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Edoardo Salzano
20040526 Il paesaggio nel Codice Urbani
1 Maggio 2008
Interventi e relazioni
Il mio intervento a un interessante convegno dell'IBC (Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna), Regioni e ragioni, Bologna 26 maggio 2004

Intervento di Edoardo Salzano

Una legge può essere valutata in se, nelle parole del suo testo. È una lettura del tutt legittima, ed è quella con la quale, con grande chiarezza. Marco Cammelli ha aperto il convegno. Forse perché il mio mestiere è fare l’urbanista, sono abituato invece ad analizzare e a valutare le leggi nel contesto – storico, culturale, sociale, politico – nel quale sono formate e agiscono. Garzilli ha svelato stamattina una porzione del contesto. Al contesto si riferirà l’insieme del mio intervento: un contesto, voglio sottolinearlo, non emiliano-romagnolo, ma italiano, dell’Italia nel suo complesso.

Prima di affrontare il tema del paesaggio vorrei brevemente inquadrare la questione sottolineando alcuni principi cardine che caratterizzano storicamente l’impostazione italiana dell’azione di tutela del patrimonio comune che è costituita dai beni culturali, di cui il paesaggio è parte rilevante.

Il principio dell’inalienabilità. Vorrei ricordare, sia pure per incidens, le origini molto antiche di questo principio, affermato per la prima volta dal soprintendente alle antichità di Roma Raffaello Sanzio, nel 1517 (V. Emiliani, 2004)

Vorrei ricordare come questo principio, più volte ripreso nei secoli successivi, sia stato ribadito nella prima legge organica dello Stato italiano sull’argomento (1909), in cui si proclama l’assoluta inalienabilità dei beni culturali.

Credo che si possa dire che la premessa della “linea italiana” sui beni culturali è insomma la statuizione della sua appartenenza alla sfera dell’interesse pubblico. Ciò comportava la finalizzazione dell’uso e delle trasformazioni all’interesse comune, e la tendenziale preferenza per la proprietà pubblica.

Un secondo principio cardine mi sembra che sia costituito dalla consapevolezza della rilevanza del paesaggio ai fini della determinazione della identità nazionale.

Questo principio è stato portato a piena dignità d’espressione e di norma da Benedetto Croce, ministro dell’ultimo governo Giolitti (1922): il paesaggio "è la rappresentazione materiale e visibile della Patria, coi suoi caratteri fisici particolari, con le sue montagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo".

Esso è stato ripreso dall’articolo 9 Cost: “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Entrambi questi principi mi sembrano messi in crisi dal nuovo Codice. Come molti hanno osservato, nel decreto legislativo Urbani il principio dell’alienabilità come eccezione è ribaltato nel suo opposto: ogni qual volta vi sia la convenienza economica l’alienazione è la regola, la conservazione al patrimonio pubblico è l’eccezione. Questa valutazione, che condivido, era affermata per esempio con grande forza nell’intervento di stamattina di Andrea Emiliani.

Contraddetto è, di fatto, anche l’altro principio: quello dell’interesse nazionale, non frammentabile né ripartibile, della tutela del paesaggio; un principio che non a caso è stato posto – come ho appena ricordato - tra i fondamenti della Repubblica nella Carta costituzionale. Su questo aspetto tornerò fra breve. Voglio però domandarmi prima: perché questo capovolgimento?

La premessa è, a mio parere, nell’introduzione tra gli idola tribus di questi decenni di alcune nuove priorità: privato è meglio di pubblico, mercato è meglio di Stato, individuale è meglio di collettivo. Idola che non hanno prevalso solo nelle tribus di destra. Su questi nuovi idola è intervenuto con molta efficacia Trimarchi, stamattina, quando ha osservato che la tesi corrente è che lo Stato non è capace di tutelare il nostro patrimonio, e quindi si aspetta il privato risolutore come nei film western si aspetta il Settimo cavalleggeri.

In questo quadro, mi sembra che abbia avuto un ruolo rilevante, e che costituisce un rivelatore efficace, il largissimo impiego del termine valorizzazione.

È un termine che non c’è nell’articolo 9 della Costituzione (“la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”). È un termine che compare nell’articolo 117 novellato il quale, come tutti sappiamo, colloca la “ tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” , tra le materie di esclusiva competenza statale, e la “ valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, tra le materie di competenza concorrente.

È un termine a proposito del quale ho molto apprezzato le cose che ci ha detto stamattina Vanelli, dello sforzo di suerare la dicotomia tra valorizzazione e tutela riconducendo ciascuno dei due termini all’altro, come ho apprezzato l’angolazione economica intelligente sotto cui ci ha presentato il termine Trimarchi. Vorrei aggiungere un’ulteriore considerazione, che si riferisce alle categorie economiche che mi sono consuete.

Mi avevano insegnato che ci sono due forme del valore: il valor d’uso e quello di scambio. Il primo riferito agli oggetti come beni, il secondo agli oggetti come merci. A quale delle due forme di riferisce la valorizzazione della quale si parla oggi? Se si tratta del valor d’uso, allora mi sembra che coincida senza residui con tutela. Se invece si riferisce al valore di scambio, allora coincide con una visione economicistica, commercialistica, mercantilistica.

È certamente quest’ultima l’interpretazione che rinvia il contesto culturale e politico: È questa che è coerente con la logica della separazione, e con il trend culturale, iniziato con la proposta Craxi-De Michelis dei giacimenti culturali

La separazione significa: tutela l’oggetto come bene, valorizzazione l’oggetto come merce. Ma affidare la tutela allo stato, la valorizzazione sostanzialmente alla regione, significa allora introdurre una dialettica rischiosa. Impone comunque di porre su un piano di co-decisione (di condominio del potere) stato e regione. Una ragione forte a favore di un ruolo forte dei potere specialistici dello stato: ragione che, come vedremo, è negata e capovolta dal nuovo Codice.

Un ulteriore principio cardine dell’impostazione italiana dei beni culturale mi sembra sia costituito dal legame tra il bene culturale e il contesto. Questo principio è implicito nelle prime affermazioni dell’l’inalienabilità come divieto di estrarre dal contesto (ordinanze che si ritrovano già nella seconda metà del XVI secolo). Esso trova del resto la sua radice in quella straordinaria densità dei beni culturali nel contesto territoriale italianoi, come ci ricordava or ora Bruno Toscano: nel fatto che il nostro territorio è intriso di beni culturali, che non sono da esso distinguibili.

È da questo nucleo, mi sembra, che si sviluppa l’attenzione al paesaggio: ricordiamo il Ministro Benedetto Croce, ricordiamo Giulio Carlo Argan (il paesaggio come palinsesto nel quale possiamo leggere secoli di storia)

Il principio della rilevanza cuturale del paesaggio e dell’esigenza della sua tutela da parte dello Stato ha una prima statuizione compiuta nell’introduzione dei piani paesistici nella legge Bottai (1939), coeva della legge urbanistica del 1942. Ma è la legge Galasso (1985) il traguardo più significativo:

- si riprende l’intuizione crociana del paesaggio come espressione dell’identità nazionale,

- si individuano, prescrittivamente i lineamenti del paesaggio nazionale, la sua grande orditura e si vincolano (con vincolo solo procedimentale) i suoi elementi caratterizzanti,

- si amplia e si precisa lo strumento della pianificazione territoriale e urbanistica come strumento principe per la tutela del paesaggio (del contesto), passando da una visione settoriale del paesaggio a una visione tendenzialmente integrata con la pianificazione ordinaria: una anticipazione delle novità della convenzio ne europea del paesaggio, che Poli ci ricordava or ora;

- si definisce un sistema equilibrato competenze (e i doveri) dei poteri centrali e di quelli sub-nazionali: l’individuazione concreta dei beni da tutelare e delle specifiche regole da imporre per la loro tutela era affidata al sistema (prevalentemente regionale e sub-regionale) della pianificazione, mentre alla responsabilità dello Stato permaneva il potere di stabilire finalità, criteri e metodi della tutela, nonché quello di intervenire con l’annullamento di disposizioni amministrative qualora queste fossero in contrasto con la finalità della tutela dei beni: era, quest’ultimo, un potere di estremo arbitrato e di deterrenza, ma in esso risiedeva l’ultima garanzia della tutela di interessi nazionali.

Il nuovo Codice mantiene l’insieme del sistema Galasso, apportando utili integrazioni per quanto riguarda:

- il contenuto della pianificazione, secondo una linea che a me sembra convincente;

- la precettività delle determinazioni del piano paesaggistico;

- l’attività della ricognizione, del riconoscimento, dell’individuazione come fondamento della tutela, coe ci illustrava efficacemente Vanelli stamattina..

Il nuovo Codice rompe però drasticamente l’equilibrio tra potere centrale e potere regionale, eliminando il potere d’annullamento degli interventi contrastanti con le finalità della tutela e sostituendolo con l’espressione di un parere non vincolante delle sovrintendenze. In questo senso le critiche al Codice (ad esempio quelle che abbiamo sentito nell’intervento di Lo savio) mi sembrano motivate e giuste, e sottolineano anche in questo capitolo la linea generale di spoliazione dei poteri della nazione in quanto tale, che pervade tutta l’impostazione di questa legge, e di questa legislatura.

Credo che sia utile, e in questa sede necessario, passare dalla critica alla proposta.

Occorre domandarsi insomma che cosa fare, nel campo della tutela del paesaggio, per riprendere un cammino in avanti, che non sia di semplice resistenza ma che indichi prospettive positive: sia come preparazione di nuove regole (a livello nazionale e a livello regionale e subregionale) sia come azioni concrete.

1. A me sembra che sia in primo luogo necessario ribadire il principio di un interesse nazionale nella tutela del paesaggio: È un principio, del resto,dettato dalla Costituzione. È stato annebbiato negli ultimi anni dal cedimento alla demagogia della devoluscion, che si è manifestata già negli ultimi governi di centro sinistra.

Ribadire il principio dell’interesse nazionale del paesaggio non significa negare l’impianto regionalista della nostra Repubblica (prima o seconda che sia), ma significa richiamare l’idea dello Stato come “intero e armonioso complesso delle istituzioni” (V. Emiliani, 2004), e la concezione del paesaggio come elemento fondante dell’identità del tutto nazionale e delle sue singole parti. (Montale, “Il tutto è più importante delle sue parti”)

2. Ritengo che sia da apprezzare e da difendere, nel nuovo Codice, l’aver mantenuto la coerenza dell’impianto della legge Galasso, e in particolare il passaggio dal vincolo (indubbiamente valido come forma transitoria di protezione) alla pianificazione (come metodo e strumento per una considerazione complessiva delle esigenze di tutela del paesaggio e dell’ambiente e di sintesi con le altre esigenze).

Non concordo perciò con la critica al Codice in merito alla vincolatività perenne dei vincoli ope legis, peraltro meramente procedimentali.

3. Ritengo che sia da ribadire ulteriormente la priorità delle determinazioni relative alla tutela (le invarianti strutturali) rispetto alle esigenze di trasformazione. È una priorità che ha un suo rilevante precedente nella pianificazione paesistica della Regione Emilia-Romagna (1986), e che è stata incorporata nella migliore legislazione regionale (Toscana 1995, Liguria 1997, Emilia-Romagna 2000)

4. Ritengo che il principio dell’interesse nazionale non debba necessariamente manifestarsi nella forma dell’ annullamento (che interviene solo a posteriori, Meandri 2004), e neppure in quello della autorizzazione, ma debba esprimersi sia, nell’immediato, con la vincolatività del parere preventivo, sia e soprattutto con la sempre più larga applicazione di pratiche di co-pianificazione: con la partecipazione paritaria alle scelte della pianificazione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici degli enti che esprimono gli interessi della tutela ai diversi livelli, a partire da quello nazionale.

Un positivo precedente mi sembra del resto costituito dalla norma dell’articolo 57 del DLg n. 112 del 31 marzo 1998[1], che dà alla pianificazione provinciale il valore di pianificazione di tutela di competenza statale “sempreche’ la definizione delle relative disposizioni avvenga nella forma di intese fra la provincia e le amministrazioni, anche statali, competenti”

Vorrei aggiungere due considerazioni che non mi sembrano marginali, benché possano sembrare (e forse siano) delle assolute ovvietà.

La prima. Sono ormai trascorsi vent’anni dall’entrata in vigore della Legge Galasso. Mi sembrerebbe assolutamente indispensabile fare finalmente un’analisi seria del modo in cui essa è stata applicata: sia nelle concrete esperienze di pianificazione e nei loro effetti, sia dei comportamenti amministrativi, sia infine nelle ricadute sulla legislazione regionale.

Risulterebbero molte cose interessanti, alcune delle quali si possono già intuire:

- le enormi differenze tra regione e regione, che porrebbero in evidenza l’assoluta assenza di coordinamenti nazionali o di autocoordinamenti interregionali:

- le notevoli diversità di criteri adottati nelle diverse situazioni, a volte – ma non sempre - motivate da differenze sostanziali delle culture e delle realtà,

- l’inefficacia del sistema sanzionatorio, e quindi la scarsa garanzia fornita dalla potestà di annullamento

- la variegata traduzione (e spesso lo sviluppo) del “sistema Galasso” nelle legislazioni regionali.

La seconda. Se si condividono i punti che ho prima esposto, e in particolare l’esigenza di esprimere l’interesse nazionale nella forma della partecipazione preventiva delle strutture statali alle decisioni della pianificazione, si deve necessariamente convenire sul fatto che l’interesse nazionale non potrà essere tutelato finché l’apparato tecnico-scientifico dello stato sarà nelle tragiche condizioni di scarsità di risorse nelle quali versa, e verso le quali sempre più le sospingono il governo Berlusconi e il Ministro Urbani.

Se nelle preture e nei tribunali mancano cancellieri, attrezzature informatiche, e perfino codici, carta da fotocopie e carta igienica, non credo che le carenze di personale specializzato, di strumenti di lavoro e di materiali da consumo siano minori nelle sovrintendenze. Alle quali, per di più, l’autogoverno proprio del Terzo potere è sostituito da una burocrazia ministeriale la cui prevalenza mi sembra molto accentuata nell’ultima fase.

I sovrintendenti – lo scriveva Losavio nel suo intervento – sono relegati dal nuovo Codice “a un ruolo subalterno di mera consulenza”. Ed è facile immaginare la conseguenza di quella differenza tra il 2° e il 3à comma dell’articolo 115, che ci raccontava stamattina Cammelli: chiediamo all’ente pubblico di essere attrezzato, efficace ed efficiente, dotato degli strumenti e delle competenze adeguate, non lo mettiamo nelle condizioni richieste dal 2° comma, e allora siamo legittimati a dare i beni culturali nelle mani dei privati, cui il 3° comma non chiede nulla di simile. Il gioco è fatto.

[1]“La regione, con legge regionale, prevede che il piano territoriale di coordinamento provinciale di cui all'articolo 15 della legge 8 giugno 1990, n. 142, assuma il valore e gli effetti dei piani di tutela nei settori della protezione della natura, della tutela dell'ambiente, delle acque e della difesa del suolo e della tutela delle bellezze naturali, sempreche' la definizione delle relative disposizioni avvenga nella forma di intese fra la provincia e le amministrazioni, anche statali, competenti”.

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