Ho sempre diffidato dei cosiddetti terzisti, intesi come coloro che, nella loro attività di pubblicisti politici, cercano di ritagliarsi un ruolo di equidistanza, una sorta di magistero "super partes" che gli consenta di dare a giorni alterni un colpo al cerchio e l’altro alla botte da un piedistallo di (finta) neutralità.
Ne ho diffidato e continuo a diffidarne perché avverto in quei pezzi gonfi di sussiego e di sopraccigliosa burbanza un sentore d’ipocrisia, un atteggiamento artefatto che ha ben poco a che fare con il coraggio civile di chi, non tacendo le proprie idee e le proprie preferenze, sa però cogliere e denunciare anche le colpe e gli errori (eventualmente i reati) di chi condivide quelle stesse idee e orienta quelle preferenze.
Ci sono però occasioni nelle quali lo sforzo del terzista di mantenersi tale diventa patetico e suscita involontaria tenerezza. Accade quando il compito dell’equidistanza deve affrontare difficoltà pari a quelle che s’incontrano in una scalata rischiosa o si trasforma addirittura in un’irrealizzabile ipotesi di terzo grado. In quei casi il terzista, per raggiungere la sospirata vetta dell’inattaccabile neutralità, sceglie un sentiero mediano, dipinge una realtà immaginaria, fabbrica regole a proprio uso e consumo e si espone assai più di quanto vorrebbe agli occhi degli spettatori che lo vedono dondolare pericolosamente nel vuoto intellettuale che lui stesso si è creato intorno. Spettacolo godibilissimo da osservare, binocolo alla mano. Vi si vedono personaggi celebrati per austerità di comportamento mentale e per rigore di giudizi, pendolare scalciando argomenti raffazzonati e sudando sotto il gilet, la marsina e la tuba che idealmente continuano a indossare pur nella scomoda posizione nella quale si trovano.
A me, lo confesso, quello spettacolo suscita lo stesso imbarazzo che mi assale quando, assistendo all’esecuzione d’un brano d’opera, la soprano o il tenore steccano una nota difficile suscitando i fischi e i berci del loggione.
Mi sento in colpa quanto ci si sente il cantante dopo la stecca, arrossisco e vorrei scomparire. Effetto, credo, di identificazione e di "pietas". Ma altre volte, se il cantante reagisce con altera superbia anziché ammettere che la sua virtù canora non era all’altezza della difficile partitura, la mia "pietas" si converte in rabbia e mi unisco alla selva di fischi cercando semmai che il mio sia più forte e prolungato degli altri.
Chiedo scusa all’ambasciatore Sergio Romano se utilizzerò come testo esemplare d’un terzismo assai mal riuscito il suo articolo comparso di fondo sul Corriere della Sera dell’8 agosto scorso. Apprezzo da tempo la sua cultura generale, almeno quanto mi parve modesta la sua attività diplomatica al servizio dello Stato. Ma l’articolo cui mi riferisco rappresenta la quintessenza di quanto chi aspira, com’egli certamente aspira, a una rigorosa oggettività di giudizio non dovrebbe mai scrivere e tanto meno pubblicare poiché rende manifesta la dose d’ipocrisia che il sussiego non riesce a nascondere. Gilet, marsina e tuba ne escono così malconci da far venire in mente i versetti di quella vecchia canzone satirica che si cantava quando tutti e due eravamo giovani e che diceva «sopra il cappotto porta la giacca e sopra il gilet la camicia». Forse l’ambasciatore non la ricorda o forse era già serioso ai suoi quindici anni e non l’ha mai sentita. S’intitola «Pippo non lo sa». Talvolta qualche momento di regressione verso l’infanzia può giovare all’igiene mentale.
Dopo la pubblicazione delle motivazioni della sentenza con la quale tre mesi fa il Tribunale di Milano irrogò undici anni di prigione all’imputato Cesare Previti e ai suoi accoliti per corruzione in atti giudiziari (in altre parole per compravendita di sentenze) un commentatore del livello dell’ex ambasciatore a Mosca poteva scegliere due strade: non occuparsene lasciandone ad altri il compito, oppure trattare l’argomento cimentandosi con la domanda se il Tribunale avesse o non avesse raggiunto la prova della colpevolezza degli imputati. La sentenza consta di alcune centinaia di pagine; allinea uno accanto all’altro documenti, estratti contabili, testimonianze, deduzioni; il commentatore, dopo averla doverosamente letta, poteva rispondere secondo coscienza al quesito se le prove raccolte fossero risolutive oppure se fossero rimaste al livello di semplici indizi e quindi se il dispositivo di condanna fosse ritenuto giusto o sbagliato.
È ciò che dovrà fare - tra breve si spera - la Corte d’appello, ma che intanto è in facoltà d’esser fatto da qualunque cittadino e massimamente da chi si arroga di rappresentare un punto di riferimento importante per la pubblica opinione.
Purtroppo per noi l’ambasciatore non ha seguito nessuna delle due strade che gli stavano dinanzi: né quella di tacere né quella di affrontare di petto la validità giuridica della sentenza. Se infatti avesse scelto la prima avrebbe dato prova di pusillanimità, se avesse imboccato la seconda avrebbe dovuto dar ragione o agli imputati che si proclamano innocenti e perseguitati o ai giudici che li hanno ritenuti colpevoli e li hanno pesantemente condannati. E allora addio terzismo, il colpo sarebbe stato dato o alla botte o al cerchio e non a tutti e due, secondo la regola "terziaria" della quale il Romano è devoto seguace, anzi capofila.
Ha invece imboccato un sentiero laterale: un esame stilistico della sentenza per dimostrare la faziosità del Tribunale senza esaminare neppure di scorcio la questione capitale che era ed è - lo ripeto - quella di sapere se le prove della colpevolezza siano state raggiunte oppure no.
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Nulla vieta, naturalmente, che si faccia anche l’esame stilistico, perché no? Ognuno ha i suoi gusti ed ha il diritto di esprimerli. Giovanni Sabatucci per esempio, sul Messaggero di quello stesso giorno, li ha manifestati e sono analoghi a quelli dell’ambasciatore; ma poi è arrivato al problema di sostanza ed ha concluso che la prova della verità giudiziaria il tribunale di Milano, a suo avviso, l’ha pienamente raggiunta. Sabatucci è uno storico serio e non porta la camicia sopra la giacca.
Ma torniamo all’ambasciatore. Che comincia il suo esame stilistico sostenendo che «i tribunali non fanno il ritratto caratteriale dell’imputato» .
Davvero? In realtà non è affatto così, l’esame caratteriale è un elemento essenziale per inquadrare «l’animus» dell’imputato; naturalmente non è una prova, ma entra direttamente in gioco per la concessione delle attenuanti o per l’irrogazione delle aggravanti. Vede, ambasciatore, forse in diplomazia queste cose non si apprendono, ma per chi ha un minimo di familiarità con la legge sono cose consuete.
Prosegue il Nostro: «I tribunali non rivendicano l’imparzialità della Corte». Ma dove sta scritto? Quella Corte è stata oggetto da parte della difesa di due istanze di ricusazione e sette di incompetenza; quei giudici sono stati insultati per tre anni di seguito in ogni udienza, sono anche stati platealmente presi in giro con una serie infinita di rinvii, mancate presentazioni in aula degli imputati, beffe palesi di stancheggiamento tese a prolungare il processo per mesi e per anni. Dove sta scritto che la Corte non possa rivendicare la propria imparzialità di fronte ad atteggiamenti sistematici che tendono a delegittimarne il giudizio? E ancora: «Nei buoni sistemi giuridici la motivazione della sentenza è un documento freddo e grigio... ». Bah, ogni giudice ha la sua prosa, c’è chi ce l’ha fredda e grigia, chi eloquente. L’importante, come lei stesso recita signor ambasciatore, è che la motivazione «descriva i fatti, allinei le prove, verifichi le responsabilità e applichi le pene previste dal codice penale».
Appunto, e ciò che quei giudici hanno fatto per quasi cinquecento pagine. Non le ha lette? Le legga e ci dica che cosa ne pensa. Finora non l’ha detto. Perché?
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Ma poi, argomenta Sergio Romano, se la sentenza voleva proprio sconfinare nella storia, allora avrebbe dovuto descrivere il sistema di corruzione diffusa che ha caratterizzato per almeno dieci anni i rapporti tra governi, partiti, imprenditori, pubblica amministrazione. È quel sistema che bisognava denunciare. Lo fece Craxi in Parlamento accusando se stesso e chiamando in correità tutti gli altri suoi colleghi parlamentari e si ebbe in cambio il lancio di monetine. Se lo potesse rifare oggi - conclude l’ambasciatore - forse avrebbe migliore attenzione.
Dunque è questo che piacerebbe a Sergio Romano: l’ammissione d’una colpevolezza generale che fosse di generale lavacro. E infatti esorta Berlusconi a imitare l’ex leader dell’ex Psi: tutti colpevoli, nessun colpevole, tutti i cerchi e tutte le botti colpiti contemporaneamente e poi tutto come prima: che paradiso per i terzisti in marsina, monocolo e colletto duro.
Purtroppo per lei questo lavacro generale promosso da Berlusconi non ci sarà; significherebbe infatti da parte del nostro presidente del Consiglio dover ammettere che il capo del governo è un corruttore incallito, che ha pagato ed è stato pagato, che ha manipolato il mercato, che ha comprato le sentenze. Le pare possibile che lo ammetta nero su bianco? E resti poi a fare il presidente del Consiglio?
Non può farlo e non lo farà. Ma lei, signor ambasciatore, non ci ha detto ancora il suo parere su quella sentenza, sulle prove, sui documenti e sul giudizio morale e politico che lei ne ricava. A lei non piace l’enfasi dei magistrati. A noi non piace la sua totale afasia sulla questione capitale.
Perciò coraggio, ambasciatore, un po’ di coraggio anche se questo la obbligasse a schierarsi. Una volta tanto.
Post scriptum. Ancora una richiesta - e ancora me ne scuso - per l’ambasciatore: che cosa ne dice dello stile del presidente e dei membri di maggioranza della Commissione parlamentare su Telekom-Serbia? Hanno gli stessi poteri dell’autorità giudiziaria e assommano i due ruoli delle Procure e dei collegi giudicanti. Ma sono ridotti a funzionare come un ventilatore che schizza fango o peggio sugli avversari politici senza avere un solo straccio di prova. Le piace quello stile? Penso e spero che non le piaccia. Allora perché non lo scrive?
E ora una risposta a un articolo del Foglio che mi è stato riferito da un collega (personalmente non leggo mai quel giornale). Giuliano Ferrara chiede a noi di Repubblica perché non ricordiamo che, ove mai Previti avesse pur corrotto i giudici di Roma per favorire la conquista della Mondadori da parte della Fininvest, ci sia poi stato un accordo tra le parti per retrocedere Repubblica e L’Espresso alla Cir.
È vero, l’accordo ci fu perché bisognava stimare il valore dei rispettivi cespiti e cifrare i relativi conguagli. Ma la spartizione era già nella legge Mammì che faceva divieto a chi avesse il controllo di tre televisioni nazionali di possedere qualsiasi altro strumento di comunicazione.
Infine: lo stato di fatto precedente alla sentenza che si suppone sia stata comprata vedeva la Mondadori nelle mani del gruppo Cir-Espresso. La sentenza fece sì che la Mondadori passasse nelle mani del gruppo Fininvest. Se non si studiano bene le fattispecie si raccontano solo panzane e non è una bella cosa.