Il testo che segue è stato preparato per introdurre un convegno, organizzato a Nairobi il 22 gennaio 2007 dall’associazione ZONE onlus, sul tema “La città come bene comune. Quale futuro per i quartieri informali?”. Nell’ambito del World Social Forum 2007 il convegno in parte si è svolto nella sede del forum in parte è stato organizzato dalla comunita' di Toi market del grande slum di Kibera.
L’iniziativa è stata promossa per presentare un progetto di rigenerazione di una struttura collettiva informale, Toi Market, a Kibera, gestito dalle comunità locali con l’apporto di Zone onlus e Pamoja Trust, una ong locale che dal 2000 è attiva per fermare gli sfratti e dare supporto tecnico e legale alle comunità degli slum. (vai al postscriptum)
1. LA CITTÀ COME BENE COMUNE: CHE COS’È
In Europa cresce il movimento che rivendica la città come bene comune. Che cosa significa questa espressione? Interroghiamoci sulle tre parole che la compongono
Città
Nell’esperienza europea la città non è semplicemente un aggregato di case. La città è un sistema nel quale le abitazioni, i luoghi destinati alla vita e alle attività comuni (le scuole e le chiese, le piazze e i parchi, gli ospedali e i mercati ecc.) e le altre sedi delle attività lavorative (le fabbriche, gli uffici) sono strettamente integrate tra loro e servite nel loro insieme da una rete di infrastrutture che mettono in comunicazione le diverse parti tra loro e le alimentano di acqua, energia, gas. La città à la casa di una comunità.
Essenziale perché un insediamento sia una città è che esso sia l’espressione fisica e l’organizzazione spaziale di una società, cioè di un insieme di famiglie legate tra loro da vincoli di comune identità, reciproca solidarietà, regole condivise.
Bene
La città è un bene, non è una merce. La distinzione tra questi due termini è essenziale per sopravvivere nella moderna società capitalistica. Bene e merce sono due modi diversi per vedere e vivere gli stessi oggetti.
Un bene è qualcosa che ha valore di per sé, per l’uso che ne fanno, o ne possono fare, le persone che lo utilizzano. Un bene è qualcosa che mi aiuta a soddisfare i bisogni elementari (nutrirmi, dissetarmi, coprirmi, curarmi), quelli della conoscenza (apprendere, informarmi e informare, comunicare), quelli dell’affetto e del piacere (l’amicizia, la solidarietà, l’amore, il godimento estetico). Un bene ha un identità: ogni bene è diverso da ogni altro bene. Un bene è qualcosa che io adopero senza cancellarlo o alienarlo, senza logorarlo né distruggerlo.
Una merce è qualcosa che ha valore solo in quando posso scambiarla con la moneta. Una merce è qualcosa che non ha valore in se, ma solo per ciò che può aggiungere alla mia ricchezza materiale, al mio potere sugli altri. Una merce è qualcosa che io posso distruggere per formarne un’altra che ha un valore economico maggiore: posso distruggere un bel paesaggio per scavare una miniera, posso degradare un uomo per farne uno schiavo. Ogni merce è uguale a ogni altra merce perché tutte le merci sono misurate dalla moneta con cui possono essere scambiate.
Comune
Comune non vuol dire pubblico, anche se spesso è utile che lo diventi. Comune vuol dire che appartiene a più persone unite da vincoli volontari di identità e solidarietà. Vuol dire che soddisfa un bisogno che i singoli non possono soddisfare senza unirsi agli altri e senza condividere un progetto e una gestione del bene comune.
Nell’esperienza europea ogni persona appartiene a più comunità. Alla comunità locale, che è quella dove è nato e cresciuto, dove abita e lavora, dove abitano i suoi parenti e le persone che vede ogni giorno, dove sono collocati i servizi che adopera ogni giorno. Appartiene alla comunità del villaggio, del paese, del quartiere. Ma ogni persona appartiene anche a comunità più vaste, che condividono la sua storia, la sua lingua, le sue abitudini e tradizioni, i suoi cibi e le sue bevande. Io sono Veneziano, ma sono anche italiano, e sono anche europeo: a ciascuna di queste comunità mi legano la mia vita e la mia storia.
Appartenere a una comunità (essere veneziano, italiano, europeo) mi rende responsabile di quello che in quella comunità avviene. Lotterò con tutte le mie forze è perchè in nessuna delle comunità cui appartengo prevalgano la sopraffazione, la disuguaglianza, l’ingiustizia, il razzismo, e perché in tutte prevalga il benessere materiale e morale, la solidarietà, la gioia di tutti. Appartenere a una comunità (essere veneziano, italiano, europeo) mi rende consapevole della mia identità, dell’essere la mia identità diversa da quella degli altri, e mi fa sentire la mia identità come una ricchezza di tutti. Quindi mi fa sentire come una mia ricchezza l’identità degli altri paesi, delle altre città, delle altre nazioni. Sennto le nostre diversità come una ricchezza di tutti.
2. IL RUOLO DEGLI SPAZI COMUNI NELL’ESPERIENZA EUROPEA
Gli spazi comuni nella formazione della città europea
Nella città della tradizione europea sono sempre stati importanti.gli spazi pubblici, i luoghi nei quali stare insieme, commerciare, celebrare insieme i riti religiosi, svolgere attività comuni e utilizzare servizi comuni. Dalla città greca alla città romana fino alla città del medioevo e del rinascimento decisivo è stato il ruolo delle piazze: le piazze come il luogo dell’incontro tra le persone, ma anche come lo spazio sul quale affacciavano gli edifici principali, gli edifici destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino.
Le piazze erano i fuochi dell’ordinamento della città. Lì i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità. Lì celebravano i loro riti religiosi, si incontravano e scambiavano informazioni e sentimenti, cercavano e offrivano lavoro, accorrevano quando c’era un evento importante per la città: un giudizio, un allarme, una festa.
Dove la città era grande e importante, invece di un’unica piazza c’era un sistema di piazze: più piazze vicine, collegate dal disegno urbano, ciascuna dedicata a una specifica funzione: la piazza del Mercato, la piazza dei Signori, la piazza del Duomo. Dove la città era organizzata in quartieri (ciascuno espressione spaziale di una comunità più piccola dell’intera città), ogni quartiere aveva la sua piazza, ma erano tutti satelliti della pazza più grande, della piazza (o de sistema di piazze) cittadine.
Le piazze e le strade che le connettevano costituivano l’ossatura della città. Le abitazioni e le botteghe ne costituivano il tessuto. Una città senza le sue piazze era inconcepibile come un corpo umano senza scheletro.
Gli spazi comuni nella città europea di oggi
Oggi le cose stanno cambiando. Nei secoli appena passati sono accaduti eventi che hanno profondamente indebolito il carattere comune, collettivo della città. Hanno prevalso concezioni dell’uomo, dell’economia, della società che hanno condotto al primato dell’individuo sulla comunità.
Il suolo su cui la città era fondata era considerato patrimonio della collettività in molte regioni europee; nel XIX secolo, con il trionfo della borghesia capitalistica, è stato privatizzato. La speculazione sui terreni urbani ha portato a costruire sempre più edifici da vendere come abitazioni o come uffici, invece che servizi per tutta la cittadinanza, e a destinare sempre meno spazi agli usi collettivi.
Devastante è stata l’espansione della motorizzazione privata nelle aree densamente popolate, dove sarebbe stato molto preferibile adoperare mezzi di trasporto collettivi. Le automobili hanno cacciato i cittadini dalle piazze e dai marciapiedi.
Il bisogno dei cittadini di disporre di spazi comuni è stato strumentalmente utilizzato per aumentare artificiosamente il consumo di merci. Le aziende produttrici di merci sempre più opulente e meno utili hanno costruito degli spazi comuni artificiali: dei Mall o degli Outlet centers o altre forme di creazione di spazi chiusi: piazze e mercati finti, privatamente gestiti, frequentati da moltitudini di persone che, più che cittadini (quindi persone consapevoli della loro dignità e dei loro diritti) sono considerati clienti (quindi persone dotate di un buon portafoglio).
Movimenti per rivendicare gli spazi pubblici
Negli ultimi anni in molte città europee i fenomeni di degrado degli spazi comuni sono stati contrastati realizzando ampie zone pedonali, limitando il traffico automobilistico nelle città, sviluppando il trasporto collettivo , le piste ciclabili, i percorsi pedonali. Dove ciò non è accaduto la vita è diventata molto difficile soprattutto per le persone più deboli: i bambini, gli anziani, le donne.
In tutte le città d’Europa sono nati movimenti, associazioni, comitati che rivendicano una maggiore quantità e qualità di spazi comuni per rendere la città vivibile. Anche negli stessi Stati Uniti d’America si sono manifestate tendenze culturali e sociali per contrastare le conseguenze degli eccessi dell’individualismo.
Da questo insieme di esperienze nascono proposte interessanti sui requisiti che devono caratterizzate spazi pubblici vivibili: per il loro disegno e la loro forma, la loro connessione con la città e con il quartiere, le funzioni in essa ospitate (le più molteplici e varie, e prevalentemente finalizzate all’uso comune), sulle comodità e sugli arredi.
I campi di Venezia
La progettazione architettonica e urbanistica sono certamente necessarie per realizzare dei buoni spazi pubblici, piacevoli e utili. Sono necessarie, ma non bastano. La città e i suoi spazi non sono fatti solo di pietre e altri materiali inanimati: sono fatti soprattutto dalle relazioni che si stabiliscono tra le persone e gli spazi.
Ho la fortuna di abitare in una città in cui gli spazi pubblici si sono conservati intatti come erano secoli fa. Si sono conservati nelle loro forme, le loro architetture, e si sono conservati nel rapporto che lega spazi e persone. Sto parlando di Venezia e dei suoi campi: così si chiamano le piazze, e il nome ricorda quando erano spazi aperti, coperti d’erba e magari coltivati. Ne mostrerò alcune immagini, per sottoniarne alcuni aspetti:
- la varietà e l’armonia delle diverse dimensioni e forme degli edifici che racchiudono l’articolato spazio aperto;
- la dimensione degli spazi, appropriata alla scala dell’uomo e alle opportunità di incontri tra diversi gruppi di persone;
- l’integrazione tra funzioni private (le abitazioni che affacciano sul campo) e funzioni comuni (la chiesa, il palazzo con la scuola o l’ufficio, la bottega e il laboratorio artigiano);
- l’assenza di elementi di disturbo dei rapporti tra e persone, come automobili o altri elementi ingombranti o fastidiosi;
- la presenza di piccole utilità, come l’acqua della fontanella e del pozzo, e di elementi di architettura (gradini, muretti e balaustre, panche di pietra) utili per appoggiarsi o sedersi;
- l’apertura, sui bordi del campo, di numerosi piccoli passaggi coperti (“sottoporteghi”) dai quali le persone entrano nel campo o ne escono verso le loro case o gli altri luoghi e percorsi comuni, senza che mai il campo appaia come un incrocio di vie attraversate da un traffico noioso;
- l’animazione sociale costituita dalla presenza contemporanea di persone appartenenti a ceti, mestieri, età, condizioni personali diversi.
3. LA CITTÀ COME BENE COMUNE: CHE FARE?
I campi di Venezia e la festa dell’Unità del 1973
Venezia è una città molto antica (ha più di 1000 anni di vita) che nell’ultimo secolo è stata abbandonata dalla popolazione e ha cominciato a rinascere negli ultimi decenni. Un evento che contribuì alla sua riscoperta – da parte degli stessi veneziani e da tutti i cittadini dell’Italia e dell’Europa – è stata costituita da un grande evento che si svolse nel 1973.
In quell’anno si organizzò a Venezia la Festa nazionale dell’Unità, una grande kermesse politica che raduna ogni anno decine di migliaia di persone da tutt’Italia. In genere si organizzava in grandi spazi alla periferia delle grandi città. Quell’anno si decise di organizzarla a Venezia, nei suoi campi. Almeno 15-20 campi furono coinvolti nell’evento. In ciascuno si svolgevano spettacoli di musica, di teatro, di giocolieri, dibattiti, in ognuno c’era ila cucina all’aperto con le pietanze d’una città italiana o di un paese ospite. La città per una settimana cambiò faccia. Tutti riscoprirono la bellezza degli spazi occupati dalle persone, dai loro incontri, diventati vivi come non mai.
Da allora, abitanti e turisti abitano ogni giorno i campi: sono il soggiorno all’aperto di tutte le case della città, il luogo dove si incontrano gli amici e si conoscono persone nuove. I luoghi dove batte il cuore della città.
Il centro di Roma occupato dagli abitanti delle periferie
Un episodio molto significativo dell’importanza degli spazi pubblici per ristabilire il rapporto tra la società e la città è avvenuto a Roma, la capitale d’Italia, a partire dal 1976. Roma è una città molto grande. Allora aveva oltre due milioni di abitanti.
Un centro storico molto bello e famoso, estesissime periferie sempre più povere e degradate man mano che ci si allontanava dal centro verso l’hinterland. Il centro era occupato dai ricchi e dai turisti, le periferie dai ceti più poveri. Gli slum delle periferie più lontane erano diventati luoghi dove cresceva la delinquenza, gruppi di giovani erravano senza avere alternative ai giochi di prepotenza e sopraffazione. Erano anni nei quali l’Italia era ancora percorsa dal terrorismo, gli “anni di piombo” di quella società.
Un intelligente sindaco, il cui nome era Giulio Carlo Argan, e un geniale giovane assessore, Renato Nicolini, cambiarono radicalmente il clima sociale della città modificando il rapporto tra abitanti e spazi. Le attività culturali furono tirate fuori dalle ristrette sale dei teatri, dei concerti e dei musei. Grandi manifestazioni di massa (maratone cinematografiche di film popolari, teatro e “teatro di strada”, musica di tutti i generi – da Bach al pop – danze e altre manifestazioni) furono organizzati nei luoghi centrali della città.
I giovani la sera e i giorni di festa abbandonavano i loro slum e accorrevano nel centro della città, nelle sue piazze e nei luoghi famosi dell’archeologia. Le famiglie portavono le loro cene negli spazi dove si proiettavano all’aperto i film più amati e gli spettacoli più popolari. I cittadini riconquistarono di nuovo (forse conquistarono la prima volta) le parti più belle e più importanti della loro città: di una città dalla quale fino ad allora erano stati esclusi.
Che fare?
Questi due esempi indicano alcune possibilità di ricostruire un ruolo comune degli spazi pubblici attraverso un intelligente intervento che contrasti le tendenze individualistiche, prevalenti in una società disgregata. In Europa si può far leva sul patrimonio della storia rappresentato dalle città antiche e dai loro spazi. In altre parti del mondo, come in Africa, si può e si deve far leva su altri valori.
Per esempio, sulla presenza di una tradizione ancora viva di vita e di interessi comuni: le famiglie e le aggregazioni di famiglie, i villaggi, le lingue e i dialetti, le abitudini dei diversi gruppi sociali testimoniano la vitalità di valori comuni. Per esempio, sulla mancanza di una concezione della terra come un bene che possa essere privatizzato, frammentato, sottratto all’uso comune. L’individualizzazione del suolo urbano è stato in Europa una delle cause principali del degrado delle città. Partire dagli interessi comuni delle piccole comunità locali, arricchire la loro vita di spazi comuni ben funzionanti e attraenti è un buon punto di partenza. Perciò il progetto di Toi Market mi sembra particolarmente interessante, e spero vivamente che le comunità di Kimbera lo prendano nelle loro mani e lo sviluppino sotto la loro responsabilità.
Ma fare un passo non significa compiere tutto il percorso che quel passo preannuncia. L’obiettivo deve essere – come insegna l’esperienza di Roma che ho ricordato – impadronirsi di tutta la città. Ogni comunità, ogni villaggio, ogni quartiere è una parte di un organismo più vasto: la città.
Come in molte parti del mondo – dall’Asia all’Europa, dall’Africa all’America del Sud e del Nord – la città è divisa in parti rigidamente separate, che non comunicano tra loro, spesso ostili le une alle altre. È una situazione disumana, che viene vissuta con sofferenza (certo diversa) sia nei ghetti dei poveri che nei ghetti dei ricchi.
A partire dagli spazi pubblici, occorre porsi l’obiettivo di rendere davvero comune la città nel suo insieme: renderla finalmente la casa di una società dove le diverse parti (distinte per lingua, origine, tradizione, etnia, condizione sociale, religione) non solo si rispettino ma comprendano che ciascuna di esse è una ricchezza per ciascuna delle altre, e nel loro insieme costituiscano una ricchezza che è maggiore della somma delle singole ricchezze.
P.S. - Un malanno di stagione mi ha impedito di andare a Nairobi e svolgere la relazione. Essa è stata tradotta in inglese e letta in mia vece da Ilaria Boniburini, che aveva concorso a redigerla. (e.s.)