1.
Strano paese l’Italia. Ogni volta che si va all’estero, negli altri paesi d’Europa, ci si meraviglia di come stiano attenti a custodire la natura, a conservare il paesaggio, a aggiungere qualità al territorio. Fenomeni come il consumo di suolo, che da noi investono ogni anno migliaia e migliaia di ettari, vengono combattuti da decenni in Gran Bretagna, in Germania, Iin Francia e nei Paesi bassi. Nel progettare le strade si segue il più possibile l’andamento del terreno e si allontanano i cartelloni pubblicitari da tutte le visuali di un certo interesse. Da noi il territorio è considerato poco più d’una pattumiera.
Eppure, in questa situazione che indigna molti c’è qualcosa che si è salvato, e ancora si salva, meglio che altrove. Dirò qualcosa che farà forse stupire qualche mio collega, ma io credo di non sbagliare se dico che in Italia siamo all’avanguardia per quanto riguarda i nostri centri storici. Non c’è forse la cura minuziosa e quotidiana che in Austria e in Germania si pone alla conservazione dei piccoli centri tradizionali, e in Gran Bretagna e in Francia alla tutela dei monumenti più rilevanti e celebri, ma la sostanza dei nostri centri storici ne fa, ancora oggi, dei meglio conservati e dei più vivibili d’Europa.
Credo che questo dipenda dal fatto che, in Italia, si sono comprese prima che altrove tre verità importanti:
1.che ciò che ha valore e merita di essere conservato della nostra storia non sono soltanto i monumenti, le costruzioni eccezionali e “artistiche”, ma le città storiche nel loro insieme: che esse sono un valore perché testimoniano modi di vivere e di abitare nei quali tra le cose e l’uomo c’è equilibrio, formano nel loro insieme ambienti vivibili che la cultura e la tecnica moderne riescono raramente a eguagliare.
2. che la bellezza e l’utilità dei centri storici non è costituita soltanto dalle pietre che li formano, dai materiali e dalle forme degli edifici e degli spazi aperti che li organizzano, ma anche dalla società che li vive: dagli uomini e le donne, dai bambini e dai vecchi, dai lavoratori nei diversi mestieri, dai residenti stabili e dai viandanti e visitatori che vi arrivano.
3.che i centri storici non vivono separati dal territorio che li circonda, ma devono saper ricostituire con questo (con i nuovi quartieri e con gli altri centri antichi e nuovi, con i nuovi luoghi di produzione e con le vie di comunicazione, con le campagne e i paesaggi aperti) un rapporto efficace: se non si progetta l’insieme del territorio, anche i centri sstorici decadono.
2.
Un momento significativo della comprensione di queste verità è costituita da un documento, approvato nel 1960 in un convegno di studiosi e di amministrazioni comunali particolarmente consapevoli: c’erano Ascoli Piceno ed Erice, Bergamo e Ferrara, Genova e Perugia, Venezia e Gubbio. Mi riferisco alla cosiddetta Carta di Gubbio, nella quale si delineano alcuni essenziali principi, a mio parere ancora oggi in gran parte validi:
Era una fase particolarmente significativa della nostra storia. Nel dopoguerra si era costruito per ogni dove. L’esigenza di una ricostruzione rapida di tutto ciò che era stato distrutto dalla guerra prevalse, in Italia, su ogni altra esigenza e attenzione. Alla fine degli anni 50 si cominciavano a vedere i danni di un’edificazione senza scrupoli. Si cominciava a sentire come un delitto la devastazione dei vecchi centri e quartieri con edifici moderni. Furono gli anni in cui l’esigenza di una profonda riforma urbanistica diventò un grande tema politico e culturale. Bisognava salvare qualità preziose che minacciavano di scomparire. Ecco perciò l’impegno della cultura e dell’amministrazione più avveduta per correre ai ripari.
Di fronte agli scempi che si perpretavano la Carta di Gubbio pone in primo piano la salvaguardia:
“Si invoca una immediata disposizione di vincolo di salvaguardia, atto ad efficacemente sospendere qualsiasi intervento, anche di modesta entità, in tutti i Centri Storici, dotati o nodi Piano Regolatore, prima che i relativi piani di risanamento conservativo siano stati formulati e resi operanti”
Salvaguardia rigorosa, in attesa di compiuti atti di pianificazioni, basati su un accurato studio dei centri storici, finalizzati alla conservazione di tutti gli elementi e le regole che ne determinano la qualità. Pianificazione coordinata con quella dell’intero territorio comunale: la tutela e il risanamento
“come premessa allo stesso sviluppo della città moderna e quindi la necessità che esse facciano parte dei piani regolatori comunali, come una delle fasi essenziali nella programmazione della loro attuazione”.
Ma non basta il risanamento fisico:
“nei progetti di risanamento una particolare cura deve essere posta nell’iindividuazione della struttura sociale che caratterizza i quartieri e che, tenuto conto delle necessarie operazioni di sfollamento dei vani sovraffollati, sia garantito agli abitanti di ogni compatto il diritto di optare per la rioccupazione delle abitazioni e delle botteghe risanate, dopo un periodo di alloggiamento temporaneo, al quale dovranno provvedere gli Enti per l’edilizia sovvenzionata; in particolare dovranno essere rispettati, per quanto possibile, i contratti di locazione, le licenze commerciali ed artigianali ecc., preesistenti all’operazione di risanamento”.
Possiamo dire che da allora, in Italia, la buona cultura urbanistica e e la buona amministrazione hanno sempre considerato gli insediamenti storici come luoghi di eccellenza per più d’una ragione. Riassumo brevemente le ragioni della qualità del patrimonio costituito dagli insediamenti storici:
1.Sono testimonianza di un modo di vivere a misura d’uomo, nel quale l’individuale e il sociale, il provato e il pubblico trovavano l’espressione e lo strumento per il loro equilibrio.
2.Sono il prodotto memorabile di un rapporto tra costruito e non costruito, tra città e campagna, tra manifattura e agricoltura, tra il pieno (di pietre, di abitanti) e il vuoto (ma pieno di natura, di lavoro, di cultura millenaria) delle campagne.
3.Sono elementi nodali d’un paesaggio di rara bellezza, soprattutto nelle regioni nelle quali dall’assiduo lavoro della costruzione del territorio agrario nasceva la crescita d’una economia e d’una civiltà cittadine adornate anch’esse da suggestiva bellezza di forme.
3.
I migliori piani regolatori che la storia dell’urbanistica italiana del dopoguerra ricordi sono caratterizzate da episodi e da persone che hanno combattuto (e a volte vinto) battaglie memorabili per tramandare al futuro questi elementi decisivi del patrimonio comune. Basta ricordare
- Edoardo Detti e alla sua difesa del centro storico e delle colline di Firenze.
- La difesa delle colline di Bologna operata, negli stessi anni, da Armando Sarti e Giuseppe Campos Venuti.
- Il piano di Assisi e la disciplina meticolosa delle sue campagne nel piano regolatore guidato da Giovanni Astengo.
- L’impegno con il quale Luigi Piccinato e Ranuccio Bianchi Bandinelli imposero il rispetto del centro storico e delle valli orticole che determinano - con le mura e gli edifici – il paesaggio di Siena.
- Il piano del centro storico di Bologna, con il quale Pierluigi Cervellati introdusse per la prima volta nella pianificazione di un centro storico l’attenzione, e soprattutto la pratica, della difesa degli abitanti attraverso l’impiego – in un centro storico accuratamente pianificato con l’impiego dell’analisti tipologica – della programmazione dell’edilizia abitativa pubblica.
È all’inizio degli anni 70, del resto, che anche qui ad Asolo ci fu una coraggiosa battaglia e una coraggiosa scelta, grazie alla quale abbiamo ancora un centro storico intatto e bellissimo, ancora vivo e vitale, nonostante i suoi problemi. Mi riferisco alla scelta di evitare – con il PRG del 1973 - di manomettere con nuove pesanti costruzioni e con l’espansione dalla collina verso la piana il delicato assetto di uno dei più bei centri collinari.
4.
Riprendiamo il nostro ragionamento e veniamo all’oggi. Ogni centro storico ha una duplice caratteristica, una duplice funzione, e pone quindi una duplice serie d'esigenze, le quali sono due facce d'una medesima medaglia.
Da un lato, vi è il ruolo e il valore che deriva ai centri antichi dalla loro storicità: dal fato cioè che in essi si è verificata, nel corso dei secoli, una intensa accumulazione di valori, la quale fa oggi dei centri storici un patrimonio di grandissima rilevanza.
Dall'altro lato, vi è il ruolo che deriva dal fatto che nei centri storici si deve vivere, si deve lavorare, si deve abitare: che perciò essi devono essere comunque porzioni vive, attive, dinamiche degli organismi urbani e territoriali di cui sono parte.
I due aspetti sono strettamente intrecciati, e si sostengono anzi l'uno con l'altro. Infatti, mentre è ormai chiaro che i centri storici non trovano la ragione della loro bellezza solo nelle pietre e negli intonaci da cui sono costituiti, ma anche (e in modo essenziale) nella vita che in essi si svolge, è chiaro che solo nella misura in cui diverranno un patrimonio effettivamente considerato come tale - e perciò attivamente tutelato, messo in valore, concretamente utilizzato dalla collettività nazionale - i centri storici potranno diventare ancora una volta luoghi realmente vitali, sedi di attività non lesive dell'assetto formale che il trascorrer dei secoli e l'accumularsi del lavoro umano ha conferito a essi, ma capaci invece di integrarsi fecondamente con gli antichi valori.
Si apre a questo punto un problema di notevole rilevanza metodologica, al quale mi limiterò ad accennare. Tutelare in modo effettivo i centri storici significa, per quel che s'è detto, trovare un rapporto equilibrato e organico tra “strutture vitali” e “strutture formali”; significa in altri termini individuare, tra i “tipi organizzativi”, le attivita, le specifiche forme della vita produttiva presenti nella nostra epoca, quali siano quelli che possono non solo non risultar dannose all'assetto formale dei centri storici, ma anzi costituirne il contenuto organico e omogeneo, e perciò ravvivarlo e conferirgli nuova forza.
Questo è il tema che è di fronte a noi. Come fare della tutela, della conservazione, del risanamento e restauro, non qualcosa che sia fine a se stesso, ma la premessa e l’occasione per ripristinare una nuova vivibilità e vitalità del centro storico.
5.
A questo punto dobbiamo rilevare che nel nostro paese – a differenza degli altri paesi dell’Europa – se la politica della conservazione sembra abbastanza saldamente presente, manca assolutamente una politica che si faccia carico dei problemi concreti dell’assetto economico e sociale dei nostri territori, in particolare di quelli più delicati e preziosi.
Non mancano le spinte e le sollecitazioni economiche sul territorio e sulle città. Ma sono spinte e sollecitazioni di un’economia malata: un’economia che bada più all’appropriazione dei beni comuni e alla loro trasformazione in merci, che punta più alla rendita parassitaria che al profitto d’impresa, che divora il patrimonio storico anziché investire nel futuro, che riempie disordinatamente il territorio di edificazioni che spesso servono solo a chi le costruisce.
Ma non ci sono risorse per affrontare problemi per i quali in altri paesi di destinano investimenti importanti. Non ci sono risorse per un’edilizia abitativa a prezzi ragionevoli. Non ci sono risorse per aiutare i comuni a dotare le città e i paesi delle attrezzature necessarie per la vita civile. Non ci sono risorse per contribuire a restaurare e riqualificare patrimoni comuni importanti per il presente e il futuro, come appunto l’edilizia storica. Non ci sono leve per incentivare le utilizzazioni virtuose, socialmente e culturalmente utili, degli spazi per l’artigianato di qualità, il piccolo commercio vitale per i centri urbani, un’agricoltura radicata nelle specificità dei territori.
E invece, cresce a dismisura la ricchezza di chi sui beni comuni, sul territorio e sulla città, specula in modo sempre più smaccato. Non so quanti di voi hanno visto domenica scorsa il programma di Report dedicato all’urbanistica romana. Avete sentito grandi imprenditori confessare candidamente che, grazie alle scelte di una pianificazione compiacente con il loro interessi, il valore di aree acquisite pochi anni fa è aumentato di cinque e dieci volte.
In altri paesi dell’Europa, di cui pure facciamo parte, la pianificazione pubblica anticipa e guida le scelte degli investitori immobiliari. E sulle operazioni di trasformazione immobiliare l’incremento della ricchezza privata dovuto alle scelte della collettività ritorna in misura molto larga nelle casse pubbliche, per essere spese negli interventi utili per l’intera comunità. Da noi succede il contrario: con i nostri soldi, con le tasse, paghiamo i guasti, i disagi, le congestioni, i malfunzionamenti che un uso dissennato del territorio provoca alle nostre vite.
6.
Gli approdi della cultura urbanistica più avanzata si sono per lo più tradotti in strumenti e iniziative di salvaguardia, ma queste non sono sufficienti per tutelare con efficacia i centri storici e i loro paesaggi..
La pianificazione urbanistica ha contribuito alla tutela dei centri storici, scongiurando pesanti manomissioni e indirizzando l’attività edilizia verso il restauro e il recupero del patrimonio edilizio esistente. E questo benché i centri storici non siano riconosciuti né tutelati in modo specifico dalle leggi nazionali in materia di tutela del paesaggio e dei beni culturali, e sono disciplinati in modo fortemente disomogeneo dalle leggi urbanistiche regionali.
Ma risultati del tutto insoddisfacenti sono stati raggiunti con riferimento al secondo ruolo dei centri storici, quella di luogo privilegiato per vivere, lavorare e incontrarsi. Ai problemi legati allo spopolamento, alla terziarizzazione, alla degradazione collegata al turismo di massa, alla chiusura di servizi e attività commerciali di base, non sono state fornite risposte compiute, né sotto il profilo legislativo, né all’interno delle elaborazioni tecniche e culturali degli urbanisti.
Così come per la città nel suo complesso, la domanda di pianificazione si è ampliata negli anni, senza trovare adeguate risposte nella strumentazione ordinaria. Come ci si attrezza per facilitare la vita nelle città, e quindi nel centro storico? Quali attività sono da favorire e quali da escludere, in periferia e nel centro? Le politiche per la casa, i trasporti, i servizi ambientali, i servizi sociali, gli spazi pubblici devono trovare una declinazione specifica quando riguardano i centri storici? e fino a che punto sono influenzate dalle decisioni che riguardano le periferie o i territori circostanti?
Per Asolo, ci siamo sforzati – insieme all’amministrazione e ai numerosi cittadini che siamo riusciti a coinvolgere nel nostro lavoro – di fornire alcune risposte, sulle quali ragioneremo nel pomeriggio. E certo che localmente molto si è fatto, soprattutto negli ultimi anni, e molto si può ancora fare. Un grande rulo spetta ai comuni. È certo difficile, significa navigare controcorrente. Ma è ciò che feca a Gubbio, nel 1960, un gruppo di comuni animosi che sapevano guardare lontano.
Siamo convinti che il problema di Asolo sia parte di un problema molto più generale, che non riguarda solo gli asolani ma l’intera comunità nazionale, e di cui la comunità nazionale deve prendere consapevolezza. Bisogna che l’Italia decida se vuole davvero vedere e vivere nel suo patrimonio storico come qualcosa che essa possiede più d’ogni altra nazione, qualcosa che costituisce la ragione del suo prestigio nel mondo, qualcosa che nessuna concorrenza della Cina o della Malaysia può toglierle, perché è unico e serve per tutto il mondo di oggi e di domani. A condizione non solo che questo patrimonio venga amorevolmente conservato, ma che si investa in esso perché possa essere adoperato nel pieno delle sue possibilità, con l’impegno di quelle risorse finanziarie, amministrative, legislative che in altri paesi vengono largamente desinati ai beni comuni, e che da noi vengono invece troppo spesso dilapidati in opere inutili e inutilmente costose.