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Paolo Cacciari
MOSE. L’ingegnerizzazione della salvaguardia di Venezia
17 Novembre 2017
MoSE
Ampia analisi dell'ideologia, delle strategie, degli strumenti amministrativi e tecnici, grazie ai quali la salvaguardia della Laguna di Venezia si è tradotta nella sua distruzione (e in un gigantesco affare per una banda di pescicani). Con riferimenti

Ampia analisi dell'ideologia, delle strategie, degli strumenti amministrativi e tecnici, grazie ai quali la salvaguardia della Laguna di Venezia si è tradotta nella sua distruzione (e in un gigantesco affare per una banda di pescicani). Con riferimenti

Cercare alle radici del fallimento

Il 4 novembre del 1966 avevo 17 anni. Da una vita tento di capire come mai si sia potuto scegliere di costruire un marchingegno così mastodontico, inappropriato e di incerto funzionamento – oltre che inutilmente costoso – come lo sono i quattro sbarramenti con paratoie elettromeccaniche a spinta di galleggiamento, incernierate al fondale delle bocche di porto della laguna di Venezia. La risposta che mi sono dato è già nel bellissimo titolo della giornata dedicata al Mose organizzata dall’associazione PER Venezia Consapevole il 21 ottobre all’Iuav: «Il senso delle cose sta oltre tutti i linguaggi che le rappresentano». Che, a mio vedere, è un altro modo per esprimere un concetto ecologico: non bisogna confondere una parte di un sistema con il tutto, poiché la somma delle singole parti che compongono un organismo non basta a spiegare il suo funzionamento. Peggio: la separazione e la frantumazione degli elementi di un ecosistema porta alla sua morte. Il Mose è il risultato di una riduzione a questione idraulica del problema della preservazione dell’ecosistema lagunare collocato nella ancora più vasta bioregione che va dall’Adriatico alle Dolomiti, dalla Piave al Po. A monte della scelta degli sbarramenti di separazione mare/laguna c’è un difetto culturale profondo e diffuso, una drammatica insipienza tanto “scientifica” quanto “politica”e, per contro, una sconfitta del pensiero ecologista proprio nel punto in cui la sfida si presentava più necessaria, alta ed evidente.

Di fronte al conclamato fallimento della gigantesca rubinetteria del Mose - perché è di questo che stiamo parlando - non ci dobbiamo accontentare di risposte facili, pur vere, ma parziali e, alla fine, persino psicologicamente consolatorie: la corruzione, l’affarismo, l’abdicazione della comunità scientifica. Da Nicolazzi a Matteoli, da Bernini a Galan. Questi sono stati i “nostri” ministri e governatori. Ma anche alti funzionari dello stato, dirigenti di Regione, persino magistrati e finanzieri hanno pilotato un progetto che altrimenti non sarebbe mai stato approvato. La tesi delle “mele marce”, dei parassiti approfittatori in proprio, non regge. Il Sistema Mose è lo stesso di tutte le “grandi opere” (strade e autostrade, treni ad alta velocità e aeroporti, persino ospedali), del business facile delle concessioni alle grandi imprese di costruzione di cui il Consorzio Venezia Nuova è stato solo l’apripista. Così come sistematica è la sussunzione dei centri di ricerca pubblici e delle università da parte delle imprese. Consulenze, collaudi, direzioni lavori, porte girevoli tra pubblico e privato sono la regola dei rapporti tra Stato e imprese.

Come è potuto accadere tutto questo? Indagare su Venezia può essere istruttivo per capire come va l’intero paese. Venezia è un caso di scuola per studiare non solo gli effetti nefasti dell’avvento dell’industrializzazione (manifatturiera prima, turistica ora) sull’ambiente (subsidenza, alluvioni, anossia, inquinamenti…), ma anche sulla perdita di memoria e di empatia degli abitanti nei riguardi del proprio territorio, di “coscienza di luogo”, come direbbe Alberto Magnaghi. Un processo lento di sradicamento, legato al “grande esodo” della popolazione autoctona e al prevalere di un’economia di rapina. Solo chi ha imparato ad andare a remi e a nuotare in laguna può capire cosa significa estraneazione culturale della città d’acqua dal suo ambiente.

Ha scritto recentemente Edoardo Salzano: «Due visioni si sono scontrate a Venezia: una logica sostanzialmente meccanicistica, che intendeva isolare i problemi e a dare loro soluzioni indipendenti e fortemente ingegneristiche, e una logica sistemica, che si proponeva di evidenziare le correlazioni tra tutte le dinamiche in atto». (Editoriale del 1 ottobre 2017 su www.eddyburg.it ). Proviamo a capirne di più con l’aiuto dell’ecologa Vandana Shiva: «I sistemi viventi evolvono, si adattano, si rigenerano. Non sono ingegnerizzabili. Il dominio del paradigma ingegneristico inizia con l’era dell’industrialismo e del meccanicismo (…) Un sistema di conoscenza fondato su un paradigma meccanicistico, riduzionista e materialistico (…) Crediamo di essere al di fuori e sopra della Terra, crediamo di controllarla, di esserne i padroni. Lo crediamo [ma] ecco che i cambiamenti climatici, gli eventi estremi, i disastri ci ricordano con sempre maggiore frequenza che siamo parte della Terra. Ogni atto di violenza che distrugge i sistemi ecologici minaccia anche le nostre vite (…) Dobbiamo trasformarci da specie predatrice e incurante a specie che si prende cura, che lavora in co-creazione e co-evoluzione con la Terra». (V. Shiva, Solo il carbonio vivo salverà la terra, “il manifesto”, 22 settembre 2017). Potremmo continuare a lungo citando altri riferimenti scientifici ad una concezione di “ecologia integrale” – come la chiama Bergoglio nella enciclica Laudato si’ – o sistemica, come la chiama il grande fisico Fritjof Capra: «Una vera concezione della vita implica pensare in termini di relazioni, configurazioni e contesti, che nella scienza è conosciuto come “pensiero sistemico”». (F. Capra, Vita e Natura, Aboca, 2014).

Scientia [et] Potentia generano mostri

La ragione di fondo per cui la politica (nel discorso pubblico corrente e nel modus operandi delle istituzioni) preferisce l’approccio deterministico, lineare piuttosto che quello ecologico, ricorsivo sta – a mio avviso – nel fatto che la forma mentis, il modo di pensare e il linguaggio della politica sono quelli del dominio. La politica è vista e vissuta come affermazione ed esercizio del potere come comando. Il potere di disporre sugli altri e sulla natura. Non importa con quali mezzi e a quale prezzo. L’importante è “dare risposte”, rassicurare, conquistare il consenso popolare. In questa logica, per definizione, non è ammessa l’esistenza di problemi che non siano nella disponibilità della volontà di potenza del potere. Se qualche cosa si frappone al volere del governo essa va semplificata, rimossa e annullata.

La politica del dichiarare/decidere/disporre non può rispettare i tempi della conoscenza, dell’ascolto, della partecipazione condivisa delle popolazioni insediate. Procedure come la Valutazione degli Impatti Ambientali nate per far partecipare le popolazioni locali al percorso decisionale o direttive internazionali per la trasparenza degli atti come la Convenzione di Aarhus, non sono ammesse a fronte della “straordinarietà ed eccezionalità” degli interventi e dell’“l’interesse nazionale” prevalente delle opere. La militarizzazione della Val di Susa docet. Ma non meno gravi sono state anche le forzature operate da vari governi per giungere all’approvazione del Mose nonostante pareri negativi della commissione nazionale Via, del Consiglio nazione dei Lavori Pubblici, della Corte dei conti.

Per queste ragioni il linguaggio della politica non può essere ecologico, ma ingegneristico. Per imporsi, questo modo di fare politica ha bisogno della mediazione del linguaggio scientista (che è il contrario del metodo scientifico, per intenderci, quello che mette permanentemente in dubbio i saperi esistenti). I decisori pubblici, a corto di argomentazioni davvero convincenti, hanno bisogno di allearsi ai chierici delle “scienze esatte” per imporre le proprie scelte. Parafrasando Francis Bacon (Scientia est potentia) potremmo dire che l’alleanza tra scienza e potere ha generato molti mostri. Per validare “razionalmente e oggettivamente” le decisioni prese senza concedere possibilità di replica, sono chiamati in gioco gli esperti, i supertecnici, i saggi, i sapienti… La storia dei progetti per la salvaguardia di Venezia è costellata di commissioni e comitati scientifici (ne ho contati almeno otto) chiamati a proporre e a giudicare le migliori soluzioni proposte dagli uffici tecnici delle imprese di costruzione.

La complessa realtà biofisica e socioeconomica del territorio lagunare è stata parcellizzata, segmentata, numerata e modellizzata con l’intento di riprodurla in scala (vedi la ridicola storia del modello fisico della laguna di Valtabarozzo) e di imitare il suo funzionamento con software sempre più evoluti. Peccato che ogni tentativo di modellizzare grandi ecosistemi naturali, influenzati da complessi fenomeni meteorologici, biologici e antropologici comporti inevitabilmente una riduzione della complessità della realtà e una perdita di rappresentatività. L’imponente mole di dati e studi prodotti dal Consorzio di imprese Venezia Nuova è stato mirato a sostenere le scelte progettuali con il risultato di azzerare gli uffici statali (ad iniziare da quello idrografico del Magistrato alle Acque) e di mettere fuori gioco i “saperi diffusi”, esperenziali e contestuali sulla laguna basati sulla osservazione diretta dei fenomeni naturali (Ufficio maree del Comune, Biologia del mare e Grandi masse del CNR).

I “saperi esperti” degli istituti di idraulica chiamati a supporto delle scelte progettuali delle imprese di costruzioni (in pratica ristrette baronie universitarie di Padova e Genova) hanno avuto il monopolio della certificazione della scientificità del Mose. Roberto Ferrucci, nel suo ultimo bel racconto Venezia è laguna, li chiama: «I truffatori del buonsenso, i sabotatori del paesaggio». Per anni i tecnici accreditati dal Consorzio Venezia Nuova ci hanno spiegato con grafici, modelli e disegnini animati che la profondità dei canali portuali non è causa di erosione della laguna, che lo scambio mare-laguna è in equilibrio, che le acque medio alte più frequenti non sono un problema per la città, che le barene possono essere ricostruite con burghe di pietrame, ed ora, ci vogliono far credere anche che le grandi navi non fanno onde!

Può essere istruttivo riascoltare Giovanni Cecconi, uno dei massimi responsabili tecnici del CVN, incaricato di comunicare le meraviglie del Mose, ad una televisione amica, qualche tempo prima che scoppiasse lo scandalo del Mose.

Shock Economy in laguna

Per attecchire il decisionismo politico e il determinismo scientifico hanno bisogno di procedere lungo una sequenza logica che può essere definita così: emergenzialismo, decretazione, contrattazione. Provo a spiegarmi seguendo l’esempio veneziano.

A sinistra: Il Gazzettino del giorno dopo. A destra: Il sindaco Favretto Fisca
con Ted Kennedy e la contessa Foscari in sopralluogo a Pellestrina
L’ “aqua granda” del 4 novembre 1966 in realtà è stata un fenomeno alluvionale determinato da molti fattori che ha investito mezza Italia. I morti sotto le frane in montagna, gli allagamenti nel bacino scolante, la rotta del Sile in laguna, la rotta degli argini a Treporti e dei murazzi a Pellestrina, l’onda nera della nafta ed altre disastrose conseguenze stanno ad evidenziare una condizione di fragilità e vulnerabilità generale del sistema idrogeologico italiano. Una situazione ampiamente conosciuta da tecnici e amministratori pubblici. Basta andare a rileggersi gli atti della Commissione interministeriale De Marchi per lo studio della sistemazione idraulica e della difesa del suolo istituita dopo l’alluvione.

Ma mentre le indicazioni organiche della commissione si sono tradotte in legge (peraltro del tutto disapplicata) solo nel 1989 (legge n.183 sui piani di bacini idrogeologici e la difesa del suolo e delle acque), i decisori politici hanno preferito dare risposte parziali e specifiche alle varie “emergenze”. La legge speciale per Venezia n.171 del 1973 è una di queste. Un modo di procedere che ha avuto nella Legge Obiettivo del 2001 (tutt’ora operante) di Lunardi e Berlusconi la sua più compiuta codificazione. Vale a dire l’abbandono di ogni approccio programmatico e pianificatorio, coerente e permanente, a favore di interventi concentrati, sporadici, contrattati di volta in volta tra stato centrale e sistema delle autonomie regionali e affidabili a grosse associazioni tra imprese.

L’arte di trasformare l’ordinario in straordinario è una tattica ampiamente usata anche in altri paesi del mondo che la giornalista ambientalista canadese Nomi Klein ha chiamato shock economy, dopo aver assistito al disastro di Katrina a New Orleans nel 2005. La tattica consiste in questo: primo, lasciare precipitare la situazione di degrado trascurando la cura ordinaria e la manutenzione del territorio; secondo, considerare i disastri ambientali come un potente acceleratore dei processi di liberazione del patrimonio immobiliare dagli abitanti autoctoni più poveri; terzo, concentrare finanziamenti pubblici straordinari capaci di innescare grandi business e di rivalorizzare il patrimonio immobiliare.

Le “specificità” di Venezia sono state usate per giustificare l’approvazione di una normativa e di una strumentazione “straordinarie”, ipercentralistiche e falsamente efficientistiche che hanno nel tempo permesso di derogare a tutte le più elementari regole della buona amministrazione. In un articolo del 1 agosto del 1989 su Repubblica, Giuseppe Galasso, insigne storico e già sottosegretario ai beni culturali e ambientali, ebbe a scrivere: «In Italia tutte tende a farsi straordinario: non solo i terremoti o la mafia; ora anche le alghe». Era il tempo dell’eutrofizzazione dei mari e dell’invasione della Bava Mucillaginosa.

Governare per decretazione

Il secondo modo di procedere tipico del determinismo autoritario è il governo per decretazione. Anche qui il caso del Mose ci viene d’aiuto. Non è stata la Legge speciale del 1973 a compiere la scelta progettuale. La Legge speciale, nello stabilire gli obiettivi generali, si limitava ad affermare che: «La Repubblica garantisce la salvaguardia dell'ambiente paesistico, storico, archeologico ed artistico della città di Venezia e della sua laguna, ne tutela l'equilibrio idraulico, ne preserva l'ambiente dall'inquinamento atmosferico e delle acque e ne assicura la vitalità socioeconomica nel quadro dello sviluppo generale e dell'assetto territoriale della Regione».

Saranno gli “indirizzi” del Governo, un paio d’anni dopo (marzo 1975) a scendere nel particolare e stabilire le modalità tecniche necessarie a realizzare gli obiettivi della legge: «La conservazione dell’equilibrio idrobiologico e l’abbattimento delle acque alte (…) devono essere ottenute mediante un sistema di opere di regolazione fisso alle bocche di porto che possa essere successivamente integrato da parti manovrabili».

Nessuna commissione tecnica, nessuna istituzione scientifica si era azzardata a scendere a tanta precisione progettuale (tant’è che nel corso degli anni l’indicazione è stata modificata). Ma le esigenze della politica richiedevano una dimostrazione di capacità decisionale a prescindere dallo stato degli approfondimenti conoscitivi scientifici, anche in mancanza di un quadro d’insieme degli interventi e di un piano generale di riassetto del bacino idrografico lagunare, che ancora stiamo aspettando. La politica intesa come mero esercizio di potere ha le sue logiche e deve poter affermare coram populo l’avvenuta soluzione dei problemi.

La retorica del potere ha reso necessarie varie “inaugurazioni” del Mose. La prima volta ad annunciare “la sopravvivenza e lo sviluppo di Venezia” è stato Fanfani nel 1982 nel discorso alla Camera di insediamento del suo V° governo. Poi è stata la volta di Craxi in Palazzo Ducale, l’8 novembre del 1986 nel ventennale dell’alluvione con i ministri Granelli, Gullotti, Degan, Di Lorenzo, Visentini, il sindaco Laroni, il presidente della Regione Bernini e ospiti d’onore come Gianni Agnelli e Carlo De Benedetti. Quindi De Michelis il 3 novembre del 1988 per il varo del prototipo del Mose con i ministri Fracanzani, Ferri il sindaco Casellati e il presidente della Regione Bernini. Infine è venuto il turno di Berlusconi, il 24 maggio 2003 al collegio navale Morosini, con il cardinale Scola, il sindaco Paolo Costa, i ministri Lunardi, Matteoli e Buttiglione.

Un susseguirsi di fanfare e cori entusiasti. Ad esempio scrive Roberto Bianchin su Repubblica il 30 ottobre 1988: «Quattro grandi torri rosse, una lingua d’acciaio nascosta dentro, il tricolore dipinto sul fianco, il ferro da gondola, simbolo del Conorzio di imprese Venezia Nuova, disegnato da Forattini. E un nome, Mose, che i tecnici si affannano a spiegare che vuol dire modulo sperimentale elettromeccanico ma che tutti, a cominciare dal vicepresidente del consiglio Gianni De Michelis, ribattezzano subito Mosè, con l’accento sulla é. É la diga, dal nome biblicamente evocatore, che salverà Venezia dalle acque alte».

Bianchin non era il solo. «Ecco Mose, salverà Venezia», titolava la Stampa. «Mose ha fatto il miracolo. Perfettamente riuscito l’esperimento di Venezia», titolava il Giorno. «Ore 11,14 La paratoia si solleva. Un attimo di emozionata concordia», titolava il Gazzettino.

Venezia sui giornali negli anni 1982-83. A sinistra in basso: 10 dicembre 1982,
VIII legislatura, V° Governo Fanfani. Il Presidente del consiglio annuncia consistenti
investimenti per “la sopravvivenza e lo sviluppo di Venezia”.
Procedere per compromessi

Il terzo modo di procedere del metodo “governamentalista” – se così possiamo chiamare un sistema di governo frammentato per leggi speciali, leggine in deroga e decretazioni d’urgenza - è quello di avanzare per compromessi successivi, con interventi giustapposti tentando di rispondere “pragmaticamente” alle varie emergenze ed esigenze. Alle crisi anossiche della laguna si risponde con la raccolta delle alghe, all’erosione delle spiagge con dighe e cassoni sommersi di contenimento, all’erosione delle barene con le conterminazioni, alle acque alte medio basse con i rialzi della pavimentazione e così via inseguendo i sintomi di un collasso ecosistemico generale.

Ciò che ora chiamiamo Mose un tempo si chiamava più bonariamente Progettone, Progetto preliminare di massima, ed era solo una parte del Progetto Venezia. Era un intervento tra i molti che avrebbero dovuto affrontare, in una strategia integrata ambientale, socio-economica e istituzionale, il “Problema di Venezia”. Con il tempo abbiamo assistito ad un abbandono di ogni coerenza e organicità degli interventi e ad un procedere a foglie di carciofo. Tuttora non esiste un piano di bacino idrogeologico delle acque. Il Magistrato alle acque è stato (giustamente) sciolto a seguito dello scandalo del Mose, ma non è stato sostituito né dalla autorità di bacino “ordinaria” (ex lege 183), né dalla “agenzia” che avrebbe dovuta essere costituita per sovraintendere il funzionamento e gestire le chiusure mobili.

Il Piano comprensoriale è stato insabbiato illo tempore dalla Regione assieme ad ogni organica architettura della Città metropolitana. Il parco naturale della laguna è uscito dalla Legge quadro nazionale e quello di iniziativa locale è stato azzerato dal Comune. L’allontanamento dei traffici petroliferi dalla laguna (prescrizione di legge dal 1973) non è stato realizzato mentre è aumentato a dismisura quello crocieristico. La riapertura delle valli da pesca e la loro ri-acquisizione al demanio (sentenza n. 3665 del 14 febbraio 2011 della Corte di Cassazione in occasione di una infinita disputa che riguarda le valli da pesca) non sono state attuate. Abbandonato il progetto per la rimodulazione del Canale dei petroli. Nessun rilancio del Cnr, dell’Ispra e degli altri istituti di ricerca pubblici. Persino le sale dedicate alla laguna del Museo di storia naturale non sono state allestite. Per non parlare delle politiche abitative, sociali e produttive completamente liquefatte.

A fronte di tanti e tali fallimenti il vecchio Progettone ha via, via conquistato l’intera scena. Con il giovane avvocato Luigi Zanda presidente del CVN (dal 1985 al 1995) il Progettone ha subito una rivoluzione linguistica degna del miglior marketing aziendale. Il nuovo Mosé è la tecnologia made in Italy, l’Ottava meraviglia del mondo. Più ancora - dirà in un appassionato intervento Zanda al convegno organizzato dal P.C.I. “12 parchi nel Veneto”: «Mi azzardo a dire che il nostro progetto è il primo di una nuova generazione di opere pubbliche. Reti autostradali, ponti sugli stretti, sono cose imponenti e impegnative ma tradizionali. La nostra è la prima opera pubblica che dopo anni di disattenzione e di imprudenze, ripropone la centralità dell’ambiente. Le tecnologie più avanzate si devono plasmare ed adattare per fare, appunto della “ingegneria dell’ambiente”.(…) La tecnologia è stata spesso additata come elemento di rottura: noi la riproponiamo come strumento di riequilibrio». (Venezia 26 settembre 1986).

Parole analoghe orientate all’ecologia saranno pronunciate poche settimane dopo da Craxi in Palazzo Ducale per il ventennale dell’alluvione: «Il progetto Venezia è il primo di una nuova generazione di opere pubbliche che pongono la tecnologia al servizio dell’ambiente, per rigenerare nuove condizioni di equilibrio e di armonia che l’uomo, e in parte la stessa natura, avevano modificato. Si tratta di ricostruire un vero e proprio “ecosistema”, che era stato violato, attraverso il riequilibrio idrogeologico e una vasta opera di disinquinamento agricolo, industriale ed urbano. E’ una impresa che non si materializza in un grande cantiere, in una grande opera fisica, ma richiede uno studio, una intelligenza, una invenzione continua per andare alla radice dei fenomeni che hanno causato il deterioramento e rimuoverne globalmente le cause» (Venezia 8 novembre 1989).

La svolta ecologista di Zanda e Craxi durerà poco. Servirà a gettare un po’ di fumo negli occhi ad una opinione pubblica scettica e ai rilievi critici del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici e della Corte dei Conti. Esaurita la realizzazione del lungo elenco delle “opere complementari” e “preliminari”, le dighe di separazione mare/laguna, sono tornate ad essere il fulcro del sistema, lo scopo stesso dell’esistenza del Consorzio di imprese Venezia Nuova.

Ma quali dighe? Per quale scopo?

Già il Progettone, ribattezzato Mose, era frutto del tentativo di comporre in un impossibile compromesso le ragioni della salvaguardia con quelle della portualità. I già ricordati Indirizzi governativi del 1975 in attuazione della prima legge speciale disponevano che: «La conservazione dell’ecosistema, dell’equilibrio idrogeologico e l’abbattimento delle acque alte nei centri storici [deve avvenire] entro limiti tali da non turbare la funzionalità del sistema portuale». Il mandato è chiarissimo: non interferire con i traffici navali. Le rielaborazioni progettuali operate dal CVN con il Mose (nessun restringimento fisso delle bocche di porto, mantenimento dei fondali alla massima profondità, creazione di una grande conca di navigazione, mantenimento della configurazione rettilinea e marginamenti pesanti del Canale dei petroli) vanno tutte nella direzione di “non disturbare” il traffico marittimo. Il Mose, quindi, si configura più come una grande opera portuale che serve a mantenere pressoché inalterati i traffici portuali (anche nei casi di mareggiate eccezionali), piuttosto che un’opera «al servizio dell’ambiente», per usare le parole di Craxi.

Il caso Venezia sta tutto dentro questo dilemma: porto o salvaguardia. Siamo ancora al punto di partenza. 35 anni fa l’Associazione degli industriali e l’Ente zona industriale di Porto Marghera si chiedevano se si potesse «difendere Venezia senza uccidere il porto» (Massimo Mazzariol riferisce sul il Gazzettino del 14 novembre 1982). Per esserne certi affidarono uno studio ad una équipe di docenti di Cà Foscari: Muscarà, Marguccio, Elio Canestrelli e Paolo Costa. «Il responso dei quattro docenti è confortante: la chiusura temporanea delle bocche di porto ha un costo sopportabile, ma non tutti i rischi sono valutabili», riporta il giornalista. Quindi, dicono i professori: «Meglio costruire una paratia alla volta, piuttosto che tutte e tre simultaneamente».

Passa il tempo, cambiano i ruoli, ma siamo ancora qui. Pochi giorni orsono, il 10 ottobre 2017, il giornalista Albero Zorzi sul Corriere del Veneto, scrive: «Era lo spauracchio del presidente uscente dell’Autorità portuale Paolo Costa e lo è anche del suo successore Pino Musolino. L’acqua alta, le paratoie del Mose sollevate a chiudere la bocca di porto di Malamocco e le navi che aspettano fuori o che percorrono lentamente la conca di navigazione (…) il porto di Venezia rischia di essere piano piano abbandonato. Ed è partendo da qui che il provveditore interregionale alle opere pubbliche Roberto Linetti sta pensando ad un modo per ridurre il più possibile le chiusure del Mose a Malamocco». (Mose a metà per salvare il porto. Così passano anche le crociere, pag. 5 14/10/2017).

Venezia può venire inghiottita dalle acque, ma le navi potranno passarci sopra. Come bene documenta questa foto.


Riferimenti

Tra i numerosi articoli dedicati da eddyburg all’argomento si vedano, tra i più recenti. l’Eddytoriale n. 174, in gran parte dedicato alla banda, Consorzio Venezia Nuova, che inventò, progettò costruì, gestisce (e soprattutto beneficio degli ingenti finanziamenti pubblici impiegati per l’opera, l’articolo di Paola Somma "La città del Mose", che illustra il contesto metropolitano nel quale il “sistema Mose” agisce, quelli di Edoardo Salzano "Venezia e la modernità" , con la replica di Piero Bevilacqua, di Armando Danella, "Il rischio Mose".

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