loader
menu
© 2024 Eddyburg

Dopo 17 anni dall’inizio dei lavori e 6 miliardi di euro già spesi, sabato 3 ottobre 2020, le paratie del Mose sono state azionate, seppur ancora in modalità test, perché l’opera non è stata completata.

L’operazione di innalzamento delle barriere ha consentito al livello dell’acqua in laguna di fermarsi a 73 cm. sul l.m.m., lasciando quindi all’asciutto l’isola, mentre in mare aperto il livello segnava 120 cm.

Parlare del successo del MoSE, come le istituzioni si ostinano a fare, senza entrare nel merito delle criticità intrinseche all’opera, al rapporto costi e benefici o ancora peggio rispetto agli obiettivi che l’opera si prefigge, cioè di ridurre drasticamente l’allagamento di Venezia in condizione di acqua alta ricorrente, é un insulto al sapere scientifico e all’interesse di Venezia bene comune, nonché della comunità che la abita.

Eddyburg ha raccolto nella cartella MoSE molti articoli che permettono di ricostruire la costante critica al sistema MoSE espressa da scienziati, esperti e comitati: evidenziandone i limiti e i problemi tecnici inerenti all’opera in se; sottolineando gli impatti ambientali che questa mastodontica costruzione ha provocato alla Laguna; riproponendo le soluzioni alternative che potevano e ancora possono essere messe in campo per la salvaguardia della Laguna e della città; e non dimenticando l’enorme spesa pubblica sostenuta per la realizzazione di un’opera che non è in grado di assolvere il problema dell’acqua alta ricorrente e ha alimentato un sistema di corruzione e illeciti.

Qui suggeriamo una breve raccolta degli articoli più significativi:

Per un approfondimento sull’alternativa al Mose si leggano gli articoli “Venezia, progetto MOSE: la vera alternativa” (2018) di Armando Danella e “Ancora il MoSE, e l’alternativa” (2019) di Cristiano Gasparetto.

Alcuni articoli per approfondire il rapporto tra MoSE e politica, inclusi I finanziamenti: “Il Mose, storia di un conflitto tra interesse privato e natura” (2005) di Edoardo Salzano, “Mose, la storia di un monopolio che inizia trent'anni fa” (2017), "MoSE-CVN: ieri e oggi. Come si dirottano i finanziamenti"(2017) e “Mose: il buco nero dei finanziamenti pubblici” (2018) di Alberto Vitucci.

Infine un approfondimento sugli errori e dubbi tecnici dell’opera: “MoSE: prima che sia troppo tardi” (2010) di Armando Danella, “MoSE. L’ingegnerizzazione della salvaguardia di Venezia” (2017) di Paolo Cacciari, un’analisi dell'ideologia, delle strategie, degli strumenti amministrativi e tecnici, grazie ai quali la salvaguardia della Laguna di Venezia si è tradotta nella sua distruzione e in un gigantesco affare per pochi.

Dopo 54 anni dall’ “Acqua granda” del 4 novembre 1966 e dopo 11 mesi dalla seconda alta marea eccezionale di sempre - 1,87 cm. sul l.m.m. - del 12 novembre 2019, dopo 17 anni dall’inizio dei lavori, quasi 6 miliardi già spesi - di cui uno in corruzione - oggi le paratie del Mose, in quello che è stato definito dal Provveditore alle Opere Pubbliche C. Zincone come uno stress-test, sono state messe in funzione.

Per effetto della barriera creatasi con le 78 paratie tra Laguna e il mare, al mareografo di Punta della Dogana la marea si è fermata a 73 cm. sul l.m.m., lasciando all’asciutto Piazza San Marco e tutta la città, mentre in mare aperto il livello segnava 120 cm.


Gli altri test del sistema Mo.S.E., con tutte le paratoie alle tre bocche di porto in azione (il 10 luglio e l’11 settembre scorsi) erano stati effettuati in situazione di “morto d’acqua”, senza vento e mare mosso e nessun stress per le dighe; oggi invece era prevista un’acqua alta sostenuta, con forte vento di scirocco, fino a 135 cm. sul l.m.m., e l’effetto barriera ha funzionato.

Moderata soddisfazione da parte della Commissaria Spitz e della Provveditrice alla Opere Pubbliche, che ha subito chiarito che si trattava di un test: infatti domani e lunedì, quando sono previsti 115 e 110 cm. sul l.m.m. le paratoie non saranno attivate, lasciandoci a “passerelle e stivali”.

La quota di progetto per la messa in funzione del sistema è di 110 cm. sul l.m.m, ma fintantoché le opere non saranno concluse (mancano gli apparati elettromeccanici definitivi) e collaudate, le dighe saranno attivate, in modalità appunto di stress-test, solo con una previsione di almeno 130 cm. sul l.m.m..

E’ evidente che la lobby del Mo.S.E. e i politici che hanno sempre sostenuto la grande opera si stanno gestendo l’evento come prova che il sistema Mo.S.E. funziona e che è in grado di salvare Venezia.

Noi ribadiamo le innumerevoli criticità del sistema Mo.S.E, i cui lavori sono iniziati senza un progetto esecutivo (con progetto definitivo ed esecutivi per stralci), con Valutazione di Impatto Ambientale negativa ed escludendo ogni confronto con altri progetti meno costosi e più efficaci, con costi di manutenzione esorbitanti, intorno ai 100 milioni di euro l’anno.

La criticità più importante è riferita alla risonanza subarmonica delle paratie: e cioè in situazioni meteo-marine particolari, importanti, ma non estreme, con onde alte 2,5 m. e con una frequenza di 8 secondi, che non era la situazione meteomarina di questa mattina, le paratie, che sono affiancate l’una all’altra, cominciano ad oscillare e a diventare instabili, rendendo vano l’effetto barriera.

Ma il limite più importante del sistema, che ci fa sostenere che non salverà Venezia e la sua Laguna, è l’innalzamento dei livelli del mare.

Saranno i cambiamenti climatici ad affondare il Mo.S.E.


Il Mose è stato ideato per funzionare qualche volta l’anno e per maree oltre i 110 cm. sul l.m.m., basandosi (in sede di progetto definitivo del 2003) su previsioni errate (già nel 1995 l’IPCC diceva ben altro): su una previsione al 2100 di un innalzamento del medio mare di soli 22 cm. - 17 per eustatismo e 5 per subsidenza -.

Come stiamo vedendo in questi ultimi anni di eventi meteorologici estremi, purtroppo, e per nessuna o quasi inversione di rotta sul sistema economico/produttivo basato sui combustibili fossili che producono gas da effetto-serra, l’innalzamento dei mari sarà nei prossimi decenni molto superiore.

Le paratie del Mo.S.E dovranno essere in funzione centinaia di giorni l’anno, separando per troppo tempo il mare dalla Laguna, provocando la morte biologica dell’ecosistema e facendo morire le attività portuali.

É per questo che purtroppo la soddisfazione odierna di girare per la città all’asciutto o il trionfalismo dei fans del Mo.S.E., si riveleranno effimeri in pochi anni.


Ribadiamo la necessità di istituire una Authority indipendente che analizzi le criticità del Mo.S.E., che vari un piano, condiviso con la popolazione, per combattere i cambiamenti climatici, che riguarderanno presto non solo la Laguna, ma l’intero Alto Adriatico.

Pensiamo al ripristino della morfologia lagunare, bloccando i nuovi scavi di canali navigabili per ridare equilibrio idrogeologico ed idrodinamico alla Laguna.

Riconsideriamo gli interventi per insule, con l’intento di rialzare i piani di calpestio delle fondamenta ed il rialzo dei piani terra degli edifici.

Imponiamo finanziamenti per la ricerca indipendente su interventi di immissione di fluidi negli strati geologici profondi, volti al sollevamento del sottosuolo lagunare veneziano: studi sull’applicazione di tecnologie esistenti all’area lagunare che non sono mai stati fatti, proprio per privilegiare il Mo.S.E.

E soprattutto chiudiamo la pagina nera della concessione unica al Consorzio Venezia Nuova per tutti i lavori in Laguna.

Il monopolio per gli studi, le sperimentazioni, le progettazioni, i lavori e pure i controlli è stata la causa del più grande scandalo del secolo, con un miliardo di € sottratti alle casse dello Stato, proprio per far approvare e proseguire con un progetto costoso, dannoso per l’ambiente e sbagliato e che si rivelerà inutile di fronte ai cambiamenti climatici, nonostante l’effimero successo del test di oggi.

perUnaltracittà, 20 novembre 2018. L'acqua alta di ottobre, la quarta più alta dopo quella del 1966, è usata per rilanciare il sostegno al MoSE, un'opera che contravviene tutte le regole ed è stata criticata ad oltranza per la sua incapacità di risolvere il problema di Venezia. Qui il link all'articolo. E riferimenti. (i.b.)

Per un' approfondimento sull'alternativa al Mose si veda l'articolo "Venezia, progetto MOSE: la vera alternativa" di Armando Danella, di Ambiente Venezia, uno dei maggiori conoscitori critici della folle avventura del progetto MOSE.

Ricordiamo inoltre l'eddytoriale 174, nel quale abbiamo raccontato la storia vergognosa del MoSE, degli errori clamorosi che furono compiuti nella scelta di quella soluzione, delle ragioni perverse per cui altre soluzioni, migliori da tutti i punti di vista, furono scartate, del gigantesco edificio corruttivo che ha permesso di realizzarsi. E dei costi che la collettività aveva pagato e avrebbe continuato a pagare per un’opera che giù allora appariva inutile e dannosa. Armando Danella, nell'articolo sopracitato riprende e completa la narrazione della triste vicenda. La arricchisce con un suggerimento che condividiamo pienamente, e che qui riprendiamo testualmente:
«Dal momento che la sua [del MOSE] non funzionalità si potrà constatare solo in futuro ad opera ultimata, bisogna prefigurare un danno erariale a fecondità ripetuta mettendo sotto sequestro cautelativo il patrimonio di tutti quei soggetti, politici e tecnici, che con la loro firma su specifici documenti (documentazione depositata dal Comune di Venezia presso tutte le istituzioni interessate all’iter procedimentale del Mose) hanno contribuito a far sì che il Presidente del Consiglio Prodi e parte del suo governo respingessero le proposte alternative indicate dal Comune di Venezia nel 2006».
Per un'ampia analisi dell'ideologia, delle strategie, degli strumenti amministrativi e tecnici, grazie ai quali la salvaguardia della Laguna di Venezia si è tradotta nella sua distruzione (e in un gigantesco affare per una banda di pescicani) si legga l'articolo di Paolo Cacciari "MOSE. L’ingegnerizzazione della salvaguardia di Venezia".

Qui il link alla cartella dedicata al Mose, con tutti gli articoli raccolti dopo il 2013. Per quelli precedenti purtroppo occorre attendere un paio di mesi, quando saremo in grado di metterli a disposizione di nuovo.


E’ dimostrato che il MoSE (il meccanismo di dighe fisse e paratie mobili) progettato per difendere Venezia dalle alte maree non funzionerà e comunque, col climate change non servirebbe a nulla. Eppure continuano a progettare camuffamenti dette "opere di inserimento paesaggistico". Oltre al danno la beffa. (a.b.)

Per saperne di più su queste opere si legga intanto "La mostra della vergogna" in attesa di un nostro aggiornamento.

Fonte: nell'immagine le opere di inserimento architettonico a Malamocco (Spalla Sud e Nord), tratte dagli elaboratori ufficiali, qui accessibili.

la Nuova Venezia. Prosegue infaticabile la campagna di conquista del consenso della banda CVN. Per un'opera criminale per la distruzione della Laguna, continuano a spendere i nostri soldi per tentar di coprire il delitto. (e.s.) Con riferimenti
Un nuovo faro. Passeggiate e aree verdi, ormeggi. Un muro «paraonde» costruito con i massi della diga demolita. Alcuni degli interventi di compensazione paesaggistica previsti per il progetto Mose nell'area della bocca di porto di Chioggia. Un lavoro affidato a Iuav nel lontano 2004 - ma limitato agli aspetti architettonici - adesso ripreso. E per la prima volta presentato ieri nella sala convegni di Thetis nell'ambito del «confronto pubblico» previsto dalla nuova legge sugli appalti. Un confronto che prima non c'era mai stato. E che adesso comincia un nuovo percorso, almeno sulle opere di compensazione.

Seduti intorno allo stesso tavolo il commissario straordinario del Consorzio Giuseppe Fiengo, il provveditore Roberto Linetti e i suoi funzionari, la rappresentante della Soprintendenza Chiara Ferro. E il rettore dell'Iuav Alberto Ferlenga, all'epoca progettista degli interventi «compensativi». Per la spalla Nord della bocca di Chioggia viene illustrata la proposta dell'architetto Aldo Aymonino. I blocchi in cemento sono in qualche modo ricoperti da verde e pietrame, con varchi di ingresso per i pedoni e le bici. Il nuovo faro e la piattaforma che va «sistemata» dal punto di vista paesaggistico, gli ormeggi. Inizi di dialogo, apprezzati da una parte consistente del mondo ambientalista, a cominciare da Venezia Cambia e Stefano Boato. Resta sullo sfondo il grande «Convitato di pietra».
Il Mose, contestato da anni, adesso giunto a buon punto nella sua realizzazione ma con l'emergere di sempre più gravi criticità e problemi tecnici. «Chiediamo un confronto con esperti indipendenti su tutte le cose che non funzionano», dicono i comitati. Fiengo e Linetti, insieme dopo una stagione di polemiche a distanza, aprono al confronto. «Intanto parliamo di questi interventi», dicono. In prima fila c'è anche il sindaco di Chioggia, il Cinquestelle Alessandro Ferro. Da sempre critico sul Mose, unico ad aver votato contro in Comitatone alla proposta di spostare le grandi navi a Marghera. Ferro espone le richieste della sua amministrazione e conclude: «A questo punto speriamo che il Mose funzioni. Allora diventerà il nostro orgoglio».
Si parla anche degli interventi in corso per l'inserimento architettonico e le compensazioni della grande opera, imposte dall'Unione Europea. Nella bocca di Chioggia il recupero del Forte San Felice, e il trapianto di fanerogame per «mitigare» gli effetti degli scavi e dell'asporto di milioni di metri cubi di fanghi, sostituiti dal cemento. Ultimato l'ampliamento delle aree Sic sulla spiaggia di Ca' Roman e la riqualificazione del bacino del fiume Lusenzo. Restano gli interventi critici per la «riqualificazione dei cantieri» nell'area di Ca' Roman. Opere che dovrebbero in qualche modo «compensare» l'ambiente degli sfregi già fatti con i cantieri e i lavori della grande opera.
Un cammino partito tardi, perché negli anni del monopolio del Consorzio i dibattiti non erano molto aperti su questi temi. La novità di ieri è dunque l'avvio del confronto, avviato per la prima volta tra i vertici del Mose, i progettisti e i cittadini. «Una serie di incontri che andranno avanti», assicura il commissario Fiengo. Intanto i lavori del Mose battono il passo. Per completarli sono necessari non soltanto soldi. Ma anche certezze politiche che per il momento non arrivano. Prossimo step, la conclusione della posa delle paratoie a Chioggia e San Nicolò. Quest'ultima prevista per la fine
dell'anno

Riferimenti

Si vedano in proposito i numerosi articoli su eddyburg digitando sul "cerca" la parola Mose, e soprattutto si leggano gli articoli La mostra della vergogna e l'Eddytoriale n. 174, interamente dedicati alla denuncia del patto criminale di cui il Mose è uno dei prodotti (e.s.)

la Nuova Venezia, 16 maggio 2018. Venezia è una città abituata ai carnevali e alle maschere. Il Mose è carnevale per i molti che ci mangiano e quaresima per i contribuenti che pagano; all'Arsenale, sono in mostra le maschere

Venezia. Il Mose c'è, adesso bisogna farlo funzionare. E «mitigare» il suo impatto sull'ambiente alle bocche di porto. Opere di compensazione paesaggistica volute dalla legge e dalle norme europee. Mai realizzate o realizzate soltanto in parte, con i progetti per l'inserimento architettonico affidati all'Iuav a partire dal 2005, per un costo di un milione di euro. Da allora è passata un'era geologica. Il Consorzio Venezia Nuova di Mazzacurati non esiste più. È arrivato lo scandalo Mose con gli arresti e la scoperta delle tangenti e degli sprechi. Sono arrivati commissari straordinari nominati dal presidente dell'Anticorruzione Raffaele Cantone. Che provano a cambiare rotta.

Per oggi hanno convocato all'Arsenale insieme al Provveditore alle Opere pubbliche del Triveneto (ex Magistrato alle Acque) Roberto Linetti una iniziativa pubblica per discutere delle «proposte di inserimento paesaggistico e ambientale delle opere alle bocche di porto». L'hashtag dell'iniziativa si chiama «Megliotardichemai», a significare il grave ritardo con cui la grande opera arriva alla procedura del «Dibattito pubblico» da decenni utilizzata negli altri Paesi europei come la Francia. All'Arsenale saranno presentati i progetti dell' Iuav. «Seguiranno incontri tematici aperti a tutti per ricevere proposte, consigli, commenti», dice il commissario del Consorzio Giuseppe Fiengo.
Il fine è sicuramente nobile, ma la polemica è già scoppiata. «I signori del sistema Mose continuano a prenderci in giro», scrive l'associazione Ambiente Venezia, «va in scena un surreale confronto pubblico sui progetti di mascheramento delle opere. Un progetto che forse non sarà mai terminato e non funzionerà mai. Noi chiediamo da tempo inascoltati un confronto pubblico sul funzionamento del Mose e sulle sue anomalìe. Sui difetti del Mose denunciati dalla Valutazione di Impatto ambientale del 1998, sulle criticità denunciate dalla società Principia, chiamata dal Comune nel 2009, che non hanno mai avuto risposta».«Invece di mascherare l'opera inutile e dannosa», continuano, «si potrebbe erigere nelle tre bocche di porto una lapide con i nomi di tutti politici, tecnici e imprenditori che hanno approvato il massimo esempio di malaffare e corruzione, che ha sperperato o fondi della Legge Speciale».
In base a una convenzione firmata fra Iuav e il Consorzio di Mazzacurati, nel 2004, erano stati approvati e finanziati con i soldi dello Stato progetti e incarichi per gli architetti Carlo Magnani - ex rettore - Alberto Ferlenga, attuale rettore, Aldo Aymonino e Alberto Cecchetto. Nulla è stato fino a oggi realizzato, ma le parcelle sono state pagate. La più consistente, quella del giugno del 2012 per la progettazione definitiva dell'inserimento architettonico delle strutture del Mose. 610 mila euro. Il primo progetto per «l'inserimento architettonico delle opere mobili» porta la data del settembre 2004. La cifra pagata è di 350 mila euro più Iva. Pochi mesi dopo il progetto per «l'inserimento nel territorio del litorale dei cantieri». I colossi in calcestruzzo sulla spiaggia contestati dagli ambientalisti. 300 mila euro più Iva. Nel marzo 2006, 30 mila euro per la «direzione artistica» dei cantieri di Treporti-San Nicolò e Chioggia. Nel novembre del 2007, nuova convenzione Consorzio-Iuav per l'inserimento paesaggistico della spalla Sud di Chioggia, l'esame di inserimento del Lido, la «rielaborazione» di Malamocco. 240 mila euro più Iva. Nel 2012 i 510 mila euro per la progettazione definitiva, infine nel marzo 2014, a soli tre mesi dagli arresti per lo scandalo Mose, altro 313 mila per i progetti esecutivi, redatti insieme alla società Thetis.

Vedi su Eddyburg MOSE in maschera

In concomitanza con la Biennale d'architettura, verranno esposti all'Arsenale i progetti commissionati all'IUAV per camuffare il MoSE, per tentare di convincere almeno gli stranieri che il mostro s'ha da fare. Con riferimenti

In occasione della nuova Biennale di Architettura, che sarà inaugurata il prossimo maggio, riemergono i progetti per abbellire il MoSE, e rendere esteticamente più accettabile l’insieme delle pesantissime infrastrutture di cemento, ferro e acciaio che comporranno il Mose, volute, progettate e in costruzione da parte del gruppo di imprese Consorzio Venezia Nuova (CVN).

Ai lavori di abbellimento era stato già dato il nome di “mutandoni”, finalizzati come sono a nascondere le più evidenti vergogne del Mose. La loro confezione era stata affidata all’Università Iuav di Venezia, e alla sua società di progettazione di diritto privato, ISP, per un compenso di circa un milione di euro.

La confezione dei "mutandoni" era stata accantonata a causa delle inchieste giudiziarie sul MoSE, dalle quali sono emersi episodi di corruzione, tangenti, intese private tra controllori e controllati, fondi neri destinati a ungere le ruote dei controlli: uno scandalo che ha coinvolto politici, amministratori, imprese, magistrato alle acque, ministeri, guardia di finanza, e corte dei conti. Ora, il commissario all’attuazione del Mose, Giuseppe Fiengo, che ha sostituito il CVN è pronto a riprendere i "mutandoni", a dar loro una ripassata a e coprire di nuovo le vergogne perchè il pubblico della Biennale non le veda.

I progetti di abbellimento, camuffamento e inserimento paesaggistico saranno esposti nei locali della Thetis Spa (una società di ingegneria ambientale, coinvolta nella realizzazione del Mose) all’Arsenale, proprio laddove si tiene anche la Biennale, ma senza per ciò dover passare attraverso il processo di selezione richiesto agli altri soggetti che vogliano partecipare alla Biennale. La posizione della sede della Thetis (e del CVN), adiacente ai locali della Biennale consente di sfruttare la visibilità mediatica e dar rilievo ai progetti dei "mutandoni".

L’insieme dell’operazione, progettata con una sostanziale intesa tra Consorzio Venezia Nuova e Università Iuav, di Venezia ha l’evidente scopo di richiamare l’attenzione sui "mutandoni" per distrarla dallo scandalo del Mose. Fuor di metafora, per allontanare l’attenzione dalla mostruosa creatura, che sta già vistosamente confermando la sua inutilità, rivelando l’impossibilità tecnica di realizzazione, e preoccupando tutti per la gigantesca quantità del finanziamento necessario per la sua realizzazione, gestione e manutenzione.

Non tutti hanno taciuto. Una lettera aperta di protesta è stata inviata al presidente della Biennale Paolo Baratta, al rettore dello Iuav Alberto Ferlenga e alle curatrici della Biennale. È firmata dalle associazioni Ambiente Venezia, Sale Docks, Laboratorio Morion, Comitato No Grandi Navi, che chiedono di “rimediare” a questa decisione, dando la possibilità di esporre «gli innumerevoli studi e progetti alternativi al Mose, le critiche inascoltate alla grande opera, i materiali dell’epoca su mobilitazioni e proteste».

Baratta replica che gli spazi della Thetis non fanno parte della Biennale, e lo IUAV afferma che la mostra, semplicemente in concomitanza con la Biennale, è un contributo che va al di la del giudizio sul Mose, come se il coinvolgimento e l’operato dello Iuav, in quanto università, non possa essere sindacato.

Indipendentemente dalla qualità estetica dei "mutandoni" e dall’accessibilità che le opere di camuffamento apportano, il MoSE rimane un intervento inutile e dannoso. Oggi, più che mai, con tutto quello che è emerso (per una sintesi vedi qui sotto i riferimenti) perpetuare la strada della realizzazione del Mose, con o senza "mutandoni", significa appoggiare il progetto e avallare, seppur indirettamente, l’operato del Consorzio Venezia Nuova.

Riferimenti

Per leggere le ultime notizie dai giornali qui l'articolo sulla mostra e qui l'articolo sulla protesta di comitati e associazioni. Per una sintesi sul MoSE e il Consorzio Venezia Nuova si legga l'eddytoriale 174. Di seguito i link di alcuni articoli di approfondimento: Edoardo Salzano, Il Mose, storia di un conflitto tra interesse privato e natura, ottobre 2005; Eddytoriale 103, aprile 2007; Armando Danella, MoSE: prima che sia troppo tardi, luglio 2010. Vedi inoltre qui, nella cartella del vecchio eddyburg e qui, nella cartella dell'attuale archivio, tutti gli articoli pubblicati da
eddyburg sul MoSE.

1 marzo 2018, Mestre via Buccari ore 17.45 Incontro con Flavio Cogo e Armando Danella per parlare non solo dell'assoluta inutilità del Mose e dei danni che l'avvio della sua realizzazione ha già iniziato a provocare, ma anche della vasta e profonda azione di corruzione che il Consorzio esercita sulla società veneziana. Coordina Ilaria Boniburini. Con riferimenti

Sono innumerevoli gli articoli che eddyburg.it ha pubblicato sul MOSE. Tra gli articoli più recenti segnaliamo quelli di Alberto Vitucci di Armando Danella, di Paola Somma, di Paolo Cacciari.

E leggete soprattutto l'Eddytoriale n. 174, per comprendere l'oceano di corruzione che le spese dei contribuenti hanno inconsapevolmente alimentato.

Per il passato rinviamo agli articoli anteriori al 2013, nella cartella MoSE del vecchio eddyburg.

la Nuova Venezia, 8 febbraio 2018. Ancora sui danni, ambientali ed erariali, provocati dalla folle sventura del progetto Mose e dalla sua perversa storia. con riferimenti

ECCO LE DIECI CRITICITÀ
SERVONO 100 MILIONI

«I guai messi nero su bianco dai commissari, relazione al Governo»

Venezia. Corrosione e ossidazione delle cerniere. Buchi nei tubi sott'acqua. «Steli» da sostituire, cedimento dei cassoni sul fondale delle bocche di porto. E poi la lunata, la diga al largo danneggiata che rischia di crollare ancora. Il jack-up, nave attrezzata costata 52 milioni di euro che ancora non funziona, i sedimenti e i detriti che si accumulano sul fondale in quantità «superiore al previsto».Un corposo dossier sulle criticità del Mose è stato inviato dai commissari straordinari del Consorzio Venezia Nuova al ministero delle Infrastrutture e al Provveditorato alle Opere pubbliche, l'ex Magistrato alle Acque.

Per la prima volta vengono messi per iscritto dagli stessi responsabili guai e problemi operativi da affrontare con urgenza, lavori fatti male, emergenze che hanno bisogno di essere risolte per provare a concludere, pur con ritardo, la più grande opera italiana in costruzione. «Per risolvere le criticità riscontrate», scrivono l'avvocato Giuseppe Fiengo e l'ingegnere Francesco Ossola, amministratori straordinari del Consorzio, «ci vorranno almeno 94 milioni di euro». In mezzo ai problemi di finanziamento, ma anche delle necessità di trasparenza e di maggiori controlli dopo lo scandalo e gli arresti del 2014, siamo adesso a un punto di svolta della grande opera. Sarà possibile sistemare i guasti che emergono ora in modo ufficiale e i lavori «non fatti a regola d'arte» senza bloccare il destino del Mose? Sono dieci i punti critici segnalati nel dossier, con schede e fotografie che ne descrivono la natura e l'entità.

Previsioni di spesa per riparare i guasti, somma finale che si avvicina ai 100 milioni di euro. Una cifra che si aggiunge ai 5 miliardi e mezzo di euro già spesi, agli 80 richiesti ogni anno per la manutenzione. Riguardano il fenomeno della «risonanza», messo in luce dagli esperti e dalla società Principia; l'accumulo dei sedimenti «superiore al previsto» nella schiera di paratoie di Treporti. Un problema che, ammettono i dirigenti del Consorzio «ha effetti sul buon funzionamento delle paratoie interessate all'accumulo». Ma le criticità più gravi si riferiscono a i cedimenti del fondale e dunque alla «tenuta» dei giunti di collegamento fra i cassoni che sostengono le paratoie. «Nei giunti Gina e Omega» ci potrebbero essere deformazioni, con la necessità di sostituirli».

Una perizia è stata affidata alla società olandese Trolleberg e al professor Mattia Crespi dell'Università di Roma. Una «protezione supplementare» dovrà essere prevista anche per le cosiddette «barre di inghisaggio», nell'elemento femmina della cerniera, costruito dentro il cassone sott'acqua. Un elemento che ha grande importanza sulla tenuta dell'intero sistema, perché in pratica sostiene le paratoie. La soluzione individuata qui dagli esperti (Valentinelli, Paolucci e Ramundo) è quella di applicare una «pasta protettiva» sulla cerniera. Ed ecco al capitolo 5 la parte più delicata, oggetto anche di polemiche nei mesi scorsi. Adesso la relazione finale degli ingegneri ammette l'esistenza di problemi sul fronte della corrosione, e la necessità di correre ai ripari. «Durante i sopralluoghi», dice la scheda, «si sono riscontrati fenomeni di corrosione sugli elementi costituenti i gruppi di tensionamento, e in particolare sui tensionatori di Treporti».

La decisione finale della commissione (i professori Ormellese e Mapelli del Politecnico di Milano, l'esperto del Provveditorato ingegner Paolucci ed esperti internazionali in corrosione) è stata quella di cercare «steli sostitutivi», stavolta in «acciaio superduplex» al posto degli elementi originali.Il problema è il costo. Per sostituire le parti che non vanno sarà necessaria una spesa aggiuntiva di 34 milioni di euro. I tensionatori sulle quattro barriere di paratoie già installate alle bocche di porto sono infatti 156, più otto di «riserva». Dovranno essere sostituiti in occasione della manutenzione della paratoia (ogni cinque anni). Altri 3 milioni e 200 mila euro serviranno per riparare i tubi danneggiati sott'acqua. Nella bocca di porto di Malamocco un'ispezione del direttore lavori aveva scoperto l'esistenza di perdite nelle tubazioni sott'acqua e di ossidazioni. La causa, secondo le imprese Glf Grandi Lavori Fincosit che hanno eseguito i lavori a Malamocco, la mareggiata del febbraio 2015 con l'allagamento dei cassoni, non ancora ultimati. La Glf ha chiesto al Tribunale il rimborso per «l'evento eccezionale». Il giudice non ha ancora deciso e i lavori sono stati sospesi. L'incarico di riparare i tubi danneggiati è stato dato alla Technital - gruppo Mazzi - la società di Verona progettista del Mose

LA LUNATA A RISCHIO CROLLO
E IL JACK-UP DA 52 MILIONI

«La strategia per rifare lavori sbagliati. Al Lido la diga di sassi era franata 5 anni fa. Adesso si scopre che l'erosione la minaccia di nuovo. Cause e perizie infinite»

Venezia. È stata pensata «troppo piccola». E il Porto non la può usare per l'accesso in laguna delle grandi navi. Ma è danneggiata, e inutilizzabile anche per le navi medio piccole. La conca di Malamocco, altra grande incompiuta delle opere in laguna, è una delle dieci «criticità» segnalate al ministero. Situazione complicata.

La conca. Senza contare i nuovi progetti necessari al Porto - off shore e «mini off shore» a Malamocco - ci vogliono almeno 28 milioni di euro, stando alla scheda firmata dai responsabili del Consorzio, per riparare i danni e sostituire la porta lato mare della conca e «adeguare» la porta dal lato laguna. Anche in questo caso la «colpa» del danno viene attribuita a eventi meteorologici. «In occasione della mareggiata del 5-6 febbraio 2015», si legge nella scheda numero 6 - la porta lato mare della conca ha subito gravi danni, con conseguente disservizio». Consorzio e Provveditorato hanno allora dato incarico a esperti olandesi (l'istituto Marin) e alla società belga Sbe di progettare una nuova porta con le rotaie per lo scorrimento, 14 metri sotto il livello dell'acqua. E insieme l'adeguamento della porta lato laguna. Chi ha sbagliato? E chi pagherà i nuovi interventi?

Lunata. Altra emergenza - con annesso contenzioso legale e diffide incrociate tra Consorzio e imprese giacenti in Tribunale civile - la lunata di Lido. Qui la colpa è dello scirocco. E della perturbazione, si legge nella relazione tecnica, «che ha provocato il 31 ottobre del 2012 una violenta mareggiata con ingenti danni alla lunata di Lido». Non basta, perché un sopralluogo ha messo in luce «ulteriori criticità». Cioè i fenomeni di erosione in corrispondenza delle due testate, riparate dopo la mareggiata. Erosioni profonde anche tre metri, che mettono a rischio la staticità dell'intera opera. Altri due milioni di euro stanziati per le consulenze (professor Foti dell'Università di Catania, Ruol dell'Università di Padova, De Marinis e Tomasicchio del Provveditorato). E alla fine la decisione anche qui di intervenire su un progetto che evidentemente non aveva tenuto conto di alcune variabili. «Si farà un intervento di mitigazione dei fenomeni erosivi e di protezione del piede della testata», conclude la relazione.

Jack-up. Rizzuto, Micoperi e la società Rizzetti e Marino sono i consulenti a cui il Consorzio ha fatto ricorso per chiedere lumi sul non funzionamento del jack-up. Macchina costata 52 milioni di euro che doveva garantire lo spostamento e il trasporto delle paratoie dalle bocche di porto alla centrale di manutenzione dell'Arsenale. Progetto della Technital, messo in opera dalla padovana Mantovani. Il jack-up non si è mai mosso, per il cedimento di una gamba laterale e per problemi di stabilità in navigazione. Uno scandalo che poteva essere doppio. In origine il Consorzio di Mazzacurati e il Magistrato alle Acque di Cuccioletta avevano progettato di realizzare due jack-up. Oggi la posa delle paratoia è garantita da una semplice chiatta a noleggio.Affidabilità. L'ultima voce di spesa per risolvere una criticità che si annuncia strategica riguarda il «Controllo affidabilità complessiva del sistema». Occorrerà appunto garantire la gestione del ciclo di manutenzione delle paratoie, l'affidabilità dei mezzi e il funzionamento delle opere nel loro complesso. Impresa titanica, visti i precedenti.

Riferimenti

Alla tragica vicenda del -MoSE e dei suoi vergognosi contorni abbiamo dedicato numerosi articoli. Tra i più recenti rinviamo a quelli di Armando Danella, Progetto Mose. La vera soluzione,
che illustra la follia tecnica dell'irrealizzabile progetto, di Edoardo Salzano, Eddytoriale 174 di Eddyburg, e di Paola Somma La città del MoSE, che descrivono l'azione corruttrice e mistificatrice gestita dai responsabili e profittatori del progetto, di Paolo Cacciari, L'ingegnerizzazione della Laguna, e numerosi altri raggiungibili rovistando dell'Archivio tematico di eddyburg

Ambiente Venezia. Da uno dei maggiori conoscitori critici della folle avventura del progetto MOSE la risposta rigorosa e drammatica al problema: abbiamo speso inutilmente 6000 milioni di euro, ogni euro in più sarebbe un'aggiunta allo spreco. Con postilla

AmbienteVenezia - NOTA SUL PROGETTO MOSE – La Vera Alternativa

Il "che fare" di fronte ad una grande opera sbagliata e costosa qual è il Mose che si rivelerà a breve anche inutile per l’aumento del livello del mare che i cambiamenti climatici già prevedono per il prossimo futuro. Oggi il Mose appare contrassegnato dallo scandalo che lo ha coinvolto, da quella realtà fatta di corruzioni, tangenti, rapporti tra controllori e controllati, fondi neri che la Magistratura è riuscita a far emergere.

Un impressionante sistema di potere malavitoso e criminale che coinvolge politici, amministratori, imprese, magistrato alle acque, ministeri, guardia di finanza, corte dei contiLa meritevole azione collegiale degli organi preposti al ripristino della legalità che tanta attenzione mediatica sta provocando rischia però di relegare in secondo piano la sostanza del sistema che interessa il Mose.

Si sta assistendo ad un atteggiamento diffuso di non voler sapere, di non approfondire, dimenticare o volutamente ignorare cos’è e cosa è stato tecnicamente il Mose nel suo divenire. Ed è sulla base di questa per alcuni versi morbosa attenzione verso l’operato della Magistratura che rimane sullo sfondo o addirittura scompare la contrarietà motivata a questa opera, alla sua natura, alla sua struttura, alla sua funzionalità; sembra quasi che un destino ineludibile debba far portare a compimento questa opera datata così com’è stata voluta dai progettisti e da coloro che l’hanno approvata.

Tutto procede senza ripensamenti: il rigore scientifico, il “cogito ergo sum “, l’eustatismo incipiente che cancellerà definitivamente quest’opera non ”rientrano” nello stato di avanzamento dei lavori.
Così sulla questione del Mose si continua a ignorare o fraintendere quanti interventi possibili ed alternativi alle bocche si potrebbero realizzare fin da subito evitando così il perseverare di azioni il cui effetto peggiorerebbe i vari livelli di criticità dell’opera con ricadute negative sull’equilibrio lagunare , sulla portualità e sui bilanci pubblici.

Nell’ambito degli interventi per la difesa di Venezia dalle acque alte, va applicata una linea di azione (costruita sulla base di una modellistica matematica - modelli bidimensionali a fondo fisso e mobile - applicata all’idrodinamica ed alla morfodinamica lagunare il cui riferimento scientifico rimane la scuola idraulica padovana –dipartimento di ingegneria idraulica, marittima, ambientale e geotecnica) che dimostra:

- che si può operare alle bocche di porto con la riduzione parziale delle sezioni attraverso il rialzo dei fondali e l’inserimento di opere di restringimento trasversali sia fisse che removibili stagionalmente in modo da aumentare le resistenze al flusso delle correnti di marea con una significativa riduzione dei livelli marini in laguna rispetto al mare;

- che si può ottenere con una riduzione permanente degli attuali scambi mare-laguna un migliore regime idraulico della laguna permettendo fra l’altro di contrastare la perdita sistematica di sedimenti attraverso le bocche, ultimo anello dei drammatici processi erosivi in atto che stanno devastando la morfologia lagunare
- che va separata la logica degli interventi delle acque medio-alte da quelle necessarie per la difesa dalle acque alte eccezionali
-che va ridotta la penalizzazione della portualità veneziana attraverso la differenziazione delle funzioni portuali delle tre bocche, con la chiusura parziale dei varchi mobili per le acque medio-alte e con la chiusura totale per le sole acque alte eccezionali
-che si può così impiegare il tempo necessario per perfezionare e sviluppare i metodi di difesa più idonei, anche a più vasta scala territoriale, conseguenti ai cambiamenti climatici prevedibili (interventi di iniezioni di fluidi su strati geologici profondi volti al sollevamento antropico).

L’immediato l’inserimento di opere removibili stagionalmente ha il vantaggio di permettere di operare sulle bocche di porto con due diversi gradi di restringimento: meno spinto nel periodo estivo, quando in linea di principio è auspicabile un maggiore scambio tra mare e laguna, più spinto nel periodo tardo autunnale ed invernale durante il quale le acque alte si presentano con maggiore frequenza e un meno vivace ricambio delle acque è più sopportabile dalla laguna.
Per quanto riguarda poi quelle strutture che provvederanno alla chiusura dei varchi mobili vanno individuate quelle soluzioni tecnologiche (per esempio pontoni sommergibili removibili con paratoie a gravità) che escludano quei fenomeni legati alla risonanza ed alla instabilità dinamica che le paratoie del Mose presentano e che ancora oggi incomprensibilmente si evita di verificare.

Questi interventi rappresentano una una prima fase che consente una forte riduzione dei colmi di marea, in particolare per quanto attiene a quelli medio-alti che sono quelli che si verificano con maggiore frequenza in città, il che ha anche l’effetto, fondamentale, di fornire il tempo necessario per perfezionare e sviluppare in una seconda fase i metodi di difesa più idonei, anche a più vasta scale territoriale, conseguenti ai cambiamenti climatici prevedibili.

Tutto ciò rappresenta una radicale variante del progetto Mose, di fatto un suo abbandono. Ed il nuovo onere finanziario da sostenere, pur beneficiando di un drastico abbattimento degli alti costi di manutenzione e gestione che la struttura del Mose impone e di un parziale recupero di materiali già esistenti e messi in opera per il Mose, deve prendere atto della perdita di danaro speso per tutti quegli interventi che non possono a nessun titolo venir recuperati e che sono figli di una sciagurata impostazione progettuale avvalorata da un regime malavitoso.

Qualora si insista nel proseguimento dell’opera senza tener conto delle criticità denunciate , e dal momento che la sua non funzionalità si potrà constatare solo in futuro ad opera ultimata, bisogna prefigurare un danno erariale a fecondità ripetuta mettendo sotto sequestro cautelativo il patrimonio di tutti quei soggetti, politici e tecnici, che con la loro firma su specifici documenti ( documentazione depositata dal Comune di Venezia presso tutte le istituzioni interessate all’iter procedimentale del Mose ) hanno contribuito a far sì che il Presidente del Consiglio Prodi e parte del suo governo respingessero le proposte alternative indicate dal Comune di Venezia nel 2006 ( che sviluppano peraltro concetti scientifici propri del “Progettone” del 1981 a cui fanno seguito autorevoli pareri del Consiglio Superiore dei LL.PP. degli anni successivi o della Valutazione di Impatto Ambientale del 1998), il cui impianto ancora oggi può verosimilmente rappresentare soluzioni più funzionali, anche per il riequilibrio lagunare oltre che per la portualità, con un’ottica di diminuire drasticamente gli alti costi di manutenzione e gestione del Mose e di una maggiore consapevolezza dell’evoluzione dell’aumento dei livelli del mare.

Tutto questo però non può sfuggire alla domanda che tanti si pongono: ma vale la pena bloccare i lavori di un’opera che sta volgendo al termine e che è già costata quasi 6000 milioni di euro?
Una legittima domanda a cui ne potrebbe far seguito un’altra: ma vale la pena, anche in nome di un rigore scientifico che ha sempre caratterizzato le azioni della salvaguardia, voler ultimare un’opera che si sa già che non raggiungerà gli obiettivi per cui è stata concepita e che comporterà ingenti oneri di manutenzione e gestione nei prossimi 100 anni (tanto è il tempo di vita previsto dell’opera) che graveranno peraltro sul nostro debito pubblico? Ultimare un’opera sbagliata, che si sa sbagliata per la conoscenza di critiche fondate e documentate, rappresenta in uno stato di diritto un altro delitto punibile.

Ed ancora: a fronte di uno scenario di riscaldamento globale con l’innalzamento dei livelli marini in Adriatico in base alle previsioni del 4° Rapporto IPCC presentato alla Conferenza sui cambiamenti climatici di Parigi del 1° dicembre 2015 perché insistere come una sorta di accanimento terapeutico sul proseguimento di un’opera che i valori di quello stesso Rapporto mettono già all’indice?

Il riscatto dello scandalo Mose può passare solo attraverso il riconoscimento degli errori commessi, la sua sostanziale messa in discussione progettuale e con la rivincita-affermazione di quel sapere scientifico indipendente che la storia malavitosa della “grande opera” ha volutamente respinto ed ignorato.
Un giusto riconoscimento alle mobilitazioni ed a quella Assemblea Permanente NO MOSE che aveva coniato l’indovinato slogan “ Il Mose: un’opera utile solo a chi la fa”

Armando Danella per l’ Associazione Ambiente Venezia - gennaio 2018

___________________________________________________________

Scheda sintetica

il Sistema MOSE -

Un’opera sbagliata che è stata approvata e ha potuto evolversi avvalendosi di un sistema corruttivo diffuso e ramificato, come è stato accertato dalle indagini della Magistratura del 2013 e 2014.

Il sistema MoSE è :
- inutile perché esistevano ed esistono efficienti alternative,
- pericoloso come dimostrano gli studi di “Principia” sul rischio di tenuta delle paratoie in particolari condizioni di mare, (pericolo di collasso),
- dannoso e incompatibile con il sistema lagunare e le attività portuali per le previsioni sul numero delle chiusure e sui danni alle attività portuali e sull’aumento dei livelli di inquinamento delle acque lagunari.


Numerosi sono gli incidenti, le anomalie, i danni, che si sono verificati in questi anni e che mostrano i molti punti critici del progetto che erano già stati evidenziati e segnalati nel documento della Commissione Tecnica VIA che il 10 dicembre 1998 esprimeva un parere di compatibilità ambientale negativo, che bocciava il progetto MoSE.

Bisogna bloccare i lavori del MoSE, con varianti in corso d’opera, riconvertendo le opere marittime realizzate, attraverso soluzioni progettuali delle bocche sperimentali, graduali e reversibili.
Se il drammatico trend di aumento del livello medio marino risultasse confermato non c’è progetto alle bocche di porto e in laguna che tenga!

Bisognerebbe chiudere le paratie quasi tutti i giorni (due volte al giorno d’inverno). Quindi per la riduzione dei livelli di marea in Laguna vanno:
-ridotte le profondità dei fondali alle bocche di porto- posti pennelli traversali alle bocche per ridurre ulteriormente la portata idraulica- eseguito ilcurvamento dei tratti terminali dei moli e scogliere a mare di fronte alle bocche per ridurre l'onda montante da vento di scirocco


Queste azioni possono ridurre tutte le maree fino a 28 centimetri.

Bisogna inoltre proseguire gli studi e ricerche sulla iniezione di fluidi negli strati geologici profondi (insufflamento di acqua salata a 700-900 metri di profondità) volti al sollevamento di grandi porzioni di territorio. Queste tecniche vengono già utilizzate per immagazzinare ed estrarre gas nei depositi profondi con conseguenti innalzamenti e abbassamenti dei suoli come risulta da una ricerca del dipartimento di Geologia di Padova: con questa tecnica si può, in 5 anni e in sicurezza, alzare tutta la città fino 35 centimetri.

postilla

Nell’Eddytoriale 174 abbiamo raccontato la storia vergognosa del MoSE, degli errori clamorosi chefurono compiuti nella scelta di quella soluzione, delle ragioni perverse percui altre soluzioni, migliori da tutti i punti di vista, furono scartate, delgigantesco edificio corruttivo che ha permesso di realizzarsi. E deicosti che la collettività aveva pagato e avrebbe continuato a pagare per un’operache giù allora appariva inutile e dannosa. Armando Danella riprende e completala narrazione della triste vicenda. La arricchisce con un suggerimento checondividiamo pienamente, e che qui riprendiamo testualmente:

«Dal momento che la sua [delMOSE] non funzionalità si potràconstatare solo in futuro ad opera ultimata, bisogna prefigurare un dannoerariale a fecondità ripetuta mettendo sotto sequestro cautelativo ilpatrimonio di tutti quei soggetti, politici e tecnici, che con la loro firma suspecifici documenti (documentazione depositata dal Comune di Venezia pressotutte le istituzioni interessate all’iter procedimentale del Mose) hannocontribuito a far sì che il Presidente del Consiglio Prodi e parte del suogoverno respingessero le proposte alternative indicate dal Comune di Venezianel 2006».

Ampia analisi dell'ideologia, delle strategie, degli strumenti amministrativi e tecnici, grazie ai quali la salvaguardia della Laguna di Venezia si è tradotta nella sua distruzione (e in un gigantesco affare per una banda di pescicani). Con riferimenti

Cercare alle radici del fallimento

Il 4 novembre del 1966 avevo 17 anni. Da una vita tento di capire come mai si sia potuto scegliere di costruire un marchingegno così mastodontico, inappropriato e di incerto funzionamento – oltre che inutilmente costoso – come lo sono i quattro sbarramenti con paratoie elettromeccaniche a spinta di galleggiamento, incernierate al fondale delle bocche di porto della laguna di Venezia. La risposta che mi sono dato è già nel bellissimo titolo della giornata dedicata al Mose organizzata dall’associazione PER Venezia Consapevole il 21 ottobre all’Iuav: «Il senso delle cose sta oltre tutti i linguaggi che le rappresentano». Che, a mio vedere, è un altro modo per esprimere un concetto ecologico: non bisogna confondere una parte di un sistema con il tutto, poiché la somma delle singole parti che compongono un organismo non basta a spiegare il suo funzionamento. Peggio: la separazione e la frantumazione degli elementi di un ecosistema porta alla sua morte. Il Mose è il risultato di una riduzione a questione idraulica del problema della preservazione dell’ecosistema lagunare collocato nella ancora più vasta bioregione che va dall’Adriatico alle Dolomiti, dalla Piave al Po. A monte della scelta degli sbarramenti di separazione mare/laguna c’è un difetto culturale profondo e diffuso, una drammatica insipienza tanto “scientifica” quanto “politica”e, per contro, una sconfitta del pensiero ecologista proprio nel punto in cui la sfida si presentava più necessaria, alta ed evidente.

Di fronte al conclamato fallimento della gigantesca rubinetteria del Mose - perché è di questo che stiamo parlando - non ci dobbiamo accontentare di risposte facili, pur vere, ma parziali e, alla fine, persino psicologicamente consolatorie: la corruzione, l’affarismo, l’abdicazione della comunità scientifica. Da Nicolazzi a Matteoli, da Bernini a Galan. Questi sono stati i “nostri” ministri e governatori. Ma anche alti funzionari dello stato, dirigenti di Regione, persino magistrati e finanzieri hanno pilotato un progetto che altrimenti non sarebbe mai stato approvato. La tesi delle “mele marce”, dei parassiti approfittatori in proprio, non regge. Il Sistema Mose è lo stesso di tutte le “grandi opere” (strade e autostrade, treni ad alta velocità e aeroporti, persino ospedali), del business facile delle concessioni alle grandi imprese di costruzione di cui il Consorzio Venezia Nuova è stato solo l’apripista. Così come sistematica è la sussunzione dei centri di ricerca pubblici e delle università da parte delle imprese. Consulenze, collaudi, direzioni lavori, porte girevoli tra pubblico e privato sono la regola dei rapporti tra Stato e imprese.

Come è potuto accadere tutto questo? Indagare su Venezia può essere istruttivo per capire come va l’intero paese. Venezia è un caso di scuola per studiare non solo gli effetti nefasti dell’avvento dell’industrializzazione (manifatturiera prima, turistica ora) sull’ambiente (subsidenza, alluvioni, anossia, inquinamenti…), ma anche sulla perdita di memoria e di empatia degli abitanti nei riguardi del proprio territorio, di “coscienza di luogo”, come direbbe Alberto Magnaghi. Un processo lento di sradicamento, legato al “grande esodo” della popolazione autoctona e al prevalere di un’economia di rapina. Solo chi ha imparato ad andare a remi e a nuotare in laguna può capire cosa significa estraneazione culturale della città d’acqua dal suo ambiente.

Ha scritto recentemente Edoardo Salzano: «Due visioni si sono scontrate a Venezia: una logica sostanzialmente meccanicistica, che intendeva isolare i problemi e a dare loro soluzioni indipendenti e fortemente ingegneristiche, e una logica sistemica, che si proponeva di evidenziare le correlazioni tra tutte le dinamiche in atto». (Editoriale del 1 ottobre 2017 su www.eddyburg.it ). Proviamo a capirne di più con l’aiuto dell’ecologa Vandana Shiva: «I sistemi viventi evolvono, si adattano, si rigenerano. Non sono ingegnerizzabili. Il dominio del paradigma ingegneristico inizia con l’era dell’industrialismo e del meccanicismo (…) Un sistema di conoscenza fondato su un paradigma meccanicistico, riduzionista e materialistico (…) Crediamo di essere al di fuori e sopra della Terra, crediamo di controllarla, di esserne i padroni. Lo crediamo [ma] ecco che i cambiamenti climatici, gli eventi estremi, i disastri ci ricordano con sempre maggiore frequenza che siamo parte della Terra. Ogni atto di violenza che distrugge i sistemi ecologici minaccia anche le nostre vite (…) Dobbiamo trasformarci da specie predatrice e incurante a specie che si prende cura, che lavora in co-creazione e co-evoluzione con la Terra». (V. Shiva, Solo il carbonio vivo salverà la terra, “il manifesto”, 22 settembre 2017). Potremmo continuare a lungo citando altri riferimenti scientifici ad una concezione di “ecologia integrale” – come la chiama Bergoglio nella enciclica Laudato si’ – o sistemica, come la chiama il grande fisico Fritjof Capra: «Una vera concezione della vita implica pensare in termini di relazioni, configurazioni e contesti, che nella scienza è conosciuto come “pensiero sistemico”». (F. Capra, Vita e Natura, Aboca, 2014).

Scientia [et] Potentia generano mostri

La ragione di fondo per cui la politica (nel discorso pubblico corrente e nel modus operandi delle istituzioni) preferisce l’approccio deterministico, lineare piuttosto che quello ecologico, ricorsivo sta – a mio avviso – nel fatto che la forma mentis, il modo di pensare e il linguaggio della politica sono quelli del dominio. La politica è vista e vissuta come affermazione ed esercizio del potere come comando. Il potere di disporre sugli altri e sulla natura. Non importa con quali mezzi e a quale prezzo. L’importante è “dare risposte”, rassicurare, conquistare il consenso popolare. In questa logica, per definizione, non è ammessa l’esistenza di problemi che non siano nella disponibilità della volontà di potenza del potere. Se qualche cosa si frappone al volere del governo essa va semplificata, rimossa e annullata.

La politica del dichiarare/decidere/disporre non può rispettare i tempi della conoscenza, dell’ascolto, della partecipazione condivisa delle popolazioni insediate. Procedure come la Valutazione degli Impatti Ambientali nate per far partecipare le popolazioni locali al percorso decisionale o direttive internazionali per la trasparenza degli atti come la Convenzione di Aarhus, non sono ammesse a fronte della “straordinarietà ed eccezionalità” degli interventi e dell’“l’interesse nazionale” prevalente delle opere. La militarizzazione della Val di Susa docet. Ma non meno gravi sono state anche le forzature operate da vari governi per giungere all’approvazione del Mose nonostante pareri negativi della commissione nazionale Via, del Consiglio nazione dei Lavori Pubblici, della Corte dei conti.

Per queste ragioni il linguaggio della politica non può essere ecologico, ma ingegneristico. Per imporsi, questo modo di fare politica ha bisogno della mediazione del linguaggio scientista (che è il contrario del metodo scientifico, per intenderci, quello che mette permanentemente in dubbio i saperi esistenti). I decisori pubblici, a corto di argomentazioni davvero convincenti, hanno bisogno di allearsi ai chierici delle “scienze esatte” per imporre le proprie scelte. Parafrasando Francis Bacon (Scientia est potentia) potremmo dire che l’alleanza tra scienza e potere ha generato molti mostri. Per validare “razionalmente e oggettivamente” le decisioni prese senza concedere possibilità di replica, sono chiamati in gioco gli esperti, i supertecnici, i saggi, i sapienti… La storia dei progetti per la salvaguardia di Venezia è costellata di commissioni e comitati scientifici (ne ho contati almeno otto) chiamati a proporre e a giudicare le migliori soluzioni proposte dagli uffici tecnici delle imprese di costruzione.

La complessa realtà biofisica e socioeconomica del territorio lagunare è stata parcellizzata, segmentata, numerata e modellizzata con l’intento di riprodurla in scala (vedi la ridicola storia del modello fisico della laguna di Valtabarozzo) e di imitare il suo funzionamento con software sempre più evoluti. Peccato che ogni tentativo di modellizzare grandi ecosistemi naturali, influenzati da complessi fenomeni meteorologici, biologici e antropologici comporti inevitabilmente una riduzione della complessità della realtà e una perdita di rappresentatività. L’imponente mole di dati e studi prodotti dal Consorzio di imprese Venezia Nuova è stato mirato a sostenere le scelte progettuali con il risultato di azzerare gli uffici statali (ad iniziare da quello idrografico del Magistrato alle Acque) e di mettere fuori gioco i “saperi diffusi”, esperenziali e contestuali sulla laguna basati sulla osservazione diretta dei fenomeni naturali (Ufficio maree del Comune, Biologia del mare e Grandi masse del CNR).

I “saperi esperti” degli istituti di idraulica chiamati a supporto delle scelte progettuali delle imprese di costruzioni (in pratica ristrette baronie universitarie di Padova e Genova) hanno avuto il monopolio della certificazione della scientificità del Mose. Roberto Ferrucci, nel suo ultimo bel racconto Venezia è laguna, li chiama: «I truffatori del buonsenso, i sabotatori del paesaggio». Per anni i tecnici accreditati dal Consorzio Venezia Nuova ci hanno spiegato con grafici, modelli e disegnini animati che la profondità dei canali portuali non è causa di erosione della laguna, che lo scambio mare-laguna è in equilibrio, che le acque medio alte più frequenti non sono un problema per la città, che le barene possono essere ricostruite con burghe di pietrame, ed ora, ci vogliono far credere anche che le grandi navi non fanno onde!

Può essere istruttivo riascoltare Giovanni Cecconi, uno dei massimi responsabili tecnici del CVN, incaricato di comunicare le meraviglie del Mose, ad una televisione amica, qualche tempo prima che scoppiasse lo scandalo del Mose.

Shock Economy in laguna

Per attecchire il decisionismo politico e il determinismo scientifico hanno bisogno di procedere lungo una sequenza logica che può essere definita così: emergenzialismo, decretazione, contrattazione. Provo a spiegarmi seguendo l’esempio veneziano.

A sinistra: Il Gazzettino del giorno dopo. A destra: Il sindaco Favretto Fisca
con Ted Kennedy e la contessa Foscari in sopralluogo a Pellestrina
L’ “aqua granda” del 4 novembre 1966 in realtà è stata un fenomeno alluvionale determinato da molti fattori che ha investito mezza Italia. I morti sotto le frane in montagna, gli allagamenti nel bacino scolante, la rotta del Sile in laguna, la rotta degli argini a Treporti e dei murazzi a Pellestrina, l’onda nera della nafta ed altre disastrose conseguenze stanno ad evidenziare una condizione di fragilità e vulnerabilità generale del sistema idrogeologico italiano. Una situazione ampiamente conosciuta da tecnici e amministratori pubblici. Basta andare a rileggersi gli atti della Commissione interministeriale De Marchi per lo studio della sistemazione idraulica e della difesa del suolo istituita dopo l’alluvione.

Ma mentre le indicazioni organiche della commissione si sono tradotte in legge (peraltro del tutto disapplicata) solo nel 1989 (legge n.183 sui piani di bacini idrogeologici e la difesa del suolo e delle acque), i decisori politici hanno preferito dare risposte parziali e specifiche alle varie “emergenze”. La legge speciale per Venezia n.171 del 1973 è una di queste. Un modo di procedere che ha avuto nella Legge Obiettivo del 2001 (tutt’ora operante) di Lunardi e Berlusconi la sua più compiuta codificazione. Vale a dire l’abbandono di ogni approccio programmatico e pianificatorio, coerente e permanente, a favore di interventi concentrati, sporadici, contrattati di volta in volta tra stato centrale e sistema delle autonomie regionali e affidabili a grosse associazioni tra imprese.

L’arte di trasformare l’ordinario in straordinario è una tattica ampiamente usata anche in altri paesi del mondo che la giornalista ambientalista canadese Nomi Klein ha chiamato shock economy, dopo aver assistito al disastro di Katrina a New Orleans nel 2005. La tattica consiste in questo: primo, lasciare precipitare la situazione di degrado trascurando la cura ordinaria e la manutenzione del territorio; secondo, considerare i disastri ambientali come un potente acceleratore dei processi di liberazione del patrimonio immobiliare dagli abitanti autoctoni più poveri; terzo, concentrare finanziamenti pubblici straordinari capaci di innescare grandi business e di rivalorizzare il patrimonio immobiliare.

Le “specificità” di Venezia sono state usate per giustificare l’approvazione di una normativa e di una strumentazione “straordinarie”, ipercentralistiche e falsamente efficientistiche che hanno nel tempo permesso di derogare a tutte le più elementari regole della buona amministrazione. In un articolo del 1 agosto del 1989 su Repubblica, Giuseppe Galasso, insigne storico e già sottosegretario ai beni culturali e ambientali, ebbe a scrivere: «In Italia tutte tende a farsi straordinario: non solo i terremoti o la mafia; ora anche le alghe». Era il tempo dell’eutrofizzazione dei mari e dell’invasione della Bava Mucillaginosa.

Governare per decretazione

Il secondo modo di procedere tipico del determinismo autoritario è il governo per decretazione. Anche qui il caso del Mose ci viene d’aiuto. Non è stata la Legge speciale del 1973 a compiere la scelta progettuale. La Legge speciale, nello stabilire gli obiettivi generali, si limitava ad affermare che: «La Repubblica garantisce la salvaguardia dell'ambiente paesistico, storico, archeologico ed artistico della città di Venezia e della sua laguna, ne tutela l'equilibrio idraulico, ne preserva l'ambiente dall'inquinamento atmosferico e delle acque e ne assicura la vitalità socioeconomica nel quadro dello sviluppo generale e dell'assetto territoriale della Regione».

Saranno gli “indirizzi” del Governo, un paio d’anni dopo (marzo 1975) a scendere nel particolare e stabilire le modalità tecniche necessarie a realizzare gli obiettivi della legge: «La conservazione dell’equilibrio idrobiologico e l’abbattimento delle acque alte (…) devono essere ottenute mediante un sistema di opere di regolazione fisso alle bocche di porto che possa essere successivamente integrato da parti manovrabili».

Nessuna commissione tecnica, nessuna istituzione scientifica si era azzardata a scendere a tanta precisione progettuale (tant’è che nel corso degli anni l’indicazione è stata modificata). Ma le esigenze della politica richiedevano una dimostrazione di capacità decisionale a prescindere dallo stato degli approfondimenti conoscitivi scientifici, anche in mancanza di un quadro d’insieme degli interventi e di un piano generale di riassetto del bacino idrografico lagunare, che ancora stiamo aspettando. La politica intesa come mero esercizio di potere ha le sue logiche e deve poter affermare coram populo l’avvenuta soluzione dei problemi.

La retorica del potere ha reso necessarie varie “inaugurazioni” del Mose. La prima volta ad annunciare “la sopravvivenza e lo sviluppo di Venezia” è stato Fanfani nel 1982 nel discorso alla Camera di insediamento del suo V° governo. Poi è stata la volta di Craxi in Palazzo Ducale, l’8 novembre del 1986 nel ventennale dell’alluvione con i ministri Granelli, Gullotti, Degan, Di Lorenzo, Visentini, il sindaco Laroni, il presidente della Regione Bernini e ospiti d’onore come Gianni Agnelli e Carlo De Benedetti. Quindi De Michelis il 3 novembre del 1988 per il varo del prototipo del Mose con i ministri Fracanzani, Ferri il sindaco Casellati e il presidente della Regione Bernini. Infine è venuto il turno di Berlusconi, il 24 maggio 2003 al collegio navale Morosini, con il cardinale Scola, il sindaco Paolo Costa, i ministri Lunardi, Matteoli e Buttiglione.

Un susseguirsi di fanfare e cori entusiasti. Ad esempio scrive Roberto Bianchin su Repubblica il 30 ottobre 1988: «Quattro grandi torri rosse, una lingua d’acciaio nascosta dentro, il tricolore dipinto sul fianco, il ferro da gondola, simbolo del Conorzio di imprese Venezia Nuova, disegnato da Forattini. E un nome, Mose, che i tecnici si affannano a spiegare che vuol dire modulo sperimentale elettromeccanico ma che tutti, a cominciare dal vicepresidente del consiglio Gianni De Michelis, ribattezzano subito Mosè, con l’accento sulla é. É la diga, dal nome biblicamente evocatore, che salverà Venezia dalle acque alte».

Bianchin non era il solo. «Ecco Mose, salverà Venezia», titolava la Stampa. «Mose ha fatto il miracolo. Perfettamente riuscito l’esperimento di Venezia», titolava il Giorno. «Ore 11,14 La paratoia si solleva. Un attimo di emozionata concordia», titolava il Gazzettino.

Venezia sui giornali negli anni 1982-83. A sinistra in basso: 10 dicembre 1982,
VIII legislatura, V° Governo Fanfani. Il Presidente del consiglio annuncia consistenti
investimenti per “la sopravvivenza e lo sviluppo di Venezia”.
Procedere per compromessi

Il terzo modo di procedere del metodo “governamentalista” – se così possiamo chiamare un sistema di governo frammentato per leggi speciali, leggine in deroga e decretazioni d’urgenza - è quello di avanzare per compromessi successivi, con interventi giustapposti tentando di rispondere “pragmaticamente” alle varie emergenze ed esigenze. Alle crisi anossiche della laguna si risponde con la raccolta delle alghe, all’erosione delle spiagge con dighe e cassoni sommersi di contenimento, all’erosione delle barene con le conterminazioni, alle acque alte medio basse con i rialzi della pavimentazione e così via inseguendo i sintomi di un collasso ecosistemico generale.

Ciò che ora chiamiamo Mose un tempo si chiamava più bonariamente Progettone, Progetto preliminare di massima, ed era solo una parte del Progetto Venezia. Era un intervento tra i molti che avrebbero dovuto affrontare, in una strategia integrata ambientale, socio-economica e istituzionale, il “Problema di Venezia”. Con il tempo abbiamo assistito ad un abbandono di ogni coerenza e organicità degli interventi e ad un procedere a foglie di carciofo. Tuttora non esiste un piano di bacino idrogeologico delle acque. Il Magistrato alle acque è stato (giustamente) sciolto a seguito dello scandalo del Mose, ma non è stato sostituito né dalla autorità di bacino “ordinaria” (ex lege 183), né dalla “agenzia” che avrebbe dovuta essere costituita per sovraintendere il funzionamento e gestire le chiusure mobili.

Il Piano comprensoriale è stato insabbiato illo tempore dalla Regione assieme ad ogni organica architettura della Città metropolitana. Il parco naturale della laguna è uscito dalla Legge quadro nazionale e quello di iniziativa locale è stato azzerato dal Comune. L’allontanamento dei traffici petroliferi dalla laguna (prescrizione di legge dal 1973) non è stato realizzato mentre è aumentato a dismisura quello crocieristico. La riapertura delle valli da pesca e la loro ri-acquisizione al demanio (sentenza n. 3665 del 14 febbraio 2011 della Corte di Cassazione in occasione di una infinita disputa che riguarda le valli da pesca) non sono state attuate. Abbandonato il progetto per la rimodulazione del Canale dei petroli. Nessun rilancio del Cnr, dell’Ispra e degli altri istituti di ricerca pubblici. Persino le sale dedicate alla laguna del Museo di storia naturale non sono state allestite. Per non parlare delle politiche abitative, sociali e produttive completamente liquefatte.

A fronte di tanti e tali fallimenti il vecchio Progettone ha via, via conquistato l’intera scena. Con il giovane avvocato Luigi Zanda presidente del CVN (dal 1985 al 1995) il Progettone ha subito una rivoluzione linguistica degna del miglior marketing aziendale. Il nuovo Mosé è la tecnologia made in Italy, l’Ottava meraviglia del mondo. Più ancora - dirà in un appassionato intervento Zanda al convegno organizzato dal P.C.I. “12 parchi nel Veneto”: «Mi azzardo a dire che il nostro progetto è il primo di una nuova generazione di opere pubbliche. Reti autostradali, ponti sugli stretti, sono cose imponenti e impegnative ma tradizionali. La nostra è la prima opera pubblica che dopo anni di disattenzione e di imprudenze, ripropone la centralità dell’ambiente. Le tecnologie più avanzate si devono plasmare ed adattare per fare, appunto della “ingegneria dell’ambiente”.(…) La tecnologia è stata spesso additata come elemento di rottura: noi la riproponiamo come strumento di riequilibrio». (Venezia 26 settembre 1986).

Parole analoghe orientate all’ecologia saranno pronunciate poche settimane dopo da Craxi in Palazzo Ducale per il ventennale dell’alluvione: «Il progetto Venezia è il primo di una nuova generazione di opere pubbliche che pongono la tecnologia al servizio dell’ambiente, per rigenerare nuove condizioni di equilibrio e di armonia che l’uomo, e in parte la stessa natura, avevano modificato. Si tratta di ricostruire un vero e proprio “ecosistema”, che era stato violato, attraverso il riequilibrio idrogeologico e una vasta opera di disinquinamento agricolo, industriale ed urbano. E’ una impresa che non si materializza in un grande cantiere, in una grande opera fisica, ma richiede uno studio, una intelligenza, una invenzione continua per andare alla radice dei fenomeni che hanno causato il deterioramento e rimuoverne globalmente le cause» (Venezia 8 novembre 1989).

La svolta ecologista di Zanda e Craxi durerà poco. Servirà a gettare un po’ di fumo negli occhi ad una opinione pubblica scettica e ai rilievi critici del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici e della Corte dei Conti. Esaurita la realizzazione del lungo elenco delle “opere complementari” e “preliminari”, le dighe di separazione mare/laguna, sono tornate ad essere il fulcro del sistema, lo scopo stesso dell’esistenza del Consorzio di imprese Venezia Nuova.

Ma quali dighe? Per quale scopo?

Già il Progettone, ribattezzato Mose, era frutto del tentativo di comporre in un impossibile compromesso le ragioni della salvaguardia con quelle della portualità. I già ricordati Indirizzi governativi del 1975 in attuazione della prima legge speciale disponevano che: «La conservazione dell’ecosistema, dell’equilibrio idrogeologico e l’abbattimento delle acque alte nei centri storici [deve avvenire] entro limiti tali da non turbare la funzionalità del sistema portuale». Il mandato è chiarissimo: non interferire con i traffici navali. Le rielaborazioni progettuali operate dal CVN con il Mose (nessun restringimento fisso delle bocche di porto, mantenimento dei fondali alla massima profondità, creazione di una grande conca di navigazione, mantenimento della configurazione rettilinea e marginamenti pesanti del Canale dei petroli) vanno tutte nella direzione di “non disturbare” il traffico marittimo. Il Mose, quindi, si configura più come una grande opera portuale che serve a mantenere pressoché inalterati i traffici portuali (anche nei casi di mareggiate eccezionali), piuttosto che un’opera «al servizio dell’ambiente», per usare le parole di Craxi.

Il caso Venezia sta tutto dentro questo dilemma: porto o salvaguardia. Siamo ancora al punto di partenza. 35 anni fa l’Associazione degli industriali e l’Ente zona industriale di Porto Marghera si chiedevano se si potesse «difendere Venezia senza uccidere il porto» (Massimo Mazzariol riferisce sul il Gazzettino del 14 novembre 1982). Per esserne certi affidarono uno studio ad una équipe di docenti di Cà Foscari: Muscarà, Marguccio, Elio Canestrelli e Paolo Costa. «Il responso dei quattro docenti è confortante: la chiusura temporanea delle bocche di porto ha un costo sopportabile, ma non tutti i rischi sono valutabili», riporta il giornalista. Quindi, dicono i professori: «Meglio costruire una paratia alla volta, piuttosto che tutte e tre simultaneamente».

Passa il tempo, cambiano i ruoli, ma siamo ancora qui. Pochi giorni orsono, il 10 ottobre 2017, il giornalista Albero Zorzi sul Corriere del Veneto, scrive: «Era lo spauracchio del presidente uscente dell’Autorità portuale Paolo Costa e lo è anche del suo successore Pino Musolino. L’acqua alta, le paratoie del Mose sollevate a chiudere la bocca di porto di Malamocco e le navi che aspettano fuori o che percorrono lentamente la conca di navigazione (…) il porto di Venezia rischia di essere piano piano abbandonato. Ed è partendo da qui che il provveditore interregionale alle opere pubbliche Roberto Linetti sta pensando ad un modo per ridurre il più possibile le chiusure del Mose a Malamocco». (Mose a metà per salvare il porto. Così passano anche le crociere, pag. 5 14/10/2017).

Venezia può venire inghiottita dalle acque, ma le navi potranno passarci sopra. Come bene documenta questa foto.


Riferimenti

Tra i numerosi articoli dedicati da eddyburg all’argomento si vedano, tra i più recenti. l’Eddytoriale n. 174, in gran parte dedicato alla banda, Consorzio Venezia Nuova, che inventò, progettò costruì, gestisce (e soprattutto beneficio degli ingenti finanziamenti pubblici impiegati per l’opera, l’articolo di Paola Somma "La città del Mose", che illustra il contesto metropolitano nel quale il “sistema Mose” agisce, quelli di Edoardo Salzano "Venezia e la modernità" , con la replica di Piero Bevilacqua, di Armando Danella, "Il rischio Mose".

Corriere del Veneto, 12 novembre 2017. Una dura critica al "project finanzing all'italiana (paga sempre il contribuente), e un consiglio: cancellare il CVN, padrone del Mose

Venezia. Dell’immane lavoro dei commissari sul Mose «ancora non si vedono i frutti», ammette; avverte che «i project financing possono creare un danno enorme alle casse pubbliche» e quando sente ripetere la solfa che la sua authority sta ingessando i lavori pubblici, sbotta: «Il problema della corruzione è diventato il problema dell’anticorruzione. Un clima preoccupante».

Il presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffale Cantone è come Mr Wolf di Pulp Fiction: risolve problemi. Dopo quelli di Expo e Mose, l’Anac affronterà anche i risarcimenti per le banche venete e a breve dirà la sua anche sulla terza convenzione tra la Regione e Sis sulla Pedemontana Veneta.

Presidente, un emendamento alla legge di stabilità presentato da alcuni senatori veneti incarica l’Anac di gestire il costituendo Fondo per le vittime dei reati finanziari. Ha già indicazioni sui criteri di risarcimento?
«In realtà non ne so nulla. Come presidente dell’Anac, invece, presiedo il collegio arbitrale che dovrà decidere i risarcimenti ai titolari di obbligazioni subordinate di Banca Etruria, Banca Marche, CariChieti e CariFerrara. Ci è stato detto che ci sarà un’estensione alle due venete ma per le obbligazioni subordinate. Mai saputo di risarcimenti per le azioni».

Anac si sta invece occupando del Mose, attraverso i commissari del Consorzio. Ci sono problemi di cassa, di pagamento delle rate del prestito Bei, i cantieri sono fermi, Mantovani è in crisi con 260 lavoratori e accusa i commissari di avergli tolto 100 milioni di lavori. Cosa sta accadendo?
«A metà degli anni Duemila la Commissione Europea ha verificato che c’era stata una totale restrizione della concorrenza e si decise che una serie di opere dovessero essere assegnate con appalti. Cosa che non è avvenuta con la precedente gestione e i commissari ritengono che le opere ora debbano andare a gara per rispettare il quadro di regole concordate con la Commissione. Non so se Mantovani ha ragione ad avanzare le sue rimostranze ma l’ingresso dei commissari ha portato alla necessità di rispettare le indicazioni europee».

I commissari fanno un sforzo enorme per capire meccanismi, leggere le gestioni passate, rimettere in asse il concessionario unico. Eppure non si vede ancora la luce, sul Mose.

«Non si vedono ancora i frutti del commissariamento, sono d’accordo. Il Consorzio gestiva soldi pubblici con la logica di rappresentare le imprese, una situazione di conflitto di interessi. Era una macchina che poteva marciare solo con un certo autista e quando questo è cambiato ed è diventato indipendente, si sono creati problemi enormi. La difficoltà sta nel dover continuare nella struttura del Consorzio ma nel rispetto delle regole. La situazione è oggettivamente entrata in crisi».

Sta dicendo che sarebbe opportuno eliminare il Consorzio Venezia Nuova, il concessionario unico?

«Non spetta a me dirlo. Ma è un ginepraio che richiede interventi legislativi, l’anomalia del Consorzio deve essere risolta in maniera politica. Il ministero deve decidere se questo meccanismo ha le condizioni per andare avanti. Pochi giorni fa ho parlato con Delrio, col quale c’è totale sintonia, per capire quale strada intraprendere per uscire dall’impasse: una soluzione va trovata e il Mose va ultimato».

Il rispetto delle regole sta creando problemi alle imprese: giovedì il presidente dell’Ance veneta Ugo Cavallin ha chiesto a Renzi di sospendere il codice degli appalti, la norma che vieta rapporti con la pubblica amministrazione a chi ha una condanna in primo grado e ha detto che l’Autorità Anticorruzione ha determinato una paralisi.
«Anche l’Ance nazionale ha chiesto la sospensione del codice con toni di una durezza inaudita. Sembra che il problema della corruzione sia diventata l’anticorruzione! Vorrei si usassero toni così accesi quando emergono fatti gravi di corruzione come quelli del Mose, anche cacciando i corruttori dalle associazioni di categoria. Per quanta riguarda l’esclusione delle imprese con condanna di primo grado, l’Anac ha raccolto un suggerimento del Consiglio di Stato ma riguarda solo reati di particolare gravità. L’Autorità è nata per spostare l’asse dalla repressione penale alla prevenzione amministrativa. Se le regole ingessano, qual è l’alternativa? Le mani libere? Non mi pare che leggi che hanno consentito di avere le mani libere come la Legge Obiettivo abbiano accelerato le opere pubbliche e anzi hanno favorito il malaffare».

La scorsa primavera lei aveva espresso dubbi sul terzo contratto tra Regione e concessionario Sis sulla Pedemontana. Ora l’atto è firmato e i bond sono stati collocati. Anac ha tratto le conclusioni?

«Ci sono alcune perplessità di cui daremo conto all’esito di un’istruttoria che sta per essere chiusa. Uno dei prossimi Consigli sarà dedicato alla Pedemontana e l’Autorità farà sapere a breve cosa ne pensa dell’atto aggiuntivo. In generale, il partenariato pubblico-privato, che funziona negli altri Paesi del mondo, da noi si sta rivelando un meccanismo a rischio. I Project nascono come libri dei sogni spacciati come fattibili. Ma poi vengono riportati a terra dai fatti quando le opere vengono iniziate, e con l’alibi che non possono non essere concluse, si chiede al pubblico di intervenire cambiando le regole del gioco. Le casse pubbliche rischiano di avere un enorme esborso dall’accoglimento di progetti sbagliati».

la Nuova Venezia, 3-4 novembre 2017. Prosegue l'emersione di frammenti dello scandalo più grande del secolo: l'azione della banda denominata Consorzio Venezia Nuova, nato e cresciuto con l'obiettivo di trasformare il recupero dell'equilibrio ecologico della Laguna in un enorme affare basato sulla costruzione di un gigantesco insieme di opere in c.a. e acciaio.

la Nuova Venezia, 3 novembre 2017
OPERE AMBIENTALI

E IL GIALLO DEI 266 MILIONI

«È la cifra che manca all'appello per interventi prescritti dall'Europa dopo la procedura di infrazione e mai realizzati»

Il "giallo" delle opere ambientali mai fatte: 266 milioni di euro di lavori di cui si è persa ogni traccia. Eppure era stata l'Unione europea a stabilire dieci anni fa che per chiudere la procedura di infrazione per "danni ambientali" provocati dai cantieri del Mose, il Consorzio avrebbe dovuto realizzare «interventi di compensazione» in laguna. Accantonando ogni anno le somme necessarie: 266 milioni che adesso mancano all'appello. Uno dei temi di cui si discuterà al prossimo Comitatone, convocato per il 7 novembre a palazzo Chigi. Due i temi all'ordine del giorno: la Legge Speciale (e il Mose) e le grandi navi, con la proposta del nuovo terminal a Marghera.

Sul fronte Mose si dovranno ripartire i 221 milioni stanziati dalla Finanziaria per il completamento delle opere. E decidere la strategia per il prossimo futuro, in vista della gestione del sistema. Una fase che durerà tre anni, fino alla consegna delle opere prevista il 31 dicembre 2021. Si dovrà decidere anche la nuova cabina di comando. Il ministro Graziano Delrio ha annunciato decisioni, dopo un vertice con Cantone e i commissari che guidano il Consorzio. Per la fase della manutenzione saranno necessari altri 105 milioni di euro l'anno.
Ma quello che è sparito dal tavolo sono gli interventi ambientali. Dieci anni fa il Comitatone aveva approvato una delibera in cui recepiva le indicazioni dell'Ue. Condizioni per archiviare la pratica dell'Infrazione, la messa a gara di una parte degli impianti e delle paratoie. E poi monitoraggi e lavori «ambientali», per rimediare ai guasti provocati dai grandi cantieri. A San Nicolò e a Santa Maria del Mare (zone «Sic» tutelate dalle direttive europee Habitat e Uccelli) e nel resto della laguna. Allegato alla delibera il lungo elenco di opere compensative ritenute necessarie, con il costo stimato che avrebbe dovuto essere a carico del Magistrato alle Acque e del suo concessionario Consorzio Venezia Nuova. Trovando le risorse dentro quelle già finanziate.
Ecco allora la «ricostruzione di barene», per limitare nelle aree di laguna più critiche il fenomeno dell'erosione: 74 milioni di euro, che comprendevano anche le valutazioni sugli «habitat ricostruiti nell'ambito degli interventi di recupero morfologico». Tredici milioni erano destinati alla ricostruzione di velme, in canale Passaora e valle Millecampi; sette milioni di euro dovevano servire per «riqualificare le aree di cantiere» nelle tre bocche di porto, al Lido, Chioggia e Malamocco. Altri interventi richiesti dall'Unione europea quelli di «riqualificazione ambientale» delle aree protette, e del tratto di laguna prossimo a Porto Marghera. Infine, la fitodepurazione delle acque, i contributi per la molluschicoltura, dopo i gravi danni subiti dagli allevatori anche a causa dei lavori del Mose in laguna.

La Nuova Venezia, 4 novembre 2017

LE OPERE AMBIENTALI
SONO DIVENTATE CEMENTO

«Svelato il "giallo" degli interventi di compensazione chiesti dall'Ue e mai realizzati. Decisivo l'ex Magistrato alle acque Cuccioletta nel 2011»

Venezia. Opere di "compensazione" ambientale mai fatte. Anche se a prescriverle era stata l'Unione europea. Interventi progettati e mai più realizzati. Decine di milioni che mancano all'appello. Che dovevano essere accantonati per quei lavori e invece sono stati dirottati altrove. A confermare la tesi spunta adesso un altro documento. E il giallo si infittisce.Il 20 aprile del 2011 il presidente del Magistrato alle Acque, Patrizio Cuccioletta, convoca una riunione urgente a palazzo Dieci Savi. Partecipano il vice Luigi Mayerle, la vicedirettrice del Consorzio, Maria Teresa Brotto, un gruppo di tecnici e docenti Iuav tra cui i professori Magnani, Ferlenga, Cecchetto, Aymonino. Il tema sono proprio le "opere di inserimento architettonico e paesaggistico del Mose".

Indicate dall'Ue come condizione necessaria per archiviare la procedura di Infrazione aperta a carico del governo italiano. L'Infrazione alle norme comunitarie riguardava l'apertura dei cantieri del Mose in violazione delle Direttive europee a protezione delle aree Sic (Siti di importanza comunitaria) e Zps (Zone a protezione speciale) per la fauna. Nel corso della riunione, Cuccioletta annuncia che le opere di inserimento architettonico vanno considerate «per la sola parte funzionale al Mose». Dunque vengono accantonati gli interventi di "riqualificazione ambientale" e paesaggistica in laguna. E il Magistrato alle Acque chiede al suo concessionario, il Consorzio Venezia Nuova, di predisporre il progetto definitivo «esclusivamente per gli interventi di inserimento e mascheramento architettonico degli edifici tecnici del Mose».
Cambia tutto, perché non si tratta più di un'opera paesaggistica, ma di interventi edilizi. Che quindi possono essere affidati alle stesse imprese che conducono i lavori alle bocche. Eppure si tratta di progetti che sono stati approvati molti anni prima, alcuni nel 2003 e 2004, che hanno già avuto il parere favorevole della Soprintendenza. Che chiede di «sviluppare adeguate proposte secondo i criteri propri dell'architettura del paesaggio». Invece non succede. Va avanti - ma sarà poi bloccata dallo scandalo - la parte elaborata dagli architetti Iuav sul «rivestimento degli edifici all'isola artificiale del Lido». Si fermano tutti gli altri, a cominciare dalla riqualificazione dei cantieri a Malamocco, Lido e Chioggia, alle sperimentazioni naturalistiche e alla tutela biologica. 266 milioni di euro, secondo la tabella approvata allora dal Comitatone. Di cui una parte dovevano essere garantiti dalla Regione, gli altri accantonati dal Consorzio Venezia Nuova.
Di quella lunga e dettagliata lista di interventi prescritti dall'Unione europea («Misure di compensazione»), molti non sono mai iniziati. «Risulta che sono stati fatti e collaudati interventi per 143 milioni di euro», dice il presidente del Provveditorato alle Opere pubbliche Roberto Linetti, «tra cui la ricostruzione di velme e barene». Ma adesso mancano all'appello i fondi per intervenire in laguna. Non solo Mose, insomma, come non si stancava di ripetere il Comune. Sono necessari interventi di riqualificazione ambientale e di ripristino, ad esempio, del cantiere per la costruzione dei cassoni del Mose, realizzati sulla spiaggia a Santa Maria del Mare. Una colata di cemento che secondo i progettisti doveva essere «provvisoria». Per rimuoverla occorrono però centinaia di milioni di euro. E anche per quell'intervento i fondi non ci sono.

Corriere del Veneto, 25 ottobre 2017. «La Regione vuole le competenze che sono già della Città metropolitana. Il nodo al Comitatone». A Napoli dicono: "Mbbruoglio aiutame. Intanto, i poteri reali li ha la banda CVN.

Venezia. Chi gestisce la laguna, controllerà anche il Mose. Ed è affollata la schiera di pretendenti: la Città Metropolitana che le competenze le ha già e manca solo l’ultimo miglio del decreto attuativo, il Provveditorato Interregionale alle Opere Pubbliche che con la nuova presidenza di Roberto Linetti ha ritrovato vigore e autorevolezza nella gestione della salvaguardia. E lunedì si è accodata ufficialmente anche la Regione, che è entrata nella partita dalla porta del disegno di legge sull’autonomia approvato dalla giunta Zaia dopo il referendum. Tra i 56 articoli ce n’è uno, il 29, che rivendica la gestione del demanio marittimo; della costruzione, bonifica e manutenzione dei porti; della difesa delle coste. E della salvaguardia di Venezia. Tutte funzioni dell’ex Magistrato, abolito dopo la scandalo MoSE.

Il disegno di legge approvato l’altro ieri, in realtà è lo stesso che la giunta su proposta del governatore Luca Zaia aveva già validato a marzo del 2016, dunque è da un po’ che Palazzo Balbi accarezza l’idea. Ma per legge le competenze ora come allora erano già della Città Metropolitana, ente non troppo caro alla Regione: nell’agosto 2014, su proposta del deputato Pd Andrea Martella, i poteri furono trasferiti grazie ad un emendamento e quel passaggio di consegne è legge dallo scorso anno. «Questa ipotesi della Regione contrasta con la legge approvata l’anno scorso, che disponeva che le competenze sulla laguna sarebbero state trasferite al Comune - conferma Martella - competenze di salvaguardia e di risanamento della città di Venezia e dell’ambiente lagunare, di polizia lagunare e organizzazione della vigilanza lagunare nonché di tutela dell’inquinamento delle acque. È vero, mancano i decreti attuativi e su questo il governo è un po’ in ritardo, ma la linea è stata tracciata. Zaia andrà misurato sulla capacità di chiedere le competenze dell’articolo 116 della costituzione e questa non è prevista, dunque meglio che eviti richieste astruse, che peraltro darebbero vita a un nuovo centralismo regionale».

Un altro tiro troppo in alto del governatore dopo l’investitura del referendum per l’autonomia del Veneto? Di certo, Zaia si è inserito nel ritardo della firma del decreto che è frutto anche del braccio di ferro tra enti: da una parte il ministero delle Infrastrutture che non intende cedere le funzioni dell’ex Magistrato che oggi esercita il Provveditorato, i cui dipendenti sono fermamente contrari a passare sotto le insegne metropolitane; dall’altro la Città, che ha fatto presente al governo di avere già le risorse a disposizione per intervenire sulla messa in sicurezza delle bricole e manca solo il formale trasferimento per iniziare a mettere ordine in laguna. Tra i due litiganti, ora arriva la Regione.

Neocentralismo veneto? Il sindaco Luigi Brugnaro schiva la polemica ma le competenze sono una partita che sta trattando con Palazzo Chigi: «Abbiamo parlato di tutto col presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, anche dei poteri dell’ex Magistrato alle Acque». Il decreto attuativo è alla firma e sarà uno dei temi all’ordine del giorno del Comitatone del 7 novembre. La Regione smorza la polemica. «La legge c’è ma manca il decreto attuativo e c’è sempre il tema dell’operatività e delle risorse - nota l’assessore allo Sviluppo Roberto Marcato - Noi chiediamo queste competenze per essere più efficaci. E poi lo declineremo in accordo con la Città Metropolitana, con la quale stiamo lavorando a strettissimo contatto su Porto Marghera. Nessuna volontà di scippare competenze».

Eppure il problema delle funzioni date con parsimonia alla Città c’è: l’urbanistica è stata ritirata a Ca’ Corner ma non alle altre Province e non è mai più tornata a casa. Sarà il tema caldo delle consultazioni della Regione con gli enti locali sul progetto di legge dell’autonomia che dovrà approvare il consiglio Regionale. L’articolo 116 della Costituzione dispone che le maggiori competenze possono essere chieste «sentiti gli enti locali». La partita è aperta.

La Stampa, 11 ottobre 2017. «Dopo scandali ed extracosti, il sistema antimarea andrà rottamato? »Ma l'errore è molto più grave. Vedi su eddyburg perchè

I cassoni subacquei sono intaccati dalla corrosione, da muffe, e dall’azione (davvero non si poteva prevedere?) dei peoci, le umili cozze. Le paratoie già posate in mare non si alzano per problemi tecnici. Quelle ancora da montare, lasciate a terra, si stanno arrugginendo per la salsedine nonostante le vernici speciali; chissà che accadrà quando saranno posate sul fondale. La storia del MoSE (la sigla sta per Modulo Sperimentale Elettromeccanico), il sistema di paratoie mobili concepite nel lontano 1981 per proteggere in modo sicuro Venezia e il suo inestimabile patrimonio artistico dalle alte maree che invadono la Laguna provenienti dall’Adriatico, è davvero un’antologia degli orrori. Invece di costare 1,6 miliardi di euro, ne è già costato 5,5; invece di entrare in funzione nel 2011, se tutto va bene partirà all’inizio del 2022.

Ecco come avrebbe dovuto funzionare il Mose di Venezia
Tutta l’opera è stata segnata da gravissimi episodi di corruzione, sanzionati in un processo che si è appena concluso e che ha rivelato un turbinoso giro di mazzette per coprire lavori e opere mal progettati e peggio realizzati. Ora poi si scopre ora che per completare l’opera e riparare le strutture già rovinate ci vorranno la bellezza di altri 700 milioni, più almeno altri 105 milioni di euro l’anno per garantirne il funzionamento e la manutenzione, soldi che non si sa chi dovrà sborsare. Ma quel che è più paradossale, nonostante un esborso pazzesco, una volta in funzione il sistema di 78 paratie mobili chiuderà la porta alle maree eccezionalmente alte, da 110 centimetri a tre metri. Ma non potrà fare nulla per limitare i danni quando arrivano le «acque medio-alte», quelle tra gli 80 e i 100 centimetri, sempre più ricorrenti.

In realtà, dicono gli esperti, sin dall’inizio si sapeva che questo «gioiello di ingegneria nazionale» era stato pensato per fronteggiare situazioni estreme, come i 194 centimetri della tremenda alluvione del 4 novembre del 1966. Il sistema di paratoie mobili a scomparsa, poste alle cosiddette «bocche di porto» (i varchi che collegano la laguna con il mare aperto attraverso i quali si attua il flusso e riflusso della marea) di Lido, San Nicolò, Malamocco e Chioggia, potrà isolare temporaneamente la laguna di Venezia dal mare Adriatico, innalzandosi nel giro di cinque ore.

Ma nella zona di Piazza San Marco basta una pioggia un po’ intensa – come l’11 settembre – per allagare tutto. A suo tempo, il Consorzio Venezia Nuova, l’organismo – oggi commissariato – che gestisce la realizzazione del MOSE, aveva proposto una costosissima operazione di isolamento completo di Piazza San Marco e della Basilica, con la posa di un’enorme guaina. Ma a breve la piazza sarà messa al sicuro fino a 110 centimetri di acqua alta con un intervento che costa solo 2 milioni di euro. Tra cui speciali «tappi» di gomma e metallo nella Basilica per bloccare l’entrata della marea dal sottosuolo, e l’innalzamento dei masselli della piazza.

Insomma, non sempre il gigantismo paga. E quel che è peggio è che secondo una perizia commissionata dal Provveditorato alle Opere Pubbliche di Venezia, braccio operativo del Ministero delle Infrastrutture, il MOSE rischia cedimenti strutturali per la corrosione elettrochimica dell’ambiente marino e per l’uso di acciaio diverso da quelli dei test. Le cerniere che collegano le paratoie mobili alla base in cemento - ce ne sono 156, ognuna pesa 36 tonnellate, un appalto da 250 milioni affidato senza gara al gruppo Mantovani - sono ad altissimo rischio (probabilità dal 66 al 99 per cento) di essere già inutilizzabili.

Un controllo ha mostrato che le cerniere del MOSE di Treporti, sott’acqua da tre anni e mezzo, presentano già uno stato avanzato di corrosione. Nelle prove di questi mesi si sono viste paratoie che non si alzano, altre che non rientrano nella sede per i detriti accumulati, Problemi alle tubazioni, un cassone esploso nel fondale di Chioggia. Una nave speciale (costata 52 milioni) per trasportare le paratoie in manutenzione al rimessaggio in Arsenale ha ceduto al primo tentativo di sollevare una delle barriere. Infine, uno studio del Cnr, che ha aggiornato la mappa del fondale della Laguna, oltre a scoprire nei fondali copertoni, elettrodomestici, relitti di barche, persino containers, avverte che le strutture già posate del MOSE hanno generato una preoccupante erosione dei fondali. Le opere pubbliche, specie quelle mirate a difendere il nostro territorio (a maggior ragione dal rischio climatico) sono fondamentali. Ma il MOSE è il simbolo di quel che non si deve fare.

la Nuova Venezia, 24 settembre 2017. Ripristinata la legalità con un processo che non ha coinvolto i veri responsabili del malaffare, la gigantesca opera verrà comunque completata. E a pagare i conti saranno cittadini che subiranno la mancata realizzazione di scuole, ospedali, residenza pubblica... (m.p.r.)

«La cifra indicata dal provveditore alle Opere Pubbliche Roberto Linetti nella sua lettera al Governo sui costi della manutenzione del Mose, è indubbiamente molto importante. Ma il fatto positivo è che per la prima volta da parte di un'autorità qualificata come il Provveditorato alle opere pubbliche abbiamo finalmente una cifra certa sui costi per il mantenimento del sistema di dighe mobili. Si tratta ora di capire come garantirla, tenendo conto del fatto che non è in discussione che il Mose vada terminato e vada poi messo in condizione di funzionare». È la prima risposta di un esponente del governo, il sottosegretario al ministero dell'Economia Pier Paolo Baretta alla lettera che l'ingegner Linetti ha inviato nei giorni scorsi al Ministero delle Infrastrutture in cui mette nero su bianco le necessità economiche per la conclusione del Mose e per la sua futura manutenzione chiedendo finanziamenti urgenti da stanziare già con la prossima Legge di Stabilità.«Oltre ai 221 milioni di euro mancanti per il completamento del Mose», scrive Linetti, «sono indispensabili altri fondi in conto capitale per l'avviamento dell'attività di gestione del Mose». E li quantifica, appunto.

«A regime», scrive ancora, «serviranno almeno 80 milioni di euro, più i 15 per il mantenimento. Che fa 95 milioni di euro, appunto, una cifra enorme, che nell'arco di un decennio comporterebbe l'esborso di quasi un miliardo di euro per il solo mantenimento in funzione dell'opera. «Per quanto riguarda l'inserimento dei fondi nella prossima Legge di Stabilità non è possibile dare una risposta in questo momento», spiega ancora Baretta, «ma ci confronteremo in merito con il Ministero delle Infrastrutture. Il provveditore Linetti fa bene a sottolinearne l'urgenza, perché tutti vogliamo che il Mose non si blocchi, ma sia messo in condizione di funzionare. Aggiungo che, a mio avviso, la quantificazione esatta dei costi di gestione del Mose dovrebbe accelerare la fine della gestione commissariale del Consorzio Venezia Nuova e la scelta della società di gestione che prenderà poi in carico la manutenzione dell'opera».
No comment sull'iniziativa di Linetti nei confronti del governo sui finanziamenti per il Mose da parte dei due commissari del Consorzio Venezia Nuova Giuseppe Fiengo e Francesco Ossola, in un momento comunque non facile per l'organismo che ha in mano l'impegno di concludere e far funzionare il complesso sistema di dighe mobili alle bocche di porto.L'iniziativa ufficiale del provveditore alle Opere pubbliche nei confronti del governo sul Mose rende ancora più urgente la convocazione del Comitatone, attesa da tempo e slittata continuamente. «Non c'è dubbio che il Comitatone debba essere convocato in tempi brevi, per i molti temi su Venezia e la sua salvaguardia da affrontare», conferma il sottosegretario Baretta, «e se n'è già parlato con il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, a cui spetta l'incarico della convocazione. Non è ancora possibile indicare una data, ma non ci sarà molto da aspettare».Ma il problema Mose resta là ad aspettare in tutta la sua gravità. Perché ora a preoccupare non ci sono solo i problemi tecnici - come le muffe nelle gallerie sottomarine e la corrosione dei materiali - ma anche appunto i costi esorbitanti dell'opera anche per quello che riguarderà il suo futuro mantenimento e la gestione

la Nuova Venezia, 23 settembre 2017. Il mostro inutile e dannoso, che non servirà a proteggere Venezia dalle acque alte eccezionali e che ha devastato l'assetto dell'ecosistema lagunare costerà ogni anno per la sola manutenzione più della costruzione di un ospedale. con postilla

Ottanta milioni di euro l'anno. Più 15 per laguna. Dopo trent'anni, si sa ora con esattezza quanto costerà la manutenzione del Mose. Per la prima volta i conti sono messi nero su bianco sulla richiesta di finanziamento urgente, da inserire nella prossima Finanziaria, inviata in questi giorni al governo e firmata dal Provveditore alle Opere pubbliche Roberto Linetti. «Oltre ai 221 milioni mancanti per il completamento dei lavori del Mose», scrive il dirigente dello Stato al suo ministero, «sono indispensabili altri fondi in conto capitale per l'avviamento dell'attività di gestione del Mose».Nel caso non arrivassero, scrive con una certa preoccupazione il presidente Linetti, «questo porterebbe alla sospensione delle attività, oltre a provocare un danno di immagine anche a livello internazionale. Si dovrebbero anche accantonare altri milioni per poter procedere alla messa in sicurezza di quanto già realizzato, pena il decadimento delle opere, realizzate in ambiente marino e condizioni sfavorevoli, con oneri pesantissimi. E infine con «la possibilità di altri contenziosi milionari con le ditte esecutrici», già in causa con il Consorzio che a sua volta ha chiesto di ripianare i danni.Vengono citati gli ultimi inconvenienti segnalati qualche settimana fa. Come le muffe nelle gallerie sottomarine, dove l'aerazione è possibile solo con l'avvio di mezzi meccanici - e quindi degli impianti elettrici, non ancora realizzati - e la corrosione dei materiali.

La richiesta avanzata al governo è dunque di avere subito altri 300 milioni di euro. Di cui due terzi (193,5)per il Mose e la sua gestione, 102 per la laguna («manutenzione delle bricole e dei marginamenti, vigilanza contro il moto ondoso, ripristino dell'efficienza idraulica e della vivificazione delle aree lagunari soggette a minor ricambio di marea»). 115 sono i milioni richiesti (cui 70 per il Mose e 45 per la laguna) nel primo anno, il 2017, 53 più 35 nel 2019, 70 più 22 nel 2020.Qui comincerà l'avvio della gestione. Che sarà affidata secondo la legge con gara. Allora la necessità, secondo il Provveditorato, aumenterà ancora. «A regime», scrive Linetti, «serviranno almeno 80 milioni di euro, più i 15 per il mantenimento». Cifre enormi, a cui lo Stato dovrà far fronte per sempre, trattandosi di una manutenzione che non può essere mai sospesa. Uno dei primi problemi sollevati dagli oppositori del Mose, peraltro mai ascoltati in sede tecnica e politica, che mettevano in guardia per gli alti costi della manutenzione. Nei primi documenti ufficiali del Consorzio Venezia Nuova di Mazzacurati i costi per la manutenzione venivano stimati intorno ai 20 milioni l'anno, un quarto di quelli reali.

A cosa serviranno quei soldi? Gli ingegneri del Provveditorato e del Consorzio hanno fatto due conti, allegando una relazione alla lettera del Provveditore. È necessario avviare fin da subito le «attrezzature necessarie alla gestione funzionale del sistema Mose». Compresa la sala controllo e i nuovi edifici all'Arsenale per la manutenzione delle paratoie, che gli ambientalisti contestano. Poi l'attività di «gestione operativa per la movimentazione delle paratoie alle bocche di porto»; infine, le attività di «mantenimento in efficienza di quanto già installato». Un pozzo senza fondo. Perché, come si è visto negli ultimi mesi, la mancata manutenzione di una parte del sistema (cerniere, cassoni, elementi metallici e impianti del sistema) provoca guai a catena. Lo scandalo Mose non è finito
postilla
È molto o è poco spendere 80 milioni di euro all'anno per mantenere quel mostro? Abbiamo cercato qualche dato significativo per fare un confronto. Eccone uno: i quattro ospedali di Prato, Pistoia, Lucca e Massa Carrara sono costati complessivamente 290 milioni di euro. Con i soldi spesi ogni anno per mantenere quel mostro inutile e dannoso si potrebbe costruire un ospedale all'anno. Il primo potrebbe utilmente essere destinato a ospitare, vita residua restante, quanti hanno promosso, sostenuto, agevolato e concorso a realizzare l'ignobile progetto

Concluso il processo, che non ha coinvolto i veri corrotti e corruttori, ci si appresta ora a completare l'opera. Come? Alla solita maniera, i soldi ce li mettiamo noi, e a decidere saranno le imprese o gli amici del CVN. Articoli di Alberto Vitucci e Alberto Zorzi, la Nuova Venezia e Corriere del Veneto, 19-20-21 settembre (m.p.r.)

la Nuova Venezia 21 settembre
MOSE, LA CARICA
DEGLI ASPIRANTI DIRETTORI

di Alberto Vitucci

Storie e legami politici e professionali dei candidati che puntano alla direzione generale del Consorzio Venezia Nuova

Un colloquio di lavoro come tanti altri. Per capire le caratteristiche e le capacità dei candidati. Ma l'incarico non è uno qualunque. Cominciano in questi giorni gli "esami" per il posto di direttore generale del Consorzio Venezia Nuova. Una decina di candidati saranno ascoltati dai due commissari straordinari Giuseppe Fiengo e Francesco Ossola, sui circa trenta che hanno aderito al bando. A lavori quasi ultimati, problemi e criticità che spuntano ogni giorno, il direttore avrà l'arduo compito di portare a termine la grande opera dello scandalo. Avviata da altri e gestita oggi dai commissari straordinari. 220 milioni lo stipendio (ai tempi di Mazzacurati arrivava fino a sei milioni di euro) per un ruolo che dovrebbe rilanciare i lavori e le aspettative delle imprese bloccate dal grande scandalo.

Che non sia un incarico qualunque lo si vede dalla caratura dei candidati. Tra cui spiccano anche nomi noti della politica "prima" dello scandalo. Uno è Tommaso Riccoboni, ex Forza Italia, già assessore all'Urbanistica della giunta di Giustina Destro a Padova. Titolare di uno studio di ingegneria in via Altinate, «padre» del cavalcavia di corso Australia. «Galan? Un grande amico», diceva. Anche se all'epoca, e non solo in Forza Italia, erano in tanti a dirsi «amici di Galan». Ecco Silvano Vernizzi, dirigente di Veneto Strade, già commissario del Passante e responsabile dell'Ufficio Ambiente all'epoca di Renato Chisso, assessore di Galan. Entrambi hanno patteggiato nello scandalo Mose. Ci sono due ingegneri collaboratori dello Studio Altieri di Lia Sartori (assolta nel processo Mose), Marino Tura e Umberto Rulli. L'ingegnere Alberto Borghi, superconsulente per la viabilità della giunta Zanonato a Padova tra il 2007 e il 2010.
Ci sono anche ingegneri che lavorano per le imprese azioniste del Mose. Come Massimo Paganelli di Condotte e l'ingegner Bellipanni di Grandi Lavori Fincosit e Cidonio. Sabina Pastore ha lavorato invece come consulente per Veneto Tlc del gruppo Mantovani e coordinatore per gli impianti elettromeccanici del Mose. Chiede di entrare a dirigere il Mose anche l'ingegner Virgino Stramazzo, dal 1989 direttore dell'area tecnica di Save, la società aeroportuale presieduta da Enrico Marchi, ingegnere idraulico collaudatore per la Regione Veneto. E poi Nicola Torricella, direttore tecnico dell'Autorità portuale nominato da Paolo Costa e confermato ora dal nuovo presidente Pino Musolino. Ancora, Alberto Vielmo e Diego Semenzato (già consulente del Consorzio per le barene in laguna e l'isola di Malamocco), l'ex direttore di Insula ed ex ingegnere capo del Comune Ivano Turlon. Infine, due dirigenti del Provveditorato alle Opere pubbliche e ministero delle Infrastrutture. L'ingegner Valerio Volpe, da anni a capo dell'Ufficio salvaguardia del Magistrato alle Acque; Francesco Sorrentino, dirigente dell'attuale Provveditorato.
Un plotone di pretendenti tra cui adesso i commissari dovranno scegliere il nuovo direttore. Che dovrà portare in porto una nave che si annunciava come l'ammiraglia della flotta italiana. Uscita ammaccata dallo scandalo. Con tante criticità non ancora risolte. Come la corrosione dei materiali e delle cerniere, il malfunzionamento del jack-up, la nave porta paratoie da 52 milioni di euro. Problemi anche di cronoprogramma. Con la fine dei lavori che potrebbe ulteriormente slittare. Dal 2018 (consegna dell'opera il 1 gennaio 2022) a dopo. Si comincia in questi giorni la posa delle paratoie di Chioggia. Poi toccherà alla serie del Lido-San Nicolò. Ma a Malamocco, dove sono già state affondate, ancora non è stata costruita la centrale elettrica. Le dighe non si possono alzare, e nei corridoi sott'acqua già si sono formate muffe e incrostazioni
la Nuova Venezia 21 settembre
«ANCORA SOLDI, OLTRE IL DANNO LA BEFFA»
di Alberto Vitucci

«Non permetteremo che il governo sottragga altri fondi pubblici per pagare con i nostri soldi i conti lasciati aperti dalle tangenti». Arianna Spessotto (nella foto) deputato veneziano del Movimento Cinquestelle, va all'attacco. E usa parole durissime per l'ipotesi, trapelata negli ultimi giorni . La proposta è quella di "anticipare" con la prossima Finanziaria circa 200 milioni necessari al completamento del Mose e allo sblocco dei cantieri. I soldi ci sono, ma sono bloccati dai vari contenziosi giudiziari che vedono contrapposte le imprese al Consorzio.

«Oltre al danno arriverebbe anche la beffa», scrive Spessotto, «con il Governo che vorrebbe mettere altri 200 milioni di risorse pubbliche - dopo i milioni già generosamente elargiti negli ultimi Def- per tappare i buchi finanziari creati dalla più costosa opera della storia italiana, che rimarrà chissà per quanti anni ancora incompiuta e nessuno ancora sa se mai funzionerà!». «Il Mose è responsabile di un danno erariale e Matteoli, condannato a 4 anni, se ne deve andare dalla presidenza dei Lavori pubblici del Senato»


Corriere del Veneto, 20 Settembre 2017
MOSE, PRIMA I SOLDI
O PRIMA I LAVORI?

LO SCONTRO TRA IMPRESE
E COMMISSARI BLOCCA TUTTO

di Alberto Zorzi
In cassa risorse ingenti, il nodo sono diventate le regole
Venezia. Oltre 120 milioni già nelle casse del Provveditorato interregionale alle opere pubbliche. Oltre 300 milioni, tra cui quelli appena citati, già affidati per il suo completamento. E 400 milioni di euro che potranno essere «recuperati» grazie a un ricalcolo complessivo delle spese per i tassi d’interesse (crollati negli anni da oltre il 20 per cento al 3), che nell’intenzione dei commissari potrebbero essere utilizzati per i tre anni di avviamento dell’opera, tra inizio 2019 e fine 2021, prima della gara per l’affidamento della gestione. Messe in fila così queste cifre, si potrebbe dire che il Mose non ha mai avuto tanti soldi disponibili. Eppure, per un incredibile paradosso contabile, le dighe mobili che dovranno salvare Venezia dall’acqua alta rischiano di incagliarsi in quello che in termini poco tecnici ha un nome ben preciso: cane che si morde la coda.

Il ragionamento è questo. Il provveditore Roberto Linetti, come detto sopra, ha in cassa già i soldi per pagare i lavori. Ma per legge può pagare solamente i cosiddetti «Sal», cioè gli stati di avanzamento dei lavori, come avviene in qualunque cantiere: se in casa tua l’impresa A ha messo le piastrelle, fa la fattura e la paghi, così come la B che ha dipinto le stanze. A fare i Sal è il Consorzio Venezia Nuova, il pool di imprese che sta costruendo il Mose, sulla base dei lavori realizzati. Le imprese però, in questi mesi, di lavori ne stanno realizzando pochissimi, perché sono in polemica con i commissari del Consorzio, Giuseppe Fiengo e Francesco Ossola, accusati di non pagarle. Tanto per dire, Mantovani, che fa la parte del leone, lamenta Sal non pagati per 39 milioni e ci aggiunge altri 29 milioni per il fatto che molti cantieri alla bocca di Lido non sono stati collaudati (alcuni da anni) e dunque le spese sono rimaste in carico al colosso padovano delle costruzioni. Ma la situazione non cambia per gli altri, in primis Condotte e Grandi Lavori Fincosit, sempre per cifre milionarie. Niente lavori, niente Sal, niente pagamenti di Linetti: da cui la storia del cane.

Le versioni, però, a questo punto divergono. Le imprese sostengono infatti che siano i commissari a non fare i Sal sui lavori già realizzati, per punirle delle spese che il Consorzio ha dovuto sostenere per i danni e le false fatture emerse poi nell’inchiesta che ha portato ai processi, il principale chiuso proprio nei giorni scorsi: circa 65 milioni di euro complessivi. «In realtà io i Sal li ho pagati tutti e non posso ripagare due volte lo stesso lavoro - dice invece Linetti - ma i commissari hanno dovuto usare i soldi per far fronte ad altre spese: tasse non pagate, fatture false, mutui, sub-appalti». Certo, alcuni Sal sono bloccati per contestazioni, ma sono pochi. Nei primi due anni del commissariamento, iniziato a fine 2014, la strategia è stata una mediazione continua con le imprese: un po’ ti pago, un po’ no, perché tu mi devi dei soldi. Posizione che le imprese hanno sempre digerito male, convinte che i lavori andassero pagati subito e i contenziosi risolti in tribunale, senza collegamenti.

A spazzare via questo labile «accordo» sono però arrivati due problemi: il primo è il mutuo con la Banca europea degli investimenti, il secondo le gare pubbliche per alcune parti del Mose (le paratoie, gli impianti, eccetera), imposte dall’Unione Europea per chiudere la procedura di infrazione aperta a metà anni Duemila. Quando i commissari hanno analizzato il mutuo Bei da 600 milioni hanno infatti scoperto una cosa incredibile: che i soldi erogati dalla banca europea spesso non erano stati usati per le voci indicate nei contratti e poi non venivano restituiti. Il risultato è che solo l’anno scorso il Consorzio ha dovuto pagare alla Bei 267 milioni di euro, a fronte di Sal al Provveditorato per 300 milioni. Alle imprese, dunque, sono rimaste solo le briciole: 33 milioni. Ma mentre prima ci si poteva un po’ accordare con i consorziati, promettendo tempi migliori in futuro, ora ci sono altre imprese, terze, che non hanno nulla a che fare con lo scandalo Mose e chiedono solo di essere pagate, e presto. Per dire, ci sono i croati di Brodosplit che hanno realizzato le paratoie di tre bocche di porto su quattro (Malamocco, Chioggia e ora stanno finendo Lido Sud) e avanzano 16 milioni.

Per questo lunedì Linetti è andato a Roma al ministero delle Infrastrutture per cercare una soluzione: inserire nella legge di stabilità un anticipo sui Sal (si ipotizza di 120 milioni di euro) per sistemare i conti con le imprese e rilanciare i lavori. Anche perché nel frattempo il Cvn aveva fatto una gara per cercare una banca che gli concedesse un mutuo: gara andata deserta. «E’ un momento topico», ammette Linetti.



la Nuova Venezia 19 settembre
FONDI PER I LAVORI

LO STATO ANTICIPA
di Alberto Vitucci

Per poter sbloccare i cantieri, nella prossima Finanziaria a disposizione 200 milioni. Linetti forse terzo commissario

Venezia. Il Mose slitta. Mancano soldi e i guai tecnici non sono finiti. Così la conclusione dei lavori della grande opera, annunciata dal governo per il giugno 2017, poi rinviata al 2018 con consegna dei lavori nel 2021, potrebbe allontanarsi ancora. Ieri nella sede del ministero delle Infrastrutture si è tenuto un vertice tecnico chiesto dal commissario per l'Anticorruzione Raffaele Cantone e dal ministro Graziano Delrio. Confronto a tratti ruvido fra gli uffici che rappresentano lo Stato. Per cercare di risolvere la mission impossible: riuscirà lo Stato italiano, dopo aver speso 5 miliardi e mezzo di euro di fondi pubblici, dopo lo scandalo e gli arresti, a portare a compimento la più grande opera italiana degli ultimi decenni?
Altre nubi si addensano sul futuro del Mose. Anche senza la corruzione, i problemi sono tanti. Il primo, ha detto ieri agli alti funzionari del ministero il presidente del Provveditorato alle Opere pubbliche del Veneto Roberto Linetti, «è quello finanziario». Cause civili in corso tra lo Stato e le imprese del Mose, tra il Consorzio oggi governato dai commissari di Cantone e le stesse imprese. Contenziosi e ricorsi a Tar sulle opere non finite o su quelle finite male, diversità di interpretazione per i pagamenti dei danni da parte delle assicurazioni. Fatto sta che i cantieri sono bloccati. Le imprese reclamano lavoro, la macchina non va avanti. I soldi già stanziati diventano spendibili solo dopo un anno, un anno e mezzo. Perché dopo il grande scandalo le banche non garantiscono più, e tutto passa attraverso i ministeri con tempi infiniti.
La soluzione individuata ieri è quella che con la prossima Finanziaria lo Stato potrà anticipare qualcosa come 200 milioni. Liquidità preziosa per far ripartire i cantieri in laguna. I conti definitivi si faranno alla fine delle cause e delle richieste reciproche di risarcimento danni. Ma quello finanziario non è certo l'unico problema. Negli ultimi mesi la struttura tecnica del Consorzio Venezia Nuova, retta dal commissario Francesco Ossola, ingegnere torinese, si è trovata a fare i conti con imprevisti e magagne che nessuno aveva messo in conto. Le incrostazioni delle paratoie, la corrosione di alcune parti delle cerniere del Mose, la muffa nei corridoi dei cassoni, i danni provocati dalla mancanza della centrale elettrica. Struttura che costa almeno 70 milioni di euro, che si è deciso di realizzare dopo la posa delle paratoie. Risultato, stando sott'acqua senza essere ventilate e rialzate, le paratoie di Malamocco si stanno già rapidamente deteriorando.
Contrasti evidenti fra i due commissari (Ossola e l'avvocato dello Stato, Giuseppe Fiengo), con il provveditore Linetti a fare da mediatore. Non è ancora esclusa la nomina di un terzo commissario in sostituzione di Luigi Magistro, colonnello della Finanza che ha deciso di dimettersi qualche mese fa. Ma la soluzione più probabile, a quanto si è capito dopo l'incontro di ieri, potrebbe essere la nomina di Linetti a commissario non retribuito. Una figura tecnica ma anche un rappresentante dello Stato in laguna, che potrebbe mediare tra imprese e struttura consortile. Tra le esigenze di trasparenza ed economia del commissario Fiengo e quelle tecniche del commissario Ossola. Da parte delle imprese (Mantovani, Condotte, Fincosit), il cui peso torna a farsi sentire, c'è anche chi ha suggerito a Roma di dichiarare conclusa l'opera dei commissari, smantellando l'ufficio veneziano che fa capo a Cantone. Ipotesi che però non sembra essere di gradimento all'Anticorruzione. Una partita che potrebbe essere risolta con l'arrivo del nuovo direttore generale, che il Consorzio sta cercando con un bando dopo l'uscita di scena di Hermes Redi, due anni fa. Una decina di posizioni sono state ritenute "interessanti" tra coloro che hanno presentato il curriculum. I colloqui per la scelta cominceranno nei prossimi giorni.

la Nuova Venezia 19 settembre
«MA I DANNI NON VANNO IN PRESCRIZIONE»

di Alberto Vitucci


Vincenzo Di Tella, ingegnere da sempre critico sulla grande opera: «Mancate risposte sulle criticità»
Venezia. I danni del Mose non vanno in prescrizione. Tecnici e ingegneri che da sempre si sono opposti alla grande opera in laguna commentano con una punta di amarezza la sentenza del processo Mose che ha mandato assolti anche per intervenuta prescrizione alcuni imputati, tra cui l'ex presidente del Magistrato alle Acque Maria Giovanna Piva.«Vorremmo sapere chi pagherà i danni provocati da scelte sbagliate, gli errori del progetto», attacca l'ingegnere Vincenzo Di Tella, specialista in costruzioni sottomarine a autore insieme ai colleghi Sebastiani e Vielmo del progetto alternativo al Mose delle paratoie a gravità. Venne proposto dal Comune guidato da Massimo Cacciari al governo Prodi, ma scartato senza studi di approfondimento.
«Sulla vicenda penale non voglio intervenirre», dice Di Tella, «ma ci sono ancora troppi interrogativi aperti sul lato tecnico. Il primo punto è il comportamento delle paratoie del Mose in caso di mare agitato. Lo studio della società Principia ha dimostrato che c'è il rischio di risonanza e di malfunzionamento». Secondo punto, secondo Di Tella, i modelli. Quelli usati per il progetto Mose a parere dell'ingegnere non sarebbero completi, e non avrebbero tenuto conto di alcuni dettagli. Accuse circostanziate e documentate, che erano costate a Di Tella qualche anno fa un processo dopo la causa civile intentata dal Consorzio di Mazzacurati. Alla fine però il coraggioso ingegnere era stato assolto. «Non fu diffamazione, ma legittimo diritto di critica», aveva deciso il giudice.
La lista delle accuse è lunga. E secondo Di Tella vi sono domande tecniche a cui nemmeno la nuova gestione del Consorzio del dopo scandalo ha mai dato risposte. «Abbiamo chiesto un confronto pubblico», dice, «ma non ci siamo riusciti».Tra gli altri punti sollevati quello della subsidenza. Studi recenti del Cnr hanno dimostrato che il fondale dove posano gli enormi cassoni in calcestruzzo cede di qualche centimetro l'anno. In media molto più che il resto della costa italiana. «Cosa succederà fra qualche anno quando l'allineamento non sarà perfetto?». Altro nodo quello della manutenzione. «Come fa il sistema a durare cento anni e la singola paratoia cinque quando in alcuni casi dopo qualche mese di immersione la diga è già visibilmente alterata?».
Infine gli errori. Come quelli di progettazione e costruzione della conca di navigazione a Malamocco, le incrostazioni, il malfunzionamento di alcune parti e la corrosione dei materiali. «Torniamo a chiedere un confronto con tecnici super partes», dice Di Tella, autore anche di un volume sulle criticità del progetto Mose, «vogliamo esporre le nostre critiche. Cosa che non è stata possibile qualche anno fa. Quando alle osservazioni tecniche il Consorzio ha risposto con la querela».

La Nuova Venezia, 19 settembre 2017. Il primissimo capitolo di una lunga storia. Sono pubbliche molte delle carte in cui è scritta. Ma è ancora da scrivere la storia della devastante corruttela operata dal Consorzio Venezia Nuova su tutte le istituzioni pubbliche e private veneziane. con postilla.

«L'inventore Mazzacurati stabiliva le quote di lavori spettanti a ogni impresa, i prezzi e le consulenze, la destinazione dei finanziamenti. Tutto»

VENEZIA. Lo scandalo Mose non è finito. La sentenza di ieri mette un punto fermo sugli aspetti penali della vicenda, chiedendo il conto ad alcuni protagonisti della salvaguardia degli ultimi vent'anni. Giudizi non ancora definitivi. E orizzonte parziale, anche se importante.

La storia giudiziaria del Mose è giovane. Le indagini della Finanza e della magistratura hanno portato in superficie un mondo fatto di corruzione e malaffare, di tangenti e illeciti. Ma la storia politica del Mose, la più grande opera del Dopoguerra finanziata dallo Stato e affidata in concessione a un pool di imprese private, è molto più antica.

Una storia in parte ancora da scrivere. Trent'anni di monopolio e di decisioni imposte dall'alto. Anche contro la volontà dei territori e delle popolazioni di Venezia. Il monopolio. La madre di tutti i vizi - e di molte tangenti - è il particolare meccanismo ideato nel 1984, 33 anni fa, con la seconda Legge Speciale: l'affidamento della concessione unica al Consorzio Venezia Nuova.

Si stabiliva allora, in nome della salvezza di Venezia, che le opere di salvaguardia sarebbero state eseguite dal nuovo Consorzio. Niente gare d'appalto, né concorrenza. I controlli li doveva fare il Magistrato alle Acque. Ma, corruzione a parte, l'ufficio lagunare dello Stato non ha mai avuto le forze per controllare il concessionario.

Mazzacurati. L'inventore del Mose era il padrone quasi assoluto del Consorzio. Lui stabiliva le quote di lavori spettanti a ogni impresa, i prezzi e le consulenze, la destinazione dei finanziamenti. Si scoprirà poi che buona parte di quel denaro veniva accantonato per costituire i fondi neri necessari a «oliare» il meccanismo.

Il presidente Mazzacurati diventa anche direttore. Guadagna in otto anni 32 milioni di euro. 50 mila euro di stipendio al mese più benefit. Quando se ne va dal Consorzio gli riconoscono una liquidazione di 7 milioni. Viene arrestato, ironia della sorte, per «turbativa d'asta» sullo scavo dei canali portuali. Lui che di aste e gare ne ha fatte davvero poche.

Dodici per cento. L'altra invenzione all'origine del grande malaffare si chiama «oneri del concessionario». Per ogni lavoro grande e piccolo realizzato dalle imprese del Mose, al Consorzio spetta il 12 per cento. Su sei miliardi di costo sono più di 700 milioni di euro.

Oltre ai fondi neri, un altro serbatoio dove attingere. In trent'anni il Consorzio ha finanziato pubblicazioni e riviste, opere liriche e scuole del patriarcato, ricerche universitarie e squadre sportive, aziende e consulenti. Tra le spese anche quintali di olio commissionati da Mazzacurati all'azienda del figlio. Pagati con i soldi del Consorzio e distribuiti agli amici.

La Finanza. Quando nell'estate del 2010 la Guardia di Finanza entra al Consorzio Venezia Nuova, qualcuno capisce che il santuario non è più tale. Cercano i fondi neri, che poi daranno origine alla grande inchiesta. «Normale verifica fiscale che si fa alle aziende», rassicura Patrizio Cuccioletta, presidente del Magistrato alle Acque, poi arrestato nell'inchiesta Mose. Mazzacurati viene avvisato in mattinata. «Qualche giornale scrive che la Finanza è a caccia di fondi neri». «Sarà il solito giornalista», replica l'ingegnere.

Gli extracosti. Non ci sono solo tangenti e fondi neri. Ma anche i prezzi gonfiati. Facile in regime di monopolio. Solo per i sassi del Mose sono stati pagati 61 milioni in più. La Corte dei Conti indaga. Ma dove sono finiti quei soldi?

Soldi che scivolano anche nelle pieghe delle convenzioni firmate dallo Stato con il Consorzio per il «prezzo chiuso». Ma il costo complessivo delle dighe lievita, passa dal miliardo e mezzo del progetto preliminare (anni Novanta) fino ai 5 miliardi e 600 milioni di oggi, manutenzione e gestione esclusa (almeno 80 milioni l'anno). Baita.

Piergiorgio Baita, ingegnere e presidente della Mantovani, socio di maggioranza del Mose nell'era Galan, è il primo a essere arrestato a inizio 2013 per fatture false. Si fa 200 giorni di carcere, racconta e alla fine darà una grossa mano ai pm a ricostruire il quadro della corruzione. Per lui ancora non c'è il rinvio a giudizio.

Corte dei conti. L'allarme su quanto stava succedendo era stato dato nel 2007 da un coraggioso magistrato della Corte dei Conti di Roma, Antonio Mezzera. La sua relazione è un duro atto di accusa su sprechi e mancanze del progetto.

Le alternative. Una delle accuse dei comitati e di molti scienziati critici con il progetto Mose è quella di non aver mai preso seriamente in considerazione le alternative progettuali. Altre idee su come ridurre le acque alte, meno costose, meno impattanti e forse anche più affidabili.

I progetti illustrati dal'ex sindaco Cacciari al governo Prodi non erano stati considerati. Prodi, dopo Berlusconi, aveva scelto di dare carta bianca alle tesi del Consorzio: «Si va avanti con il Mose». Non vengono considerati i pareri critici degli scienziati indipendenti sulle tante criticità del Mose.

Le cerniere. Il cuore del sistema Mose sono le cerniere. Costruite, anche queste senza gara, dalla Fip di Selvazzano di proprietà della Mantovani, specializzata in cerniere «saldate».

Armando Memmio e Lorenzo Fellin, ingegneri strutturisti, sollevano dubbi nel Comitato tecnico di magistratura sulla durata delle cerniere saldate rispetto a quelle fuse. Vengono licenziati.

Le incognite. Gli effetti dello scandalo non sono finiti. Criticità e problemi di corrosione, di tenuta, di manutenzione vengono alla luce insieme ad errori progettuali. Ma questa è la seconda parte della storia.

postilla

Se si volesse scrivere una storia appena un po' più completa della vicenda del MoSE e del Consorzio Venezia Nuova (a partire dalla follia originaria del progetto e dall'esistenza di alternative radicali, proposte fin dall'inizio e scartate dal ministro portavoce degli interessi economici), basterebbe leggere gli ultimi capitoli del libro di Luigi Scano,
Venezia. Terra e acqua, Corte del Fontego editore.
Ma per verificare la corruttela esercitata sulla grande maggioranza degli attori personali e collettivi veneziani bisognerebbe poter esaminare i loro bilanci.


il Fatto Quotidiano, la Nuova Venezia, Corriere del Veneto. 15 settembre 2017,-Articoli di Andrea Tornago, Ernesto Milanesi, Alessandro Zuin. «I pezzi grossi, quelli veri, in tribunale non hanno mai messo piede». La “giustizia” si è dovuta accontentare di recuperare 45 milioni di euro a fronte di un miliardo di tangenti. (m.p.r.)
 
il Fatto Quotidiano
MOSE. CONDANNA A 4 ANNI
PER L'EX MINISTRO MATTEOLI
di Andrea Tornago
Undici anni di reclusione, milioni di euro confiscati e maxirisarcimenti per le parti civili. Dopo 32 udienze del processo veneziano sul Mose, istruito nei confronti degli otto imputati che non avevano patteggiato all’indomani degli arresti del 2014, alla fine la condanna più pesante è arrivata per il senatore di Forza Italia Altero Matteoli: 4 anni di reclusione per lui e per l’amico imprenditore Erasmo Cinque, imputati di corruzione. Il Tribunale di Venezia li ha riconosciuti entrambi colpevoli per una tangente di 550 mila euro nell’ambito dell’assegnazione dei lavori di bonifica della Laguna di Venezia e ordinato una confisca di 9,5 milioni ciascuno.
Il senatore - ex ministro del l’Ambiente (2001-2006) e delle Infrastrutture (2008-2011) con Berlusconi - ieri mattina in aula ha ribadito di non aver preso “un euro” dal Consorzio Venezia Nuova: “E quindi non comprendo questa sentenza”, ha aggiunto dopo la condanna. Assolto invece, ma con una parziale prescrizione, l’ex sindaco di Venezia del Pd, Giorgio Orsoni: imputato per finanziamento illecito al partito, il collegio presieduto dal giudice Stefano Manduzio l’ha assolto per i 450 mila euro (di cui 50 mila secondo l’a ccusa consegnati personalmente in contanti) che il Consorzio Venezia Nuova gli avrebbe fornito per finanziare la sua campagna elettorale per le comunali di Venezia del 2010, dichiarando la prescrizione invece per i 110 mila euro versati illecitamente dal consorzio al Pd senza che la cifra fosse stata deliberata e iscritta a bilancio.
Condannato per corruzione e finanziamento illecito anche l’imprenditore [nominativo eliminato su richiesta di "diritto all'oblio, esercitata ai sensi del regolamento dell'Unione europea 2016-679]; mentre è millantato credito il reato commesso, secondo i giudici, dall’avvocato ed ex presidente di Adria Infrastrutture Corrado Crialese: avrebbe fatto credere di poter aggiustare le sentenze al Consiglio di Stato facendosi consegnare dal consorzio (invano) 340 mila euro. Assolti dalle accuse di finanziamento illecito l’ex eurodeputata di Forza Italia, Lia Sartori, e da quella di corruzione l’ex magistrato alle acque di Venezia Maria Giovanna Piva (con parziale prescrizione) e l’architetto Danilo Turato per la ricostruzione della villa dell’ex governatore del Veneto Giancarlo Galan.
Sono le prime condanne per il “sistema” quasi perfetto del Mose: uno dei più imponenti intrecci di corruzione dell’Italia repubblicana - che avrebbe coinvolto per anni ministri, magistrati, politici, funzionari e imprenditori ruotanti attorno a un mare di denaro pubblico – scoperchiato nel giugno del 2014 dall’inchiesta dei pm veneziani Stefano Ancilotto e Stefano Buccini.
Un sistema corruttivo che per la Procura si muoveva intorno alla più grande opera pubblica italiana: la barriera idraulica del Mose e la connessa bonifica di Porto Marghera, lavori affidati in concessione al Consorzio Venezia Nuova guidato da Giovanni Mazzacurati. Il processo, dopo i patteggiamenti a raffica (tra cui quelli dell’ex presidente della Regione Galan, dell’assessore regionale Chisso, del generale della Guardia di Finanza Spaziante e dell’ex magistrato alle acque Cuccioletta) era partito con non poche difficoltà nel gennaio 2016. Le difese hanno chiesto da subito di esaminare in aula Mazzacurati, presidente del Cvn, “grande burattinaio” diventato il principale accusatore del giro di tangenti. Niente da fare: l’ingegnere, dopo aver riempito pagine di verbali raccontando ai magistrati il sistema delle mazzette intorno al Mose, nel frattempo si è trasferito a San Diego, in California (non prima di aver ricevuto una liquidazione da 7 milioni di euro) dove - secondo le perizie medico legali disposte dal tribunale - “ha perso la memoria”. I giudici hanno tuttavia considerato utilizzabili i verbali con le dichiarazioni dell’accusatore e il dibattimento è andato avanti fino alla sentenza di primo grado.

Il tribunale ha anche condannato Matteoli e Cinque – interdetti dai pubblici uffici per 5 anni – a risarcire le parti civili con provvisionali subito esecutive: 1 milione di euro allo Stato (Palazzo Chigi e ministero delle Infrastrutture), uno al Comune di Venezia e altre somme a Regione Veneto, Città Metropolitana di Venezia e allo stesso Consorzio Venezia Nuova. La bonifica della Laguna e il Mose, intanto, restano in alto mare.

il Fatto Quotidiano
L’ESERCITO DI CHI HA PATTEGGIATO
(COME GALAN) E PAGATO 45 MILIONI
PER USCIRE DAL PROCESSO

Dei 100 e più nell’inchiesta Mose, che nel giugno 2014 portò a 35 arresti (tra cui quello dell’ex governatore Galan e del sindaco di Venezia Orsoni) solo 8 sono finiti a giudizio. La più grande inchiesta sulla corruzione in Italia, che ha portato alla luce un flusso di tangenti da 1 miliardo di euro, è soprattutto la storia di un “processo mancato”: la maggior parte degli indagati ha chiesto il patteggiamento poco dopo gli arresti, per evitare di sostenere il dibattimento. Giancarlo Galan ha patteggiato una pena di 2 anni e 10 mesi e una confisca da 2,6 milioni di euro, l’ex generale della Finanza Emilio Spaziante a 4 anni di carcere (più la confisca di 500 mila euro), l’ex presidente del magistrato alle acque Patrizio Cuccioletta a 2 anni e una multa di 700 mila euro, l’ex assessore regionale alle Infrastrutture Renato Chisso a 2 anni e sei mesi e una confisca di 2 milioni di euro. Hanno patteggiato gli imprenditori del Mose, gli ingegneri, i consulenti. Lo Stato in questo modo ha recuperato più di 44 milioni di euro.

il manifesto

MOSE. L'EX MINISTRO MATTEOLI
CONDANNATO A QUATTRO ANNI
di Ernesto Milanesi
Grandi Opere. Il tribunale di Venezia: confiscati 9,5 milioni di euro, assolto l’ex sindaco Giorgio Orsoni. L’associazione Ambiente Venezia e il Comitato NoMose: «L'inchiesta ha dimostrato l'esistenza di una cupola»La giustizia ordinaria sullo scandalo Mose sembra proprio incarnare il simbolico cieco equilibrio. Quattro condanne e altrettanti verdetti di assoluzione o prescrizione del reato. All’ex ministro Altero Mattioli inflitta una pena di 4 anni più la confisca di 9,5 milioni di euro e l’interdizione dai pubblici uffici per un lustro. L’ex sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, invece, risulta innocente per il finanziamento «in bianco» e beneficia della prescrizione per i soldi «in nero».Ieri, poco dopo le 18, il presidente del tribunale Stefano Manduzio (Fabio Moretti e Andrea Battistuzzi a latere) legge la sentenza che conclude un dibattimento lungo 16 mesi con 32 udienze (dopo le 11 preliminari) e un centinaio di testimoni. L’inchiesta sulla più grande opera della Repubblica – affidata in concessione unica al Consorzio Venezia Nuova – riempie oltre 70 mila pagine di faldoni. Ammontano già a 5,5 miliardi di euro i costi del sistema di dighe mobili nelle bocche di porto della laguna. Ma il «deus ex machina» del mega-progetto Giovanni Mazzacurati si è ritirato negli Usa; l’impresa Mantovani, presieduta dall’ex questore Carmine Damiano, ha appena minacciato 170 licenziamenti; la fine dei cantieri del Mose è già slittata al 2018 con almeno altri ulteriori tre anni di indispensabili collaudi.Dal punto di vista giudiziario, erano usciti di scena 31 imputati che hanno patteggiato con la Procura. Su tutti spicca il nome di Giancarlo Galan, ex governatore del Veneto e ministro dei beni culturali, costretto a liberare la prestigiosa villa Rodella sui Colli Euganei pagando anche 9 mila euro di danni provocati nel trasloco.

Ora la sentenza di primo grado, di fatto, chiude la vicenda perché i termini della prescrizione «ghigliottinano» il processo d’appello. Non si chiude però la partita dei risarcimenti con l’Avvocatura dello Stato che ha chiesto 8 milioni di euro. E soprattutto è acclarato che il mega-progetto del Mose abbia «fatturato» tangenti a beneficio di politici, funzionari, imprese, coop, professionisti e perfino fondazioni ecumeniche o premi culturali.

Nel dettaglio, la sentenza del tribunale di Venezia ha condannato alla stessa identica pena comminata a Matteoli anche Erasmo Cinque, imprenditore romano della Socostramo. Assolta l’ex presidente del Magistrato alle Acque, Maria Giovanna Piva per le imputazioni relative al collaudo, con la prescrizione per l’altra. [porzione di articolo eliminata su richiesta di "diritto all'oblio, esercitata ai sensi del regolamento dell'Unione europea 2016-679]. Assolto l’architetto padovano Danilo Turato che aveva seguito la ristrutturazione della villa di Galan. Come Orsoni, nessuna sanzione penale anche per Amalia Sartori che ha prima presieduto il consiglio regionale e poi occupato un seggio all’Europarlamento. Un anno e dieci mesi all’avvocato romano Corrado Crialese, imputato di millantato credito.

Al termine della requisitoria, i pm Stefano Ancilotto e Stefano Buccini avevano sollecitato otto condanne: 6 anni richiesti per Matteoli, 2 anni e 3 mesi per Orsoni e Turato, 2 anni anche per la Sartori. Amara la dichiarazione dell’ex ministro e senatore dopo il verdetto: «Come ho avuto modo di confermare davanti al tribunale non sono un corrotto, mai ho ricevuto denaro né favorito alcuno. Non comprendo quindi questa sentenza verso la quale i miei avvocati ricorreranno in appello. Ho il dovere di credere ancora nella giustizia, nonostante la forte amarezza che patisco da quasi quattro anni» sostiene Matteoli.

L’Associazione Ambiente Venezia e il Comitato NoMose insistono a manifestare contro la «mafia di Venezia» con una lettura a 360 gradi: «Il Mose è la più grande opera di ingegneria ambientale al mondo, ma c’è stata qualche mela marcia: questa è stata la gestione politica, da parte del governo Renzi e poi Gentiloni, del più grande scandalo del secolo. L’inchiesta della Procura ha dimostrato l’esistenza di una vera e propria cupola, costituita da Mazzacurati e dai manager delle “grandi” imprese del Consorzio e delle “piccole” delle cooperative di tutti i colori, che si divideva lavori e dazioni da pagare a tecnici e politici più o meno eccellenti. Lo scopo non era ottenere appalti, visto la concessione unica sui lavori, ma far ottenere tutti i via libera ad un progetto sbagliato che prosciuga le risorse pubbliche».


Corriere del Veneto
PROCESSO MOSE

LO SCANDALO, LE COLPE, LE ANOMALIE

di Alessandro Zuin

Nel caso qualcuno avesse rimosso o si fosse perso qualche puntata nel corso degli ultimi tre anni, stiamo parlando di una vicenda che è stata autorevolmente definita «il più grande scandalo europeo» per dimensioni finanziarie del malaffare, qualcosa come 8 miliardi di euro distribuiti da quel gigantesco collettore di fondi pubblici che è stato il Consorzio Venezia Nuova. Il quale aveva, per giunta, lo straordinario vantaggio competitivo di agire sotto lo scudo protettivo di una Legge Speciale. Perciò, ha ragione da vendere Massimo Cacciari – ex sindaco di Venezia, per la cronaca e per la storia l’unico in quel ruolo a dichiararsi apertamente contrario al Mose, mentre gli altri, magari con diverse sfumature, erano tutti a favore – quando afferma che la faccenda «non può essere ridotta a un processo al povero Giorgio Orsoni». E Orsoni, tra l’altro, se l’è pure cavata con un colpo di reni della prescrizione e un’assoluzione, per quanto l’amministrazione da lui guidata abbia pagato il prezzo politico più alto in questa storia, cadendo rovinosamente sotto i colpi dello scandalo e aprendo la strada della conquista di Venezia al sindaco fucsia Luigi Brugnaro.

Il processo
Non può essere ridotta a questo, innanzitutto, perché il processo che si è concluso con quattro sentenze di condanna e altrettante di assoluzione/prescrizione, era tutt’al più una riduzione in sedicesimo di quella che si usa definire come la «verità giudiziale», oltre che della mastodontica inchiesta penale da cui scaturirono, il 4 giugno di tre anni fa, i clamorosi provvedimenti di arresto per 35 persone, accusate a vario titolo di corruzione o finanziamento illecito ai partiti. Sulla scena giudiziaria, bisogna pur dirlo, erano rimasti davanti al Tribunale di Venezia alcuni personaggi di seconda fila del gigantesco affaire: un ex ministro della Repubblica non proprio tra i più in vista (Matteoli), un ex sindaco entrato e uscito dalla storia amministrativa di Venezia come una stella nelle notti d’agosto (il già citato Orsoni), un’ex potente eurodeputata in parabola politica discendente (Sartori), qualche imprenditore e professionista, un’ex funzionaria statale.

I pezzi grossi
I pezzi grossi, quelli veri, in tribunale non hanno mai messo piede: o perché, pur essendo coinvolti dalla testa ai piedi nella vicenda, recitavano la parte dei grandi accusatori, oppure perché erano usciti anzitempo dagli impicci, scegliendo (o vedendosi costretti a scegliere, a seconda della diversa interpretazione) di scendere a patti con l’accusa.

Gli accusatori
Tra i primi, gli accusatori, si annovera il «grande distributore» Giovanni Mazzacurati, ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, mai imputato, oggi incapace di stare in processo anche solo come testimone poiché affetto da una forma avanzata di demenza senile. Accanto a lui campeggia la figura di Piergiorgio Baita, già numero uno di Mantovani (la principale società tra quelle che componevano il Consorzio), il quale ha patteggiato 1 anno e 10 mesi per un reato minore (le false fatturazioni) e adesso gira il Veneto presentando il suo libro-verità «Corruzione. Un testimone racconta il malaffare» (si sottolinea la definizione «testimone»). E poi c’è donna Claudia, al secolo Minutillo, già inflessibile guardiana dell’agenda del governatore Giancarlo Galan, poi ascesa a manager dell’asfalto&cemento in Adria Infrastrutture: anche lei ha patteggiato una bazzecola per le fatture false. Sia Baita che Minutillo hanno ricevuto, nel cuore dell’estate, l’avviso di chiusura dell’indagine a loro carico per corruzione e finanziamento illecito ai partiti, dato che se vi sono dei corrotti (o finanziati), a rigor di logica ci dovrebbero essere anche dei corruttori (o finanziatori). Per Baita, neanche a dirlo, si prospetta un altro bel patteggiamento, mentre Minutillo potrebbe giocarsi anche la chance delle chance, una tombale prescrizione.

I patteggiatori
Nella categoria patteggiatori, invece, rientrano i due personaggi che hanno dominato la scena politica del Veneto nei primi 15 anni della Seconda Repubblica (1995-2010): Giancarlo Galan, governatore e poi ministro (pena di 2 anni e 10 mesi, già scontati, e 2,6 milioni di multa) e Renato Chisso, l’uomo delle infrastrutture in Regione (2 anni, 6 mesi e 20 giorni, anch’egli tornato nel frattempo uomo libero). Entrambi, va sottolineato, hanno patteggiato senza mai cedere di un millimetro sull’ammissione di una qualche responsabilità personale: come ai tempi di Mani Pulite, si sono arresi all’idea di concordare una pena con l’accusa, hanno sempre detto, per evitare una prolungata detenzione in carcere.

Magistratura penale e contabile
La magistratura penale e quella contabile hanno chiesto loro una montagna di soldi a titolo di restituzione e risarcimento del danno (Galan ci ha rimesso l’aristocratica residenza di villa Rodella, confiscata all’uopo) ma tutti quei milioni rimangono uno dei misteri gloriosi di questa vicenda. Secondo l’accusa sarebbero stati imboscati da qualche parte all’estero (e finora mai trovati), mentre sul punto un combattivo Chisso è arrivato a sfidare la procura: «Li cerchino pure dove vogliono - ha dichiarato in una recentissima intervista -, hanno il mio permesso per fare qualsiasi accertamento: non troveranno nulla».

Galan e Chisso
In tanti, oltre a Galan e Chisso, hanno tagliato corto patteggiando. Tanto da far pensare a un’inchiesta sottratta, se non per alcune posizioni, alla sua conclusione naturale: un processo che accerti, nel contraddittorio delle parti, le responsabilità di ciascuno. «Ma la sostanza e il valore dell’inchiesta – aveva ribadito all’apertura del dibattimento il procuratore Carlo Nordio, prima di lasciare la magistratura per malaccetto pensionamento – non cambiano, visti i ruoli di molte persone che vi sono entrate. La situazione di compromesso dettata dal ricorso al patteggiamento ha portato al recupero di denaro a favore dello Stato». Come dire: sotto l’aspetto che per certi versi più conta, quello pratico-economico, l’inchiesta è andata dritta a bersaglio.

L’anomalia
Rimane un ultimo tema, fuori dalle questioni giudiziarie, rispetto al quale la vicenda Mose si è rivelata altamente illuminante. In un Paese come l’Italia, governato da un groviglio di leggi farraginose e dal potere di interdizione esercitato dai vari livelli della burocrazia, probabilmente non sarebbe mai stato possibile realizzare seguendo le vie ordinarie un’opera mastodontica come il sistema salva-Venezia. Per farlo, si è dovuti ricorrere a una procedura che costituisce un’anomalia assoluta e l’anomalia era finita talmente fuori controllo da permettere un dilagante malaffare molto ben mascherato. Per dirla ancora con Nordio: «Il Mose è il caso tipico e paradossale in cui chi ha avvelenato i pozzi aveva in mano anche l’antidoto».

 
 
 

la Nuova Venezia online, 13 settembre 2017. Alla vigilia della sentenza sui casi di finanziamento illecito e corruzione legati alla più grande opera mai fatta dallo Stato ecco alcune cifre e date per capire com'è nata la più grande mazzetta della storia. E quello che ci attende in futuro.

Comprereste un’auto se il concessionario potesse scegliere per voi il modello, gli optionals, decidesse gli interventi di manutenzione e riparazione (a vostro carico) e, soprattutto, stabilisse per voi il prezzo? Diciamocelo: per noi comuni mortali che il pane ce lo guadagniamo il prezzo è il 90 per cento della scelta. Ma anche se conoscete un vero ricco, noterete che quando compra qualcosa il prezzo, chissà come mai, diventa ancora più importante. Quindi se la vostra auto costa 20 mila euro, voi provate a fare i calcoli e vi immaginate al volante.

Per il Mose, inteso come sistema complessivo di salvaguardia della laguna di Venezia, invece, la scelta non c’è stata. E questo, come dicono al bar, ha un suo perché. Alla vigilia della sentenza che giovedì 14 settembre, stabilirà colpe e condanne di quella che è stata la più grande mazzetta della storia della Repubblica Italiana, alcuni semplici passaggi spiegano molto di quel fiume di denaro finito nelle tasche di imprenditori, amministratori e politici.

Quando nel 1989 la stesura del progetto preliminare di massima delle opere mobili venne presentato al Consiglio superiore dei lavori pubblici i consiglieri fecero un balzo sulla sedia: il conto era stimato in 3.200 miliardi di lire italiane. Scritto in cifre appare come 3.200.000.000.000. In euro fa circa un miliardo e 660 milioni. Nel 2001 quando appare il progetto di massima la cifra non si modifica di molto:3.700 miliardi di lire pari a 1.920.083.030 cioè un miliardo e 920 milioni di euro.

Un solo anno e tutto cambia. Nel 2002viene presentato il progetto definitivo e il costo è magicamente raddoppiato a settemila miliardi di lire. Guardiamolo scritto in numeri: 7.000.000.000.000, un sette seguito da 12 zeri. Cioè 3.623.589.517 di euro: tre miliardi e 623 milioni del nuovo conio europeo.
Prima tranche di finanziamenti dallo Stato: 450 milioni di euro subito e poi a rivedersi nel 2013 quando la somma messa a disposizione sale a 4 miliardi e 987 milioni di euro. Appena un anno dopo, nel 2014, si arriva a 5 miliardi e 267 milioni di euro.

In questi giorni siamo al 90 per cento del completamento dei lavori e l'opera è costata 5 miliardi e 493 milioni di euro. Per il restante 10 per cento, se tutto va bene, ci vorranno quindi altri 549,3 milioni di euro. Il totale del costo del Mose sarà così di almeno 6 miliardi di euro. In lire la calcolatrice si rifiuta di far vedere la cifra e usa le potenze. E allora carta e penna: 11.562.000.000.000. Cioè 11 mila 562 miliardi di vecchie lire italiane. La vostra auto invece di 20 mila euro ne è costata 80 mila.
La prendete? Difficile. Anche perché uno che vi quadruplica il prezzo (e che prezzo!) può essere affidabile dopo, quando ci saranno i costi di gestione? Quindi guarderete il venditore e lo saluterete educatamente per andarvene.

Invece con il “sistema Mose” dovete restare seduti, pagare prima, ringraziare e prendervi l'auto e tutti i costi che scoprirete mano a mano che si presenteranno e che, se tanto mi dà tanto, comincerete a ritenere colossali. Penserete di essere stati fregati, insomma, che era meglio seguire il consiglio di vostra zia: "Ricorda che in famiglia non siamo tagliati per gli affari". Perché il vostro problema è che qualcuno prima aveva nominato proprio quel venditore di auto come unico venditore possibile per voi, che quindi siete obbligati a comprare tutto quel che vi offre.

La storia nasce dopo la famosa "acqua granda", l'acqua alta a 194 centimetri del 1966, quando arrivò la Legge speciale per Venezia, in cui, era il 1973, la salvaguardia di Venezia e della sua laguna vennero dichiarati per legge "preminente interesse nazionale". L'Italia si dichiarava disponibile a finanziare la difesa di quello che i veneziani non sapevano difendere. Due anni dopo il Ministero dei lavori pubblici apre una gara: “datemi il progetto migliore al prezzo più ragionevole e io ve lo finanzio”. Vi possono partecipare solo aziende italiane dato che all’epoca non esiste ancora l'obbligo di gara europea.

Incredibilmente nessuna azienda nazionale presenta un progetto ritenuto valido. Ora si urlerebbe: "C'è un accordo, un “cartello” di aziende che vuole rovinare la concorrenza". Ma allora forse erano tutti o un po' più scemi o tanto, tanto più furbi. Dipende dal punto di vista della guardia o del ladro. Alla fine tutti i progetti vengono riuniti e vengono affidati a un gruppo di esperti: viene steso il "Progettone". Perché poi diventa tutto grande. Dopo il Progettone una legge speciale approvata nel 1984, governo pentapartito di Bettino Craxi, crea il "Comitatone" come comitato di indirizzo, coordinamento e controllo, mentre il ministro Franco Nicolazzi, buonanima di navigato politico del PSDI, crea il "concessionario unico dello Stato". Cioè nessuno dice: “facciamo una gara, ditemi quanto volete per fare questa casa e vinca il migliore”.

No. Il ministro Nicolazzi (buonanima) e il presidente del Consiglio Craxi (buonanima) firmano un decreto che dice che un gruppo di industrie scelte da loro sono le migliori disponibili e le nomina Concessionario unico dello Stato. Nasce così il Consorzio Venezia nuova, un gruppo (privato) di industrie cui viene affidata "la ideazione, progettazione e realizzazione" del progetto. Chi controlla? Il Magistrato alle acque.

La più gigantesca opera realizzata dallo Stato con un fiume di soldi mai visti prima gestito da un unico soggetto privato viene quindi sottoposta a un solo vero controllore, affidandosi all’onestà dei singoli. Come sia finita lo hanno spiegato i due pubblici ministero Stefano Ancillotto e Stefano Buccini nella loro requisitoria: “I controllori erano a libro paga dei controllati”. Era così imprevedibile? Quando il 4 giugno 2014sono scattati all’alba gli arresti di 35 persone tra politici, funzionari, imprenditori, magistrati, ufficiali (100 gli indagati) si poteva onestamente dire che era stato fatto tutto il possibile perché non accadesse?

Fatto sta che tutto invece va avanti nella gloria. Nel 2002 il Consorzio sceglie un progetto molto particolare: le dighe mobili. Uno sbarramento formato da78 paratoie mobili in acciaio poste alle tre bocche di porto della Laguna: porto di Lido (due serie di 20 e 21 paratoie con i mezzo un’isola artificiale), porto di Malamocco (19 paratoie) e porto di Chioggia (18).

Ognuna fissata a un cassone di alloggiamento in calcestruzzo a cui sono collegate dalla cerniere (il vero "cuore" dell'intero sistema) su cui gli esperti si sono scatenati: fatte male secondo i critici, con acciaio non all’altezza dopo aver presentato invece cerniere in acciaio speciale nel modulo di prova. Cerniere che quindi potrebbero presentare molti problemi per la gestione, con costi di riparazione astronomici. Cerniere fatte bene, invece, secondo il Consorzio. Queste paratoie dovranno difendere Venezia da acque alte sino a tre metri. Il problema è che prima ancora di essere completato (la previsione parla del dicembre 2018), il sistema presenta già delle magagne serie: alcune paratoie fanno fatica ad alzarsi.

Beh, ora avete capito il costo della vostra auto e cominciate ad avere la certezza che i problemi saranno parecchi. Buon viaggio.

La gestione commissariale è solo l'ultimo grande abbaglio, riportare la legalità, per completare un'opera sbagliata, dannosa e pericolosa: quando? sempre più tardi. la Nuova Venezia, 7 settembre 2017 (m.p.r.)


MUFFE E DEGRADO

PARATOIE BLOCCATE
Corrosione in aumento, vernici già vecchie. E senza impianti non si possono sollevare le dighe. L'opera finirà in ritardo

Venezia. Corrosione in aumento. Paratoie che non si alzano, muffe e degrado nei corridoi dei cassoni sotto la laguna. E anche paratoie, da sei mesi esposte alle intemperie e alla salsedine a Santa Maria del Mare, da ridipingere. I problemi del Mose non finiscono mai. E adesso quelli riscontrati da tecnici e ingegneri delle imprese e del Consorzio rischiano di rimettere la grande opera al centro delle polemiche. E di ritardarne ancora la conclusione. Dopo il grande scandalo, le tangenti e gli arresti (giugno 2014) il treno del Mose che correva spedito è deragliato. Per farlo ripartire non basta la gestione straordinaria dei commissari anticorruzione, creata dal Raffaele Cantone per riportare la legalità. Occorre risolvere i tanti problemi emersi e trovare soluzioni.

Gli impianti.
L'ultimo è il ritardo nella costruzione degli impianti elettrici per il sollevamento delle paratoie. Come noto, il sistema Mose ha bisogno di energia per sollevare la schiera delle dighe, e non sfrutta in questo caso l'energia naturale delle onde e del mare. A Treporti, dove la prima schiera di paratoie verso Punta Sabbioni è stata posata nel 2013, è stata costruita una centrale elettrica nella vicina isola articiale del bacàn. Non così a Malamocco, dove si è deciso di posare le paratoie sul fondo prima che la centrale fosse realizzata. Risultato: da qualche mese il sistema è adagiato sul fondo ma non è possibile fare le prove di sollevamento.
Corrosione e fouling.
Le prime ispezioni hanno già verificato l'esistenza di corrosione di problemi di fouling. Secondo problema: la mancanza di energia impedisce la corretta d ventilazione dei corridoi di collegamento sotto la laguna. Dove passano i cavi e i sistemi, e i tecnici addetti all'ispezione del sistema. Sulle pareti e sugli impianti si è depositato uno strato di 5 centimetri di muffa. Il Mose è un sistema concepito per stare sempre sott'acqua. E senza vigilanza e manutenzione i problemi si moltiplicano. Come la corrosione dei alcune parti delle cerniere, già denunciata qualche mese fa. Che si fa? Il Consorzio Venezia Nuova, retto dai commissari Raffaele Fiengo e Francesco Ossola, ha deciso di bandire la gara per la costruzione degli impianti. Vinta da due gruppi di mpres, la Abb Comes di Taranto e la Abb Idf di Brindisi. Non è stata accolta la proposta di realizzare nel frattempo impianti provvisori per movimentare le paratoie. Sarebbero costati 14 milioni di euro.
Le vernici.
Ma adesso i problemi si intrecciano. Le paratoie che dovrebbero essere affondate nella bocca di porto sono da mesi in attesa sulla piarda di Santa Maria del Mare, il cantiere dei cassoni del Mose. Il ritardo nella posa è dovuto alla rottura del jack-up, la nave da 52 milioni di euro che doveva servire per il loro trasporto che non ha mai preso il largo. Costruita quattro anni fa e mai funzionante. Ma anche per la decisione di fare la gara per gli impianti (pochi milioni di euro) alla fine, dopo che le paratoie sono state costruite da cantiere croato Brodosplit di Spalato. Da mesi gli operai della Comar combattono contro gli agenti atmosferici e i gabbiani, che hanno scelto le paratoie come loro nido. Il loro guano - anche questo non era previsto - corrode le vernici. tanto che a Malamocco si sentono colpi di cannone diffusi con l'altoparlante in cantiere per cercare di allontanare i pennuti. Tutto inutile: i mesi di esposizione e il mancato affondamento in acqua hanno provocato un deterioramento delle vernici anticorrosione. Adesso bisognerà intervenire.
I tempi.
In conclusione i tempi annunciati dal governo per la conclusione de l progetto Mose potrebbero slittare ancora. L'atto firmato solo pochi mesi fa dal Provveditorato alle Opere pubbliche con il Consorzio Venezia Nuova prevede che i lavori siano consegnati alla fine del 2021, dopo tre anni di prove e di «conclusione lavori impianti». Una tabella di marcia aggiornata per l'ennesima volta. Dopo che la fine lavori era stata modificata dall'annuncio iniziale (2011), prima al 2014, poi al 2017, infine al 2018 con la clasuola però che l'opera non sarà consegnata prima della fine del 2021. Ma la mancata soluzione delle criticità e l'insorgere di nuovi problemi rischia adesso di modificare ancora l'obiettivo. Ci vorranno almeno altri quattro anni per vedere le dighe finite


CONSORZIO, LE NUBI SUL FUTURO

E INTANTO LE BANCHE NON PAGANO
Tre anni dopo l'inchiesta i commissari sono rimasti due. I contrasti tecnici e le incognite, i rapporti con le imprese

Venezia. Tre anni dopo lo scandalo, il Mose è ancora in alto mare. I ritardi dovuti all'inchiesta, la scoperta di aspetti illegali e l'opera di "bonifica" di quello che era diventato un grande buco nero e una macchina per creare fondi neri e distribuire tangenti si riflettono adesso sul futuro dell'opera.Si finirà mai il Mose? Situazione delicata dopo le dimissioni, qualche mese fa, del commissario Luigi Magistro, il primo nominato da Cantone.

A guidare il Consorzio, una volta "regno" assoluto di Giovanni Mazzacurati, sono adesso due commissari. L'avvocato dello Stato napoletano Giuseppe Fiengo e l'ingegnere torinese Francesco Ossola. I rapporti tra i due sono formali e non troppo cordiali. Il primo si occupa di bilanci e aspetti legali, il secondo dell'aspetto tecnico. Ossola, già consulente del Consorzio negli anni Ottanta per le rive dei Tolentini, docente al Politecnico di Torino e progettista dello Juventus Stadium, ha nominato tre suoi consulenti. L'ingegnere Sara Cristina Lovisari per la manutenzione e progetti speciali, le verifiche sui progetti, lavori e forniture del jack-up; i fenomeni di corrosione, i monitoraggi. E poi l'ingegnere Francesco Cefis per i progetti dell'Arsenale e per gli interventi in laguna, e per le opere alle bocche l'ingegnere Mauro Scaccianoce. Uno staff che sta gestendo la fase tecnica in contatto con il provveditorato alle Opere pubbliche (ex Magistrato alle Acque) presieduto da Roberto Linetti.
Ma molte sono le incognite sul futuro del Consorzio. Che si trova spesso in contrasto con le imprese sue azioniste, Mantovani, Condotte, Fincosit. Che chiedono soldi e lavoro, ma vedono il progetto andare a rilento.Dopo gli arresti e il commissariamento, il meccanismo dei finanziamenti è stato modificato. Non più mutui pagati automaticamente dalle banche, ma fondi che fanno parte del bilancio dello Stato. Che spesso arrivano in ritardo.
Il Consorzio insomma, dopo aver tagliato incarichi e spese - anche alle sue imprese - si trova adesso in difficoltà per la gestione dei pagamenti e della cassa. Le banche rifiutano di finanziare senza garanzie precise. E il nervosismo delle imprese, abituate negli anni passati ad avere lavori per centinaia di milioni di euro l'anno, aumenta.Aumenta anche la conflittualità legale. Pendenti in Tribunale al Tar ricorsi sui bilanci e sugli atti della Convenzione. Richieste di danni da parte del Consorzio alle imprese, delle imprese al Consorzio. Situazione intricata per cui i commissari devono governare una barca costruita e messa in mare da altri. Per il futuro del Consorzio (e dei commissari) si annuncia un autunno molto caldo.

«Dopo dieci anni il Consiglio di Stato respinge il ricorso del Wwf su Malamocco e dà ragione al Consorzio Venezia Nuova». La Nuova Venezia, 25 agosto 2017 (m.p.r.) con riferimenti

«I cassoni si devono fare in laguna, per ragioni occupazionali». Era stata questa la motivazione addotta dalla Commissione di Salvaguardia, presieduta allora dal presidente della Regione Giancarlo Galan, per sistemare l'enorme cantiere del Mose sulla spiaggia di Santa Maria del Mare. Milioni di tonnellate di calcestruzzo avevano trasformato la spiaggetta in un cantiere per la produzione dei cassoni, condomini in cemento oggi affondati alle tre bocche di porto per sostenere le paratoie. Era stato costruito anche un grande villaggio per gli operai, il territorio stravolto. Ricorsi all'Europa, tardive ammissioni che per realizzare quelle infrastrutture non tutti i vincoli di legge erano stati rispettati. Battaglia allora di minoranza condotta da coraggiosi ambientalisti, dal Comune e da pochi altri. Poi nel 2014 gli arresti e l'inchiesta penale. E la scoperta che molte di quelle denunce erano fondate.

Venezia. Il cantiere del Mose forse non era in regola. Ma il ricorso è stato presentato «tardivamente». E anche annullando oggi quella delibera della Regione che autorizzava il progetto, «i ricorrenti non ne trarrebbero alcun vantaggio». Sono le motivazioni, per certi versi sorprendenti, con cui il Consiglio di Stato mette la parola "fine" al contenzioso tra Comune e Wwf da una parte, Regione, ministero delle infrastrutture e Consorzio Venezia Nuova dall'altra.

Una sentenza che arriva dodici anni dopo i fatti, dieci dopo il ricorso presentato dal Wwf sulla illegittimità di quella decisione, già bocciato in primo grado dal Tar del Veneto nel 2008. In mezzo è passato di tutto. Una grande inchiesta penale che ha dimostrato come molti dei pareri favorevoli al Mose fossero viziati dalla corruzione, come molti si siano arricchiti con il denaro dello Stato. Quasi conclusa l'inchiesta penale, ancora in corso i processi della Corte dei Conti che chiede la restituzione di milioni di euro ai protagonisti della vicenda, adesso arriva la sentenza.«Ricorso che va respinto», scrivono i magistrati Giuseppe Severini (presidente), Roberto Giovagnoli, Claudio Contessa, Valerio Perotti e Stefano Fantini. E condannano il Wwf al pagamento delle spese, 5 mila euro.
È stata accolta dunque dopo molti anni la tesi del Consorzio Venezia Nuova, allora difeso dagli avvocati Alfredo Biagini, Angelo Clarizia e Benedetto Giovanni Carbone. Respinta quella dei legali dell'associazione ambientalista (Alessio Petretti, Angelo Pozzan e Alfiero Farinea) che ricordava le violazioni di legge commesse dalla Regione - nella mancata acquisizione del parere paesaggistico - e l'eccesso di potere. «Non può ritenersi», scrivono i giudici amministrativi di secondo grado, «che l'associazione appellante potrebbe conseguire una effettiva utilità dall'eventuale annullamento della sola delibera della Commissione di Salvaguardia del 31 luglio 2007, perché un tale annullamento non determinerebbe comunque lo spostamento della contestata localizzazione».
Non basta, perché secondo i giudici il Wwf non ha nemmeno titolarità per ricorrere e non ha formulato in modo esplicito la richiesta di risarcimento danni ambientali». Sentenza che farà discutere, anche per l'inedita tempistica. Nove anni di ritardo per chiudere una vicenda che nel frattempo ha mutato contesto. Ed è stata ampiamente trattata nelle aule dei Tribunali. L'episodio sollevato dal Wwf era stato contestato anche dal Comune, allora guidato da Massimo Cacciari, che all'epoca aveva ingaggiato un braccio di ferro proprio sull'utilità del Mose, proponendo alternative poi scartate. Esprimendo parere contrario alla decisione dalla Regione del ministero di cementare la spiaggia di Santa Maria del Mare per installarci i l cantiere dei cassoni del Mose.


Riferimenti
In linea con la sentenza, addirittura anticipandola, il Consorzio Venezia Nuova ha stipulato una convenzione triennale con lo IUAV e MIT di Boston per studiare come riutilizzare l'area ora sommersa dal cemento un tempo tra le più belle della laguna, in barba all'impegno preso di smantellare l'opera “temporanea alla chiusura del cantiere. Si veda su eddyburg: Summer school Iuav nel villaggio MoSE e Piattaforma del Mose esposto in corte dei conti

«Ieri l'arringa delle parti civili: chiesti 6,4 milioni di danni, ma la somma aumenterà. L'avvocato del Comune, Ravagnan: "La città è la vera grande vittima della ruberia"». la Nuova Venezia, 14 luglio 2017, con postilla



Il grido di dolore di Venezia, di una città oltraggiata nellasua immagine e depredata delle sue ricchezze, si è levato forte ieri,nell'udienza del processo per le tangenti del Mose dedicata alla richiestadelle parti civili. Sei milioni 430 mila euro la somma complessiva sollecitatada Comune, Città Metropolitana, Regione e Consorzio Venezia Nuova agli ottoimputati accusati a vario titolo di corruzione e finanziamento illecito. Sitratta di un conteggio provvisorio visto che sono stati chiesti per lo più idanni non patrimoniali (da immagine e disservizio), mentre si è rinviato algiudice civile per il calcolo di quelli patrimoniali. Ai 6 milioni, inoltre,vanno aggiunti gli 8 (uno ad imputato) contestati nella precedente udienzadall'Avvocatura dello Stato.

Predoni e api operaie. La somma è destinatapertanto ad aumentare anche se sarà difficile dare ristoro a «un dannogigantesco, incomparabile, forse non misurabile», ha detto ieri l'avvocatoLuigi Ravagnan, legale del Comune di Venezia, in un'appassionata arringa con laquale ha ricostruito la sofferenza di una città violata. «In 37 anni diprofessione non ho mai visto una ruberia di queste proporzioni», ha affermato,«Venezia è la vera grande offesa, la vera grande vittima di questi fatticriminali. Chi ha lucrato illegalmente sulle somme destinate al Mose, ha rubatoi soldi alla città». Ruberie, anzi razzie: l'avvocato ha usato il termine di"raiders", razziatori appunto, per l'ex ministro all'Ambiente e alleInfrastrutture Altero Matteoli e per l'imprenditore romano Erasmo Cinque suo amico.

«Risorse sono state rapinate a Venezia a cui ilministro ha fatto un'offesa diretta: soldi sottratti alla città per interessipersonali». Il legale si è poi soffermato sugli imprenditori del Mose, quellidelle sovrafatturazioni, definendoli «le api operaie della corruzione». Quantoall'ex sindaco di Venezia Giorgio Orsoni: «Lui non è un raider, ma si è lavatole mani come Pilato», ha affermato Ravagnan secondo cui bene aveva fatto bene achiedere il patteggiamento, «Sono certo che non ha trattenuto un euro, ma hauna cattedra di diritto e non poteva non sapere che il Cvn non potevafinanziare la campagna elettorale. Bisognava e si poteva dire di no, ilprofessor Orsoni non ha avuto la forza di farlo».

Il Comune ha chiesto un risarcimentodi 2,3 milioni di euro in solido «perché tutti hanno tolto risorse a Venezia»,a Orsoni, Matteoli, Cinque, all'ex Magistrato alle Acque Maria Giovanna Piva eall'imprenditore Nicola Falconi; 9 euro di ristoro per ciascun veneziano.Dannocon estensione planetaria. Due euro per abitante della provincia di Venezia,per un totale di 1,2 milioni, li ha chiesti invece la Città Metropolitana conl'avvocato Giuseppe Chiaia che ha parlato dello scandalo Mose come di un eventocon «estensione planetaria». Il legale ha calcolato in 100 milioni il costo peril territorio dell'affidamento dei lavori al Cvn senza gara. «La nostra'ndrangheta». «Lo scandalo Mose è la nostra 'ndrangheta», ha detto l' avvocatodella Regione Dario Bolognesi chiedendo 2,5 milioni di euro (500 mila a testaper Falconi, Piva, Turato, Matteoli e Cinque) .Gli intrecci Matteoli-Piva.«L'immagine del Cvn ha subito un devastante degrado, è stato indicato come unricettacolo di malaffare e spreco pubblico, percepito dall'uomo della strada comeun covo di farabutti». Così l'avvocato del Cvn Paola Bosio presentando larichiesta risarcitorie di 430 mila euro a titolo di provvisionale (10 milaall'ex europarlamentare Lia Sartori, 10 ad Orsoni e 10 a Falconi più 100 mila aPiva, Falconi, Matteoli e Cinque).

Il legale ha ricostruito in unadettagliatissima arringa di tre ore tutti i meccanismi dello scandalo Mose,soffermandosi in particolare sulle responsabilità di Matteoli: lui haautorizzato (pur non avendone titolo) lo sblocco dei lavori su Porto Margheracon assegnazione al concessionario unico Cvn; lui ha influito sulla nomina diPatrizio Cuccioletta a presidente Mav; lui ha imposto al Consorzio la societàSocostramo di Cinque. L'avvocato Bosio ha parlato delle mazzette che avrebbeintascato sia da Mazzacurati per la campagna elettorale, sia da PiergiorgioBaita (550 mila euro). Un extrastipendio e collaudi importanti, invece, ilcompenso al presidente del Mav, Piva, per non controllare. L'avvocato Bosio hasottolineato la confusione di ruoli tra le parti, con gli atti redatti dalConsorzio e il Mav inerte. Il Cvn avrebbe scritto addirittura la relazione dirisposta del Magistrato alle contestazioni della Corte dei Conti nel 2007.

postilla


Un processo davvero singolare. Tutti i protagonisti del più grande scempio perpetrato sulla Laguna e la più efferata rapina
ai danni del contribuente di oggi e di domani da parte dello Stato, la Regione le banche e loro fondazioni, le Università e loro dirigenti, e soprattutto il Consorzio Venezia Nuova si trasformano, da colpevoli, ad accusatori di quanti si sono appropriati di pingui briciole del comune banchetto.
© 2024 Eddyburg