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Edoardo Salzano
20050300 La vicenda di Baia Sistiana: Gli strumenti e il potere
3 Luglio 2008
Interventi e relazioni
Scritto per il Bollettino di Italia Nostra, nel tentativo di passare dalla rivendicazione e la denuncia alla riflessione (marzo 2005)

I fatti

Baia Sistiana. Guardando dal mare: a sinistra, un’alta falesia alleggerita da chiazze di macchia mediterranea (nella quale d’autunno spicca il rosso sommàco), percorsa in cima dal Sentiero di Rilke: là dove il poeta, ospite del barone Turn und Taxis, passeggiava. A destra, la lunga bassa costa rocciosa della Costa dei Barbari. Al centro, l’incavo verdeggiante della Baia, occupata alla base dal relitto di un antico albergo austriaco, da qualche costruzione utilitaria, dalla darsena ripiena di imbarcazioni da diporto. Alla destra della Baia, l’ampia ferita della Cava: Duino Aurisina (in sloveno Devin Nabrezina), il comune carsico che s’affaccia al mare con la Baia di Sistiana, è luogo d’escavazioni di calcare fin dai tempi dei romani..

La Baia è il naturale sbocco a mare degli abitanti del Carso e dei suoi borghi, e dei triestini, che d’estate affollano la spiaggetta della Baia e la Costa dei Barbari. La proprietà è tutta di una unica società; anche la piccola porzione del demanio regionale è stata recentemente svenduta ai privati. L’utilizzazione consolidata nelle proposte di tutte le componenti dell’opinione pubblica locale e regionale è quella turistica. Questa utilizzazione era confermata da tutti i piani regolatori vigenti nel comune.

Baia Sistiana è venuta alla ribalta delle cronache nazionali nel 1990, quando un progetto attuativo del PRG fu presentato al Consiglio comunale. Del progetto, redatto da Renzo Piano per la proprietà (allora Finsepol), non piacevano le cubature eccessive, la trasformazione edilizia della Baia, l’altezza delle costruzioni nella Cava, la minaccia di privatizzazione della fruizione del litorale. L’operazione fu bloccata da una campagna di stampa e da un NO all’ultim’ora del ministro Facchiano (Beni culturali). Un ruolo decisivo lo ebbe allora Antonio Jannello, instancabile tessitore di trame per la salvaguardia dei residui brandelli del Belpaese.

Fu redatto un nuovo PRG (alla cui progettazione fui chiamato a collaborare) che ridimensionò fortemente le cubature, previde un sistema di parcheggi a monte e l’eliminazione del traffico lungo la costa, definì le garanzie per la fruizione libera degli spazi balneari. L’obiettivo era quello di promuovere, accanto alla balneazione, un turismo a rapida rotazione d’uso e lunga durata, legato alla convegnistica e ad altre funzioni di profilo internazionale. La prospettiva di Baia Sistiana era inquadrata in una serie di scelte per l’intero territorio comunale che attribuiva il primato alla tutela del paesaggio carsico (la tipica landa del Carso è erosa sia dall’inselvatichimento boschivo che dalle colture), alla difesa delle attività agro-silvo-pastorali dalla pressione della domanda di seconde case dei triestini, alla tutela dell’identità dei borghi carsici e al rilancio del loro ruolo. Il piano fu discusso con le associazioni ambinntalistiche prima della sua adozione ed ebbe da esse valutazioni molto positive

Nel 2003 la polemica è divampata di nuovo, e fino ad oggi non è cessata. Essa esplose allorché furono presentate e discusse il PP attuativo in parziale variante al PRG, e fu reso pubblico dalla proprietà un progetto architettonico che chiariva la prospettiva verso la quale si muove.

La variante, il PP e il connesso progetto preoccupavano per motivi condivisibili e gravi: 1) la modifica delle utilizzazioni consentite nelle nuove costruzioni, che prefiguravano un destino di “villaggio residenziale al mare”: funzionalmente, una periferia balneare di Trieste; 2) la tendenza strisciante verso la privatizzazione della fruizione balneare (altro non significava una “regolamentazione degli accessi” affidata alla proprietà); 3) il livello modestissimo della progettazione architettonica, ispirata a modelli assolutamente inaccettabili (si ricostruisce in vitro un falso stile locale, mai esistito, denominato “istro-veneto”).

Le reazioni molto allarmate delle associazioni ambientaliste, animate da Wilma Diviacchi (purtroppo prematuramente scomparsa), misero in evidenza gravi difetti nelle procedure che condussero a ripetuti annullamenti da parte del Tribunale amministrativo regionale.

Una nuova fase si aperta all’inizio del 2005. È sceso pesantemente in campo il presidente della Regione Friuli – Venezia Giulia, Riccardo Illy, esprimendo il suo aperto sostegno ai proprietari e ai loro progetti: una discesa in campo così plateale da provocare scandalo in chi è rimasto legato al rispetto delle istituzioni del loro ruolo nei confronti dei privati e nelle loro funzioni specifiche: il presidente aveva infatti espresso il suo sostegno a un progetto che il Consiglio comunale competente non aveva ancora discusso. Quasi a corollario di questo intervento le osservazioni dei cittadini e delle associazioni al piano particolareggiato, la cui ignoranza da parte del comune aveva indotto il TAR ad annullare l’approvazione, aveva indotto il sindaco e la giunta regionale a parlare di “mere formalità”.

Una riflessione

Fin qui i fatti. Nella vicenda ho avuto un ruolo di un certo rilievo. Ho contribuito a far esplodere la polemica contro il progetto della Finsepol, firmato da Renzo Piano. Ho collaborato con il comune (sindaci prima Giorgio Depangher, poi Marino Vocci, entrambi di sinistra) nella progettazione del PRG oggi vigente. Sono stato informato dei successivi “slittamenti” che, con interpretazioni e varianti, allontanavano il progetto dalle impostazioni iniziali. Ugualmente sono stato informato dei passi che le associazioni ambientaliste facevano per arrestare lo svilimento del progetto, condividendoli.

Da tempo mi pongo una domanda: come mai si è passati, attraverso piccoli passi nessuno dei quali in contrasto palese con il PRG, a uno snaturamento dell’impostazione di partenza? Ho dato una prima risposta intervenendo su Il Giornale dell’Architettura. Scrivevo che l’esito deludente dell’operazione è dovuto al fatto che non si è mai posta sul tappeto la opzione zero” da parte dell’amministrazione e di tutte le forze politiche e sociali. D’altra parte, il privato giocava in una situazione di monopolio: il Comune poteva trattare con lui e solo con lui. Regione e provincia sono stati latitanti, e anzi la prima di fatto collusa con la proprietà, cui ha svenduto l’unica parte pubblica dell’area.

Il potere formale è certamente nella mani dell’amministrazione pubblica. Ma se questa vuole “fare”, deve necessariamente avvalersi di soggetti privati: soggetti proprietari o soggetti imprenditori. Ma determinate operazioni non sono alla portata di qualunque imprenditore. A Baia Siriana era necessario un imprenditore capace di puntare su un risultato di alto livello qualitativo, d’avanguardia, realmente (per adoperare un termine alla moda) “innovativo”. Occorreva studiare, esplorare, cercare e promuovere nel mercato internazionale correnti di visita legate alla qualità dei servizi offerti. Occorreva investire (e rischiare) nella ricerca di modi nuovi di offrire i servizi di un territorio di pregio eccezionale. Un’operazione capitalistica: ma di un capitalismo serio, che punta sul profitto ottenibile dalla qualità del prodotto-servizio offerto, non dalla rendita di posizione. Nei fatti, questo imprenditore non s’è trovato. Chi possedeva il tesoro collettivo della Baia e della Cava ha preferito comportarsi da palazzinaro: progettare per vendere lotti edificabili.

Temo che sia così non solo in quel caso, ma in tutt’Italia. Impresa capitalistica e proprietà immobiliare sono indissolubilmente legate. Le facili rendite che si possono ottenere sfruttando la seconda scoraggia dall’investire nella prima. La ragione prima è quella storica: sta nel modo in cui è stata fatta l’unità d’Italia, attraverso un’alleanza tra borghesia capitalistica e aristocrazia fondiaria nella quale “il morto ha afferrato il vivo”. Gli interessi capitalistici hanno potuto svilupparsi solo lasciandosi condizionare da quelli fondiari, utilizzando il sostegno statale per compensare la propria debolezza. Più tardi, si sono strettamente intrecciati con quelli immobiliari. La percezione di rendite (immobiliari e finanziarie) ha coperto i livelli non competitivi del profitto.

Anche nei decenni più vicini a noi nessuna forza politica (salvo, sul finire degli anni Sessanta, la sinistra comunista e socialista) si è posta il problema di sconfiggere la prevalenza della rendita sul terreno della sua formazione: il governo della città e del territorio. Nessuna forza sociale (se si esclude qualche barlume nei sindacati operai e qualche flebile tentativo del mondo dell’industria avanzata, in quella medesima stagione) ha posto con forza e continuità questo problema, proponendo gli strumenti adeguati.

È anche in questo la radice (una delle radici) dell’attuale decadenza dell’industria italiana: le risorse sono affluite nei settori della rendita, dove non erano necessarie né innovazione né accumulazione, poiché non era necessaria competizione. Ed è certamente in questo la ragione principale della svendita delle qualità del territorio che i governanti promuovono (a livello nazionale, regionale e locale) ogni volta che ci si pone il problema dello “sviluppo”.

Che fare?

Che fare in una situazione siffatta? La soluzione razionale, solidamente ancorata alla tradizione dell’urbanistica moderna e ai fondamenti del pensiero liberale: sarebbe quella che la comunità locale divenisse di nuovo, come suggeriva Hans Bernoulli, “padrona del proprio suolo”. Concretamente, se i costi dell’acquisizione pubblica delle aree fossero coerenti con le finanze comunali.

Se la comunità fosse, o diventasse, padrona del proprio suolo allora essa potrebbe individuare, o aspettare, l’imprenditore giusto per realizzare il “suo” progetto di utilizzazione. E nel frattempo, potrebbe svolgere quei compiti minimali di sorveglianza, manutenzione, messa in sicurezza a rinaturalizzazione delle aree degradate dal saccheggio di cava. Oggi, che perfino gli istituti storici degli urbanisti e le loro accademie relegano le acquisizioni pubbliche di aree nell’archivio dei ferrivecchi, oggi che la mano pubblica si sbarazza (lo abbiamo visto proprio a Baia Sistiana) dei loro patrimoni, questa via non sembra proprio percorribile. Ci hanno consegnati, mano e piedi legati, alla privata proprietà immobiliare.

Così stando le cose, non credo neppure che la pianificazione urbanistica possa essere così poderosamente trasformata dalle pratiche concertative e strategiche, dall’abbandono del government per la governance, da poter porre al proprio interno l’attivazione di particolari capacità imprenditoriali; anzi, lo slittamento dalla pianificazione verso la valutazione rende l’urbanista più vicino allo spettatore che all’attore. Allora forse l’unica soluzione possibile è quella, tutta politica, di porre la “opzione zero” tra le possibilità della politica urbanistica

A Baia Sistiana, si avrebbe dovuto avere l’acume politico di prendere atto dell’’incapacità dell’imprenditoria italiana (o almeno di quella sua parte legata alla masima utilizzazione delle rendite) ad affrontare la questione nei termini desiderati. Avrebbe dovuto dimostrare questo acume politico certo la comunità locale, ma soprattutto quei livelli di governo che, per essere teoricamente custodi di interessi territoriali più vasti, ed essendo teoricamente più distanti, e “superiori”, rispetto agli interessi economici locali. Nello specifico, dato anche il ruolo subalterno e marginale che viene in quella parte d’Italia lasciato alla Provincia, il necessario colpo d’ala avrebbe dovuto venire dalla Regione: erede, tra l’altro di un passato, mai formalmente rinnegato, di buona custodia delle qualità del territorio e della sua identità.

L’insegnamento

L’insegnamento che viene da Baia Sistiana ha un valore generale. Esso può essere espresso in tre punti.

1. La rinuncia alla battaglia per conservare, e soprattutto applicare nel concreto, la capacità di espropriare le aree quando ciò è necessario è stata un errore grave che la cultura urbanistica dominante (stimolata dalla cultura politica dominante) ha perpetrato.

2. Nelle aree la cui qualità può essere conservata solo con un progetto di trasformazione intelligente e “innovativo”, se l’intelligenza e l’innovazione necessarie non si manifestano occorre avere il coraggio di dire: meglio aspettare tempi migliori che distruggere quello che c’è

3. Non è detto che “chi è più vicino al popolo” abbia sempre ragione. Esistono interessi generali, la cui tutela spetta strutturalmente a chi rappresenta comunità più vaste. Ruolo della Regione non è quello di sommare le domande (e le miopie) localistiche, ma di vedere più grande e più lontano. In Friuli-Venezia Giulia non ci si è riusciti (altrove, per fortuna, si).

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