzazione di queste nuove infrastrutture si basa sempre su false valutazioni di costi/benefici e di creazione di posti di lavoro,
- la priorità data alle grandi infrastrutture è a scapito delle esigenze locali,
- questi progetti aumentano la concorrenza tra i territori e si indirizzano verso il sempre "più grande, più veloce, più costoso, più centralizzato",
- il sistema economico liberale che domina il mondo è in crisi profonda, i Grandi Progetti Inutili e Imposti sono strumenti che garantiscono profitti esorbitanti ai grandi gruppi industriali e finanziari, civili e militari, ormai non più in grado di ottenere tassi di profitto elevati nel mercato globale saturo,
- la realizzazione di questi progetti inutili è sempre a carico del bilancio pubblico, produce un enorme debito e non genera la ripresa economica, concentra la ricchezza e impoverisce la società,
- i grandi progetti permettono al capitale predatore di aumentare il suo dominio sul pianeta, generando così danni irreversibili all’ambiente e alle popolazioni,
- gli stessi meccanismi che aumentano il debito dei Paesi più poveri dalla fine della colonizzazione diretta sono ora utilizzati anche nei paesi occidentali.
Contestiamo:
- la logica della concentrazione geografica e funzionale che non permette lo sviluppo locale equo e i meccanismi che minacciano la sopravvivenza delle piccole e medie imprese e del sistema economico locale,
- le infrastrutture sovradimensionate per la produzione di energia non rinnovabile, la costruzione di enormi dighe la cui tecnologia comporta forte inquinamento del suolo, dell’acqua, dell’aria, dei fondali marini e la scomparsa di interi territori che compromettono la sopravvivenza delle generazioni future,
- le modalità di finanziamento di tali progetti che generano enormi profitti garantiti dalla disponibilità di denaro pubblico assieme ad architetture giuridico-finanziarie scandalose, a favore di imprese le cui azioni di lobby influenzano le decisioni politiche fino ad ottenere misure eccezionali per aggirare tutti gli ostacoli giuridici
- il supporto a questi progetti da parte dei vari livelli delle strutture politiche, locali, nazionali, sovranazionali e dalle istituzioni finanziarie globali che si oppongono ai diritti, ai bisogni e alla volontà dei popoli,
- la militarizzazione dei territori e la criminalizzazione dell'opposizione.
Affermiamo che le soluzioni si possono trovare:
- nella manutenzione e nell’ottimizzazione delle infrastrutture esistenti che rappresentano quasi sempre l'alternativa più accettabile dal punto di vista ambientale e dei costi rispetto alla costruzione di nuove infrastrutture, che devono rispondere all’interesse pubblico e non al profitto,
- nella profonda trasformazione del modello sociale ed economico oggi in profonda crisi, dando la priorità alla prossimità e alla rilocalizzazione dell'economia, alla tutela dei terreni agricoli, alla sobrietà energetica e alla transizione verso le energie rinnovabili decentrate, nostre priorità,
- nell’attribuzione in ultima istanza del processo decisionale alle popolazioni direttamente interessate, fondamento della vera democrazia e dell'autonomia locale nei confronti di un modello di sviluppo imposto, anche attraverso adeguate proposte legislative,
- attraverso nuove relazioni di solidarietà tra i popoli del sud e del nord che rompano definitivamente con la logica del dominio e dell'imperialismo.
Affermiamo la nostra solidarietà alla lotta contro tutte le Grandi Opere Inutili e Imposte e il desiderio comune di recuperare il nostro mondo.
(*) Questa dichiarazione è stata preparata da associazioni e movimenti che lottano contro la realizzazione di grandi progetti infrastrutturali (di trasporto di persone o di merci, energetici, turistici, urbanistici e militari) riuniti oggi al FSM di Tunisi per unire le loro forze e per alzare la voce, essendo i problemi gli stessi in tutto il mondo.
La suburbanizzazione di fatto dei centri città, con quartieri recintati virtuali come denunciato da Anna Minton nel suo Ground Control, ormai salta agli occhi. Corriere della Sera, 3 aprile 2013, postilla (f.b.)
LONDRA — I «fantasmi» più ricchi al mondo abitano a Belgravia, quel lussuosissimo miglio quadrato schiacciato fra Buckingham Palace e Chelsea. Ci sono, si nascondono e scappano. Le loro case sono fra le più care, o forse sono le più care, sulla faccia della Terra ma la sera hanno sempre le luci spente e le finestre sbarrate. Case di «fantasmi», appunto. Ma che «fantasmi». Tipo l'oligarca russo Oleg Deripaska che ha la residenza in Belgrave Square, un palazzo a tre piani. Tirò fuori, nel 2003, dalle sue finanze private ben blindate nel paradiso fiscale delle British Virgin Islands qualcosa come venticinque milioni di sterline per acquistare il meraviglioso palazzo una volta di proprietà, parliamo degli anni Trenta, del parlamentare conservatore Henry Channon. L'aristocratico tory lo usava per i ricevimenti e per ospitare l'allora principe di Galles, il re Edoardo VIII che poi abdicò per amore di Wallis Simpson.
Pur avendo investito una fortuna (briciole per l'ex studente di Fisica all'Università di Mosca divenuto, secondo la rivista americana Forbes, il nono uomo più facoltoso del pianeta), Oleg Deripaska e la moglie a Belgrave Square non si vedono mai, o quasi. Nelle pieghe di una delle tante guerre giudiziarie fra oligarchi russi è venuto fuori, ad esempio, che nel 2005 l'imprenditore amico di Putin non vi passò che 27 notti. E solo 19 nel 2006. Mai per più di tre o quattro giorni consecutivi. Davvero, Oleg Deripaska, il principe dei «fantasmi» di questa Londra a mille carati dove un immobile può costare anche 75 milioni di sterline e un appartamento 21 milioni, quello di Eaton Square venduto dalla scrittrice Nigella Lawson e dal marito Charles Saatchi collezionista d'arte, cofondatore col fratello della agenzia pubblicitaria Saatchi&Saatchi, proprietario della Saatchi Gallery. Tutta gente che c'è ma non si vede. Una toccata e fuga.
Un rapporto della Savills, società di intermediazione immobiliare, pubblicato dal New York Times in un servizio di Sarah Lyall, rivela che il 37 per cento degli acquirenti di case a Belgravia non vi risiede. Avere una «base» nell'enclave più esclusiva di Londra è una questione d'immagine per russi, per arabi, per cinesi e per indiani. Un capriccio per i nuovi «fantasmi». Ma si può ben comprendere vista la storia passata e recente di Belgravia, dove per altro ci sono pure il consolato e l'istituto di cultura italiani. Poco dà più lustro di un «rifugio» nella zona che all'inizio dell'Ottocento fu sviluppata dal duca di Westminster, quel Richard Grosvenor col titolo pure di duca di Belgrave, proprietario dei terreni a sud di Buckingham Palace.
L'elenco dei cittadini famosi di Belgravia è lungo. Miliardari di oggi (Roman Abramovich ha ceduto alla ex moglie Irina un palazzo con 19 camere da letto) e premier di ieri (Margaret Thatcher in Chester Square). E poi musicisti immensi: Mozart in Ebury Street 180 pare abbia composto la sua prima sinfonia. O manager di musicisti immensi: Brian Epstein dei Beatles. Autori e attori di prima grandezza: Ian Fleming (padre di 007) al 22b di Ebury Street e nella stessa via, dopo, Michael Caine. Vivien Leigh (la Rossella O'Hara diVia col Vento) col marito Laurence Olivier stava invece in Eaton Square al 48, e non lontano, più avanti, sarebbero arrivati Cristopher Lee (Dracula, Il Signore degli anelli,Star Wars) e i due James Bond, Sean Connery e Roger Moore. Infine le modelle: Elle Macpherson il «fantasma» più bello.
Difficile sfuggire, per oligarchi e sceicchi, per imprenditori indiani o cinesi, al richiamo di Belgravia. Solo che hanno trasformato il quartiere in un covo di «fantasmi». Se non è coprifuoco, la sera, quasi ci siamo. Case miliardarie usate pochi giorni all'anno. E allora ecco che si aggira l'incubo del gruppo degli squatters di Belgravia. Specializzati in occupazioni. Nel 2009, tanto per citare un caso, nel giro di pochi giorni sei «senza dimora» si divertirono a impadronirsi di due palazzine in Belgrave Square, con la loro biancheria appesa fuori, lasciando attonita la famiglia vicina degli Abramovich.
Ora chi fa discutere è la signora Stephanie Demouh, 38 anni, sei figli, africana del Togo. È povera ma è riuscita a entrare nei programmi di assistenza edilizia: i servizi sociali pagano la residenza (e che residenza) nel cuore di Belgravia, a lei e famiglia. E non intende muoversi. Un po' di vivacità e di colore. Pure la notte. Nella cittadella dei «fantasmi».
Postilla
Val la pena ricordare qui che un paio di estati fa, ai tempi delle rivolte giovanili nelle città britanniche, mentre ancora fumavano le braci di negozi saccheggiati e incendiati, qualcuno sottolineò come esistesse una stretta correlazione fra urbanistica e rivolte, nel senso che queste erano scoppiate di preferenza là dove convivevano fasce di reddito diverse. Forse non è un caso che le spinte della destra ad allentare i vincoli di cambio di destinazione d'uso, di espulsione dei ceti popolari dai nuclei centrali, di pressione per nuovi quartieri ghetto rigorosamente in area greenfield, si siano intensificate nel medesimo periodo. Insomma, anche queste gated communities per ricchi, come gli shopping mall chiusi in zone di riqualificazione, o altri organismi suburbani geneticamente modificati, fanno parte (volenti o nolenti) dell'assalto alla città moderna come l'abbiamo conosciuta. Esiste una risposta? Forse, ma forse non è molto progressista né intelligente cercarla predigerita nelle solite formule novecentesche (f.b.)
per i veri appassionati – un po' masochisti - oltre a ripassarsi o leggersi per la prima volta le anticipazioni di Anna Minton, anche un giro nel ricco sito della Savils Real Estate United Kingdom http://www.savills.co.uk/
La Repubblica Milano, 2 aprile 2013, postilla (f.b.)
IN UNA città dall’altissima domanda (e bisogno) di abitazioni low cost, l’11 per cento degli uffici è inutilizzato. Il censimento del patrimonio terziario sfitto è emerso da un recente meeting tra operatori e banche a cui anche il Comune è stato invitato. Gli ultimi dati milanesi, aggiornati a fine 2012 ed elaborati dall’organizzazione immobiliare Urban land institute e dalla banca Bnp Paribas, collocano i due terzi del terziario fantasma nelle zone (semi) periferiche della città, talvolta più lontane dalla rete di trasporto metropolitano — è in questa fascia che sorgono i principali Office district come Maciachini-Farini, Portello, Certosa, Lorenteggio, Ripamonti, Porta Romana- Centro Leoni, Missaglia-Business park e Bicocca — e nell’hinterland milanese, come San Donato. Il restante 30 per cento circa è dentro la Cerchia dei Bastioni, di cui l’11 per cento in pienissimo centro. Un fenomeno cresciuto negli anni, quello degli uffici senza affittuario o compratore.
Più se ne sono costruiti e più è cresciuta la quota rimasta vuota che nel 2007 si attestava sugli 800mila metri quadri. E il mercato fatica ad assorbire questo eccesso di offerta: nel 2012 i metri quadri terziari venduti o affittati sono stati 200mila contro i 290mila del 2011. Che fare allora oggi? Palazzo Marino pone la questione sul tavolo: «La grande scommessa per il futuro è il riutilizzo del patrimonio esistente». E lancia un’ipotesi di lavoro: «Sulla gestione dell’invenduto e degli sfitti — dice il vicesindaco e assessore all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris — il Comune intende far partire un confronto con tutti i soggetti interessati, dagli operatori ai sindacati, per avviare anche in via sperimentale modalità di trasformazione degli uffici in alloggi con affitto a prezzi accessibili ». Un’opportunità che potrebbe convenire a tutti, per sbloccare lo stallo di tutti quegli immobili.
In Inghilterra l’hanno fatto: a fine gennaio il governo ha deregolamentato il cambio di destinazione d’uso da uffici a residenza, consentendo di farlo senza pagare oneri. Una misura contenuta in un più ampio pacchetto di sostegno alla crescita economica. Il sistema anglosassone, più leggero dal punto di vista normativo, lo permette; in Italia, e a Milano, la ricetta inglese è ancora tutta da costruire. Ma le premesse ci sono. L’operazione nasce per sanare «le scelte sbagliate del passato che oggi si portano dietro criticità significative con le quali è necessario confrontarsi» afferma De Cesaris. Errore doppio, secondo l’amministrazione: l’esagerata realizzazione di locali destinati al terziario, causata dalla “forzatura” da parte degli operatori delle valutazioni sul mercato, e la mancanza di un corretto disegno della città, imputabile anche alla pubblica amministrazione. E il Pgt, piano di governo del territorio, e la delibera con cui si applica a Milano il Piano casa regionale, riescono solo in parte a far fronte al fenomeno.
Crisi a parte, il boom di uffici sfitti secondo gli esperti si giustifica così: «Per un verso pesa il divario tra domanda e offerta in termini di prezzo, specie in centro — ragiona il Country manager
per l’Italia di Bnp Paribas Real Estate, Cesare Ferrero — in secondo luogo molti stabili sono obsolescenti, per struttura e funzioni; terzo, spesso le ubicazioni non sono coerenti con le attuali necessità di prossimità alle infrastrutture di trasporto, o a zone con servizi pubblici». Prezzo, prodotto e posizione, insomma, le tre cause del diffondersi dello sfitto. Così il Comune prova a farsi regista del piano di recupero. Su cui serve partecipazione anche dalle altre istituzioni: «È necessario — aggiunge il vicesindaco — un progetto condiviso che preveda incentivi fiscali, nuove e diverse modalità di accesso al credito, e che coinvolga governo, Regioni e Comuni. A ciò, poi, deve seguire l’impegno di tutti a realizzare interventi che rispondano alla domanda effettiva di abitazioni e di terziario, partendo dai dati reali e dalle effettive esigenze di chi abita in città».
Postilla
Ci sono almeno due aspetti della faccenda che consigliano di andare coi piedi di piombo: l'origine dello studio alla base di questa proposta, e il riferimento all'esperienza britannica. Se cominciamo da quest'ultima, di sicuro non sfugge ai lettori del sito come da quando si è insediato il governo di coalizione Tory-Liberaldemocratico ci sia una poderosa spinta alla deregolamentazione del planning nazionale, entro la quale si inserisce anche questa abolizione di buona parte delle autorizzazioni al cambio di destinazione d'uso, sulla spinta di una assai vociferata emergenza casa che, a parere della sinistra di opposizione, viene spudoratamente sfruttata per far altro. Sul versante dell'origine degli studi alla base della pensata milanese, chiaramente immobiliarista, la si può inserire nel più vasto panorama mondiale dei tentativi di rilancio del settore, devastato dalle proprie passate intemperanze, ad esempio con una offerta di cubature terziarie senza capo né coda, che oggi producono proposte di “soluzione” tra le più stravaganti, come quella di demolizione generalizzata degli edifici curtain wall di Manhattan (sic) e ricostruzione con caratteristiche a basse emissioni, sostenuta da studi di origine assai simile a quelli milanesi. Ciò premesso, ben vengano le sperimentazioni puntuali, ma sempre evitando di ripetere le prospettive delle giunte di centrodestra passate, totalmente succubi di spinte particolaristiche, che hanno combinato esattamente i guai attuali (f.b.)
Visto che si sono citati due esempi, anche due links di eventuale riferimento
1) un esempio di "politiche per la casa" britanniche di amministrazione locale Conservatrice sotto un governo Conservatore (che dovrebbe dimostrare quantomeno la contraddittorietà di queste idee di riconversione uffici/case tanto sbandierate)
2) in che logica si inserisce a ben vedere l'attivismo dei centri studi legati a interessi particolari, quando si discute di "riuso dello stock edilizio terziario obsoleto" nelle grandi città (vedi anche links e allegati)
Prima nel Nordest per consumo di suolo negli ultimi vent’anni. In provincia oltre 30 mila le case vuote. il Messaggero Veneto, 30 marzo 2013, allegato documento scaricabile
PORDENONE. Nonostante la provincia di Pordenone realizzi il 40 per cento del Pil regionale agricolo, è la realtà nel Nordest dove si è consumato più suolo negli ultimi decenni. Ad attestarlo una ricerca condotta dal dipartimento di Scienze agrarie e ambientali dell’università di Udine utilizzato dalla Provincia di Pordenone nell’ambito dell’osservatorio sulle politiche abitative che sta continuando il suo lavoro di analisi ed elaborazione di proposte alle amministrazioni comunali per quanto riguarda l’urbanistica e l’edilizia. In base a tale ricerca, negli anni Novanta e nel primo decennio del Duemila la Destra Tagliamento risulta al primo posto nel Triveneto per incremento delle aree urbanizzate, con un aumento del 19,7 per cento, seguita da Padova, Verona e Rovigo. La provincia di Udine, nello stesso periodo, mostra un aumento più contenuto che si attesta intorno all’11,5 per cento.
«Il primato della provincia di Pordenone per incremento relativo di aree urbanizzate - spiega nella sua relazione, acquisita agli atti della Provincia, Elisabetta Peccol dell’ateneo friulano - diventa più rilevante se viene letto in relazione al dato sulla percentuale di aree urbanizzate sul totale della superficie amministrativa. Infatti, già nel 1990 la Destra Tagliamento presentava una copertura di aree urbanizzate del 5,9 per cento, maggiore rispetto alla provincia di Udine (5,34 per cento)». Con il rilevante incremento in particolare nel periodo 1990-2006, Pordenone passa al 7,04 per cento di superfici urbane rispetto al 5,95 per cento di Udine.
Le perdite assolute di superfici agricole nello stesso periodo, evidenzia la ricerca, vedono Pordenone sempre nelle prime posizioni, con 2 mila 718 ettari, dopo Padova, Verona e Udine. «Se viene data lettura della perdita totale su base annuale - continua il documento - risulta che il Friuli occidentale ha perso 182 ettari di superfici agricole ogni anno. Tale valore riflette sia la crescita di aree urbane su terreni agricoli, sia l’avanzamento del bosco, causato in parte dall’abbandono dei pascoli nelle aree montane, che per l’intero periodo è di 113 ettari». Gli effetti della cementificazione si sono visti nel periodo post-crisi: con l’esplosione della bolla immobiliare che ha portato, dal 2001 al 2009, alla costruzione di oltre 25 mila abitazioni (8,4 milioni di metri cubi di cemento) il 19 per cento degli immobili - tra vecchi e nuovi - risulta disabitato. In sostanza, come attesta l’Osservatorio provinciale, sono quasi 30 mila le case vuote che riuscirebbero a soddisfare la domanda del mercato da qui fino al 2020.
Il consumo di suolo, peraltro, non è solo uno spreco in sè, soprattutto visto che l’ondata di cemento è stata sproporzionata rispetto alle possibilità del mercato. «Le aree rurali - spiega la Peccol - svolgono un importante ruolo nel mantenimento della qualità dell’ambiente tra cui la salvaguardia idrogeologica, la conservazione della biodiversità, la valorizzazione delle risorse naturali locali, la difesa del patrimonio genetico vegetale e animale locale». La ricetta imposta dalla sostenibilità futura non può che concretizzarsi in piani urbanistici a cubi zero, dove si mettono in campo - attraverso piani settoriali - incentivi per la ristrutturazione e riqualificazione energetica degli edifici esistenti. Una sfida che parte da Pordenone alle prese con la redazione del nuovo piano regolatore.
Nota: una parte dello studio è scaricabile direttamente da qui
Corriere della Sera Milano, 31 marzo 2013, postilla (f.b.)
Il futuro del Cerba, il Centro europeo di ricerca biomedica avanzata di Umberto Veronesi, è appeso a un filo. Sottile. Il Comune ha lanciato il suo ultimatum: se entro 90 giorni non si provvederà alla firma della convenzione l'intero progetto verrà considerato decaduto e le aree torneranno di pertinenza del Parco Sud. In gergo tecnico quella di Palazzo Marino è una «diffida» che arriva alla fine di un lunghissimo e travagliatissimo iter culminato con il fallimento di Imco e Sinergia, le due società della famiglia Ligresti, proprietarie dell'area. Senza «proprietari» in grado di assumersi gli impegni assunti (tra cui 90 milioni da versare nelle casse di Palazzo Marino) e senza una «prova» dell'avvenuto acquisto dei terreni non è possibile arrivare alla stipula della convenzione per l'attuazione del programma integrato di intervento. Una firma che doveva arrivare già un anno fa ma che è slittata nel tempo a causa dei guai economici del gruppo Ligresti. Sono intervenuti i curatori fallimentari.
Sono intervenute anche le banche creditrici che devono rientrare dei 330 milioni di euro prestati a Ligresti. Ma nonostante le sollecitazioni del Comune, i curatori fallimentari non hanno fornito i chiarimenti necessari, a partire da chi saranno i «nuovi proprietari» delle aree. Si è parlato di un interessamento del gruppo Hines, ma fino a ora senza esiti concreti. Neanche le banche hanno messo nero su bianco le loro intenzioni, anche se da più parti spunta l'ipotesi del concordato.
Adesso, la diffida del Comune cambia le carte in tavola. O meglio, le accelera. Se le banche sono disposte a sottoscrivere il concordato hanno tre mesi di tempo per farlo. Stesso discorso per il gruppo Hines. C'è anche un'altra possibilità per non far naufragare tutto: sia i curatori fallimentari sia la Fondazione Cerba hanno chiesto delle modifiche al progetto che comporterebbe un'integrazione all'accordo di programma siglato tra Comune, Regione, Provincia, Parco Sud e Fondazione Cerba nel 2009.
Il Pirellone potrebbe decidere di rivedere e rimodulare l'Accordo di programma. Strada tentata nei mesi scorsi con la precedente giunta Formigoni ma che non ha portato a esiti in quanto l'allora assessore si era dichiarato incompetente. Il neo-presidente, Roberto Maroni potrebbe pensarla in maniera diversa e riaprire la partita. Anche dal punto di vista urbanistico. E qui Palazzo Marino potrebbe giocare un ruolo fondamentale in un'area considerata strategica dal punto di vista ambientale come quella del Parco Sud. La rimodulazione dell'intervento, visto che si tratta di un progetto «rilevante ed esteso», deve tenere conto dell'interesse pubblico in un «disegno urbanistico condiviso». Condivisione significa molte cose. Anche che si possa arrivare a una mediazione tra diverse aree della città. La partita è delicatissima. Gli attori in gioco sono tanti. La mossa del Comune cerca di fare chiarezza. È ora di mettere sul piatto le carte. Chi è veramente interessato al futuro del Cerba si faccia avanti. Ci sono 90 giorni di tempo per capire se il sogno di Umberto Veronesi potrà diventare realtà.
Postilla
“Anche che si possa arrivare a una mediazione fra diverse aree della città” insinua cautamente l'articolo. Ovvero farla finita con l'ignobile ricatto culturale, ampiamente sostenuto dalla politica bipartisan (do you remember Penati?) tra i sostenitori del progresso scientifico e gli oscurantisti sotto sotto amici del cancro, che volevano tutelare chissà perché qualche campicello fangoso accanto a un viottolo di periferia. Ecco, adesso si può ragionare, Regione leghista permettendo, la stessa Lega che in campagna elettorale si è sbracciata a favore del contenimento del consumo di suolo. Ecco, spiegateglielo anche voi: la cosa su cui andrebbe il progettone di Veronesi, si chiama appunto “suolo”. Per i particolari il riferimento è sempre al primo articolo descrittivo del CERBA comparso su queste pagine qualche anno fa (f.b.)
Le soluzioni individuali o limitate forse non cambiano il paradigma dello sviluppo, ma di sicuro indicano una prospettiva e una pratica da seguire. Una recensione e alcune riflessioni da Grist, 30 marzo 2013 (f.b.)
Titolo originale: Local schmocal: Why small-scale solutions won’t save the world – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Devo confessare una cosa: sono piuttosto scettica sull'efficacia degli stili di vita sostenibili. Certo mi piace tenere l'orto, andare in bicicletta, se posso compro prodotti locali. Ma non credo che queste mie scelte personali possano salvare il mondo: e neanche le vostre se è per questo. Non sono la sola. Provate ad esempio a chiedere a Greg Sharzer, frustrato militante marxista e ricercatore di scienze politiche alla York University, che pure va in bicicletta e compra caffè equo-solidale. Il suo libro No Local: Why Small-Scale Alternatives Won’t Change the World, è una doccia gelida sul genere di progressismo localista, una sfida in generale al concetto stesso di micro-soluzione. Localismo è strategia di sopravvivenza, scrive Sharzer, non movimento, e neppure soluzione:
“Secondo i localisti si possono cambiare i rapporti col capitalismo. Se i consumatori non apprezzano un prodotto possono dimostrare di orientarsi verso un altro. Basta scegliere il sostegno a piccoli esercizi dalle pratiche eque, e pian piano scompariranno tutti i guai della crescita. Orti di quartiere, mercati contadini, biocarburanti prodotti in cooperativa, ad esempio, possono radicalmente cambiare le posizioni di potere dell'agricoltura industrializzata”.
E invece a parere di Sharzer ogni forma di progressismo localista fatto di piccoli gesti deriva solo da un “profondo pessimismo”, dalla sensazione che i problemi siano di proporzioni troppo gigantesche per essere risolti. Critica il modello delle scelte di stili di vita locali come modello per altri, che poi non si confrontano coi poteri in grado di renderci tutti dipendenti dal petrolio. Non è tanto che queste micro-soluzioni siano sbagliate in quanto tali: il fatto è che non si tratta di soluzioni. Comprare verdure biologiche prodotte localmente – magari addirittura coltivarle da sé – va benissimo, ma non sostituisce certo la lotta per i diritti di chi raccoglie insalata nei campi a pochi centesimi al cespo.
La base delle riflessioni di Sharzer è l'analisi marxista di classe, secondo la quale il localismo non riesce a cambiare il sistema. Vi risparmio qui la parte strettamente marxista (accomodatevi pure da soli) ma non quella sulla lotta di classe. Essenzialmente sostiene che se queste culture localiste “comprendessero” (virgolette indispensabili) il capitalismo, sarebbero già in piazza armate di forconi, invece che nei campi a frugare per raccattare un po' di carburante vegetale per le loro utilitarie. Insomma ci vuol spingere a pensare e agire globalmente, collettivamente, invece di pensare solo individualmente.
Certo non tutti interpretano il suo libro come ho fatto io. Cito qui una recensione comparsa su Post Carbon Living:
“[Sharzer] non coglie il punto. [il localismo] funziona proprio perché non sfida il capitale. Non è quello il suo scopo. Non ha questa ideologia. Non nasce da alcun dogma, si tratta di una soluzione pratica a problemi concreti, problemi che esistono sin dagli albori dell'industrializzazione. Problemi vecchi quanto la teoria marxista: ma là dove Marx offriva solo teoria, il localismo offre prassi”.
Sostituirei questa “prassi”, con “qualcosa di praticabile”. Non è che il localismo sia una soluzione pratica alla crisi: è meglio di niente. Ma anche se in fondo posso capire questa posizione, mi pare davvero assurdo rispondere al cambiamento climatico andando in bicicletta, e non chiedendo grandi cambiamenti economici e politici. Il che ci porta alla questione: se alla base di queste soluzioni fatte in casa esiste un profondo pessimismo, dove sta l'ottimismo?
Va sottolineato che il libro di Sharzer è uscito la scorsa primavera, un po' prima che fossero arrestate quelle mille persone che davanti alla Casa Bianca protestavano contro l'oleodotto Keystone XL. Un progetto che ha contribuito a catalizzare un movimento organizzato contro il cambiamento climatico, dove si intrecciano punti di vista sia micro che macro, in una prospettiva che va ben oltre lo specifico di. Il libro di Sharzer è anche uscito sei giorni prima che si prendesse possesso di un terreno a Albany, California, insediando una fattoria là dove invece si voleva costruire. Anche se questi contadini in stile Occupy sono stati poi sgombrati, e il terreno recintato, le trasformazioni in progetto hanno comunque subito un rallentamento, e alcuni dei proponenti si sono ritirati. Una piccola battaglia per un piccolo fazzoletto di terra, una risposta locale a un problema globale, ma quei contadini cercavano anche di costruire soluzioni che andassero oltre la dimensione micro, e la loro lotta ha avuto anche risultati più duraturi.
Quello che vediamo sia nelle proteste per il progetto Keystone che nel movimento Occupy non è certo la rivoluzione marxista (non credo ne vedremo mai una, caro Sharzer, ma se ne cogli qualche segnale fammelo sapere). Si tratta ad ogni modo di un'espressione di energia radicale, di energia ottimista. Anche Sharzer riconosce le possibilità delle piccole azioni quando si tratta di stimolarne di maggiori. “Nel quadro della lotta per il potere, i militanti costruiscono delle contro-istituzioni che affrontano direttamente i problemi comuni” scrive. “Si tratta del primo, solo del primo, passo sulla via del contropotere”.
Parecchie azioni locali sono davvero valide. E perbacco quanto sono buone le verdure locali. Ma non facciamoci troppe illusioni sulla vera efficacia delle nostre scelte di dieta: se carichiamo troppo di aspettative politiche quel che abbiamo nel piatto, finiremo per scordarci tutti i guai di scala superiore. Certamente le micro-soluzioni non sono prive di senso, da cosa nasce cosa. Ma serviranno a obiettivi più generali solo se non li perdiamo di vista. Condivido tutta la delusione di Greg Sharzer, ma non perdo la speranza. Magari questi micro-gesti non bastano, ma fungono da punto di partenza per una analisi più approfondita, per un maggiore impegno – se diventano movimento – che potrebbe crescere a dimensioni dannatamente macro.
La denuncia di Tomaso Montanari: i tesori artistici ridotti a solo sfruttamento commerciale. "A rischio è la cittadinanza stessa" . L'Autore: «il patrimonio (come la scuola) non può essere asservito al mercato, e la tutela deve essere funzionale alla ricerca, la conoscenza è il più importante strumento per costruire la democrazia». La Repubblica, 29 marzo 2013
Il mercato trasforma il nostro patrimonio artistico in uno strumento di lucro e la sua tutela viene messa a rischio. E non solo: la conoscenza, il primo strumento di crescita di ogni democrazia, viene umiliata e ignorata. Così, il diritto a godere dell'arte e della storia , anziché un bene comune garantito dalla Costituzione, diventa un bene di mercato, trasformando i nostri centri storici in un grande "luna park a pagamento". E' il senso della denuncia lanciata dallo storico dell'arte, Tomaso Montanari, nel suo ultimo libro Le pietre e il popolo, il cui sottotitolo si fa slogan d'impegno: restituire ai cittadini l'arte e la storia delle città italiane(Minimum fax).
Perché viene negato il valore civico dei monumenti a favore del loro potenziale turistico? E perché avidi usufruttuari mettono a reddito il patrimonio per produrre denaro? Tomaso Montanari, già autore di altri graffianti pamphlet (tra questi, La madre di Caravaggio è sempre incinta, Skira) parte dall'analisi del presente e risponde attraverso un viaggio "critico" nel nostro paese che tocca Siena, Venezia, Roma, Firenze, Napoli L'Aquila e altre città . E che racconta come, ovunque, vengano messi in atto esempi di quella "nuova "politica" che, di fatto, nega il valore civico dei monumenti a favore della loro rendita economica, a prova che non si vogliono "cittadini partecipi, ma consumatori passivi." Dalla fantasia inquinante che immagina, a Roma, piste di sci al Circo Massimo, a Firenze con gli Uffizi resi scenario per le sfilate di moda. Fino all'Aquila, dove nel centro storico la devastazione del terremoto si declina tuttora al presente.
Con il suo Le pietre e il popolo, Montanari denuncia lo sfruttamento dei luoghi d'arte; cita episodi e circostanze, e i rischi e i danni che producono. Ma, soprattutto, ricorda che la funzione civile del nostro patrimonio, storico e artistico, è uno dei principi basilari della nostra democrazia. E che, dunque, di fronte al pericolo che vinca la logica del mercato, non c'è che una soluzione: resistere, resistere, resistere.
Il nostro patrimonio artistico è ormai considerato "il petrolio d'Italia? Se è così, come è potuto accadere?
"Se la nascita del Ministero per i Beni culturali (1974) ha comportato la simbolica sottrazione del patrimonio alla sua altissima missione educativa (che era invece esplicita nell'unione con la scuola in seno alla Pubblica Istruzione), la politica culturale dagli anni ottanta craxiani in poi è stata guidata da un micidiale cocktail ideologico nel quale erano mescolati (in percentuali variabili, a seconda del singolo ministro) tre principali ingredienti: la dottrina del patrimonio come 'petrolio d'Italià (secondo la quale esso dovrebbe mantenersi da solo, o addirittura produrre reddito), la religione del privato con l'annesso rito della privatizzazione, e (specie dopo il ministero di Veltroni) lo slittamento 'televisivò per cui il patrimonio non ha più una funzione conoscitiva, educativa, civile, ma si trasforma in un grande luna park per il divertimento e il tempo libero. Chi prova a resistere alla privatizzazione del patrimonio viene bollato come un talebano ideologico. Ma è vero esattamente il contrario: è stato un cieco furore ideologico quello che ha scardinato il sistema di valori che la Costituzione aveva costruito intorno al patrimonio".
Città storiche, monumenti, che cosa si è perso e che cosa sta avvenendo?
"Per secoli la forma dello Stato, la forma dell'etica, si è definita e si è riconosciuta nella forma dei luoghi pubblici. Le città italiane sono sorte come specchio, e insieme come scuola, per le comunità politiche che le abitavano. Le piazze, le chiese, i palazzi civici italiani sono belli perché sono nati per essere di tutti: la loro funzione era di permettere ai cittadini di incontrarsi su un piano di parità. Oggi accade il contrario: le attività civiche vengono espulse da chiese, parchi e palazzi storici, in cui ora si entra a pagamento, mentre immobili monumentali vengono privatizzati o trasformati in attrazioni turistiche. Come in un nuovo feudalesimo, le nostre città tornano a manifestare violentemente i rapporti di forza, soprattutto economici. Tutto questo non mette a rischio solo le città di pietra, condannate ad un rapido ed irreversibile declino. Ad essere distrutta è in primo luogo la cittadinanza come condizione morale, intellettuale, politica. La quasi totalità dei nostri desideri e del nostro immaginario è asservita al mercato. Se pieghiamo a questo stesso, unico fine anche il poco che resta libero e liberante ci comportiamo esattamente come il Re Mida del mito e delle favole: ansiosi di trasformare tutto in oro, non ci rendiamo conto che ci stiamo condannando a morire di fame".
Quale dovrebbe essere la funzione culturale del nostro patrimonio, e quale quello della storia dell'arte?
"Mentre è ormai ben chiaro - soprattutto per merito di Salvatore Settis - che la tutela del paesaggio è legata a doppio filo ai diritti fondamentali della persona, come per esempio la salute fisica e mentale, per quanto riguarda il patrimonio una simile consapevolezza non è stata ancora raggiunta. È sacrosanto voler difendere Pompei, gli Uffizi o la Pinacoteca di Brera perché sono 'belli', o anche perché rappresentano la nostra memoria collettiva. Ma forse è più importante fa comprendere che il vero motivo per cui la Costituzione li tutela e per cui noi li manteniamo con le nostre tasse, è che essi sono una scuola di cittadinanza, uno strumento di liberazione culturale, un mezzo per costruire l'eguaglianza in tutte le sue accezioni. In pratica questo significa non solo che il patrimonio (come la scuola) non può essere asservito al mercato, ma anche che la tutela deve essere funzionale alla ricerca e alla sua diffusione, perché la conoscenza è il più importante strumento per costruire la democrazia".
Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo, Minimum fax, Pag 164, euro 12
Come insegnano i principi base dell'analisi territoriale, esiste un metodo sicuro per verificare l'esattezza o meno di certi assunti: andare a vedere. Il TAV, per esempio. La Repubblica, 30 marzo 2013 (f.b.)
Nell’armamentario del buon giornalismo è il primo strumento a portata di mano. A prima vista, anche il più semplice e neutro. Eppure, la domanda «Esattamente, di cosa stiamo parlando?» è spesso sufficiente a far luce su problemi intricati e spinosi. Con risultati, a volte, devastanti. Anche quando il tema è la Torino-Lione e l’interminabile, ingestibile scontro sull’alta velocità in Val di Susa. Una tratta ferroviaria, ha ripetuto nei giorni scorsi il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, in una intervista a La Stampa, che «pone l’Italia al centro dell’asse verticale e di quello orizzontale» dei traffici europei. Di cosa sta parlando, esattamente, Passera? Dell’equivalente ferroviario di una leggenda metropolitana, rispondono, in sostanza, Andrea De Benedetti e Luca Rastello, due giornalisti che hanno appena dedicato un libro alla Torino-Lione e alla sua estensione europea.
Questa estensione, dicono, è puramente immaginaria. L’asse orizzontale, il Corridoio 5, dove l’import export europeo dovrebbe viaggiare sui binari, da Ovest a Est, da Lisbona a Kiev non esiste e, probabilmente, non esisterà mai. Nessuno lo pretende e lo esige a Bruxelles, nessuno lo vuole a Lisbona, Madrid, Lubiana e Budapest. Peraltro, questo trampolino da cui le merci europee dovrebbero lanciarsi per il continente a 250 chilometri l’ora, probabilmente, neppure servirebbe. In particolare, alle merci. Per capire di cosa si stia parlando, De Benedetti e Rastello hanno scelto l’opzione “testimoni oculari”: in altre parole, hanno provato davvero a percorrerlo, il Corridoio 5, in borsa un sacchetto di caffè sottovuoto, prima merce a battezzare il fatidico asse Lisbona-Kiev. Cosa hanno trovato, lo dice il titolo del loro libro (Binario morto, Chiarelettere) che prende il via da un’inchiesta apparsa sulla Domenica di Repubblica nel maggio dell’anno scorso.
Ma fermarsi al titolo non rende giustizia al racconto, da dove risulta che al Corridoio 5 quello che manca sono, troppo spesso, proprio i binari. A partire dall’inizio, da Lisbona e dalle onde dell’Atlantico. Il governo portoghese, nel pieno della crisi economica, ha sepolto qualsiasi progetto di alta velocità. Niente Lisbona, dunque. Ma anche in Spagna non va molto meglio. Di alta velocità si comincerà a parlare a Granada. Ma, verso Barcellona, è un susseguirsi caotico di tratti a uno o due binari, a scartamento ridotto o meno, finché, nella capitale catalana, non si scopre che l’alta velocità, per arrivare al confine con la Francia e ai suoi Tgv non c’è e il governo di Madrid ha scarsissima voglia di spenderci dei soldi.
Insomma, a Ovest della Torino-Lione c’è, in buona sostanza, soltanto la Francia. E a Est? Anzitutto, molti problemi, raccontano De Benedetti e Rastello. Non si è ancora capito come il treno dovrebbe passare sotto Torino, senza comprometterne le falde acquifere. Idem dall’altra parte, oltre Milano, dove c’è da attraversare Vicenza e passare sotto il Carso. E dopo Trieste, alle porte di quello che, nel 2007, Piero Fassino definiva “l’Eldorado” per l’economia italiana? De Benedetti e Rastello non incontrano più problemi, ma, semplicemente, il nulla. I collegamenti ferroviari fra Italia e Slovenia sono soppressi: l’ultimo treno per Lubiana è partito nel dicembre del 2011, senza lasciare, a quanto pare, troppi rimpianti. Gli sloveni, del resto, sembrano più interessati a coltivare i collegamenti con Vienna e la Germania. Dopo di loro, gli ungheresi ai treni non ci pensano neppure. I soldi del Corridoio 5 vengono impiegati per tangenziali e autostrade.
A Bruxelles, nessuno fa una piega: non sta scritto da nessuna parte che quei finanziamenti europei debbano essere impiegati obbligatoriamente per i treni ad alta velocità. D’altra parte, se il punto sono i traffici di merci, andare a 250 chilometri all’ora è antieconomico. «Oltre gli 80-90 chilometri all’ora, i costi che si scaricano sul trasporto sono troppo alti», dicono gli esperti. Per chi non ha seguito da vicino le vicende della Torino-Lione, orientarsi nel racconto di Binario morto non è agevole. Chi è già a Tav 2.0, invece, può capire meglio il senso della risposta alla domanda iniziale. Sgombrato dal tavolo il Corridoio 5, quello di cui stiamo, esattamente, parlando si riduce alla Torino-Lione e, anzi, dopo gli ultimi aggiustamenti di progetto, a un tunnel e 57 chilometri ad alta velocità, collegati alla rete dalle tratte convenzionali già esistenti. Vale la pena? A Rastello e De Benedetti la Tav in Val di Susa non piace, e si vede. Dalla loro parte, però, ci sono i dati. Il traffico passeggeri è talmente moscio, che le ferrovie italiane hanno sospeso i collegamenti Torino-Lione.
Quello merci è in calo costante dalla metà dello scorso decennio. Lo scenario in cui è nata la Tav di Val di Susa — il Corridoio 5 e il boom dei traffici — oggi non esiste. È una sentenza definitiva? Al fondo della crisi più pesante dal dopoguerra, i dati di oggi hanno un valore relativo. In più, le infrastrutture sono strumenti imprevedibili, capaci di crearsi da sole, spesso, il loro futuro. All’Eurotunnel Parigi-Londra non ha creduto, praticamente, nessuno, fino a che non ha cominciato a funzionare. Fuori dalla retorica dell’“asse orizzontale” si potrebbe discutere pacatamente se è questa la scommessa da fare o se non ci sono, invece, infrastrutture più urgenti.
Dal “Coordinamentodelle associazioni ambientaliste del Lido di Venezia" una bellanotizia. Grazie alla collaborazione tra sezione veneziana di Italia nostra e i comitati del Lido di Venezia primo “alto là” alla distruzione di un’incomparabile oasi sopravvissuta alla speculazione edilizia e al Mose
Per gentile concessione dell'Autore pubblichiamo la premessa e le conclusioni del nuovo libro di Vezio De Lucia, che sarà presentato a Roma da P. Berdini e F. Erbani il 10 aprile, h18, alla libreria Feltrinelli
Vezio De Lucia, Nellaa città dolente, Mezzo secolo di scandali urbanistici. Dalla sconfitta di Fiorentino Sullo alle cricche di Silvio Berlusconi, Castelvecchi edizioni, Roma 2013, 256 p., 19€
Il 13 aprile del 1963 è una data fondamentale nella storia del nostro Paese. Quel giorno «Il Popolo», quotidiano ufficiale della Dc, scrisse che nello schema di nuova legge urbanistica presentato dal ministro dei Lavori pubblici Fiorentino Sullo non era «in alcun modo impegnata la responsabilità della Democrazia cristiana». Finì così, ma lo capimmo molti anni dopo, la possibilità di sottrarre le nostre città alla prepotenza della speculazione fondiaria che aveva avuto il via libera alla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Fiorentino Sullo era il più autorevole e brillante rappresentante della Sinistra democristiana e la sua proposta di legge mirava ad abbattere con risolutezza il costo degli alloggi attraverso l’esproprio delle aree edificabili e la loro cessione a prezzi molto inferiori a quelli del libero mercato. Ma gli interessi minacciati – sostenuti dalla Destra in tutte le sue sfumature, dai fascisti ai liberali, e da gran parte della stampa – reagirono duramente diffamando il ministro e accusandolo di voler togliere la casa agli italiani: una pagina vergognosa della nostra vita politica. La Democrazia cristiana, per evitare di trovarsi in difficoltà alle imminenti elezioni politiche del 28 aprile, si schierò con la Destra. La proposta di riforma urbanistica finì su un binario morto e Sullo fu a mano a mano emarginato dalla vita politica. A dare carattere definitivo alla sconfitta contribuì il tentativo di colpo di Stato dell’estate del 1964 (il cosiddetto «Piano Solo») ordito dagli ambienti politici e padronali atterriti dalla proposta di riforma urbanistica.
Nacque allora la «sindrome Sullo», una specie di patologia infettiva che colpisce chi assume posizioni rigorose e razionali in materia urbanistica costringendo i detentori del potere – quelli autentici e in genere incogniti – ad allontanarlo dalla carriera politica. Gli esempi non mancano, penso ad Achille Occhetto, fondatore del Pds poi defenestrato, che nel 1989 tentò di impedire una manovra sulle aree di proprietà Fiat e Fondiaria nella piana di Firenze. Oppure a Renato Soru che nel 2009 non fu confermato nella carica di presidente della Regione Sardegna non essendo condivisa la sua politica di tutela del paesaggio e del patrimonio d’arte e di storia. E a tanti altri, conosciuti e meno conosciuti.
Nonostante la precipitosa caduta di Sullo, in molti continuammo a credere nella riforma. Ci dicemmo che se non era stato possibile assumere subito costumi urbanistici confrontabili con quelli nordeuropei, avremmo potuto accontentarci di un percorso più lento e graduale. Se è vero infatti che con il Piano Solo muore il Centrosinistra riformatore (Guido Crainz), è anche vero che, per almeno tre lustri, si sviluppò quel «processo di riforma» che assicurò buone leggi per l’edilizia pubblica, il recupero del patrimonio storico, la dotazione di attrezzature e servizi, e permise non poche esperienze di buongoverno (Firenze, Bologna e dintorni, i Comuni della Maremma livornese e altri luoghi, anche amministrati dalla Dc). Risultati possibili grazie a sindaci coraggiosi e al movimento sindacale e popolare che, in particolare alla fine degli anni Sessanta, si mobilitò per le riforme, mentre era stato assente al tempo di Sullo, che fu anzi avversato, come vedremo, da un vasto schieramento comprendente ogni ceto sociale.
La crisi, quella davvero irriducibile, esplose più tardi, all’inizio degli anni Ottanta, una crisi che divide la nostra storia recente in due mondi distinti e separati: finisce l’età dell’oro del compromesso socialdemocratico (Eric Hobsbawm) e comincia il periodo della globalizzazione della finanza e dei capitali che cova in sé i germi del disastro esploso nel 2008. Il trionfante neoliberismo è dilagato in tutto il mondo e in Italia ha contaminato anche la cultura e la prassi di gran parte della Sinistra generando persistenti manifestazioni di trasformismo e di disincanto.
L’urbanistica, parente stretta della politica, ha subìto la medesima sorte. Nuove leggi e nuovi istituti hanno smantellato i risultati ottenuti in precedenza, il governo pubblico del territorio è stato progressivamente azzerato. Alla pianificazione è stata sostituita la negoziazione. I profani della materia restano increduli se si racconta che nel 1977 la legge Bucalossi aveva introdotto l’istituto della concessione edilizia, cioè il principio che la trasformazione del territorio appartiene al potere pubblico, il quale, a determinate condizioni e conformemente alle previsioni degli strumenti urbanistici, può farne oggetto di concessione onerosa a soggetti privati. Esattamente il contrario del furore proprietario e individualistico che anima il pensiero neoliberista e ancora di più il berlusconismo dei «padroni in casa propria»: la proprietà avanti a tutto, la proprietà purchessia, quella delle grandi immobiliari e quella miserabile degli abusivi. In diciotto anni sono state approvate tre leggi per il condono edilizio: nel 1985, governo Craxi; nel 1994, primo governo Berlusconi; nel 2003, secondo governo Berlusconi. Fino al piano casa del 2009, che è una sorta di condono preventivo e generalizzato.
Silvio Berlusconi e il berlusconismo annidato in ogni dove hanno tenacemente operato per vilipendere la disciplina urbanistica. Nel 2008, inaugurando un congresso di architetti, il ministro Sandro Bondi, fedele interprete del presidente del Consiglio, dichiarò che «le città d’arte furono costruite senza leggi urbanistiche, leggi che una volta introdotte hanno saputo produrre solo bruttezza e squallore nelle nostre città». Ma la svalutazione dell’urbanistica è generalizzata. A quarant’anni dall’istituzione delle Regioni dobbiamo riconoscere che le speranze di allora sono state tradite e all’iniziale competizione per il buongoverno si è sostituita la tendenza all’omologazione verso il basso. La pianificazione del territorio è un argomento inesistente nei programmi politici. I due sindaci di Sinistra la cui elezione aveva rappresentato nel 2011 una bella novità – Giuliano Pisapia a Milano e Luigi de Magistris a Napoli – proprio nell’amministrazione dell’urbanistica stanno assumendo atteggiamenti che poco hanno a vedere con gli impegni dichiarati in campagna elettorale. Né si ha notizia di nuove e significative esperienze.
Alla fine è successo che proprio chi era stato in prima linea per la riforma urbanistica – quella radicale e quella graduale – si è sentito obbligato a difendere con le unghie e con i denti la legge del 1942 sapendo che dalla politica e dalle istituzioni degli ultimi lustri sarebbero venuti solo peggioramenti.
Questo libro racconta storie e cronache degli ultimi sessant’anni in forma cronologica o quasi (più o meno un decennio per capitolo). Storia e cronache che riguardano in prevalenza energumeni del cemento armato, paesaggi sventrati, alluvioni, terremoti, tanta incompetenza, non trascurando tuttavia fatti e persone da classificare in controtendenza. Non è un’esposizione completa perché illustra in particolare vicende e circostanze che ho conosciuto meglio, e talvolta vissuto. Ne consegue un eccesso di passioni e di esperienze soggettive dalle quali uno storico dovrebbe rifuggire. Ma sono troppo di parte per essere uno storico. Il carattere eterogeneo del libro è confermato dall’ultimo paragrafo (L’invalicabile linea rossa) che tratta di urbanistica operativa proponendo un provvedimento di spietata radicalità per bloccare le dinamiche di dissipazione del suolo che hanno assunto la dimensione del cataclisma e come tali vanno affrontate.
Alcuni degli argomenti trattati li ho già esposti altrove. Con una punta di civetteria Antonio Cederna si vantava di scrivere sempre lo stesso articolo: io sono stato allievo di Cederna – oserei dire l’allievo prediletto – e da lui ho imparato non solo che non ci si deve vergognare di ripetere (ma non è mai una ripetizione pedissequa) fatti e concetti in cui crediamo, ma che anzi abbiamo il dovere di farlo. È necessario tornare su certe vicende soprattutto per comprendere che la crisi profonda in cui siamo immersi è stata generata dalle scelte mancate o sbagliate del nostro passato.
Questo libro deve molto a eddyburg.it, il sito fondato e diretto da Edoardo Salzano che ad esso dedica il meglio delle sue energie. Tratta di urbanistica, società, politica e argomenti che rendono bella, interessante e piacevole la vita. È un riferimento obbligatorio per chi si occupa di città e territorio, provvisto com’è di un archivio di ventimila documenti ma soprattutto perché ricco di commenti e interpretazioni critiche relative alla politica (non solo urbanistica) di Destra e di Sinistra.
L’invalicabile linea rossa
L’ultimo paragrafo del libro non è di storia, né di riflessioni sulla storia ma cerca di mettere a profitto la storia e le riflessioni fin qui esposte per rispondere alla domanda: che si può fare per salvare il salvabile? Nelle pagine precedenti abbiamo descritto le forme abominevoli che ha assunto lo sviluppo urbanistico nel nostro Paese. È un problema non solo di quantità, anche di forma. Nel senso che le quantità realizzate hanno risposto, seppure con grandi sprechi, a bisogni effettivi di alloggi, di infrastrutture e spazi per la produzione e i servizi. Ma è la disposizione dei manufatti prodotti che ha assunto carattere criminale. Mi riferisco in particolare alle più recenti espansioni urbane, quelle degli ultimi trent’anni, realizzate con densità irrisorie o peggio ancora fatte di immobili abitativi e produttivi disseminati in campagna. Se le stesse cose fossero state costruite con qualche criterio – per esempio obbligando a densità minime ragionevoli – si sarebbe risparmiata almeno la metà delle migliaia di ettari ogni anno sottratti alla campagna o alla natura e trasformati nell’infamia che ci avvolge. Nell’autunno del 2012, Mario Catania, ministro dell’Agricoltura del governo Monti, ha proposto un disegno di legge per il contenimento del consumo di suolo, faticosamente contrattato con le Regioni, basato su procedimenti a cascata, con esiti imprevedibili e tempi lunghissimi. In sostanza lo Stato propone, ma alla fine a decidere sono Regioni e Comuni. Che è come chiedere al gatto di Pinocchio di tenere a bada la volpe, o viceversa. Intendiamoci, non tutte le Regioni e non tutti i Comuni sono uguali. So bene che in certi posti gli spazi aperti sono in qualche misura tutelati, soprattutto nel Centro-Nord. Viceversa, nel Mezzogiorno, dal Lazio in giù – Lazio e Roma da questo punto di vista sono profondo Sud – lo spazio aperto è considerato sempre e comunque edificabile, farsi la casa in campagna un diritto inalienabile, e chi ha provato a metterlo in discussione è stato colpito dalla sindrome di Sullo e rapidamente emarginato dalla vita politica.
Non è perciò convincente la proposta Catania, troppo propensa al pluralismo istituzionale per perseguire efficacemente l’obiettivo, che dovrebb’essere prioritario, di imporre le misure più severe laddove maggiore è la sregolatezza: ve le immaginate Campania e Lazio prime della classe che bloccano le espansioni e reprimono l’abusivismo?
Servono soluzioni radicalmente diverse. E urgenti. Continuare con l’attuale ritmo di dissipazione del territorio, anche per pochi anni, in attesa che le Regioni si convertano al buongoverno, significherebbe toccare il fondo, l’annientamento fisico dell’Italia, un disastro non confrontabile con crisi come quelle economiche e finanziarie, più o meno lunghe, più o meno gravi, più o meno dolorose, ma dalle quali infine si viene fuori. Il saccheggio del territorio è invece irreversibile.
Allora che fare? Per ora un sogno a occhi aperti: un governo con persone sensibili, unitariamente impegnato in un’azione culturale e politica di convincimento dell’opinione pubblica, che propone un provvedimento statale senza misericordia – in attuazione dell’articolo 9 della Costituzione – che azzera tutte le previsioni di sviluppo edilizio nello spazio aperto e obbliga a ridisegnare gli strumenti urbanistici indirizzandoli alla riqualificazione degli spazi degradati, dismessi o sottoutilizzati attraverso interventi di riconversione, ristrutturazione, riorganizzazione, rinnovamento, restauro, risanamento, recupero (ovvero di riedificazione, ripristino, riparazione, risistemazione, riutilizzo, riordino, rifacimento: la disponibilità di tanti sinonimi aiuta a cogliere la molteplicità delle circostanze e delle operazioni cui si può mettere mano). Non si possono escludere situazioni eccezionali, irrisolvibili senza occupare lo spazio aperto (come impianti produttivi connessi a particolari caratteri dei suoli). In queste circostanze si deve fare ricorso a norme altrettanto eccezionali, per esempio provvedimenti legislativi regionali ad hoc.
Si aprirebbe così una nuova stagione, diventerebbe fondamentale un nuovo strumento urbanistico formato semplicemente da una mappa con un’insormontabile «linea rossa» che segna il confine fra lo spazio edificato e quello rurale e aperto. Una linea che rappresenta nuove e invalicabili mura urbane. All’interno delle quali convivono quasi ovunque le due principali componenti della città contemporanea: il centro storico e l’espansione moderna. Per centro storico intendendo l’insieme del patrimonio insediativo che si è stratificato nei secoli, da quelli più remoti fino alla metà circa del secolo passato (intorno alla fine della Seconda Guerra Mondiale). È la porzione più piccola e preziosa dello spazio urbano – ormai intorno al cinque per cento della superficie urbanizzata totale – e perciò da tutelare rigorosamente.
L’espansione moderna comprende invece il resto della città costruita negli ultimi settant’anni. In essa c’è di tutto. Pensando a Roma: gli intensivi degli anni Cinquanta e Sessanta, l’Ina Casa, i quartieri Peep e quelli abusivi, impianti piccoli e grandi per la produzione di beni e servizi, grande e piccola distribuzione commerciale, parchi e giardini, attrezzature sportive, ville e villette, e lo sterminato sprawl legale e illegale degli ultimi anni. Un territorio che ha continuato impunemente a espandersi, e ormai misura intorno al 95 per cento dello spazio urbanizzato, determinando ovunque un aggravamento dei costi di gestione del sistema insediativo e un grave peggioramento delle condizioni di vita.
Un’espansione siffatta non è più tollerabile, dev’essere bloccata.
Attenzione, quello che sto proponendo è un percorso molto meno terribile di ciò che sembra e non mancano gli esempi di recenti strumenti urbanistici a zero consumo del suolo (il piano regolatore di Napoli e quello di Cassinetta di Lugagnano, il piano territoriale della Provincia di Torino, quello della Provincia di Caserta). Chi conosce le condizioni attuali delle città italiane sa che la strategia della invalicabile «linea rossa» non è un’utopia e stop al consumo del suolo non significa sviluppo zero. Chi conosce le condizioni attuali delle città italiane sa che i bisogni nuovi e pregressi da soddisfare sono ancora enormi – anche se diversi da luogo a luogo – e sarebbe una follia pensare di limitarli. Ma gli spazi necessari possono essere agevolmente reperiti nell’ambito delle aree già compromesse, sottoutilizzate o dismesse. Mi limito a riprendere pochi dati dal piano territoriale della Provincia di Caserta approvato nel luglio 2012. Nei 104 comuni di quella provincia mancano decine di migliaia di alloggi e un numero sconfinato di attrezzature e di luoghi per la produzione di beni e servizi. Lo spazio necessario per tutto ciò ammonta a circa tremila ettari. Ma è stato accuratamente calcolato che il territorio malamente urbanizzato e sprecato per edificazione legale e illegale con densità irrisorie – intorno ai dieci abitanti per ettaro – si estende per oltre tredicimila ettari. All’interno dei quali vanno quindi reperiti i tremila ettari indispensabili per tutte le cose che mancano.
Non è un’impresa impossibile né velleitaria. Sapendo, tra l’altro, che la strategia proposta è l’unica capace di dare risposte sostenibili non solo dal punto di vista ambientale ma anche dal punto di vista economico e finanziario. Come prendere due piccioni con una fava: i nuovi interventi localizzati all’interno dell’attuale sistema insediativo servono a soddisfare bisogni accertati, al tempo stesso agiranno come focolai di riqualificazione.
Concludo tornando all’inizio. Nel 1963, la defenestrazione di Fiorentino Sullo scatenò un assalto al territorio mai visto prima. In cinquant’anni sono stati sfigurati cinquemila anni di civiltà insediativa. Il Bel Paese non c’è più, ne restano sparsi brandelli. Lo scempio è avvenuto con la connivenza della stragrande maggioranza degli italiani: accanto agli stati maggiori della speculazione hanno operato le fanterie dei piccoli e piccolissimi proprietari di case e villini, capannoni e fabbrichette. I detentori «del monopolio di accumulazione del plusvalore fondiario di speculazione» hanno saputo «mobilitare psicologicamente milioni di cittadini insinuando il sospetto che il pericolo riguarda la vita di ogni giorno del cittadino medio»: sono parole di Fiorentino Sullo riferite alla sua tragica vicenda, ma valgono anche per la stagione di Silvio Berlusconi.
Neppure la terribile crisi economica degli ultimi anni – che proprio nelle città si è manifestata con rovinosa evidenza – ha frenato i disegni predatori, come sa chi segue le cronache di grandi e piccole città italiane. Ma al tempo stesso l’insofferenza e la protesta per la condizione urbana hanno raggiunto una diffusione mai vista prima. Come se le crescenti difficoltà nella vita di ogni giorno avessero finalmente aperto gli occhi a milioni di cittadini inducendoli a vedere per la prima volta – accanto ai disservizi, agli sprechi, alle inefficienze – anche la degradazione dello scenario fisico che ci circonda, a restarne disgustati e a reagire.
Se non ci sono strumenti e risorse per porre rimedio a decenni di sviluppo urbanistico insensato, nulla impedisce intanto di dire basta. Approvando subito una disposizione per fermare lo sperpero del territorio, una disposizione che assuma oggi la stessa importanza che cinquant’anni fa doveva avere la riforma di Fiorentino Sullo. Ma stavolta non dovremmo mancare l’obiettivo, e il consenso è troppo vasto perché qualcuno pensi a un colpo di Stato.
Le elezioni incombenti a New York sono occasione per riflettere sia sul ruolo trainante della grande città oggi, sia su una idea di composizione funzionale e culturale inedita. Corriere della Sera, 29 marzo 2013 (f.b.)
I repubblicani schierano il proprietario dei supermercati Gristedes, un finanziere, il presidente della Subway, la metropolitana, un paio di politici locali. Forse anche il capo della polizia Raymond Kelly. I democratici, dopo la rinuncia di Hillary Clinton, puntano su una pattuglia di politici di professione con Christine Quinn, la speaker del consiglio comunale, la donna simbolo della comunità gay, data per favorita.
Primarie a settembre, elezione del nuovo sindaco di New York a novembre, ma molti, più che appassionarsi alla contesa, si chiedono che ne sarà della rinascita economica della città senza la guida di Michael Bloomberg che, dopo un regno durato tre mandati, 12 anni, non può più essere rieletto. Capitale dell'arte, del teatro, del turismo, della politica internazionale con l'Onu, New York doveva gran parte della sua ricchezza alla finanza di Wall Street e alle grandi banche di Manhattan: un mondo travolto e ridimensionato dalla crisi esplosa nel 2008. Da vero sindaco-manager, Bloomberg ha favorito lo sviluppo di nuove vocazioni di una città che, un tempo grande porto e centro tessile, ha già vissuto varie trasformazioni.
Il sindaco ha puntato sulla «città verde» dell'edilizia ecosostenibile e degli otto milioni di alberi da piantare, ma soprattutto su «Silicon Alley»: quelle aziende dell'economia digitale che, cresciute nell'area di Chelsea, ma anche a Brooklyn (software e produttori di stampanti 3D) e perfino nel Bronx, ormai compete ad armi pari con la Silicon Valley californiana. Molti scoprono con sorpresa che nomi noti dell'economia digitale come Foursquare, Kickstarter, Zynga, DoubleClick, Tumblr, hanno le loro radici a New York e non in California. O che Google, fuori da Mountain View, ha una seconda «testa pensante», forte di oltre tremila cervelli, proprio a Manhattan.
La trasformazione di un'area di macellerie industriali, fabbriche di abiti e di biscotti in polo tecnologico d'avanguardia è il cuore del racconto di Tech and the City, un libro appena pubblicato da Maria Teresa Cometto e Alessandro Piol. Raccontando la storia delle start up newyorchesi la giornalista del Corriere e il venture capitalist fanno ben più che indicare una strada per i ragazzi italiani di talento che vogliono provare a costruire — in Europa o a New York — la loro start up. Il libro, pubblicato anche negli Stati Uniti, racconta l'avventura professionale e umana di tanti geni tecnologici spesso arrivati all'economia digitale nei modi più strani (Chris Dixon di Hunch alla Columbia University aveva studiato filosofia, Kevin Ryan di DoubleClick racconta di essere stato accettato a Yale solo perché in Italia aveva imparato a giocare bene a calcio), ed esplora perfino fenomeni curiosi come quello dei giovani che «si inventano una start up per rimorchiare al venerdì sera».
Ma nel libro c'è soprattutto una lezione per la politica nella descrizione di come il sindaco-manager ha saputo tenere insieme interesse pubblico e sostegno dell'imprenditorialità sviluppando un ecosistema fatto di nuova istruzione scientifica, creazione di forme di apprendistato digitale e infrastrutture tecnologiche.
Come ha ben intuito da anni chiunque si oppone all'appiattimento implicito in certe idee di città moderna, spazi fisici e virtuali autoritari sono da respingere. Financial Times, 27 marzo 2013 (f.b.)
Titolo originale: New York’s wonder shows planners’ limits – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
I lettori di questo giornale in visita a New York di solito girano in centro, fanno compere, si spingono fino a Wall Street, in macchina o in metropolitana. Quando ho un po' di tempo in più, io vagabondo in tutta quell'area senza una destinazione particolare. Greenwich Village, Chelsea, la Bowery e il Lower East Side sono ricche di architetture curiose, negozi particolari, bar affascinanti, strati su strati di storia sociale americana. Non scopro certo nulla di particolare, niente che vada oltre quanto osservato brillantemente cinquant'anni fa da Jane Jacobs nel suo La Vita e la Morte delle Grandi Città. Un libro nato dalla battaglia contro Robert Moses, responsabile statale e cittadino delle grandi opere che voleva costruire anche una Lower Manhattan Expressway, superstrada sopraelevata che portasse gli automobilisti direttamente da Queens al New Jersey attraverso il ponte di Williamsburg e l'Holland Tunnel. Distruggendo nel suo passaggio interi quartieri e la loro storia.
La Jacobs raccontava, attraverso meticolose osservazioni, come la vita delle città fosse il prodotto di una serie di interazioni sociali difficili da programmare. Vivere in un ambiente denso, lungi da rappresentare un male, era invece fonte di vitalità. Vie brevi, articolate su parecchi isolati, consentivano ad abitanti e passanti di imboccare vari percorsi, fare varie esperienze. La Jacobs spiegava anche perché le città fortemente progettate di tutto il mondo, come Canberra, Brasilia, Chandigarh o anche la città giardino di Letchworth, sono tanto monotone. E i suoi lettori capivano come tutte le superstrade realizzate da Moses avessero fortemente minato la vitalità dei quartieri periferici di New York.
La battaglia fu vinta: l'idea della Lower Manhattan Expressway venne abbandonata. Ma si vinse anche una assai più importante guerra, quando Moses, probabilmente la persona più potente a New York per mezzo secolo, alla fine fu destituito nel 1968. Le ruspe che avevano abbattuto la Penn Station si fermarono davanti alla Grand Central, e gli effetti non si limitarono ad una sola città. Nell'arco di un decennio, finiva tutta l'epoca del predominio di certa architettura modernista. I progetti urbani si fecero più modesti, e da attuarsi in modo incrementale.
Se le interazioni sociali impreviste stanno alla base di una città vitale, stanno anche alla base di organizzazioni altrettanto vitali. Non credo proprio che Marissa Mayer di Yahoo abbia mai conosciuto Jane Jacobs, e probabilmente questa alta dirigente di impresa tecnologica avrebbe avuto poco da dirsi con la militante di quartiere. Ma esistono comunque evidenti analogie fra la decisione di Yahoo di abbandonare le strategie di telelavoro, e il rifiuto della Jacobs di certa piatta progettazione urbana.
Anche gli entusiasti delle strutture virtuali, così come i progettisti della città razionalista, vorrebbero imporre una certa forma organizzativa a sistemi complessi che riescono a comprendere solo in parte. Il telelavoro, è l'equivalente cyber-spaziale di uno schematico corridoio di uffici, ciascuno con la porta chiusa. Oggi gli architetti che progettano uffici hanno abbandonato questa idea di corridoio, per ambienti aperti in cui le relazioni non hanno bisogno di passare per l'apertura di una porta, né per una telefonata o email. “Comunicazione e collaborazione sono importanti dobbiamo lavorare fianco a fianco” spiega una circolare interna di Yahoo, che potrebbe anche essere stata scritta dalla Jacobs.
La Jacobs suscitava le ire degli urbanisti di allora, convinti che dai loro progetti potesse nascere un mondo razionale, popolato da quelle facce sorridenti che si vedono nei disegni degli architetti. Anche Yahoo si attirerà critiche del genere da parte dei tecnofili, quelli che hanno difficoltà a distinguere tra un'amicizia via Facebook e il contatto fisico. Gente come Ray Kurzweil, quello che ha inventato il riconoscimento ottico del carattere e il passaggio dalla voce al testo scritto. Il suo ultimo libro, How to Create a Mind, ha come sottotitolo la promessa decisamente poco modesta di “rivelare i segreti del pensiero umano. Kurzweil sostiene che questo pensiero sia basato su un numero di schemi definito e riconoscibile. Ne segue che le macchine potranno – e abbastanza presto, esattamente nel 2029 – sostituirsi all'intelligenza umana. Basta avere sottomano una specie di grossa enciclopedia di schemi di funzionamento.
Anche gli urbanisti modernisti erano convinti di poter elencare tutte le funzioni di una città, e organizzarle ciascuna per spazi definiti. Allo stesso modo di Robert Moses, oggi Kurzweil certamente capisce una parte del pensiero umano e delle esigenze contemporanee, ma non basta. La prospettiva scelta da Jane Jacobs era molto più sottile e sfumata sui comportamenti quotidiani. E basta una passeggiata per le zone di Manhattan dove abitava e che tanto amava, per capire quanto poco corrispondano a certe idee dei programmatori, di ieri come di oggi.