La laguna è un ecosistema complesso, governato dall'equilibrio dinamico tra le acque dolci dei fiumi che vi affluiscono e le acque salate del mare. La laguna è un'ambiente mutevole in bilico tra due destini: diventare una palude e poi un pezzo di terra o trasformarsi in un braccio di mare. La Laguna di Venezia è l'unica rimasta tale per oltre un millennio; ciò grazie al lavoro costante di manutenzione e guida alle trasformazioni naturali realizzate durante i secoli della Repubblica Serenissima. Questo equilibrio ha cominciato ad essere compromesso dall'inizio dell'ottocento e ha raggiunto uno dei suoi momenti di massimo degrado alla metà del IXX secolo. Dopo la catastrofica acqua alta del 1966 si affrontò finalmente il problema della sua salvaguardia. Si individuò una delle principali cause del degrado nella realizzazione del cosiddetto Canale dei Petroli collegato alle attività della zona industriale di Porto Marghera. Questo intervento infatti distruggeva l'unitarietà del sistema naturale considerata come un elemento vitale per la sopravvivenza della laguna stessa. Tra le decisioni più importanti assunte dal Parlamento italiano in attuazione della Legge speciale per Venezia del 1973 era indicata l'eliminazione del nefasto Canale dei Petroli. Questo intervento non venne mai effettuato, ma oggi si propone addirittura di consolidare, rafforzare e prolungare la criminosa infrastruttura rafforzando il Canale dei Petroli e proseguendolo con una serie di elementi metallici.
Quello che non riuscirono a concludere i barbari del XX secolo lo fanno oggi i poteri dominanti a Venezia.
Nell'articolo di Italia Nostra "Salvaguardia, da noi ai giornali e dal Nazionale alla Commissione" vengono dettagliate le ragioni per cui le opere per il marginamento del Canale dei Petroli sono il modo sbagliato per intervenire nella laguna, ricordando inoltre che l'intervento a cui si vuole dare immediata esecuzione viene spacciato per «stralcio attuativo» quando il progetto generale di cui fa parte non è stato approvato e neanche sottoposto Via e Vas, cioè a valutazione di impatto ambiente, come un'opera di tale impatto dovrebbe essere assoggettata. Seguono due articoli dalla stampa locale
(e.s.)
SI' ALLE PALANCOLE NEL CANALE DEI PETROLI
SCHIAFFO DELLA SALVAGUARDIA AL MINISTERO
di Alberto Vitucci
Lo «stop» inviato dal ministero per l'Ambiente non è bastato. Ieri mattina, dopo una lunga discussione, la commissione di Salvaguardia ha approvato a maggioranza il progetto per lo scavo del canale Vittorio Emanuele. Quindici i voti a favore, tre gli astenuti (il rappresentante dell'Ambiente Francesco Baruffi e le due soprintendenze), uno contrario (il rappresentante della Regione Antonio Rusconi). Respinte anche le proposte di sostituire il palancolato metallico con palificazioni in legno.Cantano vittoria gli Industriali e l'Autorità portuale, che avevano definito «urgente» l'avvio dei lavori per garantire l'accessibilità al porto veneziano da parte delle grandi navi.
Annunciano ricorsi gli ambientalisti.Una battaglia che dura da 50 anni, quella sul canale dei Petroli. Che molti studiosi reputano il principale imputato dello sconvolgimento idraulico della laguna, responsabile della sua continua erosione. Erosione che provoca anche interramento del Canale Malamocco-Marghera, più noto come canale dei Petroli. Scavato alla fine degli anni Sessanta proprio per far entrare in laguna le grandi petroliere.
Nello «stralcio progettuale» firmato dall'architetto Daniele Rinaldo è previsto lo scavo del primo tratto del canale. Per riportarlo alla quota di progetto prevista dal Piano regolatore, si legge nella relazione. Previsto anche un chilometro e mezzo di barriera con palancole metalliche per sostenere i marginamenti del canale minacciati dall'erosione. E una discarica di fanghi in cassa di colmata B, delimitata da pietrame. Interventi che in questo caso non erano ritenuti dal ministero di «ordinaria amministrazione». Dunque bisognosi della Valutazione di Impatto ambientale preventiva. Così, dopo numerose segnalazioni inviate dai comitati e dall'associazione Italia Nostra, è arrivata la risposta ufficiale firmata dal direttore generale del ministero Giuseppe Lo Presti. «La scrivente Direzione», scrive alla commissione l'alto dirigente dello Stato, «non è mai stata coinvolta nella valutazione ambientale del suddetto progetto, e pertanto non è possibile ad oggi fornire alcuna valutazione delle implicazioni di natura tecnico-ambientale che lo stesso comporta». «Sono state già avviate delle attività di verifica», continua la lettera, «si chiede pertanto a codesta Commissione di sospendere i lavori di esame del progetto, nelle more della conclusione delle suddette attività di verifica».
Un invito formale. Quasi una diffida, secondo le associazioni. Di cui però la commissione non ha tenuto conto. È prevalsa la tesi di chi sosteneva l'urgenza di avviare quei lavori per non provocare la paralisi dei traffici portuali. Sconfitta invece la linea ambientalista di chi invoca «interventi compatibili». «Non siamo contrari», avevano scritto i comitati al ministero, «ma la cassa di colmata non è una discarica. È un grave errore trattare quella parte di laguna come un canale di navigazione». Soddisfatti i progettisti, a cominciare dall'architetto Daniele Rinaldo. «Le protezioni saranno tutte sott'acqua, a parte l'angolo del canale», spiega, «perché abbiamo visto che quelle naturali, con le burghe e le tamerici, messe negli anni Novanta, non durano». Rinaldo ribadisce come il progetto abbia solo lo scopo di «consolidare il canale per la navigazione». Dragaggi per riportare la profondità alla quota di qualche anno fa. E protezioni per impedire «il crollo delle sponde e l'interramento, provocato dall'erosione».
Non è dunque il canale dei Petroli il primo responsabile di quell'erosione? No, secondo Rinaldo. Che ricorda: «Dei quattro milioni di fanghi scavati negli ultimi anni, solo un milione viene dal canale dei Petroli, il resto dalla laguna. Il canale ha aumentato la velocità dell'acqua ma l'erosione è colpa dei moli foranei e delle dinamiche della laguna». Tesi che non tutti gli ingegneri idraulici condividono. Adesso c'è chi teme che questo sia il primo passo verso un allargamento del canale, mirato a far passare in un prossimo futuro anche le navi da crociera dirette al nuovo terminal di Marghera. Ma dopo numerosi rinvii il progetto è stato approvato. Era già stato bocciato nel 2013, alla vigilia dello scandalo Mose. Adesso è stato ripresentato come «stralcio» per la parte verso San Leonardo. E approvato dalla Salvaguardia anche senza il parere di Valutazione di Impatto ambientale del ministero. Se non ci saranno ricorsi, eventualità possibile, i lavori potrebbero partire a breve.
la Nuova Venezia, 12 dicembre 2018
IL PORTO ESPRIME SODDISFAZIONE
ITALIA NOSTRA PREPARA IL RICORSO
di Alberto Vitucci
«Faremo ricorso. Il canale dei Petroli è la battaglia di Italia Nostra da cinquant'anni. Questo progetto non tiene conto della laguna. E soprattutto non è stata decretata l'urgenza che starebbe alla base di quei lavori». Così la presidente della sezione veneziana di Italia Nostra, Lidia Fersuoch, «accoglie la notizia dell'approvazione da parte della commissione di Salvaguardia, del progetto per lo scavo del canale Malamocco-Marghera. «Ci sono gli estremi per l'accesso agli atti e per un ricorso», dice, «si usano materiali estranei alla laguna come il pietrame. Adesso decideremo». Si punta il dito contro la mancata risposta alla lettera del ministero per l'Ambiente. Che avvisava della procedura in corso, chiedendo di «sospendere i lavori di esame del progetto in attesa delle verifiche di legge».
Grande soddisfazione invece dall'Autorità portuale. «L'intera comunità portuale accoglie con soddisfazione la decisione della Commissione», commenta il presidente Pino Musolino, «la scelta riconosce l'efficacia tecnica di un progetto sviluppato sfruttando modalità d'intervento sostenibili, in linea con quanto previsto dalla legislazione. Un progetto che, mantenendo adeguati livelli di salvaguardia dell'ecosistema lagunare, raggiunge anche l'obiettivo della salvaguardia della portualità. Poter finalmente garantire l'accessibilità nautica del porto, così come previsto dal Piano Regolatore Portuale, consente al nostro scalo di mantenere standard competitivi adeguati alle sfide imposte dal mercato, a beneficio di tutte le attività insediate, e di interpretare al meglio il ruolo che gli è proprio di motore economico della nostra regione, e di porta d'accesso ai mercati internazionali per i distretti produttivi veneti. Sarà ovviamente cura dell'Autorità di Sistema Portuale», conclude, «dare seguito alle prescrizioni emerse dalla Commissione di Salvaguardia». Prescrizioni che parlano della misura del pietrame e della riduzione della velocità delle navi nel canale durante le fasi dei lavori. Soddisfazione espressa anche dal Comune. «La praticabilità dei canali», ribadisce il sindaco Luigi Brugnaro, «è necessaria per il rilancio del Porto». E soddisfatti anche gli Industriali veneziani, che avevano sollecitato negli ultimi giorni l'approvazione del contestato progetto.
Ma gli ambientalisti rilanciano. «Non abbiamo mai detto che non si devono fare gli interventi di dragaggio, e nemmeno quelli di protezione del canale», hanno scritto al ministero le associazioni, «ma chiediamo che vengano fatti con modalità compatibili con il delicato ambiente lagunare. Dunque, palificate in legno e barene». Invece è passata la versione «hard», con le palancolate e il pietrame.
di Alberto Vitucci
Un chilometro di palancole in ferro. Scogliere e pietrame in cassa di colmata B per contenere i fanghi scavati. E dragaggio del grande canale Malamocco Marghera, detto dei Petroli, per riportarlo alla «quota di progetto» e far passare le navi di nuova generazione. La commissione di Salvaguardia ha approvato non senza dibattito il progetto proposto dall'Autorità portuale. Ma adesso la partita si sposta a Roma. Italia Nostra ha subito annunciato un ricorso al Tar e sta raccogliendo documentazione da inviare al governo. «Non ci sono le motivazioni dell'urgenza», dice in una nota l'associazione per la tutela del territorio, «pietrame e palancole non sono materiali consentiti in laguna. E la Cassa B non è una discarica. Inoltre l'infissione di un chilometro e mezzo di sbarre di ferro taglierebbe la falda freatica. Con la possibilità di provocare in futuro un abbassamento del suolo come già successo negli anni Sessanta».
I comitati hanno anche sollecitato il ministero per l'Ambiente a intervenire. Poche ore prima del voto, era arrivata alla commissione una lettera firmata dal direttore generale del ministero Giuseppe Lo Presti. Un «invito» a sospendere l'iter in attesa delle verifiche del ministero. Secondo i tecnici dell'Ambiente è insomma necessaria una Valutazione di Impatto ambientale per quel tipo di interventi. Ma nella stessa seduta il presidente della commissione Maurizio De Gennaro ha dato lettura di una lettera di segno opposto, inviata dall'Autorità portuale e dal suo presidente, Pino Musolino. «La commissione è la sola titolata a decidere», in sostanza il contenuto della lettera. Alla fine la maggioranza dei componenti l'ha presa per buona. Votando il via libera al progetto - uno stralcio urgente del progetto originario del 2013 - per consentire i via ai lavori. Tre gli astenuti, un solo voto contrario. Ma Italia Nostra conferma l'intenzione di far ricorso al Tar. «Non è un interventi come gli altri, è la nostra battaglia che combattiamo da mezzo secolo», ribadisce la presidente della sezione veneziana Lidia Fersuoch, «in questo caso si continua a perseguire interventi sbagliati per la laguna. Il canale dei Petroli è il responsabile dell'erosione e dei guai della laguna centrale». Il Porto canta vittoria. «Finalmente si ripristina l'agibilità del Porto», dice il presidente Pino Musolino. dello stesso tenore i commenti degli Industriali, che avevano sollecitato nei giorni scorsi una soluzione della vicenda. E anche del Comune. «Ma l'urgenza di scavare doveva essere dimostrata e certificata», ribatte Italia Nostra.
La battaglia dunque si sposta in sede legale. Potrà essere il Tar del Veneto a decidere se l'intervento di scavo del canale Malamocco Marghera sia legittimo oppure no nella forma proposta. «Non siamo mai stati contrari al porto», dicono i comitati, «ma ci sono altri sistemi per proteggere il canale dagli interramenti». Pali in legno e barene artificiali per intercettare le correnti e il vento che insieme al moto ondoso provocano l'interramento del canale. Il Canale dei Petroli, costruito alla fine degli anni Sessanta per far entrare le grandi petroliere in laguna, è ritenuto una delle principali cause del dissesto lagunare. Una grande autostrada d'acqua dove prima era il canale Fisolo.
Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
di Martin Niemöller
Prima di tutto vennero a prendere gli zingari.
E fui contento perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei.
E stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali,
fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti,
ed io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c'era rimasto nessuno a protestare.
queste parole, declinate in diverse versioni e diverse lingue girarono il mondo negli anni in cui il nazismo da partito divenne regime
MARZO
di Salvatore Di Giacomo
Mo nu cielo celeste,
mo n’aria cupa e nera,
mo d’’o vierno ‘e tempesta,
mo n’aria ‘e Primmavera.
N’ auciello freddigliuso
aspetta ch’esce ‘o sole,
ncopp’’o tturreno nfuso
suspireno ‘e vviole.
Catarì!…Che buo’ cchiù?
Ntiénneme, core mio!
Marzo, tu ‘o ssaie, si’ tu,
e st’ auciello songo io.
I giornali e la televisione si affannano a raccontare che l’affermazione dei pentastellati al Sud sarebbe derivata dalla loro promessa di adoperarsi per un reddito di cittadinanza, intendendo con questa espressione un reddito ottenuto senza lavorare. A noi sembra invece che... (segue)
Le opere e il lavoro necessari
Il lavoro da fare in Italia che il mercato non vede ma la società richiederebbe non è certamente poco. Pensiamo, da un lato, alla gigantesca impresa di risanare, riordinare, rendere abitabile il nostro territorio, squassato dai terremoti, dalle opere dissennate degli uomini, dalla mancanza di manutenzione delle terre e del reticolo acqueo, dai disboscamenti e le alluvioni, dalle cementificazioni a meri fini speculativi. Pensiamo poi alla necessità di renderlo più amichevole e adatto alle necessità della vita dei suoi abitanti, ivi compresi quelli più fragili per l’età o le condizioni fisiche o sociali: pensiamo alle scuole e ai trasporti, alla salute e alla ricreazione, alla mobilità e all’accessibilità.
E pensiamo poi, dall’altro lato, alle legioni di urbanisti e di architetti, di geometri e di ingegneri e, per non parlare dell’altro personale specializzato e generico, intellettuale o manuale, la cui attività sarebbe necessaria.
Le risorse
Ma il lavoro non basta, servono risorse per pagarlo: da dove prenderle? Le fonti sono molteplici: dai risparmi ottenibili rinunciando alle inutili Grandi opere, inventate solo per accrescere la potenza dei poteri forti; da una fiscalità conforme alla Costituzione: più tasse da chi è più ricco, in progressione del reddito e del patrimonio: altro che flat tax; e infine soprattutto dalla pesante riduzione delle spese militari.
Pochi sanno quanto paghiamo per preparare le guerre. Sono cifre che chi detiene il potere è interessato a tener celate, e così i suoi manutengoli. Ecco alcune cifre:
1. il totale della spesa militare nel 2018 è pari a 23 miliardi di euro (64 milioni di euro al giorno),
2. di questi, 15,5 miliardi vengono spesi per il rinnovo degli armamenti, ossia per avere armamenti idonei a uccidere meglio, più rapidamente e sicuramente, grandi quantità di “nemici”
3. Il 60% delle spese è assorbito da una struttura del personale elefantiaca e squilibrata fino al paradosso di avere più comandanti che comandati
A queste cifre vanno aggiunte quelle per le “missioni umanitarie”. Che spesso coprono vere e proprie missioni militari, come quelle in Afghanistan e nel Sahel, oltre alle spese per le basi Usa, e per il depositi per le armi nucleari in Italia.
Quasi nessuno - nella campagna elettorale da cui siamo reduci - ha affrontato questi problemi, né alluso alle strade da percorrere salvo l’esigua pattuglia di “potere al popolo”. Si sono ascoltate le promesse più ridicole, ma nessuna prospettiva seria per il lavoro come strumento per affrontare i giganteschi problemi del territorio e dell’habitat dell’uomo.
Così come, del resto, nessuno ha parlato della Pace: di questo dimenticato lemma, parola d’ordine e obiettivo strettamente legati alla de-militarizzazione, di cui è insieme causa ed effetto. ll che non può non sconcertare visto che parliamo dell’Italia, di un paese nel quale c’è la centrale del mondo cattolico, e in cui qualche decennio fa il popolo di sinistra, e non solo quello, scendeva in piazza per la pace.
ribelle che sonnecchi,
non cedere alle lusinghe,
non farti buono,
di sterco e di sangue
è il mondo che attorno
ti puzza,
resta insano,
questo è il tuo posto,
ragazzo sulle barricate,
con un sasso in mano.
Henry Scott Holland (Ledbury, 27 gennaio 1847 -17 marzo 1918) è stato un teologo e scrittore britannico. Era profondamente interessato alla giustizia sociale e fondò il Pesek (Politica, Economia, Socialismo, Etica e cristianesimo), che condannava lo sfruttamento capitalista della povertà urbana. Nel 1889, ha fondato la Christian Social Union (CSU).
Death is nothing
«Death is nothing at all. It does not count.
I have only slipped away into the next room.
Nothing has happened.
Everything remains exactly as it was.
I am I, and you are you, and the old life that we lived so fondly together is untouched, unchanged.
Whatever we were to each other, that we are still.
Call me by the old familiar name.
Speak of me in the easy way which you always used.
Put no difference into your tone.
Wear no forced air of solemnity or sorrow.
Laugh as we always laughed at the little jokes that we enjoyed together.
Play, smile, think of me, pray for me.
Let my name be ever the household word that it always was.
Let it be spoken without an effort, without the ghost of a shadow upon it.
Life means all that it ever meant.
It is the same as it ever was.
There is absolute and unbroken continuity.
What is this death but a negligible accident?
Why should I be out of mind because I am out of sight?
I am but waiting for you, for an interval, somewhere very near, just round the corner.
All is well.
Nothing is hurt; nothing is lost.
One brief moment and all will be as it was before.
How we shall laugh at the trouble of parting when we meet again! »
La morte non è niente
La morte non è niente
Il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2017. Dove il pensiero non c'è. Le parole che usano, le frasi che compongono, le immagini che riciclano: fumo un po' puzzolente per nascondere il niente
«"Dal politichese al politicoso", anche la grammatica è diventata "populista". In Volgare eloquenza Giuseppe Antonelli analizza così com'è cambiata (in peggio) la lingua della politica dalla prima alla terza Repubblica. Obiettivo principale: puntare sul "rispecchiamento" degli elettori che si ritrovano in chi parla sgrammaticato, con volgarità o per luoghi comuni. Così "nel momento stesso in cui si mitizza il popolo sovrano, in realtà lo si tratta come un popolo bue»
Un vocabolario sempre più ristretto, discorsi fatti in parole davvero povere, con molte frasi fatte, motti alla moda, sfondoni, parolacce, formulette trite non da salotto ma da tinello tv. Un italiano grossolano, banale, elementare, quasi infantile che moltiplica parole vuote ma all’occorrenza anche gli strafalcioni. La crisi della politica sta dentro la crisi della sua lingua che cambia. Male. Di più: di male in peggio. Berlusconi, colui che come al solito tutto comprende, è stato solo l’inizio, ma in realtà alla fine è l’alfa e l’omega del nuovo idioma. Una noncuranza nei confronti delle regole delle scuole elementari, ma anche nei confronti dell’aderenza alla realtà e del senso delle proporzioni: è così che anche la grammatica è diventata populista, è così che dal politichese si è passati al politicoso. L’analisi è da disperarsi una volta di più e la mette nero su bianco il linguista Giuseppe Antonelli, in Volgare eloquenza (Collana Tempi nuovi di Laterza, 144 pagine, 14 euro). Un saggio essenziale, nel senso che toglie il superfluo: con una forma leggera, scorrevole, ironica, Antonelli dà un colpo secco al tavolo stile saloon dei western per scoprire le carte della lingua dei politici della Terza Repubblica. Carte che, nonostante i bluff, non sono esattamente quattro assi.
Il titolo del libro ribalta quello di un’opera (De vulgari eloquentia) con cui Dante certificava che ormai il volgare era “pronto” per sostituire il latino nell’uso corrente perché era “popolare”. Ora, spiega Antonelli, questo concetto è stato gualcito, fino ad uscirne accartocciato: “Oggi l’eloquenza di molti politici può essere definita volgare proprio a partire dall’uso distorto che fa della parola e del concetto di popolo”. Non più popolare, quindi. Semmai “nel momento stesso in cui si mitizza il popolo sovrano, lo si tratta in realtà come un popolo bue”. Ci si rivolge al popolo lisciandolo ma parlandogli come a un bambino abbassando sempre di più il livello. Con parole terra-terra, da poppante (vaffanculo, vergogna, basta, tutti a casa): “E’ uno schifo”, “è infame”, “siamo stufi” dice il leader della Lega Nord Matteo Salvini quasi ogni giorno quasi su ogni argomento, dalle pensioni alla difesa dell’olio pugliese. O viceversa con espressioni così universali da assomigliare alla pace nel mondo auspicata dalle concorrenti di Miss Italia (andiamo avanti!, verso il futuro, un futuro meraviglioso, pieno di sfide, sfide che vinceremo, ché siamo tantissimi). “Si può fare di più e meglio, facciamolo insieme – ha detto Matteo Renzi durante la direzione del Pd di dieci giorni fa – L’Italia ha bisogno di una comunità politica che abbia al centro il futuro dei figli”.
Dall’incomprensibile a quelli che parlano come (o mentre) mangiano
Così, il Paese si ritrova a pezzi anche davanti al vocabolario. I burocrati e i magistrati portano avanti la loro dittatura di chi scrive in modo incomprensibile, scambiandolo per aulico, convinti di farlo bene. Da legislatori i politici usano una lingua rigonfia e oscura, come fu per la riforma della Costituzione poi bocciata. Mentre da comunicatori, infine, gli stessi politici usano “un linguaggio elementare, fatto di battute e parole effimere“, parole che, “rimbalzate all’infinito, stanno paralizzando la politica”. Altro che mondo nuovo, dunque, altro che sol dell’avvenire, altro che piramide rovesciata, altro che post-politica: quella della classe politica è piuttosto una “veterolingua: rozza, semplicistica, aggressiva” che punta su emozioni, istinti, impulsi. L’obiettivo è uno: dare uno specchio all’elettore. Così “parlano come mangiano”, anche se a volte sembra che parlino e mangino nello stesso momento. “Dal ‘Votami perché parlo meglio (e dunque ne so di più) di te’ si è passati al ‘Votami perché parlo (male) come te’” chiude Antonelli.
Razzi, Salvini e Di Maio
Tutto è perdonato, su tutto si passa sopra, perché l’elettore si sente a casa. Mentre tutti si sentono intelligenti a canzonare il senatore Antonio Razzi – che vabbè, è Razzi – nessuno si scandalizza se il segretario della Lega Nord dice che “migrante” è un gerundio e “Nord” un avverbio. O se il vicepresidente della Camera dei Cinquestelle dice di avere alter ego in altri Paesi, quando nel frattempo ha un problema conclamato con il congiuntivo con il quale centrò il record con la triplice riscrittura di un tweet (per la cronaca erano sbagliati tutt’e tre). Il leader del Partito democratico fatica a finire un discorso senza un termine calcistico o una frase fatta (“Chi sbaglia, deve andare a casa” ha detto della Nazionale di calcio), quello del M5s senza una parolaccia o un insulto.
Ma il resto degli italiani non è meglio. Né peggio: secondo Tullio De Mauro – il teorico della lingua come democrazia – 8 su 10 hanno difficoltà a utilizzare quello che ricavano da un testo scritto, 7 su 10 hanno difficoltà abbastanza gravi nella comprensione, e 5 milioni di italiani hanno completa incapacità di lettura. Si chiamano analfabeti. Una volta a De Mauro hanno chiesto qual è la percentuale di italiani che capiscono discorsi politici o come funziona la politica. “Certamente inferiore al 30 per cento”, rispose lui. E chi “non possiede strumenti linguistici adeguati rimane un individuo a cittadinanza limitata” chiarisce Antonelli. De Mauro, d’altra parte, abbottonava l’analfabetismo di ritorno con i “molti spinti a votare più con la pancia che con la testa”. E tutto questo alla politica fa un gran comodo: “La valutazione di questi gruppi dirigenti – diceva sempre De Mauro – è che uno sviluppo adeguato dell’istruzione mette in crisi la loro stessa persistenza in posizioni di potere“.
I politici parlano come te (la “congiuntivite” vuol dire fiducia)
Così il circolo è viziosissimo. Da una parte tutto è perdonato perché non c’è capacità di sanzione per chi non ha strumenti. Dall’altra la deformazione della lingua della politica c’entra soprattutto con la psicologia, spiega Antonelli. Sbagliare un congiuntivo o parlare di un fatto storico scambiando il Venezuela per il Cile, usare metafore sciatte come derby, corner, catenaccio, zona Cesarini o parole da reality show o ancora buttare qua e là un po’ di turpiloquio “hanno la funzione di simulare schiettezza, sincerità, onestà“. Lo specchio: gli psicologi lo chiamano mirroring, rispecchiamento, cioè il ricalco. “L’imitazione – spiega Antonelli – crea empatia: copiare i gesti e gli atteggiamenti di una persona è un’ottima tecnica per guadagnare la sua fiducia. Per piacergli e dunque per convincerlo più facilmente“. L’analfabetismo, ha detto più volte De Mauro, è un instrumentum regni, cioè “un mezzo eccellente per attrarre e sedurre molte persone con corbellerie e mistificazioni“.
La conclusione è che questo fenomeno “nel migliore dei casi congela l’esistente; nel peggiore (quello che stiamo vivendo) innesca una corsa al ribasso” perché “alimenta il narcisismo dei destinatari, i quali – lusingati – preferiscono riflettersi che riflettere”. Non lo fanno solo Berlusconi, Salvini, Renzi o i grillini. Lo fa anche la sinistra, è successo per esempio con Nichi Vendola che – analizza Antonelli – mescolava paroloni e espressioni da comitato centrale (nella misura in cui) in modo da mettere in moto – con quello stile rococò – un “rispecchiamento di nicchia“, magari con il precariato intellettuale o il mondo della scuola.
Tutti i figli di Berlusconi
Ma dallo scivolamento verso lo sprofondo non si salva nessuno dei principali leader politici, nonostante tutti abbiamo promesso di incarnare il “nuovo” contro il “vecchio”. Renzi e i Cinquestelle, per come parlano, sono tutti figli dell’arcinemico, l’odiatissimo. E’ Berlusconi - il generalistissimo, lo chiama Antonelli - che in Italia ha completato prima di tutti l’adesione totale del linguaggio politico a quello televisivo e pubblicitario, lui che se ne intendeva, quando dall’altra parte c’era la noia della politica vestita come gli impiegati del catasto (Occhetto nel primo duello tv con Berlusconi, 1994). L’unica differenza, semmai, tra il linguaggio di allora e quello di oggi, secondo Antonelli, sta nell’insieme delle parole da scegliere: Berlusconi si riferiva al sogno di un futuro migliore, ma quel sogno non si è mai realizzato e la speranza si è trasformata in rabbia, se non in invidia sociale.
Un processo che ha messo l’acceleratore a paletta prima con i talk-show a ogni ora del giorno e di più con i social network che da sinonimo di partecipazione dal basso sono già ridotti a strumenti di condivisione di un messaggio dall’alto (la parola più frequente sulla bacheca di Beppe Grillo, secondo uno studio recente pubblicato da ilfatto.it, è “diffondete”). “Il linguaggio non-politico (anti-politico) dei Cinquestelle è figlio proprio di Berlusconi e della rivoluzione linguistica che ha segnato la cosiddetta seconda Repubblica” dice Antonelli. L’esito di un’involuzione, aggiunge il linguista, che ha trascinato la lingua dei politici “da una lingua artificialmente alta a una lingua altrettanto artificialmente bassa”. Sempre più giù. Fino alla continua ricerca della battuta fino alle barzellette di Berlusconi, fino all’estremo, fino all’insulto e alla volgarità gratuita. Prima lo sfottò era facoltà del giullare di corte, poi è finito scritto a penna sotto gli slogan dei manifesti (“La Dc ha vent’anni”, ed è già così puttana), ora tutto è ribaltato: il Vaffanculo day è l’anniversario della fondazione di un movimento.
Dai pensieri ai simboli (leggere o guardare le figure)
Così ci si ritrova ad ascoltare l’offerta politica “un linguaggio elementare, refrattario al ragionamento, che al logos preferisce i loghi. Un linguaggio infantile, che – rinunciando a interpretare la complessità del mondo – la semplifica in una serie di disegnini stilizzati”. Renzi dice di voler abbattere le ideologie, ma passa all’ideografia, cioè al pensiero dell’immagine. “Tutta la sua comunicazione è improntata a questa retorica ideografica, che procede accostando simboli diversi”. Nei suoi libri, ricorda Antonelli, cita Clint Eastwood, Josè Mourinho, Steve Jobs, Pierluigi Collina, usa termini calcistici, giochi di parole di grana grossa (il consunto “voti/veti” che dirà cento volte all’anno). “Renzi parla velocemente, correttamente, senza perdere mai il filo – scriveva Claudio Giunta in Essere #matteorenzi – Usa male le parole che tutti quanti oggi usano male”. L’altro giorno non ha risparmiato un commento dell’eliminazione dell’Italia dai Mondiali: “Il calcio in Italia è un’emozione fantastica“, “Non partecipare al Mondiale di Russia è una sberla enorme“, “Ripartiamo dai volontari dei settori giovanili e da chi crede nella magia di questo sport”. Il punto, sottolinea Antonelli, è “che parli o che scriva, Renzi non spiega: racconta”. Altro che partito della Nazione, “è il partito della narrazione”.
La soluzione ci sarebbe, per tutti, secondo Antonelli: spostare il concetto di chiarezza dalla forma al contenuto: “Smettere di usare le parole senza le cose“. Prima il cosa e poi il come, prima l’analisi della realtà (tutta) e poi il modo giusto per dirla. “Significa abbandonare l’idea che la politica debba limitarsi a ripetere la vox populi“.
Specchio, servo delle mie brame
Dal politichese al politicoso, appunto. Visto che -oso indica abbondanza di qualcosa, ecco che politicoso è “un linguaggio elementare, fatto di battute e parole effimere“, “fatto di favole per adulti che affascinano chi si lascia affabulare”. E forse anche con il rischio dell’autoaffabulazione. Specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame? e quello le rispondeva che era lei, ma non era vero. La politica delle tifoserie – quella di questi anni – corre lo stesso pericolo: gli elettori di ciascuna area dicono al proprio leader che non c’è nessuno bello come lui, onesto come lui, convincente come lui, ganzo come lui. E così i leader – ma anche quelli un po’ meno leader – si sentono in diritto di parlare “a nome del popolo”: “Siamo noi il popolo sovrano e ne usciremo più forti che mai” gridava alla manifestazione anti-Rosatellum la deputata M5s Roberta Lombardi che tuttavia al momento è solo candidata alla presidenza della Regione Lazio. Piace così tanto intestarsi l’opinione del popolo che spesso – come fece Salvini nel 2015 insieme a CasaPound che ora aborre – i partiti organizzano le loro manifestazioni a piazza del Popolo. Che però, come si è spesso divertito a ricordare proprio De Mauro, è riferito alla chiesa vicina, è tradotto dal latino e soprattutto vuol dire pioppo. Da avere la maggioranza al Senato ad andare per boschi, insomma, per qualcuno può essere cosa di un attimo.
eddyburg
Quando si distingue tra intellettuali e non-intellettuali in realtà ci si riferisce solo alla immediata funzione sociale della categoria professionale degli intellettuali, cioè si tiene conto della direzione in cui grava il peso maggiore della attività specifica professionale, se nell’elaborazione intellettuale o nello sforzo muscolare-nervoso. Ciò significa che se si può parlare di intellettuali, non si può parlare di non-intellettuali, perché non-intellettuali non esistono. Ma lo stesso rapporto tra sforzo di elaborazione intellettuale-cerebrale e sforzo muscolare-nervoso non è sempre uguale, quindi si hanno diversi gradi di attività specifica intellettuale. Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens. Ogni uomo infine, all’infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un “filosofo”, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare.
Il problema della creazione di un nuovo ceto intellettuale consiste pertanto nell’elaborare criticamente l’attività intellettuale che in ognuno esiste in un certo grado di sviluppo, modificando il suo rapporto con lo sforzo muscolare-nervoso verso un nuovo equilibrio e ottenendo che lo stesso sforzo muscolare-nervoso, in quanto elemento di un’attività pratica generale, che innova perpetuamente il mondo fisico e sociale, diventi il fondamento di una nuova e integrale concezione del mondo. Il tipo tradizionale e volgarizzato dell’intellettuale è dato dal letterato, dal filosofo, dall’artista. Perciò i giornalisti, che ritengono di essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i “veri” intellettuali. Nel mondo moderno l’educazione tecnica, strettamente legata al lavoro industriale anche il più primitivo o squalificato, deve formare la base del nuovo tipo di intellettuale. Su questa base ha lavorato l’”Ordine Nuovo” settimanale per sviluppare certe forme di nuovo intellettualismo e per determinarne i nuovi concetti, e questa non è stata una delle minori ragioni del suo successo, perché una tale impostazione corrispondeva ad aspirazioni latenti e era conforme allo sviluppo delle forme reali di vita. Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, “persuasore permanentemente” perché non puro oratore – e tuttavia superiore allo spirito astratto matematico; dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane “specialista” e non si diventa “dirigente” (specialista + politico).
Da: Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, vol. III, pp. 1550-1551
IL LAVORO
DELL’INTELLETTUALE
Passaggio dal sapere al comprendere al sentire e viceversa dal sentire al comprendere al sapere. L’elemento popolare «sente», ma non comprende né sa; l’elemento intellettuale «sa» ma non comprende e specialmente non sente. I due estremi sono dunque la pedanteria e il filisteismo da una parte e la passione cieca e il settarismo dall’altra.
Non che il pedante non possa essere appassionato, tutt’altro: la pedanteria appassionata è altrettanto ridicola e pericolosa che il settarismo o la demagogia appassionata.
L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato, cioè che l’intellettuale possa esser tale se distinto e staccato dal popolo: non si fa storia-politica senza passione, cioè senza essere sentimentalmente uniti al popolo, cioè senza sentire le passioni elementari del popolo, comprendendole, cioè spiegandole e giustificandole nella determinata situazione storica e collegandole dialetticamente alle leggi della storia, cioè a una superiore concezione del mondo, scientificamente elaborata, il «sapere».
Se l’intellettuale non comprende e non sente, i suoi rapporti col popolo-massa sono o si riducono a puramente burocratici, formali: gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio (centralismo organico): se il rapporto tra intellettuali e popolo-massa, tra dirigenti e diretti, tra governanti e governati, è dato da una adesione organica in cui il sentimento passione diventa comprensione e quindi sapere (non meccanicamente, ma in modo vivente), allora solo il rapporto è di rappresentanza, e avviene lo scambio di elementi individuali tra governati e governanti, tra diretti e dirigenti, cioè si realizza la vita d’insieme che sola è la forza sociale, si crea il «blocco storico».
Da: Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Q II(XVIII), pp. 77-77 bis.
Che cos'è il MoSE? Che cos'è il Consorzio Venezia nuova? Siete sicuri di saperlo? Proviamo a raccontarlo: sono storie non belle, nè per l'ambiente nè per il resto. Con riferimenti.
Il MoSE (Modulo sperimentale elettromeccanico) è noto all’estero come un meraviglioso sistema di alta tecnologia capace di salvare Venezia dall’acqua, ed è noto in Italia per essere l’emblema della Grandi opere inutili e dannose. Gli italiani, essendo più vicini alla realtà, sono più vicini al vero, ma neanche la maggior parte di loro sa bene quali sono i reali danni che il MoSE sta portando alla Laguna e alla città.
Meno ancora si sa che cos’è il Consorzio Venezia nuova (CVN), cioè l’attore cui sono stati affidati la progettazione, la costruzione e la gestione del MoSE. A dire il vero sul consorzio la stampa, soprattutto locale, si è soffermata con qualche attenzione a proposito di alcuni scandali individuati e colpiti dalla magistratura per quanto riguarda alcuni episodi di mazzette, o tangenti, distribuite con una certa larghezza ai possibili facilitatori dell’impresa. Scandali ben più limitati e modesti del gigantesco scandalo rappresentato dal MoSE nel suo complesso, sul quale vogliamo invece soffermarci.
Vogliamo occuparcene in riferimento a tre aspetti: (1) il profondo errore compiuto nella scelta di quel sistema per affrontare il problema della salvaguardia della città e della sua Laguna; (2) il pesante aggravamento dell’errore nel decidere a chi affidarne la progettazione e realizzazione; (3) l’esteso processo di corruzione della maggioranza degli attori, che hanno operato (e continuano ad operare) nella città.
Il Comune di Venezia aveva affidato nel 1982, a un gruppo di studiosi (con la direzione scientifica di Andreina Zitelli e il coordinamento politico-amministrativo di Luigi Scano) il compito di elaborare un progetto fortemente guidato sulla visione ecosistemica del problema. Da questo emerse il rapporto Ripristino, conservazione ed uso dell'ecosistema lagunare veneziano, che divenne da allora l’approccio di riferimento del Comune.
2. L'affidamento dei lavori alla banda CVN
Nello stesso anno, il 1982, mentre il Comune di Venezia lavorava in una direzione coerente con la natura e storia millenaria del suo governo, quattro imprese - variamente legate al mondo del cemento armato - si erano consorziate a formare il Consorzio Venezia Nuova (CVN): Italstrade, Grandi Lavori Fincosit, Società italiana per Condotte d'Acqua e Mazzi Impresa Generale di Costruzioni. E poco dopo, nel 1984, mentre il Parlamento discuteva ancora sulle modalità con qui affrontare il problema della salvaguardia della Laguna, il ministro Franco Nicolazzi affidava al CVN la concessione di tutte le opere e gli interventi necessari.Ecco dunque che tutto il potere (e i finanziamenti) vengono attribuiti al Consorzio Venezia Nuova.
Acquisito il potere, nel 1985, il Consorzio si adorna di un nuovo presidente, Luigi Zanda, persona garbata e accattivante, che si avvalse delle sue relazioni e della sua indubbia capacità di adoperare cultura e munificenza per rendere appetibile l’immagine del Consorzio, e quest’ultimo comincia a spendere.
3. I danni
Il primo danno, ne abbiamo già parlato su eddyburg ampiamente, è la devastazione ambientale e la rottura del legame ecologico tra l’habitat del mare e quello della Laguna, conseguente all’aver scelto la logica ingegneristico-tecnologica invece di quella olistica ed ecologica. Un danno irreversibile: nessuno potrà mai rimuovere le gigantesche strutture di calcestruzzo nelle quali sono innestate le paratìe mobili, corrispondenti a un edificio alto una decine di metri, inserite nei fondali in corrispondenza delle tre “bocche di porto”.
L’entità di questo danno è ulteriormente aggravato dal fatto che non è per nulla sicuro che il sistema progettato sia realmente attivabile senza rischi ancora maggiori di quelli dell’alta marea eccezionale. Esistono infatti notevoli dubbi, tecnicamente e scientificamente mai fugati, sulla tenuta delle cerniere che legano i portelloni mobili al basamento.
Il terzo danno, attualmente non comprovato da documenti, ma assai probabile in quanto sono innumerevoli gli episodi citati dai veneziani, è costituito dalla gigantesca azione di corruzione esercitabile (e certamente in gran parte già esercitata) sulla società veneziana. Certamente l'esuberante entità della somma in gioco e la discrezionalità nel maneggiare i cordoni della pingue borsa concorrono a rendere questa ipotesi una possibilità concreta. Il CVN non è concessionario dello Stato per il solo MoSE, il complesso degli interventi che gli sono stati attribuiti (ripetiamo, senza alcuna gara d’appalto o altra forma di pubblico confronto) è di circa 8.333 milioni di euro. A fronte di questi soldi, meccanismi non trasparenti, interessi enormi e racconti di favori; sono molti i dipartimenti universitari e le altre istituzioni culturali, gli istituti di ricerca, gli studi professionali, le testate giornalistiche e altri organi d’informazione che hanno goduto di benefici e contributi, diretti o indiretti, dal CVN.
Di seguito i link di alcuni articoli di approfondimento: Edoardo Salzano, Il Mose, storia di un conflitto tra interesse privato e natura, ottobre 2005; Eddytoriale 103, aprile 2007; ArmandoDanella, MoSE: prima che sia troppo tardi, luglio 2010. Vedi inoltre qui, nella cartella del vecchio eddyburg e qui, nella cartella dell'attuale archivio, tutti gli articoli pubblicati da eddyburg sul MoSE.
Nei media continua la polemica sulle Ong che raccolgono, nelle acque della tomba Mediterraneo, i profughi che tentano di raggiungere le mura della Fortezza Europa. Sono rare le voci che cercano di frenare la voglia dominante di rigettare in acqua i malcapitati, spesso dall’epidermide scura, che fuggono dai loro inferni. (segue)
Tutti sono concordi nel condannare i perfidi trasportatori, a pagamento, della carne umana in fuga. E nell’accomunare nella condanna (“ma ho solo indizi”, dice il terribile giudice Zuccaro di Catania) chi per caso osasse accordarsi con costoro per salvare i profughi. Non sappiamo se indignarci più per l’ipocrisia o per l’ignoranza che animano il coro. Sforziamoci ancora una volta di ricordare alcuni fatti ampiamente documentati
1.
Siamo noialtri europei, con gli altri abitanti del Primo mondo, i responsabili di aver trasformato in inferni le terre da cui fuggono i profughi. Siamo noi che abbiamo costruito il nostro benessere saccheggiando le loro terre. Lo raccontava già Vladimir Lenin quando scriveva, all’inizio del secolo scorso, che il capitalismo “esportava” le proprie contraddizioni (i più alti salari e il welfare concesso ai suoi lavoratori) occupando terre e impadronendosi di risorse altrui.
I vettori dei mercanti di profughi (i camion per l’attraversamento dei deserti e i gommoni per il Mediterraneo) rimarranno attivi finché i paesi del benessere non si saranno decisi a imboccare la strada giusta: (1) organizzare dei "corridoi protetti" che aiutino gli "sfrattati dallo sviluppo" a raggiungere i nostri paesi (come propone inascoltata da anni Barbara Spinelli), creando l’unica alternativa possibile ai mercanti di uomini; (2) realizzare nelle nostre terre le condizioni per un'accoglienza temporanea o definitiva, a seconda del nuovo progetto di vita dei nuovi abitanti delle nostre avare terre.
Nessuna forza politica, di quelle presenti nel nostro Parlamento, ha proposto qualcosa di simile. E il governo si è mosso nella direzione opposta. Le nuove regole per la sicurezza e il decoro (e per il respingimento) vanno platealmente nella direzione opposta. Salvini è già al potere.
Eppure, la pressione della realtà è così forte che non potranno alla lunga essere efficaci - oltre a essere inumani - neppure i tentativi di emulare i nazisti e indurre gli stati di transito (come la Libia) e quelli di provenienza (come la Nigeria) a trasformare i loro territori in giganteschi campi di concentramento; tentativi nei quali sembrano particolarmente impegnati, oltre ai renzisti di stretta osservanza, anche i suoi seguaci all’apparenza mansueta, come l’attuale premier Paolo Gentiloni.
Baffoni ha mandato la sua risposta. Vorremmo che il dibattito proseguisse. Scriveteci, non solo se siete donne. L’8 marzo, e la riflessione cui questa data ci sollecita tutti, dura tutto l’anno (e.s.) (segue)
Qui c'è verità. Inutile rivendicare primazie sul maschile. Quel che conta è il cambiamento, la crescita, l'aprirsi di possibilità. Non l'8 marzo, enclave dedicato e poi rapidamente dimenticato. Per mutare il proprio destino di sottomesse/i bisogna lottare tutti i giorni. Insieme rifondando la politica del futuro.
Sarebbe lungo elencare tutti gli elementi della marcia verso il totalitarismo che sta raggiungendo il suo culmine. Altro che “modernizzazione”! Siamo tornati indietro non solo rispetto ai principi definiti nelle costituzioni del secolo scorso (e rispetto alla nostra del 1948), ma addirittura rispetto a quelle individuate come principi essenziali dalla borghesia liberale alla fine del 18° secolo.
Le premesse
Si era già cancellato il principio della separazione tra i tre poteri (legislativo, giudiziario, esecutivo), concentrando tutto nelle mani di quest’ultimo. Si era già violato il principio dell’elezione diretta – da parte di un Parlamento eletto dai cittadini - del governo, del primo ministro e delle altre cariche rilevanti, concentrando tutti i poteri nelle mani del capo di un partito (cioè di una “parte" sola dell’elettorato), e del governo da lui scelto. Il capo dell’esecutivo non è stato scelto dal popolo secondo le regole della democrazia rappresentativa, che tendono a far rappresentare tutte le “parti”, ma è espressione di una sola di esse: il capo del governo, Matteo Renzi, è tale perché era diventato il capo di una “parte” del suo partito.
Si era proseguito con ferocia nel processo avviato dai governi della fine del secolo scorso, privilegiando il “privato” rispetto al “pubblico”, la “governabilità” rispetto alla democrazia, instaurando il decisionismo dei vertici a tutti i livelli istituzionali, riducendo il peso degli organi collegiali e pluralistici a vantaggio dei “capi” (le giunte invece dei consigli, i sindaci invece delle giunte, ecc.).
La riforma, perché (e come) la vuole JP Morgan
Si è infine avviata la riforma profonda della Costituzione in nome di una esigenza (la “governabilità”) sollecitata da un gruppo leader della finanza internazionale, JP Morgan[1] (come lo stesso ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, “padre” della riforma Renzi-Boschi, ha pubblicamente ammesso). Ciò al prezzo di una riduzione del tasso di democrazia e dello smantellamento delle conquiste sociali raggiunte dal 1948 alla fine degli anni Settanta del secolo scorso.
Si è cancellata la distinzione tra le regole permanenti (cioè la Costituzione), che devono valere per qualunque governo e qualunque maggioranza, e le leggi ordinarie, che spettano al lavoro del parlamento in carica per un periodo determinato. Per di più, il principio espresso da Piero Calamandrei sulla distinzione tra legge costituzionale e competenze del governo [2], è stato trasformato nel suo contrario: è il governo che ha dettato e imposto la sua volontà a un parlamento, eletto con una legge dichiarata incostituzionale e composto, nella sua maggioranza, da persone digiune di competenze istituzionali o timorose di perdere i privilegi acquisiti.
Con la trasformazione del Senato in camera dei nominati anziché degli eletti non si abolisce il bicameralismo (poiché l’intreccio tra competenze legislative dei due rami del parlamento rimane), ma si rende uno dei due rami del parlamento espressione dei partiti e non degli elettori.
Con la modifica della Costituzione si vuole cancellare del tutto il ricco sistema delle istituzioni elettive con lo stabilire la regola che “chi vince, anche con una minoranza di voti, piglia tutti i poteri”. Ciò anche in virtù della nuova legge elettorale che - non dimentichiamo - è già in vigore.
Bugiardi e truffatori
La menzogna e l’oscuramento di ogni posizione di argomentato dissenso regnano sovrani. Si arriva a chiedere il voto su un testo (il titolo della legge di riforma costituzionale) che non ne rispecchia affatto il contenuto ma è un elenco di intenzioni che, quando non sono incomprensibili, a nessuno verrebbe voglia di respingere. Alle argomentate critiche si risponde con insulti e sberleffi, alle articolate proposte con il silenzio, ai ragionamenti con gli spot alla Vanna Marchi.
Si giustifica la riforma con l’argomento del risparmio di risorse. La Ragioneria dello Stato ha rivelato che la minor spesa derivante dalla riforma è infinitesima rispetto ai mille sprechi compiuti ogni giorno dal governo. A testimoniare la malafede del governo si è osservato che un risparmio maggiore di quello prodotto dalla trasformazione del senato in organo non elettivo avrebbe potuto essere raggiunto dalla riduzione del numero dei deputati, come altri avevano proposto.
L’acquiescenza è totale. I mezzi d’informazione sono nelle mani del governo, o sono a esso legati da mille e uno interessi. Il primo ministro si avvale della sua carica istituzionale per imporre la sua presenza sulle televisioni al di là di ogni regola sulla parità di condizioni tra sostenitori dell’una o dell’altra opzione. Il servilismo prorompe dalle figure più impensate.
Il rischio per la democrazia è grave
In sostanza, dai principi e le regole della democrazia liberal-borghese, da quelli della democrazia popolare nata dall’antifascismo e la Resistenza, si vorrebbe trasformare l’ordinamento dello Stato in un regime feudale: la piramide del potere ha un vertice dal quale discendono via via tutti i poteri subordinati, i cui rapporti interni sono caratterizzati da obbedienza e convenienza. Nell’attesa della riforma costituzionale, l’ordinamento feudale ha cominciato a essere costituito nella realtà dei rapporti di tutte le componenti di rilevanza collettiva sulle quali il governo abbia la possibilità di incidere: dalla pubblica amministrazione, alla scuola, alla sanità, ai beni culturali, alle università, al mondo finanziario, al commercio.
In questa situazione di grave rischio democratico stupisce e preoccupa il fatto che una parte consistente di persone informate dei fatti, pur essendo critiche sul contenuto della riforma, siano ancora incerte, o propendano per il SI, in relazione a preoccupazioni di breve durata: quali la permanenza o meno del governo attuale (che nessuno ha votato), il convergere sul NO di interessi e moventi diversi, il timore di un rigurgito di fascismo nel caso di bocciatura della legge di riforma. Invitiamo tutti i lettori di eddyburg che non hanno già scelto il no a farlo entro il prossimo 4 dicembre.
Riferimenti
Su eddyburg un’intera cartella è dedicata al tema “difendere la Costituzione": raccoglie decine di testi critici scritti da esperti e altre personalità realmente democratiche come Michele Ainis, Lorenza Carlassara, Paolo Maddalena, Alessandro Pace, Stefano Rodotà, Valerio Onida, Nadia Urbinati, Gustavo Zagrebelsky, Salvatore Settis, Gaetano Azzariti, Paolo Prodi, Livio Pipino, Paolo Flores D’Arcais, Nino Di Matteo, Alfredo Reichlin, Luciano Canfora, Walter Tocci, Felice Casson, Sandra Bonsanti, Tomaso Montanari, Carlin Petrini, Rosetta Loy, e moltissimi altri. Se volete leggere una sintesi scorrevole , semplice e rigorosa delle ragioni critiche alla riforma scaricate il libretto di Tomaso Montanari, Così NO.
[1] JPMorgan, “The Euro area adjustment: about halfway there”, Europe Economic Research, 28 maggio 2013. «The political systems in the periphery were established in the aftermath of dictatorship and were defined by that experience. Constitutions tend to show a strong socialist influence, reflecting the political strenght that left wing parties gained after the defeat of fascism»: pag. 12)
[2] «Nella preparazione della Costituzione, il governo non deve avere alcuna ingerenza. Nel campo del potere costituente il governo non può avere alcuna iniziativa, neanche preparatoria. Quando l’Assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti».
Piegati da un peso
che non sempre si vede
avanzano nel fango o nella sabbia del deserto,
chini, affamati,
uomini di poche parole dai pesanti caffettani,
adatti a tutte le stagioni,
donne vecchie dai volti sciupati
che portano qualcosa, un neonato, una lampada
- un ricordo- oppure l'ultimo tozzo di pane.
Può essere la Bosnia, oggi,
la Polonia nel settembre '39, la Francia
otto mesi più tardi, la Turingia nel '45,
la Somalia, l'Afghanistan o l'Egitto.
C'è sempre un carro, o almeno un carretto,
colmo di tesori (il piumino, la tazza d'argento
e il profumo di casa che presto svanisce),
un'auto senza benzina abbandonata nel fosso,
un cavallo (che sarà tradito), la neve, molta neve,
troppa neve, troppo sole, troppa pioggia,
e quel caratteristico curvarsi,
come verso un altro pianeta, migliore,
con generali meno ambiziosi,
meno cannoni, meno neve, meno vento,
meno Storia (purtroppo un simile pianeta
non esiste, resta solo il curvarsi).
Tascinando i piedi,
vanno lentamente, molto lentamente,
verso il paese da nessuna parte,
verso la città nessuno,
sul fiume mai.
Adam Zagajewski
. (segue)
È quello che ci accade oggi a proposito di una realtà che Ilaria Boniburini ha definito I nuovi dannati della terra: gli sfrattati dallo “sviluppo”, delineata in uno scritto che abbiamo pubblicato qualche giorno fa a seguito di un discorso iniziato su eddyburg con l’Eddytoriale n. 169 e la diffusione di materiali raccolti nelle cartelle EsodoXXI e La Guerra diffusa. Abbiamo poi inviato una lettera ad alcune delle persone che ci hanno aiutato a comprendere la pesantezza di questa realtà: innanzitutto a Barbara Spinelli e Guido Viale i quali, con un convegno internazionale che si è svolto a settembre a Milano, ci hanno aiutato a compiere qualche altro passo avanti rispetto alla complessità delle cause di questo fenomeno.
Dalla rabbia all’azione
Ecco la nostra lettera:
«Siamo pieni di rabbia per l’atteggiamento di rifiuto e negazione che caratterizza moltissimi, troppi, europei e italiani nei confronti dei migranti. Abbiamo imparato (soprattutto dal convegno internazionale promosso e organizzato da Barbara Spinelli a Milano) che ciò che noi vediamo sbarcare in Italia e in Europa è solo la dolorante punta del gigantesco iceberg formato dalla massa sterminata degli sfrattati della terra, cacciati dalle loro case e dalle loro terre dalle mille rapacità degli sfruttatori locali e globali. Sono solo pochi i “privilegiati” che hanno la forza e le risorse per rischiare la morte e “salvarsi in Europa” e noi li guardiamo con paura, o disprezzo, o con indifferenza (che forse è ancora peggio).
«A noi, che abbiamo la fortuna di conoscere e comprendere, il sapere non può bastare: dobbiamo agire. Come associazione eddyburg ci proponiamo di avviare una serie di iniziative volte a far conoscere ciò che è («dire ciò che è, è rivoluzionario», ha scritto Rosa Luxemburg).
«Non vogliamo limitarci a scriverlo sul sito per i suoi frequentatori. Vogliamo impegnarci in una serie di incontri diretti, conferenze o seminari con piccoli gruppi di persone, incluse le scuole di ogni ordine e grado. Vogliamo coinvolgere i pochi soci della nostra associazione, e i più numerosi che possiamo raggiungere col nostro sito in un’azione il più capillare possibile di sensibilizzazione alla solidarietà, alla responsabilità, alla partecipazione attiva».
Ci atterrisce, insomma, il baratro che si è creato tra la profonda condizione di miseria e disperazione in cui vive una parte dell’umanità (che si avvia a diventare maggioritaria), e l’inconsapevolezza di quella larghissima parte di abitanti della stessa Terra che ha goduto e continua a godere del benessere creato dallo sfruttamento degli “altri”, e vede le misere avanguardie di quella moltitudine qualcosa da allontanare, da reprimere, da ricacciare nell’inferno dal quale hanno tentato di fuggire.
Sappiamo bene che il percorso da compiere per riempire questo abisso è lungo, e ancora più lungo e difficile è quello necessario per fare fronte alle conseguenze di questa disumana iniquità, e soprattutto per eliminarne le cause. Ma assistere senza muovere un dito, o rifugiarci nel portare un contributo e una testimonianza solamente individuale non ci sembra sufficiente. La capacità d’impegno comune che l’arcipelago di cui eddyburg fa parte porterà sarà poco, ma è un inizio. Perciò, questo Eddytoriale è anche, e forse soprattutto, un appello.
E’ un appello a diffondere la consapevolezza che le politiche europee sui migranti sono sbagliate, che non rendono giustizia alla capacità di accoglienza, solidarietà e immaginazione che pensavamo fossero proprie della civiltà europea. E’ un appello a comprendere, e far comprendere a chi ci vive accanto, le complesse interazioni tra fenomeni migratori, degradazione ambientale, modello di sviluppo e i stili di vita che abbiamo abbracciato.
E’ un appello rendersi conto, e convincere gli altri, che un cambiamento radicale è necessario, per cercare soluzioni alternative alle politiche migratorie proposte, e per affrontare i problemi che affliggono i nostri territori e la nostra vita quotidiana, poiché il pianeta è un sistema - in cui le frontiere sono solo politiche - e noi siamo tutti legati dallo stesso destino. E’ un appello per immaginare un modo di convivere tra noi e con la natura profondamente differente da quello che oggi domina.
Il manifesto, 6 luglio 2016 (p.d.)
Una fotografia costruita sul silenzio, quindi, che è la trasposizione dell’idea del viaggio, della distanza, di una certa fragilità connessa con la condizione esistenziale della solitudine, ma che sollecita anche una memoria sensoriale. Certamente tematiche che hanno a che fare con il vissuto personale del regista iraniano che, come è noto, iniziò la carriera cinematografico con il cortometraggio Il pane e il vicolo (1970), seguito quattro anni dopo dal film Il viaggiatore, ma che durante la Rivoluzione del ’79 – essendo impossibile girare film nel suo paese – decise di trasferirsi in campagna. È lì, nella vastità degli orizzonti dominati da forti contrasti, tra luci abbaglianti e una natura non sempre accondiscendente, che cominciò a fotografare.
Quegli scatti erano il «dono» che faceva agli amici rimasti a Teheran: il modo per condividere con loro la libertà della natura, di luoghi incontaminati. «Queste mie foto e visioni sono il contrario della società iraniana e di quello che succede in Iran» – affermò nel 2009, in occasione della personale Abbas Kiarostami. Fotografie a colori e bianco e nero, organizzata a Roma dalla galleria Il Gabbiano – «Ho iniziato a fare foto così venticinque anni fa e, se ancora oggi continuo a scattarle nello stesso modo, è perché la gente può rovinare la società, ma non le pianure e la natura».
Una natura che, con le sue interferenze emotive, si rivela profondamente diversa rispetto alla visione lucida con cui la raffigura un altro grande interprete iraniano, Nasrollah Kasraian (attivo dal 1966), primo fotografo in Iran ad occuparsi di paesaggi. Come lui Kiarostami, che ne apprezzava il rigore, alternava il linguaggio del bianco e nero con il colore. Dichiarando, tuttavia, la predilezione per il primo che gli consentiva di prendere le distanze dal soggetto, interiorizzandolo: «soprattutto quando fotografo la natura, mi permette di farla diventare la ‘mia’ natura». Diversamente dalla sequenza cinematografica – «la fotografia è la madre del cinema», sosteneva – le sue immagini fisse sono momenti isolati, inquadrati spesso attraverso il parabrezza dell’automobile: una sorta di cornice, ulteriore filtro per connettere il mondo interno con quello esterno. Nascono così, frutto di una solo apparente casualità, gli «haiku fotografici» della serie Rain (2007-2008). «Stavo guidando, pioveva e il tergicristallo non funzionava. La macchina fotografica era sul sedile, accanto a me. Mi sono fermato e ho cominciato a scattare foto».
In realtà quel momento era stato preceduto da anni di attraversamento dello sguardo, al di là del parabrezza o dei finestrini dell’automobile, in viaggio – ancora ed ancora – per le strade dell’Iran e non solo. Il viaggio stesso è un tema centrale della sua produzione cinematografica, occasione per esplorare territori lontani, dall’Africa al Giappone passando per l’Italia con Copia conforme (2010), di cui le riprese sono state effettuate in Toscana. Interamente girato in un’automobile è, ad esempio, Ten (2002), come successivamente Like someone in love (2012), mentre il treno in corsa è lo scenario di Tickets (2005) con E. Olmi e K. Loach. Però «L’attimo decisivo», tornando alla fotografia, arrivò solo quando, con l’avvento della tecnologia digitale, Kiarostami ebbe la possibilità di dominare la luce, attenuando i riflessi che inevitabilmente avrebbero creato delle interferenze. «Pensai, allora, che era arrivato il momento di tornare a quella vecchia idea. Avrei potuto fotografare guidando. Feci così: una mano sul volante e l’altra impegnata a scattare la foto».
Il fluire delle immagini, catturate in velocità, sono comunque frutto di un’«immediatezza costruita», ossimoro permettendo. La caratteristica di una dominante riflessiva che appartiene alla fotografia su pellicola – determinata dalla necessità del limite delle pose (i rullini ne contavano 24 o 36) – sembra però una costante anche della «deviazione» digitale con cui Abbas Kiarostami ha confermato la sua libertà di visione. «In quell’indefinibile danza di linee, punti e colori che forma l’immagine», la presenza dell’uomo è sempre indiretta. Ma dietro il profilo ondulato di una collina o dell’albero che s’intravede tra le gocce di pioggia c’è lo sguardo di chi lo ha fermato, per sempre.
. Il manifesto, 14 maggio 2016 (p.d.)
Sono gocce rosso-sangue, bollenti e brillanti, l’anima di questi macigni che hanno costruito la storia del mondo e della Sardegna prima degli Dei». Così aveva confidato a un amico giornalista Pinuccio Sciola una calda notte di maggio del 1974. Con la fiamma ossidrica, nel suo giardino di aranci di San Sperate, lo scultore che s’è spento ieri all’età di 74 anni per un’emorragia cerebrale era riuscito a fondere il basalto. Così era Sciola, artista di origini contadine che ai miti e agli archetipi di una terra antica era legato indissolubilmente. Quel giardino di aranci è poi diventato nel tempo il «Giardino sonoro», labirinto di blocchi di calcare e di grandi masse di basalto e di granito scolpite con una tecnica che Sciola ha inventato nel 1999: profonde incisioni parallele che segnano la pietra e che, percorse con le mani, o con un sasso o anche con l’arco di violino, producono suoni strutturati. La scultura diventava strumento musicale. «Ma – diceva Sciola – arte sono anche quelle pietre, quei sassi che io non sfioro, perché l’arte è nella natura. Non è un inno alla bellezza un prato di primule e di papaveri?».
Non c’era però niente di ingenuo in questo tenersi di Sciola dalla parte del linguaggio primario della natura. Era nato in una famiglia di contadini, in una regione della Sardegna, il Campidano, in cui la forza dei codici antichi della tradizione ha contrastato, sino a pochi decenni fa, una modernizzazione per molti versi violenta e per altri cialtrona. Quei codici, che sono stati «codici di resistenza», Sciola li ha filtrati alla scuola della grande cultura europea, li ha fatti passare al vaglio della riflessione teorica delle maggiori correnti artistiche del ’900. All’Accademia di Salisburgo, dove ha compiuto i suoi studi dopo una breve tappa fiorentina, è entrato in contatto con Minguzzi, Kokoschka («Volle conoscere tutte le chiese preromaniche sarde, gli rimase impressa San Nicola di Ottana»), Manzù, Wotruba e Sassu.
Il suo primo lavoro importante fu nel 1972, quando collaborò con Henry Moore nell’esposizione al Forte Belvedere di Firenze. Dopo quell’esperienza, altre tappe del suo percorso furono gli studi alla Moncloa di Madrid, un lungo soggiorno a Parigi e, soprattutto, la frequentazione a Città del Messico con David Alfaro Siqueiros. «Siqueiros – diceva – mi ha fatto capire il senso dell’arte e insieme il valore della vita». Tornato in Italia, Sciola trasformò il suo piccolo borgo di contadini nel luogo privilegiato di un progetto di arte sociale che si rifaceva alla lezione dei muralisti messicani (Rivera e Orozco li aveva conosciuti attraverso Siqueiros). Le case di tufo di San Sperate furono affrescate ad lui stesso e da artisti che arrivarono da tutto il mondo. L’intera comunità che, a metà degli anni 70, partecipò a un’esperienza collettiva da cui nacque un museo a cielo aperto, che tuttora si snoda nelle stradine e nei vicoli del paesino. E che va ad aggiungersi al «Giardino sonoro» della casa nella quale Sciola ha voluto continuare a vivere e dalla quale si muoveva per le mostre in Europa e in America, con le sue opere monumentali nel parco del castello di Oiodonk in Belgio, al Palace Trianon di Versailles, al Barndorf Beio Baden di Vienna, in piazze di New York e Chicago, Londra e Stoccolma, Barcellona.
Guardando la sua intera produzione, Sciola può essere iscritto a una sorta di «linea sarda», che allo scultore di San Sperate arriva partendo da Costantino Nivola e attraversando Maria Lai. Tutti e tre legati a una visione dell’arte che intreccia l’attenzione per ciò che sfugge alla storia (l’archetipo e il mito) a una fortissima connotazione relazionale del lavoro dell’artista. Dire l’ineffabile per creare nuova socialità.
Per iniziare l'anno nuovo riproponiamo a chi ci segue questa traduzione di Enzio Cetrangolo delle parti del poema De Rerum Natura che narrano della nascita del nostro mondo (V, 922-995: 1008-1016) . Auguri per un migliore 2016
Venuta dalla dalla dura terra fuori nei campi
Avremmo voluto dedicare questo articolo alla dannosa legge cosiddetta “contro il consumo di suolo". Ma ci sembra che ciò che accade a Roma attorno a Ignazio Marino (e soprattutto al Campidoglio) meriti un’attenzione bruciante. Non si tratta di terrritorio, ma di democrazia, non di speculazione ma di fascismo. (segue)
Nel presentare su questo sito l’articolo di Norma Rangeri (il manifesto del 30 ottobre) abbiamo scritto che l'Italia è diventata un paese fascista. Non ci riferiamo solo all’odierna questione romana, poiché essa è l’epitome della questione italiana del XXI secolo. Antonio Padellaro ha ragione quando scrive che «su Ignazio Marino sindaco di Roma si può pensare tutto il male possibile: che sia stato gravemente inefficiente e troppo assente, che abbia chiuso un occhio o forse entrambi su Mafia Capitale, che sui famosi scontrini non l’abbia raccontata giusta».
Ma non è lì lo scandalo: lo scandalo è nel modo minuzioso, attento, abilissimo col quale il segretario (non eletto) di un partito, cioè di un’associazione che è “parte” della società, e contemporaneamente il presidente (non eletto) del consiglio dei ministri hanni orchestrato, diretto, propagandato e condotto a compimento l’eliminazione politica e istituzionale di un Sindaco democraticamente eletto, con grande maggioranza dei voti.
Ma quello che è ancora più grave per chi crede ancora nella democrazia e nelle sue istituzioni - così come sono state conformate dallo Costituzione - è la lesione compiuta con l’eliminazione di un Sindaco, eletto dal popolo, da parte un Presidente del consiglio dei ministri. Il mondo intero ha assistito alla defenestrazione del sindaco di una grande città compiuta senza motivarne le ragioni, semplicemente intimandogli di andarsene. Poi, alle sue resistenza, ordinando ai consiglieri membri del suo partito (meglio, suoi sudditi) di dimettersi, per ottenere così lo scioglimento del consiglio comunale cercando, e trovando, l’alleanza con la peggiore destra ottenendo cosi l’annullamento istituzionale del fastidioso critico. Il quale, udite udite, pretendeva soltanto che si discutesse pubblicamente sulle ragioni che spingevano a sfiduciarlo.
Numerosi i segnali, che ci arrivano ormai da molte regioni e molti ambienti (la scuola e l’università, le istituzioni del sistema delle autonomie e le fabbriche, gli studi professionali e le redazioni dei media) : la critica e la protesta non vanno al di là del mugugno tra quattro mura. Rarissimo, quasi eccezionale il caso di persone che abbiano il coraggio di esporre pubblicamente le loro critiche, per timore di perdere l’incarico, o il ruolo, o il posto. Il ricatto della pagnotta è la regola dominante nel regime feudale imposto dal ragazzo di Rignano - e, bisogna aggiungere, supinamente accettato da troppi italiani.
L’unico evento che potrà restaurare la democrazia in Italia è un allargamento della consapevolezza del fango nel quale siamo precipitati e, su questa base, una riscossa dello spirito di solidarietà e di ribellione, che sappia manifestarsi a partire dalle prossime elezioni. Decisivo è il ruolo degli intellettuali, cioè di quelle donne e quegli uomini che lavorano impiegando poco la forza, e la fatica, dei muscoli e molto gli strumenti del sapere. Avere la capacità di guardare al di là del presenta e nell’insieme un mondo miope e spezzettato è un privilegio che hanno acquistato grazie alla società che li ha alimentati: verso la società hanno un debito e una responsabilità forti, che devono onorare.
Due parole sul tema che abbiamo accantonato per soffermarci sulla democrazia: la legge sul consumo di suolo. La nostra fondata opinione è che questa legge è del tutto inservibile ai nobili fini che si propone. Chi ha la pazienza di analizzarla dal punto di vista dell’efficacia deve concludere, scoraggiato, che ha la stessa efficacia di un aratro senza vomere. Rinviamo in proposito agli articoli ….Così stando le cose rimane una domanda: come mai tante associazioni ambientaliste, tante persone sincere e oneste che militano nel mondo che condivide lo slogan “stop al consumo di suolo” non si sono accorte delìlla vacuità (se non dei rischi) di quella proposta. Non vorremmo che questo episodio debba ricollegarsi a quelli su cui ci siamo soffermati: l’illusione suscitata dall’accattivante immagine nasconde la miseria della sostanza, la velocità del cinguettio cancella la capacità di studiare.
Torneremo più ampiamente sull’argomento. Per ora invitiamo chi voglia capire perché quella legge se approvata, sarà una pietra tombale sull’argomento legga gli articoli di Vezio De Lucia del giugno 2013 (Consumo di suolo a un passo dal baratro) e del febbraio 2015 (A partire dalle buone intenzioni del ministro il Parlamento approda a una legge inservibile), di Eddyburg, febbraio 2015 (Eddyburg e il consumo di suolo), di Ilaria Agostini del maggio 2015 (Due leggi per il suolo).
Ogni parte aspira sempre
a congiungersi con l'intero
per sfuggire all'imperfezione;
L'anima sempre aspira
ad abitare un corpo
perché senza gli organi corporei
non può agire ne sentire.
Essa funziona dentro il corpo
come fa il vento
dentro le canne di un organo,
se una delle canne si guasta
il vento non produce più il giusto suono.
Lo stormo di avvoltoi che si nasconde dietro al casco chiodato di Angela Merkel ha pensato di uccidere Alexis Tsipras, leader del popolo greco, e con esso la Grecia. Non crediamo che ci sia riuscito: la storia per Alexis e per la Grecia non è finita. Ma certamente Merkel e il suo partner Schäuble hanno ucciso l’Europa così come ce l’ha fatta immaginare la speranza nata a Ventotene a metà del secolo scorso. Possiamo dire che il tentativo di omicidio si è rivelato un suicidio: l’ "Europa reale" che è stata costruita su quella speranza è morta. Non è morta la speranza, né per la Grecia né per l’Europa.E molte cose sono diventate più chiare, nel male e nel bene. Eccone alcune.
L’Europa è stata trasformata da speranza in fortezza. Si è dimostrata incapace di esercitare qualsiasi influenza positiva sui grandi movimenti di redistribuzione delle risorse mondiali che stanno avvenendo. Anzi, ha volenterosamente collaborato alle nuove forme di sfruttamento dei paesi poveri, aggiungendo le nuove sofisticate forme del colonialismo (quello che papa Francesco ha definito “colonialismo ideologico”) a quelle dei secoli passati. Incapace di prevedere ieri e l’altro ieri e di gestire oggi l’esodo da un’area che è più vasta di un intero continente rischia di restare sepolta sotto l’onda di ribellione, ferocemente armata, che il Primo mondo ha contribuito a scatenare nel mondo maomettano. Un’onda che adesso fa tremare le vene e i polsi.
L’Europa di Bruxelles-Berlino, e con essa il mondo nordatlantico e parte dei paesi del BRICS, proseguono intanto allegramente nel predicare e praticare il forsennato consumismo che sta portando all’esaurimento le risorse essenziali del pianeta Terra. La vigorosa denuncia di papa Francesco, dopo un effimero passaggio nei grandi media di tutto il mondo, è stato rapidamente rimosso dalle coscienze di chi decide (se mai le ha toccate) e dalle immagini proiettate nelle teste dei loro sudditi.
Pochi si rendono conto che è in corso di dissipazione un’altra fondamentale risorsa dell’umanità che abita il pianeta Terra : il lavoro dell’uomo. Ridotto da bene in merce nelle prime incarnazioni del capitalismo, è stato progressivamente deprezzato e infine considerato inutile dal dio Mercato, e dovunque privato dei diritti che le sue organizzazioni economiche e politiche avevano faticosamente conquistato nel corso di due secoli. E’ completamente scomparsa dalla memoria collettiva (se mai c’era pienamente entrata) l’idea che il lavoro dell’uomo è lo strumento universale di cui l’umanità dispone per conoscere e trasformare il mondo – e non un utensile da impiegare per produrre congegni elettronici (o sistemi d’arma) sempre più sofisticati, e inutili o dannosi.
E’ in questo quadro che si collocano la vicenda della Grecia (e, domani, quelle della Spagna e dell’Italia). In Grecia Alexis ha salvato quello che poteva? Neppure il futuro potrà dircelo: la storia non si fa con i “se”. Non sappiamo quanti, tra quelli che criticano la scelta di Tsipras, hanno conosciuto e valutato tutti i dati disponibili. Per conto nostro rinviamo alle ragionevoli riflessioni di Giorgio Barberis. In ogni modo i mesi e gli anni che verranno saranno pesanti per i greci, chee avranno bisogno di tutta la solidarietà possibile di chi condividele loro speranze. Per ora sappiamo che hanno salvato la dignità, la democrazia, la presenza nelle attuali istituzioni europee (già poco guarnite di forze per il cambiamento) – e hanno evitato una più pesante crisi finanziaria per la Grecia e gli altri paesi “deboli”.
La storia non è finita. Non quella dei sognatori di Ventotene, e neppure quella di chi si è schierato con la Grecia diTsipras. Non è finita neppure la storia quella di Tsipras, di Varoufakis, di Tsakalotos, e di quelli che con loro hanno lavorato per un’altra Grecia in un’altra Europa. Essi hanno dimostrato che esistono già persone e idee, saperi e volontà di un nuovo gruppo dirigente per un’Europa sottratta agli avvoltoi. Ma questa Europa non sono certo loro, da soli, che potranno costruirla.
La risposta e il lavoro dovranno venire da un’area più vasta. Come avvenne nei secoli trascorsi dovranno venire dal mondo degli sfruttati, ove sappiano acquistare una coscienza dello sfruttamento, delle sue inumane ragioni e delle sue efficienti regole.
Il riferimento non può essere più solo la “sinistra” del secolo scorso. L’area sociale e geografica dello sfruttamento è divenuta oggi ben più estesa di quella della “fabbrica”. Essa copre territori che hanno goduto del benessere del sistema capitalistico, e territori che quel sistema hanno conosciuto solo come vittime del colonialismo. Copre il medio ceto impoverito ogni giorno di più nelle città del Primo e del Secondo mondo, come le mille povertà e miserie del Terzo mondo. Copre quella gigantesca parte dell’umanità alla quale si rivolge diuturnamente Jorge Maria Borgoglio, papa Francesco. Ma la risposta risolutiva non può venire dalla religione, deve venire dalla politica. Hic Rhodus, hic salta. Questo è il confine, intellettuale e pratico, che bisogna valicare per proseguire la lotta della Grecia di Syriza e di Tsipras.
Capitalismo ideologico http://www.eddyburg.it/2015/07/il-pontefice-incontra-i-movimenti-in.html
Giorgio Barberis http://www.eddyburg.it/2015/07/euroricatto-lattacco-finale-dei.html