MILANO - Aveva sette anni Umberto Ambrosoli, quando una notte - ascoltando nascosto dietro una porta - sentì una voce registrata minacciare di morte suo padre. Una voce dal forte accento siciliano: «Lei è degno solo di morire ammazzato come un cornuto! Lei è un cornuto e bastardo!». Umberto, detto Betò, tornò a letto in punta di piedi. Ma non dormì più, a scuola cadeva con la testa sul banco. La maestra gli chiese cosa succedeva: «Ho delle gravi preoccupazioni», rispose lui. Mandarono a chiamare la mamma. Lui taceva. Solo con la nonna, scoppiando a piangere, raccontò di quella voce nella notte.
Adesso sono passati venticinque anni da quel terribile 1979: la telefonata minatoria in gennaio, e il 12 luglio un killer pagato da Michele Sindona uccide Giorgio Ambrosoli. Umberto (per amici e familiari ancora Betò) ha 33 anni, è avvocato come il padre, ha un bambino di 11 mesi che si chiama Giorgio. Un quarto di secolo, l´età di un uomo adulto, e il figlio affronta il peso e l´occasione della ricorrenza per ricordare ancora che cosa dobbiamo tener caro dell´esempio di suo padre, l´"eroe borghese"del memorabile libro di Corrado Stajano.
Un ricordo che, quasi con rammarico, muove dalla persistente "anomalia" della figura di Giorgio Ambrosoli: il giovane avvocato milanese, conservatore rigoroso, che si trova a metter mano al calderone dell´impero di Michele Sindona, che resiste a pressioni e lusinghe di mafiosi, piduisti e politicanti («A quarant´anni di colpo ho fatto politica, in nome dello Stato e non per un partito») , fino a morire ammazzato in una notte d´estate. «Negli anni di Tangentopoli - dice Umberto - la percezione dell´anomalia era evidente. C´era la piena consapevolezza che il Paese andava avanti su binari diversi da quelli che mio papà aveva scelto. E, a occhio e croce, non mi pare che oggi le cose siano cambiate».
«Non penso che oggi siamo davanti a un cambiamento nella gestione del potere e della cosa pubblica, ma ancora di più nel comportamento personale - continua Umberto - C´è poca percezione della legalità, a livello individuale. Difficile vedere persone che si distinguono per aver affrontato con rigore le proprie responsabilità». Un´anomalia, quella della figura di Giorgio Ambrosoli, che paradossalmente viene sottolineata e tenuta viva da quanti non hanno dimenticato: «Incontro spesso persone che mi dicono quanto sia importante per loro l´esempio di mio papà. Vedo come quei princìpi siano attualissimi, in un contesto diverso. Ma poi, siccome non sono così pessimista, o forse per superare la delusione, resto attento ai comportamenti soggettivi, e vedo anche molto impegno, molti modi in cui ciascuno può contribuire a migliorare il nostro Paese».
Un insegnamento di libertà, quello che i figli di Giorgio Ambrosoli hanno più caro. «Ciò che resta più forte della figura di mio papà, dopo 25 anni, è l´aver insegnato l´importanza di affermare la propria libertà. Con se stesso, quando ha scelto quella responsabilità e ne ha accettato i rischi. Con gli altri, quando ha respinto ricatti e blandizie, senza cercare protezioni. Poi c´è l´onestà, e tutto il resto. Ma, prima di tutto, viene la libertà». «Quando mi dicono che mio papà è stato un esempio - dice Umberto - è come se dicessero che è difficile affermare la propria libertà».
Ma non è impossibile: «Se sei un avvocato, devi saper essere libero anche dal tuo cliente, se sei un medico dai giochi di potere, se lavori in un´azienda dagli interessi che violano le regole. L´onestà finisce per essere una scelta, l´affermazione della tua libertà». E, dice, nemmeno si sta parlando di grandi poteri, di giochi enormi: «Intendo l´essere autonomi e liberi, ciascuno nel suo mondo».
Umberto Ambrosoli è ancora curioso della vita e della gente: «Mi è sempre piaciuto curiosare». Come quella notte, bambino, dietro una porta: «La casa si prestava, c´era un corridoione lungo, e quella porta fra giorno e notte, fra il guardaroba e la cucina». «Ormai, di quella notte, confondo memoria e ricostruzione. Ricordo le luci, l´essere nascosto anche senza volere. Il tono estremamente tranquillizzante della voce di papà con mamma». Giorgio Ambrosoli faceva ascoltare quella telefonata minatoria ad Annalori, la moglie, e provava a dirle che quello era solo «un pazzo».
Sei mesi più tardi la minaccia si avverò. A Umberto raccontarono la verità sono un poco per volta: «Ricordo, al di là della difficoltà di capire, l´illusione che non fosse una cosa definitiva, la percezione che invece lo fosse, e l´immaginarsi che cosa fosse non avere più un papà. Quei giorni confusi, il dolore». Poi, negli anni, il lungo lavoro della curiosità non più infantile: «Capire i ragionamenti, le domande, l´importanza di quel papà aveva fatto, la parole delle persone vicine, pian piano realizzare. La prima sensazione, che lui avesse fatto qualcosa di eccezionale, ma qualcosa di condiviso solo dalla famiglia, senza riscontro pubblico».
Umberto ricorda il processo a Michele Sindona, per l´omicidio di suo padre.
Era un ragazzino, allora. «Ricordo le riunioni a casa, dopo cena. C´erano gli amici: Giorgio Balzaretti, Francesco Rosica, l´avvocato Dedola, Silvio Novembre, Pino Gusmaroli. Noi figli - Francesca, Filippo ed io - venivamo mandati a letto presto. Ma io curiosavo sempre, di nascosto. Un giorno ho voluto vedere un´udienza. Ci sono andato da solo, la mamma mi ha trovato lì: sono rimasto poco, mi diceva che i bambini non potevano».
Ha voluto fare l´avvocato, come il padre. Ha continuato a curiosare: «Ho rivisto molti documenti. L´Italia, anche allora, aveva i suoi strumenti di controllo. E invece l´insofferenza alle regole, l´arroganza erano devastanti. Ho rivisto tante cose che mi sembrano attuali: le denunce subìte da papà, il gioco a scaricare le responsabilità, l´inefficienza dei controlli, i piccoli azionisti e creditori raggirati. E invece, siamo ancora qui, a storie come quella della Parmalat». E l´anomalia Ambrosoli, malgrado l´ottimismo del giovane Umberto, che resiste: «Resiste, sì. Ma la vicenda di papà qualcosa ha insegnato. E qualcuno ha lasciato un esempio a cui ancorarsi in determinati momenti della propria vita».