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Paola Somma
La città del Mose
25 Ottobre 2017
2018 Marcia dignità Venezia
Come, quando e perché «si è deciso che Venezia non era una “città”, ma solo il quartiere turistico di una grande conurbazione che aveva bisogno di grandi opere infrastrutturali per massimizzare l’accessibilità al centro»

Come, quando e perché «si è deciso che Venezia non era una “città”, ma solo il quartiere turistico di una grande conurbazione che aveva bisogno di grandi opere infrastrutturali per massimizzare l’accessibilità al centro»

Dice Italo Calvino a proposito di Maurilia «città diverse si succedono sopra lo stesso suolo e sotto lo stesso nome… anche i nomi degli abitanti restano uguali… ma gli dèi che abitano sotto i nomi e sopra i luoghi se ne sono andati senza dir nulla e al loro posto si sono annidati dèi estranei».

Tali parole si addicono perfettamente alla città, costruita negli ultimi cinquant’anni, che continuiamo a chiamare Venezia, malgrado non abbia nulla in comune, se non il sito, con la città preesistente. Per quanto possano esteriormente apparire simili, infatti, la città del doge e la città del Mose sono ontologicamente diverse. Nella prima, le mutazioni fisiche e le attività umane interagivano adeguandosi le une alle altre con continui interventi e aggiustamenti, mentre la seconda è una vera e propria città di fondazione, nel senso che, come avviene in occasione di un evento catastrofico- distruzione bellica, calamità naturale, decisione di un invasore di radere al suolo e ricostruire ex novo - la nuova Venezia è sorta sulla base di un piano. E non a caso Consorzio Venezia Nuova è il nome del suo committente, costruttore, reggente e amministratore delegato.

L’idea e il piano

Ogni piano urbanistico si concreta in soluzioni architettoniche, dislocazione di gruppi di abitanti e attività economiche, regole di governo, che riflettono una determinata idea di città e allo stesso tempo contribuiscono alla sua costruzione.

Nel caso di Venezia Nuova l’idea, altrimenti detta la vision, non è diversa da quella che si è affermata ovunque nella seconda parte del secolo scorso, quando la nozione di città come intreccio indissolubile di urbs-civitas-polis è stata sostituita da quella di giacimento di risorse, da porre sul mercato a disposizione degli investitori di ventura, per essere sfruttate e gestite come una società per azioni. La sola differenza rispetto ad altre situazioni è che la risorsa alla quale si è attribuito il maggior potenziale di profittabilità, perché disponibile in grande quantità e “sottoutilizzata”, non è il suolo, ma l’acqua, nelle sue due accezioni di acqua della laguna e di acqua alta. Da un lato, quindi, la laguna è stata trattata come una superficie inutilmente vuota che, diversamente dalle periferie normali, non era stata adeguatamente valorizzata, cioè lottizzata ed edificata. Dall’altro, l’alluvione del 1966, con la sua risonanza mondiale, ha consentito di incanalare flussi di denaro pubblico mai visti né immaginati, facendo diventare la città del Mose un esempio da manuale di quella che, assai opportunamente, Naomi Klein ha definito l’economia dei disastri.

La sovrapposizione dell’idea di città/risorsa alle conseguenze dell’evento del 1966 ha fatto sì che l’obiettivo della salvezza delle acque, che era rimasto per secoli una priorità per la città del doge, fosse sostituito con quello della salvezza dalle acque.

Cogliere questo mutamento di paradigma è necessario per capire quello che è successo da quando, nel 1967, Giulio Obici, nel suo scritto Venezia fino a quando, si rifiutava di credere che “la Laguna possa essere trattata come un vuoto da riempire, un terreno di conquista, uno strumento di disordinata espansione finanziaria”, al convegno organizzato dall’ordine degli ingegneri nel 2011, dal titolo “Laguna: ottavo sestiere”, nel quale i relatori dopo essersi posti il quesito se la Laguna vada considerata come “opportunità o come problema”, si sono dichiarati d’accordo sul fatto che la Laguna sia “l’ottavo sestiere, foriero di spazi per la residenza, lo svago, il lavoro”. Tale opinione bene sancisce la conclusione di un periodo nel quale al lavoro dei disegnatori di città si è affiancato l’impegno degli studiosi che hanno messo a punto e divulgato l’apparato teorico necessario a rendere inconfutabile un progetto di valorizzazione della Laguna che si fonda su tre presupposti.

Il primo è l’omologazione di Venezia a qualsiasi altro insediamento urbano, nel quale si può individuare una zona centrale con edifici monumentali; un anello, la cosiddetta periferia interna, con edilizia di minor pregio ed i cui spazi vuoti possono essere riempiti con parcheggi, sia di automobili che di natanti; una corona di acqua da adibire ad amenità turistiche; una periferia esterna in terraferma, sulla gronda lagunare.

Il secondo assunto è che Venezia era una città non finita, rimasta indietro rispetto alla modernità, e che per colmare il “ritardo” si doveva intervenire nelle aree libere, ma mature per lo sviluppo, e completare la bella incompiuta.

Infine, si è deciso che Venezia non era una “città”, ma solo il quartiere turistico di una grande conurbazione che aveva bisogno di grandi opere infrastrutturali per massimizzare l’accessibilità al centro e potenziare i punti di sbarco - aeroporto, porto, stazione, parcheggi, darsene- necessari all’invasione turistica.

Lo sfollamento e i nuovi abitanti

Il contesto culturale nel quale il Mose ha attecchito, e allo stesso tempo ha rafforzato e arricchito, non era di per sé sufficiente a far si che le ipotesi progettuali venissero realizzate. Per tradurre in azioni concrete il piano dei fautori della rinascita di Venezia era anche necessario eliminare, o almeno rendere ininfluente, qualsiasi opposizione o forma di resistenza.

Se ovunque, in un’epoca in cui i cittadini sono visti come un ostacolo all’esercizio del potere, gli abitanti sono considerati un ostacolo allo sviluppo delle economie urbane, questo si è dimostrato particolarmente vero a Venezia la cui popolazione, che nel 1966 ammontava a circa centoventimila anime, viene sempre spregiativamente bollata come nemica della modernità. Il suo sgombero e la contemporanea sostituzione con altre persone dagli “stili di vita” e dal potere d’acquisto più consono al tipo di consumatore auspicato per la città, è stata quindi sempre più esplicitamente riconosciuto come la precondizione per rivitalizzare Venezia.

Il lessico usato per giustificare il ricambio selettivo della popolazione è mutato nel corso degli anni, passando da un generico riferimento alla necessità di rinnovo del tessuto demografico, alla intenzionale ricerca dei modi per far arrivare quelli che il vicesindaco della giunta di Massimo Cacciari definiva «gli abitanti ideali di cui Venezia ha bisogno per rinascere», e che più efficacemente l’attuale sindaco Luigi Brugnaro chiama «la bella gente che voglio in città».

La distruzione e/o la svendita dell’edilizia pubblica, la indiscriminata chiusura di pubblici servizi, una tassazione punitiva per chi abita, associata ad una evasione fiscale protetta se non incoraggiata per gli altri, e infine la distrazione delle risorse economiche, prima destinate alla manutenzione ordinaria (pulizia dei canali, sistema fognario, disinquinamento, rialzo delle zone basse, manutenzione edilizia privata) e che negli anni novanta sono tutte state dirottate al Mose, hanno reso sempre più faticoso e costoso per un normale cittadino continuare a vivere a Venezia.

E così, oggi gli abitanti sono poco più di cinquantamila, l’intera Giudecca viene propagandata dalle agenzie immobiliari con lo slogan “è come stare a Brooklyn e vedere Manhattan” e si promette che presto anche lo waterfront di Marghera diventerà come “il New Jersey da cui si vede Manhattan”!

Le tappe

La costruzione della città del Mose ha proceduto parallelamente su tre fronti, rispettivamente impegnati nella creazione di nuovi manufatti e di interventi sulla struttura fisica, nella alterazione irreversibile della demografia e dell’organizzazione sociale, in una modificata distribuzione di poteri ai vari organi di governo. In particolare alla amministrazione locale della nuova città è stato attribuito il compito di promuoverne il marchio, cercare finanziamenti, ampliare e rendere sempre più appetibile e competitiva l’offerta della merce città.

La cronologia degli avvenimenti che dalla decisione iniziale si sono succeduti fino alla situazione attuale di “quasi completamento” del Mose è nota. Scarsa attenzione si presta, però, a quello che è nel corso degli anni è successo sugli altri fronti e che può emergere solo da una lettura incrociata delle decisioni e delle iniziative attuate dai diversi attori, Consorzio Venezia Nuova, comune, università, Biennale.

Per esempio, e per limitarsi ad alcuni momenti particolarmente significativi:

Nel 1984, anno della prima convenzione fra il ministero dei lavori pubblici e il consorzio Venezia Nuova, gli abitanti sono circa ottantasettemila, il comune avvia la costruzione di case per gli sfrattati e l’istituto delle case popolari bandisce un concorso per demolire e ricostruire l’intero complesso di campo di Marte alla Giudecca.

Nel 1989, gli abitanti sono calati a meno di ottantamila. Il comune, l’università e il consorzio Venezia Nuova creano il Centro città d’acqua che si dedica a propagandare gli waterfront come “nuova frontiera urbana”. Nella pubblicazione del consorzio intitolata “Venezia: quali progetti” ci si compiace, perché “ è riemersa la capacità progettuale, è rinata la capacità di realizzazione e i finanziamenti sono diventati il catalizzatore di importanti iniziative”. Una cordata di imprese si associa per promuovere la candidatura di Venezia all’Expo 2000.

Nel 2003 gli abitanti sono sessantaquattromila (circa la metà rispetto al 1966). Il consorzio avvia i lavori della costruzione vera e propria del Mose e contestualmente stipula una convenzione con l’università IUAV alla quale affida “un programma di ricerca a supporto della progettazione definitiva dell’inserimento architettonico delle opere mobili alle bocche naturali”. All’epoca il rettore Marino Folin dichiarò “da tecnico voglio dire una cosa soltanto. Gli appalti sono già stati affidati, il progetto va avanti, i lavori stanno per cominciare. A questo punto è nostro dovere fare in modo che quelle opere siano le migliori possibili…. si tratta di intervenire sull'inserimento architettonico delle opere e sul loro uso… stiamo pensando a posti barca e ormeggi. Gli edifici per il controllo delle paratoie saranno interrati, con il verde in mezzo. Insomma, potrà essere un'occasione di valorizzare il territorio». Nello stesso periodo il comune, che non si dichiarava favorevole al Mose, avvia la costruzione della “sua” grande opera, il ponte di Calatrava. Nel 2004, il centro città d’acqua espone alla Biennale di architettura il padiglione flottante, un prototipo di piattaforma che può essere agganciata a qualsiasi isola della Laguna per ampliarne la superficie utilizzabile.

Oggi, se la trasformazione dei cinquantacinquemila ettari di Laguna in lotti fabbricabili con affaccio sull’acqua non è ancora avvenuta, l’idea dell’acqua come suolo è entrata nel senso comune e ipotesi di strade galleggianti, ponti e tunnell, recinti d’acqua, nuove isole vengono avanzate di continuo. Ormai compiuta, invece, è la conquista dei tre capisaldi della struttura urbana da parte delle forze di occupazione che li hanno trasformati nei loro quartieri generali.

Piazza san Marco è piazza delle Generali, Rialto è il ponte del Fontego e all’Arsenale si ventila l’idea di costruire un edificio (più grande del palazzo Ducale!) per i signori del Mose che hanno collocato davanti alle mura un mostro giallo recante l’etichetta Mose/VENEZIA. Una sorta di cavallo di Troia da cui ormai i nemici sono usciti per introdursi in città, distruggerla e ricostruirla a loro profitto, mentre la popolazione superstite, annichilita o dispersa, non reagisce quasi più.

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