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Qualenergia.it, 2 ottobre 2014

In Italia sta diventando tutto 'strategico'. Con il decreto-legge n. 133 del 12 settembre 2014, meglio noto come Sblocca Italia, (qui sintesi e testo) godono di questa definizione, per esempio, le operazioni di ricerca e sviluppo di risorse petrolifere nazionali e ogni infrastruttura riguardante l’approvvigionamento e lo stoccaggio del gas naturale. Perché questa mania 'strategica'? Perché se un impianto serve alla 'strategia' (ma quale?) del Paese, è evidente che interessi locali non si possono opporre alla sua realizzazione, visto che andrebbe contro il 'bene superiore' della collettività nazionale.

Così sorprende che lo Sblocca Italia abbia fatto diventare 'strategici' persino gli inceneritori di rifiuti, mentre l’unica vera strategia in fatto di RSU (rifiuti solidi urbani) è quella europea, che tratta questi impianti un po’ come “un male necessario”, mettendo al primo posto la riduzione della produzione di rifiuti, al secondo la raccolta differenziata e solo al terzo posto i termovalorizzatori (o alte forme di recupero energetico), preferiti solo alle discariche. Inoltre se l’Italia avesse veramente (i miracoli accadono) intenzione di rispettare le direttive europee, portando la quota attuale di raccolta differenziata del 41 al 65% dei rifiuti solidi urbani (30 milioni di tonnellate in totale), i nuovi inceneritori, più che strategici, potrebbero diventare obsoleti. Situazione che si sta in effetti verificando in paesi come Svezia e Olanda, dove gli inceneritori, affamati dalla raccolta differenziata locale, oggi devono importare rifiuti dall’estero.

«In realtà, a parte il Nord, l’Italia è piuttosto lontana dai migliori esempi europei», spiega a QualEnergia.it il professore di chimica dell’ambiente Luciano Morselli, dell’Università di Bologna. «Da noi il ricorso alle discariche è ancora altissimo, oltre il 40%, mentre in quei paesi sono state quasi eliminate. Quindi se vogliamo realizzare un sistema integrato di gestione sostenibile dei rifiuti, che comporti una drastica riduzione delle discariche, come previsto dall’Europa, degli inceneritori non si può fare ancora a meno. Anche perché bisogna considerare che è difficile spingersi oltre una quota di raccolta differenziata del 70-75% del totale dei rifiuti urbani e che non tutti i rifiuti raccolti in quel modo possono poi essere effettivamente recuperati: un 20-25% viene comunque scartato e avviato allo smaltimento, recupero energetico compreso».

C'è poi da considerare che l'incenerimento dei rifiuti produce scorie solide pari a circa il 10% in termine di volume e al 20-25% in termini di peso dei rifiuti bruciati, oltre a ceneri per il 5%. Si tratta in gran parte di rifiuti speciali e come tali vanno stoccati in adeguate discariche.

Ma, ammesso si riesca a costruire in Italia un buon sistema di gestione dei rifiuti, per la parte “residua”, irrecuperabile, non basterebbero comunque i 45 inceneritori già esistenti? "Quegli inceneritori trattano solo il 17,2% di RSU, e lo 0,7% degli speciali, non sarebbero quindi sufficienti a pianificare anche al centro e sud un sistema integrato sostenibile. Inoltre quegli impianti si trovano quasi tutti al Nord, e molte realtà locali si oppongono all’importazione di rifiuti da altre zone d’Italia. Lo 'Sblocca Italia' può quindi essere uno strumento per sbloccare le azioni necessarie a realizzare un sistema di gestione sostenibile, che comprenda anche il recupero energetico. In questo sistema, hanno una parte importante anche i Combustibili Solidi Secondari, derivati cioè da rifiuti, che possono alimentare impianti energivori, come i cementifici, sostituendo i combustibili fossili".

In realtà, proprio per permettere alle regioni più dotate di inceneritori di 'aiutare' quelle meno fornite, lo Sblocca Italia prevede una maggiore facilità di movimento dei rifiuti nel Paese, e specifica anche che gli impianti potranno lavorare a 'saturazione termica', cioè al massimo carico disponibile, azzerando il margine di circa il 30% finora tenuto. E questo, in effetti, ha già fatto insorgere il Governatore della Lombardia, Roberto Maroni, che teme un’invasione di rifiuti dal Sud.

"Questa transumanza dei rifiuti non dovrebbe proprio esserci, in effetti, in quanto ogni provincia dovrebbe creare i presupposti per smaltirsi in loco correttamente i propri rifiuti. Il problema è che al Nord hanno già tutto quello che gli serve per questo, alti tassi di raccolta differenziata, inceneritori e discariche. Molte regioni meridionali, invece, hanno finora usato essenzialmente solo le discariche, con i risultati che abbiamo visto in Campania e ora anche in Calabria, Sicilia e nella stessa Roma, via via che questi impianti si saturano e le popolazioni insorgono contro l’apertura di nuovi. Gli inceneritori, se non ci sono alternative, possono essere parte della soluzione in questi casi".

Secondo Waste Strategy, il think-tank su rifiuti e riciclo di Althesys, però, puntare sulla differenziata, piuttosto che sugli inceneritori, non solo rispetterebbe di più la strategia europea, ma creerebbe anche molta più occupazione a costi inferiori. Per dimostrarlo hanno considerato due scenari di sviluppo della raccolta differenziata; uno che ottimisticamente prefigura che entro il 2020 si arrivi ai livelli chiesti dalla UE, l’altro che si continui invece con il graduale attuale aumento, giungendo comunque al 2020 a una riduzione del conferimento in discarica di 4 milioni di tonnellate di rifiuti, rispetto ai 15 milioni attuali interrati.

Nel primo caso si passerebbe dalle 68.300 persone impiegate nel settore della differenziata, a 195.000, cioè si avrebbero 126.700 nuovi posti di lavoro, con un investimento in nuovi impianti di compostaggio e separazione di 16 miliardi di euro. Nel secondo caso, invece, l’aumento di occupazione si fermerebbe a 89.000 posti di lavoro e gli investimenti a 8 miliardi di euro. In entrambi i casi, gran parte di occupazione e investimenti finirebbe al Sud, dove la raccolta differenziata è molto più indietro.

Visto che un inceneritore medio come quello di Parma, al centro di tante polemiche, costa sui 300 milioni di euro e brucia 130.000 tonnellate l’anno, impiegando poche decine di persone, sembrerebbe che per trattare quei 4 milioni di tonnellate di rifiuti tolti dalle discariche dalla differenziata, nello scenario “minimalista” di Althesys, usando termovalorizzatori, servirebbero circa 10 miliardi di euro di nuovi impianti con una occupazione molto minore. Mentre sarebbero molto maggiori le polemiche e gli scontri con le popolazioni locali, dovute ai dubbi sulle emissioni dalle ciminiere.

«In realtà - rassicura Morselli - gli impianti di nuova generazione, se ben gestiti, hanno emissioni al camino di sostanze pericolose ridottissimi, fino a un centesimo o meno, per alcuni inquinanti, rispetto ad impianti anche solo di pochi anni fa. Gli impatti sulla salute, anche se non annullati, risultano quindi molto ridotti».

Per attenuare l’impatto sulla salute, però, gli attuali inceneritori sono diventati impianti molto complessi e costosi da costruire e gestire. E questo si è riflesso sulle loro tariffe: ogni tonnellata di RSU incenerita costa ai comuni intorno a 150 euro. Dato che la raccolta differenziata costa in media sui 198 euro/tonnellata ai comuni, apparentemente l’incenerimento è una scelta più economica. Ma in realtà gli inceneritori incassano denaro anche tramite gli incentivi all’elettricità prodotta bruciando i rifiuti, pagati da tutti in bolletta elettrica tramite il 'famigerato' Cip6.

Nel 2012 in Italia gli 810 MW dei termovalorizzatori, hanno prodotto 2,1 TWh elettrici da RSU considerati rinnovabili (sui 3,7 TWh totale, poco più dell’1% dei consumi italiani), incentivati con 390 milioni l’anno, ovvero 188 euro/MWh, o 126 euro/tonnellata (dati corretti riseptto alla prima versione pubblicata il 3 ottobre, ndr). Sommando tariffa + incentivi, i termovalorizzatori “bruciano” quindi circa 220 euro per tonnellata di Rsu (considerato che gli incentivi gravano solo su una parte del totale), superando il costo della raccolta differenziata, che ha anche un impatto più importante in termini di occupazione.

«È ormai evidente - conclude Morselli - che si andrà nel tempo verso una riduzione di discariche e di inceneritori, con una raccolta differenziata al 65-70%, perché se si comparano costi, opportunità di lavoro, impatto ambientale e accettazione della popolazione, tutto è favorevole alle quattro R 'Riduzione, Recupero, Riciclo, Riuso'. Ma nel frattempo consideriamo, per favore, cosa accade nei paesi europei più avanzati nella corretta gestione dei rifiuti, quelli che hanno già quasi azzerato le discariche: tutti accoppiano a un alto tasso di raccolta differenziata, uno di incenerimento quasi altrettanto alto. Per esempio, nel 2012: Austria: incenerimento 35%, riciclaggio/compostaggio 62%, Danimarca 52-45, Belgio 42-57, Germania 35-65. In Italia siamo ancora al 41% di discariche, 18% di incenerimento e 41% di riciclaggio/compostaggio. E’ evidente quale sia da noi il punto più carente, per avere un Sistema di gestione integrata dei rifiuti vicino ai migliori esempi europei».

Sarà così, ma proprio guardando le percentuali dei 'virtuosi' europei, non si capisce perché non si sia definita 'strategica' la raccolta differenziata, almeno quanto, se non di più, degli inceneritori.

«E' grave che un’amministrazione di differente cultura da quella che aveva approvato questi articoli, continui ad accettarli». Il governo regionale di centro sinistra convalida illegittimamente le scelte perverse della giunta di destra che l'aveva preceduta. Salviamoilpaesaggio.roma.it , 26 settembre 2014

Nel 2009 quando approvò il Piano casa che diede il via a quelli regionali, Berlusconi affermò che il provvedimento avrebbe fatto aumentare il Pil di 4 o 5 punti. Da allora è iniziata la più grave crisi del settore edilizio e, nonostante tutti gli sforzi di spianare la strada alla speculazione edilizia, la crisi si è ulteriormente aggravata. Molte regioni continuano tuttavia a credere nella capacità salvifica del piano casa. Tra di esse c’è la regione Lazio che vuole addirittura portare in approvazione una proroga dei termini di scadenza del Piano casa approvato sotto le giunte Marrazzo e Polverini.

Insomma, se il piano casa ha fallito i suoi obiettivi – e questa diagnosi vale per tutte le regioni italiane – la ricetta della giunta Zingaretti è quella di prorogare la legge fallita. Il fatto grave è che di fronte ad una crisi occupazionale imponente (l’edilizia italiana ha dimezzato il numero dei lavoratori dal 2008 ad oggi, altro che i quattro conque punti di pil) non si vuole prendere atto che siamo dentro una crisi strutturale. Si continua insomma a far finta di credere che la crisi edilizia sia congiunturale mentre invece siamo nel pieno di un passaggio epocale.

Nomisma ha stimato che esistono 700 mila alloggi nuovi invenduti: siamo evidentemente in una fase di sovraproduzione e di fronte a questo non c’è piano casa che tenga. Per far ripartire gli interventi urbani e l’edilizia occorrono provvedimenti coraggiosi e innovativi, finanziamenti pubblici adeguati e politiche per la realizzazione di alloggi a prezzi calmierati.

Cosa dice su questo tema fondamentale per far ripartire il sistema Italia il piano casa Zingaretti – Civita? Nulla. Afferma in primo luogo –prima tra le regioni italiane- che il piano casa deve restare ancora in vigore. Va sottolineato il fatto che alcune regioni italiane hanno ragionevolmente preso atto del fallimento e hanno rispettato la scadenza prevista lasciando scadere i propri piani casa.

La proposta di legge lascia inalterate le possibilità contenute nei precedenti dispositivi di consentire la variante automatica rispetto ai piani regolatori comunali. Si continua insomma a prevedere la possibilità che un proprietario di un edificio industriale ubicato in qualsiasi parte del territorio, anche quelle isolate dal contesto urbano o vicine a grandi infrastrutture di trasporto – e dunque aree che non dovrebbero essere abitate se vivessimo in un paese civile – possono diventare abitazioni.

Sono norme criminali ed è grave che un’amministrazione di differente cultura da quella che aveva approvato questi articoli, continui ad accettarli. Evidentemente la vita delle persone in carne ed ossa che andranno ad abitare in quei manufatti vale molto meno del guadagno che la speculazione immobiliare si metterà in tasca.

Al riguardo, a ulteriore conferma della insensibilità sociale che accomuna la politica che governa la regione Lazio, nella legge sono state mantenute anche le facilitazioni agli speculatori in materia di attuazione dei servizi pubblici obbligatori.Quando infatti un promotore dell’operazione speculativa non ha la possibilità di realizzare i servizi previsti dalle leggi, viene lasciata la possibilità di monetizzare questo diritto pagando al comune una modesta cifra. Diritti universali barattati con una monetizzazione. Chi ha confermato questa legge dovrebbe conoscere le legislazioni delle nazioni europee che non sono ancora giunte al nostro livello di barbarie culturale.

E così veniamo al punto maggiormente dolente della legge, dopo quello della cultura della deroga urbanistica, e cioè quello di fingere che con gli aumenti di cubatura concessi si possano ottenere case “sociali”. Visto insomma che nessuno può negare che venti anni di deregulation abbiano prodotto una grave crisi abitativa per le famiglie a basso reddito e per i giovani, si continua ad ingannare la popolazione inserendo nella legge che una percentuale delle maggiori volumetrie strappate dalla speculazione edilizia dovranno essere destinate ad alloggi in affitto a importo calmierato.

Sono due le osservazioni che devono essere fatte su questo punto. Ad oggi non c’è nessun esempio di applicazione di questa norma e nessun alloggio a canone calmierato è stato immesso sul mercato. Ma il legislatore regionale non prende atto del fallimento e continua a prevedere questa possibilità. Ma una seconda osservazione è ancora più importante. Ammesso che questa norma funzioni essa metterebbe sul mercato alloggi a canone meno esoso del mercato libero ma pur sempre indirizzati a coloro che possono permettersi di pagare un affitto, e cioè a famiglie che percepiscono almeno un reddito sicuro. Le fasce giovanili e le famiglie più povere sono escluse da questo provvedimento e sono condannate ad una vita di precarietà abitativa, a coabitazioni o a trasferirsi lontano da Roma, dove i valori immobiliari sono più modesti.

La filiera della realizzazione di alloggi pubblici è come noto stato abbandonato da anni. Non vengono previsti finanziamenti o agevolazioni ai comuni per acquistare aree edificabili. Nelle città c’è un unico attore: l’iniziativa privata. Intorno ad essa è stata costruita in questi ultimi due decenni una cortina fumogena di retorica e ideologia. Si era sostenuto infatti che la cancellazione delle regole e dei finanziamenti pubblici avrebbe rimesso in moto le città. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: mancano case per le fasce sociali povere e c’è un mare di abitazioni invendute destinate ad un altro segmento di domanda.

Italo Insolera nel suo ultimo periodo di vita affermava che con la cultura dei piani casa era stata cancellata per sempre la pianificazione urbanistica dal nostro paese. Aveva ragione: nel prorogare il provvedimento, la regione Lazio si assume una enorme responsabilità poiché si pone come la punta d’esempio negativo che verrà imitato da altre regioni. Per qualche speculazione del ristretto circolo dei soliti noti la regione Lazio si colloca dunque come battistrada della cultura delle deroga urbanistica che è la vera ragione della nascita dei piani casa.

Trattandosi della Regione la cui capitale è Roma è proprio il caso di dire:quello che non fecero i barbari lo fecero i Barberini. In termini odierni, ciò che non fece la destra-destra lo sta facendo quello che ancora si definisce ilcentrosinistra. Non solo in Italia, anche nel Lazio.

La prossima settimana al Consiglio Regionale del Lazio entra nel vivo il dibattito sulle modifiche apportate dalla Giunta Zingaretti al famigerato “Piano casa” della ex maggioranza di centrodestra guidata da Renata Polverini e del suo assessore Luciano Ciocchetti, la Proposta di legge 75, che riguarda prevalentemente gli aspetti urbanistico-edilizi del provvedimento, dato che la parte “a rischio incostituzionalità”, che aveva gravi ricadute sull’ambiente (1), è già stata riformata all’inizio di agosto.

L’assessore all’Urbanistica Civita e l’attuale maggioranza regionale di centrosinistra hanno già annunciato l’intenzione di prorogare ulteriormente il “Piano casa” ben oltre la sua naturale scadenza, a oggi il 31 gennaio 2015. Sarà quindi ancora vigente a lungo un provvedimento che sembra un vero e proprio “apripista” della filosofia abbracciata dal governo Renzi (PD) con lo “Sblocca Italia” e con la legge urbanistica a cui sta lavorando il ministro Lupi (NCD): quella dello scardinamento delle regole e del ridimensionamento del ruolo del soggetto pubblico nelle trasformazioni del territorio, lasciando le mani sempre più libere all’iniziativa privata.

Una filosofia, nella teoria e nella pratica, in totale continuità con quella del governo regionale di destra, come le modifiche dell’assessore Civita alle modifiche che l’assessore Ciocchetti aveva introdotto sull’originale “Piano Casa” della precedente giunta di centrosinistra Marrazzo, approvato nel 2009 in seguito all’Intesa Stato - Regioni da cui sono scaturite le diverse versioni regionali.

E cominciamo da qui, da quell’Intesa che non è mai diventata una legge nazionale (nonostante lo prevedesse). Un’Intesa che, «con l’obiettivo di rilanciare l’economia, rispondere ai bisogni abitativi delle famiglie, promuovere la semplificazione procedurale dell’attività edilizia», introduceva la possibilità di un limitato ampliamento di «edifici residenziali uni-bi familiari» o nell’ambito di «interventi straordinari di demolizione e ricostruzione». Indicazioni abbastanza precise (sebbene infarcite di «preferibilmente» e «salvo diverse determinazioni regionali»), che stabilivano anche una durata “comunque non superiore a 18 mesi», a riprova che si trattava di un provvedimento straordinario (infatti è già decaduto in molte Regioni).

Il Lazio di Marrazzo e molte altre Regioni a guida centrosinistra emanano leggi che seguono le indicazioni ell’Intesa, mentre nelle Regioni governate dal centro destra, come il Veneto, si cominciano invece a introdurre forzature che raggiungono l’apice con le modifiche apportate in due riprese (2011 e 2012) dalla giunta Polverini, c corrispondenti a una vera e propria “mutazione genetica” delle intenzioni dell’Intesa. Se siamo ancora qui a parlarne, è perché il centrosinistra, oggi di nuovo al governo del Lazio, ha cancellato dal “piano casa” Polverini solo gli aspetti più madornali, tenendosi stretti molti di quegli articoli contro cui, quando era all’opposizione, aveva fatto barricate e addirittura minacciato referendum popolari.

Vediamo i punti essenziali del salvataggio compiuto dal centrosinistra di Zingaretti delle aberrazioni introdotte dal centrodestra della Polverini.

L’aspetto più grave, che aveva sollevato le critiche più aspre anche da parte di quelli che oggi acconsentono o tacciono, è la possibilità di derogare agli strumenti urbanistici ed edilizi comunali, cancellando ogni possibilità di valutazione da parte delle istituzioni locali, sulla base dell’interesse pubblico e delle ricadute degli interventi sui territori. E questo nonostante l’Intesa dicesse chiaramente che le leggi regionali di applicazione del “Piano Casa” dovevano essere scritte «in coerenza con i principi della legislazione urbanistica ed edilizia e della pianificazione comunale» (2).

Ma la norma non consente solo di scavalcare “in automatico” qualsiasi pianificazione pregressa: se sarà prorogata, permetterà di rimettere in discussione, rendendoli di fatto carta straccia, anche i progetti in corso e addirittura appena approvati, che potranno essere rimodulati nella direzione del maggiore profitto del privato anziché della pianificazione e dell’utilità pubblica. Infatti il “Piano casa“Polverini/Zingaretti (chiamiamo così il testo risultante dalle “correzioni” apportate sul testo precedente) prevede aumenti di cubature e cambi di destinazione d’uso anche per edifici « di nuova costruzione», cioè case che non esistono. Una possibilità che non era contemplata dall’Intesa, e che non è prevista in nessun’altra Regione d’Italia. E rientrano nel “pacchetto” anche gli “accordi di programma” la cui contropartita in opere pubbliche, con il “piano casa”, potrà essere più o meno completamente azzerata (3). Un altro articolo, introdotto nel 2012 dall’assessore Ciocchetti e rimasto nella nuova versione Civita, permette addirittura i cambi di destinazione di edifici dismessi, da “uso non residenziale” - ad esempio uffici - ad «altro uso non residenziale» - ad esempio centri commerciali. E naturalmente sempre «in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici ed edilizi comunali vigenti o adottati».

Certo, la proposta di legge 75 qualcosa ha migliorato. Soprattutto è stato cancellato un comma che regalava all’ “ultimo arrivato” una premialità del 10% della somma di tutte le cubature di un piano particolareggiato, anche di quelle non sue. (4)Ma non ci sembra il caso di rendere merito a chi ha cancellato una simile norma, che non ha nessun precedente né giustificazione. Sarebbe stato una follia non cancellarla.

Ci fermiamo qui, anche se l’elenco potrebbe continuare. E concludiamo con due considerazioni generali.

La prima: tira una brutta aria per la tutela del patrimonio collettivo, per il diritto a città vivibili e per un governo democratico e partecipato del territorio. Quando i provvedimenti (e gli slogan) si infarciscono di “deroga”, “semplificazione”, “emergenza”, “urgenza”, “silenzio assenso” e anche “rilancio dell’edilizia” con corredo di “posti di lavoro”, sappiamo mestamente dove si vuole andare a parare.

La seconda: questa vicenda – se mai ce ne fosse stato bisogno – è una efficace cartina di tornasole di quanto possa essere mal riposta la fiducia dei cittadini nella coerenza di chi pretende di rappresentarli. E’ assai lungo l’elenco di quelli che hanno lanciato anatemi contro gli articoli del “Piano casa“Polverini e che oggi non pronunciano verbo contro gli articoli/fotocopia del Piano Zingaretti. A parte il gruppo romano di SEL, che ha preso le distanze in questi ultimi giorni, nessun segnale è giunto da quegli esponenti del Partito Democratico che pure si erano spesi parecchio, a partire dai deputati Meta e Morassut, che nel 2011 annunciavano referendum contro una legge incostituzionale «che stravolge i piani regolatori votati sovranamente dai Comuni» (5). E destano incredulità le affermazioni dello stesso Michele Civita, quando era assessore all’Urbanistica alla Provincia di Roma, riportati dal sito della Provincia, «Il Piano Casa…danneggia sia chi è impegnato a pianificare uno sviluppo sostenibile del territorio, ma anche chi vuole avviare trasformazioni seguendo le regole. Si tratta di una deregulation del mattone…» . E non si è ancora espresso l’Istituto di Urbanistica del Lazio che pure, sempre nel 2011, in un documento approvato all’unanimità, scriveva a proposito del “piano casa” «questa legge costituisce un grave strappo nell’impianto giuridico italiano, comprime l’autonomia decisionale dei Comuni e compromette le loro politiche ordinarie; induce fenomeni incontrollati ed imprevedibili nei loro effetti sul territorio»…

Finora sono stati inutili tutti gli emendamenti, le proposte e gli appelli che abbiamo inviato da un anno a questa parte a chi ha, e aveva, il potere di intervenire. E il tema, a differenza delle polemiche sul Piano Polverini, non ha raggiunto l’opinione pubblica, dato che la maggioranza dei giornali - che a Roma danno voce ai cittadini sui rifiuti e sulle buche stradali, ma quasi mai sulle questioni che incidono profondamente sulla vita della città - non ha ritenuto interessante l’argomento.

E anche se i nostri comitati non sono del tutto soli - con noi la volenterosa opposizione Cinquestelle, di tanti rappresentanti dei Municipi e anche di militanti dei partiti, SEL e PD - è ancora troppo poco per una battaglia che temiamo persa in partenza. Ma la combattiamo lo stesso. Perché se non resistiamo, la strada verso la deregulation diventerà un’autostrada. E soprattutto perché le battaglie si combattono perché sono giuste: se chi ci ha preceduto avesse combattuto solo le battaglie che era sicuro di vincere, oggi ci sarebbe rimasto ben poco…

Note
(1) La legge Polverini è stata impugnata davanti alla Corte Costituzionale da ben due ministri, Galan e Ornaghi. il provvedimento di Zingaretti, che avrebbe dovuto “sanare” le parti a rischio incostituzionalità, con implicazioni devastanti per la tutela dell’ambiente, è stato approvato solo il 6 agosto 2014, dopo un anno e mezzo dall’insediamento della nuova maggioranza, e quasi un anno dopo la richiesta di rinviare “a data da definire” l’esame della Consulta, impedendo così a un’eventuale pronuncia sfavorevole di fermare molti sciagurati interventi grazie alla retroattività della sentenza.
(2) Prendiamo ad esempio la vicenda della cosiddetta “Città del Gusto” nel quartiere Portuense di Roma, un complesso che comprende una multisala cinematografica, la “Città del Gusto” (un centro polifunzionale con scuola di cucina, studi televisivi etc) oltre ad un parcheggio multipiano, un ambulatorio ASL e un supermercato. Grazie al “Piano casa” i proprietari hanno avuto il permesso di demolire e ricostruire la struttura esistente con un cospicuo premio di cubatura, trasformando in appartamenti e negozi le precedenti destinazioni al servizio della collettività. Con la conseguenza che sarà incrementata la densità demografica e saranno ridotti drasticamente gli spazi destinati a pubblica utilità in uno dei quartieri più densamente edificati di Roma, senza che né Comune né Municipio possano eccepire alcunché.
(3) Ne è un esempio il Mercato Appio in costruzione nella zona dell’Alberone a Roma, un accordo di programma, dove il costruttore privato ha già chiesto di avvalersi del Piano per convertire una parte delle previste strutture commerciali, complementari al mercato rionale, in appartamenti. Si tratta di una superficie non enorme (500 mq) ma è comunque un’operazione che contraddice completamente, annullandola, la logica alla base di interventi di questo tipo. Significativo anche l’esempio sollevato dal Presidente dell’XI Municipio Veloccia mesi fa, che riguarda la fabbrica ex Buffetti alla Magliana, dove era previsto un piano con parti residenziali a cui erano affiancate strutture pubbliche – una piazza e un auditorium – in una zona completamente sprovvista di teatri, e povera di spazi pubblici attrezzati – che rischia di trasformarsi in appartamenti e locali commerciali.
(4) In sostanza, il proprietario, o l’acquirente, di un’area oggi inedificata compresa all’interno di un piano particolareggiato, magari ormai decaduto, che prevedeva nel suo complesso una cubatura realizzabile di Xmila mc,poteva costruire nell’area un determinato volume incrementato di una sorta di ‘bonus di ammontare pari al 10% dell’intera cubatura realizzata nell’ambito di quel piano.
(5) Si veda l’articolo di Repubblica del 5 agosto 2011: Morassut: "Il “Piano casa“è una legge-scempio. I cittadini la cancelleranno con un referendum"

L’autrice è portavoce di Carteinregola, che insieme a Cittadinanzattiva Lazio Onlus, Italia Nostra Roma, Legambiente Lazio, Forum Salviamo il Paesaggio Roma e Provincia, Vas Roma, Unione inquilini, organizza un’assemblea cittadina “La città è la nostra casa – no alla proroga del “Piano casa“Polverini/Zingaretti” il 22 settembre alle 17.30 al Cinema Tiziano (Flaminio) e un presidio al Consiglio Regionale il 23 settembre alle 14

Artribune, 16 settembre 2014, con postilla
Era un privilegio assistere ad una lezione di BernardoSecchi (1934-2014). Secchi scolpiva le sue lezioni e poi lesmerigliava con una pasta fatta di deduzioni logiche e per ultimo lelevigava con dosatissimi ammiccamenti che non scendevano mai nellaconfidenzialità a ribasso. Secchi possedeva anche quella leggerasprezzatura vanitosa senza la quale non può esistere il granderetore. Le sue argomentazioni erano un sapiente bilanciamento tra lasequenza logica dell’illuminismo padano e le iperboli ellittichedei filosofi francesi.

Sentendolo con attenzione si capiva la sua duttile retorica:quando la concatenazione logica illuminista diventava troppo serratae quindi sul punto di gripparsi, Secchi la ribaltava con ilrelativismo dei vari Foucault o Deleuze, e quando questo relativismoera sul punto di evaporare nelle sue stesse circonvoluzioni, allorafluidamente tornava al razionalismo riduzionista. Non si poteva nonrimanere affascinati da come Secchi gestiva questo pendolo retoricoche ipnotizzava.

La vera seduzione si attua nei confronti di coloro i quali lapensano diversamente. Per quel che mi riguarda, non amo il pensierorelativista dei francesi e considero il principio secondo il qualeesistono solo interpretazioni persino pernicioso. Per di più detestoquella città diffusa su cui si è fondata da decenni la peraltroacuta analisi di Bernardo Secchi e considero i cosiddetti “pianidi terza generazione”, propagandati dagli Anni Ottanta daSecchi nei suoi editoriali su Casabella, molto menoacuti di quanto si sarebbe potuto supporre. In definitiva consideroche il pensiero debole alla Vattimo di cui si è nutrital’urbanistica di Secchi abbia prodotto un’urbanistica un po’troppo debole, troppo in libertà vigilata rispetto allafenomenologia.

Eppure le lezioni di Bernardo Secchi erano uno spettacolocatturante: tornivano anche chi come me afferiva a un altro mondo e ti tornivano perché raccontavano di una cultura alta e chiara,persino accessibile: una cultura alla quale dagli Anni Settanta erasubentrata una cultura di segno opposto: bassa e confusa, pop mainaccessibile nelle sue finalità.

Secchi aveva stile. Non credo che avrebbe amato questa miaaffermazione idealista, ma per me Bernardo Secchi era un magisterelegantiarum. Il suo stile era sobrio, velatamente scettico,intriso da un senso del decoro mai ostentato ma mai celato, qualitàqueste che gli permettevano di vedere le cose a volo d’uccello. Edè proprio questa capacità di vedere le cose a volo d’uccello, divedere l’architettura come parte di un contesto sempre più ampio,ciò che Secchi lascia all’architettura italiana.

Penso che Secchi e con lui Paola Viganò abbianoinfluenzato notevolmente lo stile dell’architettura italiana degliultimi anni. Sono stati artefici di un processo di avvicinamentodell’architettura all’urbanistica e dell’urbanisticaall’architettura senza il quale oggi non avremmo le architetturedi Cino Zucchi o di Stefano Boeri o l’azionecritica di Mirko Zardini o di studicome +Arch, Metrogramma e Barreca e Lavarra.Nonè poco per un urbanista influenzare l’architettura. Forse è ilmassimo a cui egli possa aspirare.

postilla

L’intelligenza di Bernardo Secchi e il ruolo che ha svoltonell’urbanistica e nella società italiane non consentono, nelricordarlo, di limitarsi all’agiografia. Significherebbe tradireuna parte rilevante del suo lascito, che è lo stimolo continuo aesercitare lo spirito critico. Un ritratto di un personaggio tale dameritare un ritratto non può essere fatto solo di luci: anche leombre devono essere tracciate. Questo di Mosco è il primo scritto(tra quelli che ho letto) che comincia a lavorare su un ritratto chesi avvicina al vero. Personalmente ne condivido la maggior parte,sebbene nel loro insieme mi sembra che manchino molte delle luci chenel suo lavoro mi sembrano balenare.
Il punto sul quale nonconcordo con Mosco è sulla questione del rapporto tra urbanistica earchitettura. Mosco scrive «non è poco per un urbanista influenzarel’architettura. Forse è il massimo a cui egli possa aspirare». Iopenso che ciò al quale l’urbanista deve aspirare è influenzare lasocietà. E penso che se l’urbanista deve porsi (come deve) anche l’aspirazione a “influenzare l’architettura” devefarlo assumendo un compito riassumibile nel titolo delle lezioni diCarlo Melograni: “progettare per chi va in tram”. (e.s.)




Agenparl, 16 settembre 2014
Scompare un grande analista della realtà urbana contemporanea
di Giovanni Caudo


La scomparsa di Bernardo Secchici porta via un grande analista e conoscitore della condizione urbanacontemporanea. Un docente che ha saputo costruire una scuola e che ha ottenutoimportanti riconoscimenti nel mondo. Secchi è stato l’unico italiano inseritonella prestigiosa commissione internazionale costituita dal presidente Sarkozy per il progetto Grand Paris 2050”. E’ quanto dichiara l’Assessore allaTrasformazione Urbana di Roma Capitale Giovanni Caudo. “Recentissime eranole sue ricerche che parlano di piani per le città a basso consumo energetico inscenari “no car” (Bruxelles 2040) – ha aggiunto Caudo – con areemetropolitane sempre più attraversate dal trasporto pubblico, da piste ciclabili,percorsi pedonali piuttosto che da automobili”. L’Assessore allaTrasformazione Urbana di Roma Capitale, Giovanni Caudo lo ricorda, inoltre,nella sua veste di docente di urbanistica “per il suo saper narrare ai giovanistudenti la condizione urbana contemporanea e per la sua eredità, dicinquant’anni di lavoro, che resterà nei suoi scritti e nell’impronta che seppedare alla direzione di Urbanistica”.

Abitare, 16 settembre 2014
Addio a Bernardo Secchi
di Stefano Boeri

Ho saputo che poche ore fa è morto Bernardo Secchi dopo una brevemalattia.
 Sono passate solo alcune settimane da quando tutti insieme loabbiamo festeggiato in Triennale per il suo 80° compleanno. È stata una serataspeciale, un momento di confronto attraverso una conversazione che ha tenutocon Arnaldo Bagnasco e Salvatore Veca su La città dei ricchi e la città deipoveri, il suo ultimo libro. Ma è stata anche un’occasione di riflessioneosservando i tanti allievi che si erano radunati intorno al vecchio maestro;allievi diversi per età e soprattutto per cultura, per formazione, per sceltedi vita. 
Mi sono chiesto più volte le ragioni di questa diversità.

La risposta è semplice: i veri Maestri non costruiscono repliche di séstessi; insegnano un metodo – del tutto particolare – per aiutare ciascuno avalorizzare le proprie propensioni e le proprie passioni intellettuali.
 Questoha fatto con tutti noi Bernardo Secchi. Ci ha trasmesso una rete di concetti,una serie di strumenti per costruirci la nostra prospettiva sul mondo. Non ciha dato soluzioni, non ha costruito teorie chiuse. Ci ha lasciato dubbi eaperto nuovi scorci sul mondo. È il regalo più grande che poteva farci. Unpatrimonio che ora in tanti condividiamo e continuiamo a trasmettere ad altri.Anche per questo, grazie Bernardo.

Il Corriere della Sera, 16 settembre 2014
Bernardo Secchi, la città come territorio di integrazioni
di Pierluigi Panza

«Io sostengo che l’urbanistica abbia forti e precise responsabilità nell’aggravarsi delle disuguaglianze e che il progetto della città debba essere uno dei punti di partenza di ogni politica tesa alla loro eliminazione o contrasto». Questo ultimo messaggio, contenuto in La citta dei ricchi e la città dei poveri, è un po’ l’eredità dell’urbanista Bernardo Secchi, scomparso ieri. «Le disuguaglianze sociali - diceva - sono uno dei più rilevanti aspetti della nuova questione urbana e questa è una causa non secondaria della crisi che oggi attraversano le principali economie del pianeta».
Professore emerito di Urbanistica allo Iuav di Venezia, Secchi si era laureato a Milano dove era stato preside della Facoltà di Architettura del Politecnico dal 1976 al 1982. Aveva insegnato anche nell’École d’Architecture di Ginevra, nell’Università di Lovanio, Rennes, di Zurigo e nell’Institut d’Urbanisme di Parigi.
Architetto colto e studioso anche di filosofia, negli anni Ottanta formò con Vittorio Gregotti e Manfredo Tafuri una triade che segnò l’insegnamento a Venezia. Partecipò alla redazione del nuovo piano regolatore generale di Madrid e a quelli di alcune città italiane, da quello della Bicocca a Milano a quello di Civitanova Marche. Progettò la piazza del teatro e il parco di Spoor Noord ad Anversa, gli spazi pubblici nel centro di Mechelen e il centro educativo di Hoge Rielen. Nel 2008 divenne capogruppo, insieme a Paola Viganò, di una delle dieci équipe selezionate dal Ministero della cultura francese (gli era stata conferita anche la Légion d’honneur) per studiare il futuro di Parigi, incarico al quale seguirono quelli per Bruxelles 2040 e per la Nuova Mosca. Fondatore di «Archivio di Studi Urbani e Regionali», Secchi collaborò con «Casabella» e diresse «Urbanistica».
Città diffusa e architettura come somma di differenze erano sue parole chiave. La tesi di fondo di Secchi era che ogni volta che la struttura dell’economia e della società cambiava anche la questione urbana andava riformulata. E oggi l’idea di città andava riformulata a partire dalle forme di ingiustizia spaziale causate dalle disuguaglianze sociali, dai temi connessi al cambiamento climatico e dai problemi legati alla mobilità. Sostenitore, a tratti ideologico, del multiculturalismo, insegnava che nelle culture occidentali la città era sempre stata spazio dell’integrazione sociale, luogo dove i diversi entravano in contatto e si conoscevano.
Anche a causa dell’estremizzarsi di queste posizioni, alcune sue dichiarazioni suscitarono polemiche, come quando a Prato sostenne la validità della trasformazione socio-urbanistica avviata dalle comunità cinesi. O come quando sostenne la bontà di collocare nel territorio altissime pale eoliche perché non solo non rovinano un paesaggio, ma sono stilisticamente perfette.
Fondatore del primo dottorato di urbanistica a Venezia, è stato «maestro» di molti attuali docenti e di diversi assessori. A Milano l’ultimo intervento pubblico è stato nell’aprile scorso, alla Triennale, con Arnaldo Bagnasco e Salvatore Veca per suoi 80 anni.

Fra le sue pubblicazioni (anche tradotte) ricordiamo Squilibri regionali e sviluppo economico (Marsilio, 1974), Il racconto urbanistico (Einaudi, 1984), Un progetto per l’urbanistica (Einaudi, 1988) e Prima lezione di urbanistica (Laterza, 2000).

La Repubblica, 17 settembre 2014
Bernardo Secchi l’urbanistica come letteratura
di Francesco Erbani

Qualche tempo fa – l’ha raccontato lui stesso durante una conferenza – Bernardo Secchi ha tenuto un breve corso di urbanistica a Venezia. Cinque i libri in bibliografia («libri di urbanistica», specificava): L’isola del tesoro, «perché le carte dicono sempre le bugie», Moby Dick, «perché la nostra è una ricerca continua di cui possiamo anche restar vittime», I viaggi di Gulliver , «perché dobbiamo sempre aver chiaro il senso delle scale alle quali lavoriamo», Robinson Crusoe , «perché il futuro lo costruiamo quotidianamente», e Don Chisciotte, «perché oltre al buonsenso e al realismo di Sancho Panza, c’è la ricerca dell’utopia, la sola cosa che nella vita ci può motivare».
Bernardo Secchi è morto lunedì a 80 anni. Era uno dei maestri dell’urbanistica italiana, maestro nel dialogo fra discipline – fra le quali la letteratura, la filosofia – che convergevano a riflettere sul modo migliore di disegnare, in tutto o in parte, l’assetto di una città e di un territorio. Uomo profondamente colto, Secchi era maestro anche nel senso proprio, avendo costruito negli anni una scuola e impresso una specie di segno di riconoscimento ai suoi allievi. Era laureato in ingegneria, aveva insegnato a Milano e a Venezia e poi a Ginevra, a Lovanio, a Zurigo e tenuto corsi ad Harvard. Ha realizzato piani regolatori in molte città italiane (Prato, Siena, Ascoli, Bergamo, Pescara...). Ha lavorato ad Anversa. Nel 2008, insieme a Paola Viganò, ha fatto parte del gruppo di professionisti chiamati da Sarkozy per la “Grande Parigi”: la sua idea era condensata nel titolo del progetto, “La città porosa”, che richiamava l’immagine di un luogo permeabile e accessibile a tutti, la principale condizione – diceva – perché si possa garantire a ognuno il diritto di cittadinanza.
L’esperienza parigina aveva prodotto una carta in cui si individuavano i tanti dispositivi infrastrutturali o architettonici che accentuavano le disuguaglianze. L’urbanistica, spiegava Secchi, non può sconfiggere la povertà, ma può evitare di accrescerla, scongiurando il formarsi di enclave dove questa si concentra e rendendo la città, appunto, accessibile a tutti. Lo scorso anno Secchi ha scritto La città dei ricchi e la città dei poveri ( Laterza), un libro in cui si dicono molte cose di sinistra. La città, si legge, è stata dagli albori della civiltà urbana, lo spazio dell’integrazione sociale e culturale.
Negli ultimi decenni del ventesimo secolo, però, è sorta una nuova, insidiosa questione urbana: la città è diventata «potente macchina di sospensione dei diritti dei singoli e dei loro insiemi». Una potente macchina che si immaginava regolata dal mercato e che ha invece aumentato le disuguaglianze. Fattore d’integrazione è un buon sistema di trasporti, ma non quello che è nella mente di molta ingegneria e di molta politica – le Grandi Opere: autostrade, autostrade urbane, metropolitane, treni veloci – bensì le “spugne”, una rete capillare che irriga la città e consente davvero a chiunque di muoversi in tutte le direzioni.
Fattore d’integrazione, insisteva Secchi, è lo spazio aperto che è prodotto di buona architettura e non d’ingegneria stradale. Le sue esperienze culturali e di insegnamento (curato negli ultimi anni con singolare generosità) sono troppo vaste per essere anche solo brevemente sintetizzate. Molti evidenzieranno la lettura attenta, analitica dei processi che investono la città contemporanea. Altri i suoi studi, anche controversi e fonte di discussioni, sui tessuti urbani da ricucire, sulla città diffusa, sulla dispersione abitativa o sui limiti di un’architettura che cerca esasperatamente le differenze, il brand e che esalta la frammentazione della città. E appena si può accennare alla lista dei suoi compagni di lavoro e di università – Vittorio Gregotti, Francesco Indovina, Paolo Ceccarelli...

«Una norma di semplificazione, sbandierata ai quattro venti dal Presidente del Consiglio è scomparsa dal decreto Sblocca Italia e nessuno ne sa più nulla». Naturalmente si tratta dell'unica norma positiva

Una norma di semplificazione, sbandierata ai 4 venti dal Presidente del Consiglio e di indubbia utilità è scomparsa dal decreto Sblocca Italia e nessuno ne sa più nulla e che avrebbe costituito una vera semplificazione, disboscando la immensa giungla di norme, codicilli, commi, regole, definizioni tutte diverse da comune a comune che rendono da una parte impossibile a cittadini, tecnici e imprese di raccapezzarsi in tale mare magnum e agli amici degli amici di lucrare perché per ragioni "vicinanza" ad uffici e livelli politici sono gli unici ad avere la "interpretazione giusta". Per non parlare degli incarichi e consulenze appannaggio di coloro che scrivono tali montagne di norme e commi e ai quali poi occorre sempre rivolgersi per interpretazioni e consulenze.

I Verdi ritengono che proprio queste lobby abbiano operato perché non venga loro sottratta una immensa possibilità di guadagno, lobby che sicuramente hanno potuto contare sui sostenitori del federalismo, delle Regioni, dei sostenitori di tutti i localismi nonché delle bande di corrotti e corruttori che in tale marasma sguzazzano indisturbati.

Negli ultimi anni il tema della semplificazioni nella materia edilizia, iniziata con l'introduzione della DIA, ha subito una notevole quantità di modifiche, anche in sede regionale, senza che tutte le semplificazioni introdotte abbiano saputo rispodere a diverse fondamentali esigenze volte a garantire la semplicità degli adempimenti, tempi certi per ottenere risposte dalla P.A, uniformità in tutto il territorio nazionale delle procedure, eliminare la discrezionalità e quindi ridurre gli spazi per la corruzione, disporre di norme semplici, chiare, inequivocabili, che non necessitino di “interpretazione autentica”, tutelare meglio il territorio.

Nonostante gli sportelli unici, le autocertificazioni, il silenzio assenso ecc. tutti gli sforzi compiuti non hanno portano a risultati apprezzabili, anzi ogni innovazione è stata prontamente utilizzata per aumentare gli spazi di incertezza e aumentare le complicazioni, senza che gli interessi di carattere generale quali quelli della tutela e del buon governo del territorio o della sicurezza nelle opere siano soddisfatti. Si è trattato di finte semplificazioni perché esse hanno cozzato con gli interessi delle diverse lobby, interessate a mantenere le posizioni di privilegio conquistate e con l'ubriacatura federalista che unita (ricordate) con l'indimenticato slogan dell'era Lunardi «padroni in casa nostra» ha creato il più imponente groviglio che si ricordi.

Ogni modifica introdotta, ogni così detta. semplificazione non ha prodotto effetti positivi e ciò che aumenta sono solo le motivazioni con cui si cercano di giustificare l’abusivismo o lo spazio di discrezionalità dei ruoli di potere derivanti dalla interpretabilità delle norme, la frammentazione da luogo a luogo delle procedure e delle modalità di intervento.

Nel frattempo sono venuti meno i controlli: i pochi tecnici che restano nei comuni sono impegnati a fornire interpretazioni su norme tecniche complesse e farraginose costituite da centinaia di pagine. Ad esempio in Emilia Romagna, per effetto della legge urbanistica regionale vigente in un piccolo comune abbiamo 250 pagine circa di RUE, 250 pag. di POC e 250 pagine di così detto Piano Strutturale senza dimenticare che la L.R. 31 del 2002, inoltre, prevede la conformità dei progetti con la pianificazione sovraordinata (Piano Paesistico, Piano territoriale Provinciale, Piano del Parco, codice dei BBCC. ecc).

Molto si sarebbe potuto fare, ad esempio cominciando con lo stabilire che la disciplina delle autorizzazioni edilizie non è materia di competenza concorrente, dovendo essere omogenea in tutta Italia, senza le molteplici declinazioni procedurali inventate dalle Regioni e quindi dovrebbe essere sottratta alla potestà legislativa regionale e ancor di più alla sua declinazione locale: ciò consentirebbe a imprese, tecnici e investitori di poter operare con un unico quadro normativo-regolamentare senza dover ricorrere a “esperti” locali, depositari della conoscenza degli usi e costumi dei luoghi.

Da ultimo il Governo dovrebbe emanare per tutte le regioni d'Italia un regolamento edilizio unico , con un numero ridotto all'essenziale di articoli, adottando linguaggi giuridicamente e tecnicamente chiari e in equivoci, facendo una vera opera di semplificazione.

Dopo l'annuncio abbiamo assistito invece alla scomparsea di una norma assai utile mentre sono rimaste e, rispetto alle iniziali stesure, sono peggiorate tutte le norme che riguardano il buon governo del territorio e la sua tutela, a tutto vantaggio degli speculatori immobiliari.

Huffington Post, 1° settembre 2014

Più che ad un piano di misure rivoluzionarie per "sbloccare" l'Italia, per liberarne energie e talenti, somiglia a una desolante confessione d'impotenza e di mancanza di idee. Lo "sblocca-Italia", di sicuro il decreto legge più annunciato della storia repubblicana, per prima cosa non esiste. Nel senso che non c 'è un testo, un articolato, ci sono solo intenzioni e promesse tanto ambiziose quanto generiche e cangianti: qui, nel metodo, si vede l'apoteosi di un malcostume che il governo Renzi condivide con molti suoi predecessori ma che mai, francamente, aveva toccato vette così smaccate. Da mesi il governo annuncia e riannuncia questa rivoluzione, senza mai dare finora i cittadini, all'opinione pubblica la possibilità di giudicare sulle norme scritte anziché su qualche slide o peggio sulle battute del presidente del consiglio.

Per lo sblocca-italia si è arrivati al punto che l'ennesimo "annuncio", a luglio, veniva mascherato come l'apertura di una grande consultazione. Con chi? Con quali risultati? Non è dato saperlo. Certo il Governo non deve avere dato molto retta a Legambiente che gli aveva indicato, nel dettaglio, oltre 100 opere davvero utili da sbloccare, visto quanto si sono arrabbiati gli ambientalisti di fronte all'ennesimo ricorso al "dio cemento" che sembra ispirare l'azione del Ministro Lupi. Nelle bozze che circolano ci sono articoli che nemmeno il peggior Berlusconi aveva fatto approvare: si va dalla privatizzazione dell'acqua, in spregio alla volontà dei cittadini espressa nel referendum, alla privatizzazione del demanio per permettere nuove costruzioni sulle spiagge, e ci sarebbe persino una norma sblocca-inceneritori che, comunque la si pensi sul tema, appare evidentemente fuori tempo visto che nel campo della gestione dei rifiuti sono ben altre le tecnologie moderne da implementare.

Comunque in attesa di conoscere e poter valutare gli "scripta" veri, non resta che misurare i "verba" profusi in abbondanza da Renzi e dai suoi ministri.

In questi anni una norma ha svolto a pieno una funzione anticlica: l'ecobonus per le ristrutturazioni edilizie con risparmio energetico. Mai però si è riusciti a stabilizzarlo. E anche stavolta ampie rassicurazioni che sarà inserito nella prossima "legge di stabilità" ma qui niente: si discute se confermarlo al 65% o ridurlo al 50% (sic!) perché non ci sarebbero le coperture. Ancora?! Ma non è stato ampiamente dimostrato come il saldo finale sia ampiamente positivo, per l'edilizia, l'occupazione, l'ambiente e persino per i conti dello Stato? Il premier non fa passar giorno senza un attacco ai "burocrati", ma forse non c'è vicenda migliore di questa per dimostrare quanto l'assenza di un "visione" politica determini il vero "blocco" di ogni iniziativa positiva. Allora si preferisce ricorre a un'altra parola magica. "il commissario". Arrivando al paradosso di nominare commissario di un'opera, quella si davvero utile e urgente, l'alta velocità Bari-Napoli, colui che deve realizzare l'opera stessa. Neanche nello Stato libero di Bananas.

Ma ciò che è più triste è che ancora oggi, nel 2014, il premier che vuole "cambiare verso" si riduca a scopiazzare il Berlusconi del salotto di Vespa del 2001 e presenti, insieme al sempre presente (al Governo nel 2001 e oggi) Ministro Lupi cartine dell'Italia solcate da nuove mirabili autostrade. Non ci sono soldi? Allora si propone di defiscalizzare la Orte - Mestre (del tutto inutile se si guardano i flussi di traffico su quella direttrice) per oltre 10 miliardi, come se la defiscalizzazione non fosse un onere e un peso per i conti dello Stato e quindi peri cittadini, tanto che la stessa Corte dei Conti ha già sollevato più di un fondato dubbio per questi artifizi contabili.

E poi si annuncia che si prolungheranno le concessioni in cambio di nuove opere autostradali. Annuncio vano, per fortuna, perché in quel caso sarà l'Europa a spiegare che non si può fare. Si arriva poi alla barzelletta quando di fronte all'impossibilità di trovare risorse per un'opera insensata e devastante come l'Autostrada Tirrenica, il viceministro (toscano e socialista) Nencini si affretta a dichiarare che "si troveranno le risorse nella legge di stabilità".

Ma le assurdità, frutto di un guazzabuglio senza strategia non finiscono qui. Il capitolo aeroporti è davvero sconcertante. Sono anni che le autorità spiegano che ci sono troppi aeroporti in Italia che bisogna "razionalizzare", concentrare, ecc. E che fa il Governo? In tempi di vacche magrissime destina risorse pubbliche a nuovi aeroporti! A Firenze e a Salerno. A Firenze è chiaro il motivo (sic!), ma a Salerno sarà forse per la prossima campagna elettorale per le regionali perché idea di politica di trasporto aereo certo non è rintracciabile in queste scelte. Ma allora perché mai in Parlamento, in sede di conversione, qualcuno dei candidati emiliani non è legittimato a proporre emendamento per spostare qualche decina di milioni sull'aeroporto di Rimini o di Bologna? O in quel caso si urlerà all'"assalto alla diligenza in Parlamento"?

Non c'è un'idea "generale", solo norme affastellate, con forte dose di improvvisazione e frutto comunque di una cultura vecchia e obsoleta, altro che innovazione. E dire che il premier prima di partire per le vacanze aveva acquistato Lo Stato Innovatore di Mariana Mazzucato suscitando in noi la speranza che leggendolo avrebbe capito la necessità di scegliere la strada degli investimenti, di una politica industriale fondata innanzitutto su una "green strategy", unica strada per uscire dalla crisi. Niente da fare per ora: per Renzi meglio trivellare per succhiare qualche goccia di gas e/o petrolio che puntare su politiche di efficienza energetica e sulle fonti rinnovabili.

Insomma, in base agli annunci lo "Sblocca-Italia" sarà un decreto pessimo, inutile a segnare la via di una vera ripresa italiana e ricco invece di norme e misure socialmente e ambientalmente dannose. Il Renzi dei vecchi tempi un guazzabuglio così l'avrebbe additato come prova lampante di una politica obsoleta, da rottamare: ma un rottame resta un rottame, chiunque sia a battezzarlo...

Riferimenti

Sull'argomento vedi su eddyburg l'analisi di Sauro Turrroni e i precedenti articoli di Della Seta e Ferrante, di Monica Pasquini e di Marco Galluzzo (con postilla), S

Ci chiediamo ancora una volta come potrà essere firmato dal Capo dello Stato un decreto del genere, del tutto privo dei necessari requisiti di necessità ed urgenza e contenente materie del tutto disomogenee.

Ormai è prassi: questo Governo opera solo attraverso decreti legge che hanno carattere ordinamentale, sottrae materie di competenza parlamentare alla discussione e approva ogni provvedimento facendo ricorso alla fiducia, introducendo così di fatto la più grave riforma costituzionale, trasformando le camere in semplici ratificatrici delle decisioni dell'esecutivo. In più, come se non bastasse, introduce norme in contrasto con la Costituzione.

Il decreto, se possibile, rispetto alle bozze conosciute è peggiore di quelle circolate fino ad ora. Analizzarlo tutto richiedere pagine e pagine di note e commenti, atteso che praticamente ogni riga è volta ad una deregulation selvaggia volta afavorire non solo, come si afferma , gli investimenti, ma anche e soprattutto la manomissione dell’Italia e in molti casi anche delle casse dello Stato.

Partiamo dall’inizio.

Art.1- Il commissario alla ferrovia Napoli Bari non solo approva i progetti ma anche li predispone, e può appaltare i lavori sulla base di un progetto preliminare, cioè di elaborati che non sono in grado di consentire la individuazione, la misurazione e la quantificazione esatta delle opere da realizzare. Fioriranno gli “imprevisti”, le “varianti in corso d’opera” e tutte quelle altre diavolerie ben note alle imprese e alla magistratura, che sono state alla base del sistema di tangentopoli e della esplosione e moltiplicazione dei costi.

In ogni caso il commissario prima approva da solo i progetti e poi …solo successivamente li sottopone alla conferenza dei servizi. Una procedura davvero bizzarra, che non fa alcun cenno alla VIA che pure è un obbligo europeo imprescindibile per questo tipo di opere.

Se i rappresentanti delle amministrazioni che tutelano la salute , l'ambiente o i BBCC non sono d'accordo il commissario stesso può, in 7 giorni, approvare ugualmente il progetto, facendo prevalere un interesse di tipo economico rispetto ad altri interessi costituzionalmente garantiti, andando contro tranquillamente a consolidate e ripetute ordinanze della Corte Costituzionale.

Ritorna in grande spolvero il silenzio assenso, fonte di ogni possibile corruttela, molto apprezzato dai mascalzoni di ogni risma che non rischiano nulla, non dovendo firmare nessun atto amministrativo essendo sufficiente fare passare un po’ di tempo e ogni intervento è assentito automaticamente semplicemente … ponendo la richiesta in fondo alla pila di quelle depositate.

Desta enorme preoccupazione l’articolo riguardante le terre e rocce di scavo (art.12) . Occorre ricordare che fin dal primo atto del governo Berlusconi del 2001, la legge obiettivo, il ministro Lunardi cercò di impapocchiare la materia tentando di …diluire l’inquinamento degli scavi della Bologna-Firenze (dove aveva operato con la sua Roksoil) e che la questione è molto delicata avendo nel tempo consentito di celare nelle terre provenienti da scavi ogni tipo di velenoso inquinante.

Il fatto che reimpiegando le terre e le rocce di scavo in interventi infrastrutturali anche lontani consenta di non considerarle più rifiuto desta ogni tipo di preoccupazione : nessuno avrà più il diritto di controllare un materiale che non è più rifiuto, nessuno dovrà più tracciarlo e potrà essere portato ovunque. Le conseguenze sono facilmente immaginabili. I Casalesi ringraziano sentitamente.

Forza con gli inceneritori (art.15) I sindaci impegnati a ridurre i rifiuti nel loro territorio e conseguentemente, se dotati di inceneritore, intenzionati a ridurre progressivamente le quantità da incenerire vedono le loro politiche andare in fumo : il governo farà un suo piano nazionale e definirà gli inceneritori esistenti ( e quelli previsti ) strategici e quindi che dovranno funzionare a pieno regime, mandando in soffitta ogni proposito di azione virtuosa.

Ai cittadini che si impegnano a fare riciclo e raccolta differenziata viene dimostrato che i loro sforzi sono vani, i loro polmoni continueranno ad essere inquinati per i rifiuti che vengono da altrove, distruggendo in un sol colpo il principio della autosufficienza territoriale alla base di ogni pianificazione in materia di rifiuti.

Semplificazioni in materia di paesaggi tutelati (art.18 e 19): con la scusa della piccola dimensione gli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili non sono più soggetti alla autorizzazione paesaggistica: si tratta di una norma incostituzionale atteso che, come è noto la tutela del paesaggio prevale nei confronti di ogni altro interesse ancorchè economico: distruggere un paesaggio tutelato è facile basta davvero poco e il nostro Bel Paese ha subito fin troppe manomissioni senza che ad esse si dovessero aggiungere quelle facilitate da Renzi (che del resto detesta le Soprintendenze).

Vietato chiedere maggiori standard di sicurezza (art. 22): costa troppo e se chi realizza l’infrastruttura lo sostiene non si dovrà fare quello che una più adeguato livello di sicurezza avrebbe richiesto. Si blocca così il meccanismo evolutivo delle norme che proprio in materia di sicurezza procedono da tempo per successive implementazioni. Costa troppo dice Renzi, invece di capire che minori incidentalità significano enormi risparmi di spese e di costi sociali.

Ancora unità di missione (art.23) Invece di cercare di far funzionare la P.A. si torna a riproporre la salvifica “Unità di Missione” che opera con propri procedimenti, modalità operative ecc. sostituendo uffici e strutture pagate per fare il lavoro che si concentra nelle UdM. Sempre e solo procedure straordinarie , senza capire che questo modello fallimentare ha già dimostrato tutti i suoil imiti, anche di corruttibilità e di aumento dei costi.

Questa volta la scusa non sono le calamità o le grandi opere, il meccanismo perverso derivante dai meccanismi della straordinarietà viene applicato pari pari anche alle piccole opere. In più, oltre a creare nuove strutture che rispondono ad un potere sempre più centrale, si distrugge definitivamente il principio costituzionale della terzietà della amministrazione pubblica, facendola diventare uno strumento di diretta emanazione del potere politico che la nomina e la tiene accanto a sè.

Un’altra norma in favore dei lottizzatori, art. 36, 3 comma : si consente a chi lottizza di realizzare le opere di urbanizzazione a spizzichi e bocconi, per “stralci “funzionali” dando garanzia alle amministrazioni pubbliche , che poi dovranno gestirli e mantenerli, solo per assicurare la coerenza dell’opera di urbanizzazione parzialmente attuata con la restante e futura parte.

Chi impedirà dunque agli speculatori di fare stralci solo su misura delle proprie esigenze di guadagno, rinviando la realizzazione di quelle opere di maggior costo ed impegno ad un futuro incerto, assicurandosi la parte di profitto assicurata dalle costruzioni edilizie e rinviando sine die gli obblighi di completare le urbanizzazioni . Immaginiamo cosa succederà delle urbanizzazioni secondarie : mai vedranno la luce.

Ancora deregulation in edilizia, nel paese degli abusi e dei condoni (art.37) alcune norme riguardano ancora una volta le semplificazioni edilizie, mentre ciò di cui ha bisogno l'Italia sono piuttosto dei rigorosi controlli ma di questo non si parla: tutto è nelle mani dei responsabili, diretti e indiretti, dell'abusivismo e del massacro dell'Italia con cemento e asfalto.

In un paese fragile come il nostro l’unica preoccupazione sembra essere quella del fare presto e non del fare bene. E quindi si inventano procedure con sempre meno controlli e verifiche con lo Stato che rinuncia alla funzione di garante della pubblica incolumità, del rispetto dei beni comuni e del patrimonio storico artistico , nonché della sicurezza.

Infatti i termini delle verifiche sono sempre più ridotti, a pochi giorni ormai, e in caso di prolungarsi dei tempi ecco che scatta l’automatica nomina del responsabile del procedimento a commissario ad acta, che assume da solo la responsabilità di assicurare che l’edificio direttamente realizzabile per previsione di PRG o di Piano Particolareggiato risponda ai requisiti di sicurezza sismica, idraulica, idrogeologica eccetera. E se il commissario ad acta non agisce nei termini dei 30 gg ecco che scatta il silenzio assenso. Il geometra a scavalco di un piccolo comune si sostituirà quindi a ministeri, uffici regionali e anche provinciali , a AUSL e enti simili ? Ma di che parlano ?

E, naturalmente, per coloro che hanno perso tempo (?) scattano meccanismi risarcitori nei confronti di chi deve intervenire. I risultati di questo modo di fare “riforme” dimostrando di non conoscere nulla della P.A: e anzi avendola in odio sono sicuri: i funzionari si metteranno sempre più con le spalle appoggiate al muro, individueranno ogni possibile cavillo pur di poter esprimere comunque un parere che li metta al sicuro da richieste di danni o da altre vessazioni e chi ci rimetterà saranno i cittadini e il nostro territorio. La PA è lì per risolvere i problemi dei cittadini, Renzi la rende ancor più un soggetto propenso a risolvere i problemi delle proprie terga.

Aiuti agli immobiliaristi (artt.42, 43 e 44 ) è nota l’enorme quantità di immobili invenduti realizzati dalla speculazione edilizia che li ha ora sul groppone. Le norme introdotte cercano di dare una boccata di ossigeno a chi ha speculato e ora non riesce a vendere. L’art. 44 si occupa di edifici esistenti e propone talune agevolazioni per il loro recupero anche dal punto di vista dell’efficienza energetica. Una ipotesi di lavoro che avrebbe potuto essere positiva se inquadrata in programmi dei Comuni e non lasciata alla casualità dell’incontro fra operatori immobiliari e attuali proprietari. Senza dubbio quello degli immobiliaristi è decisamente l’ultimo dei settori economici da aiutare !

Il demanio terra di conquista per operazioni immobiliari: un nuovo sacco d’Italia (art.45). E’ un vecchi pallino dei governi di ogni colore : utilizzare il demanio pubblico per fare cassa ma a tanto no n eravamo mai arrivati : non è lo Stato che decide quali beni alienare ma sono soggetti che gestiscono fondi comuni di investimento o altri imprenditori immobiliari europei che, scegliendo fior da fiore, individuano le operazioni immobiliari più appetibili e fanno una proposta, bontà loro, al Presidente del Consiglio, con uno studio di fattibilità in cui indicano cosa vogliono fare.

Il presidente del Consiglio decide cosa consentire agli speculatori con cui fa un bell’accordo di programma, incassando caso mai qualche opera di interesse pubblico in cambio del bene demaniale di cui viene cambiata destinazione urbanistica, funzione, uso.

Che potrebbe fare qualche magnate russo o cinese nella Reggia di Caserta? Oppure nelle decine di chiese sconsacrate appartenenti al demanio? Una catena di ristoranti o di centri benessere con attività “a luci rosse”? E una qualche Disneyland in area archologica ? In fondo ne abbiamo tante! Sarebbero tutte cose “fattibili” secondo i criteri individuati dal decreto che si preoccupa solo dei soldi che può ricavare da queste operazioni . E’ vero, servono gli standard urbanistici, meno male che Renzi è stato sindaco e ci pensa a queste cose.

Peccato che la pianificazione urbanistica salti così totalmente, che la preventiva valutazione della interesse dello Stato di mantenere la demanialità e la disponibilità del bene venga cancellata, che in nessuna riga del decreto venga prevista la partecipazione dei cittadini ad atti così rilevanti che riguardano la loro città e il loro territorio, assicurati persino dalla legge urbanistica fascista del 1942 e cancellati dal democratico governo voluto dal 40% dei votanti alle europee, che i Comuni, finora titolari delle competenze in materia di governo del territorio, diventino semplici comparse in una vicenda difficile perfino a credersi. Come ciliegina sulla torta, ovviamente, c’è anche la possibilità che la Cassa Depositi e Prestiti finanzi l’intervento.

Art. 49 , ancora un attacco per sdemanializzare i beni della difesa di interesse culturale e storico artistico : dopo 60 giorni dall’invio degli elenchi alle Soprintendenze scatta il silenzio assenso e per quei beni è automaticamente dichiarata l’assenza di interesse artistico,storico, archeologico, etnoantropologico, culturale e paesaggistico, per essi non si applicano le disposizioni del codice dei Beni Culturali e paesaggistici, sono sdemanializzati e quindi alienabili.

La norma, in coerenza con tutte le altre emanate in precedenza per la vendita del patrimonio storico artistico della Nazione., è assai grave in quanto gli immobili di cui non viene riconosciuto un interesse tale da impedirne l’alienabilità e il mantenimento nel demanio dello Stato, anche se meritevoli di tutela, non sono più assoggettati alle disposizioni del codice di BBCC per cui , un edificio pregevole, non necessariamente di qualità tale da richiedere la sua conservazione nel demanio, diventa trasformabile, abbattibile, ristrutturabile ecc. senza che nessuno si occupi e si preoccupi della coerenza dell’intervento con la qualità del bene.

Numerosi sono i commi che regolamentano, nuovamente intervenendo su una materia, la vendita degli immobili pubblici, che ha subito innumerevoli modifiche legislative a brevissima distanza di tempo, tutte sovrapponentisi le une alle altre senza avere altro obiettivo da quello di far cassa e disposti a tutto pur di riuscirci. Perfino a cedere beni a società con capitale sociale di 10.000 euro, costituite ad hoc, come previsto dal decreto legge 30 novembre 2013, n. 133 convertito con legge 29 gennaio 2014, n. 5 recante: «Disposizioni urgenti concernenti l’IMU, l’alienazione di immobili pubblici e la Banca d’Italia> nel quale un intero titolo si occupa proprio di alienazioni..

Art.57-60 quater .Pacchetto 12 . Servizi pubblici locali ? Quotiamoli in Borsa Questa parte del decreto che riguardava l’obbligatoria quotazione in Borsa delle società che si occupano di rifiuti, acqua, trasporti pubblici ecc. sembra essere stata per ora accantonata e dovrebbe trovare invece posto nella futura legge di stabilità. Inutile sottolineare la gravità di simili disposizioni che vanno anche contro a quanto deciso dagli italiani col referendum.

Art. 63. Le mani su Bagnoli e Coroglio . Si tratta di un’ articolo di straordinaria gravità : viene distorto il riferimento all’art. 117 della Costituzione per stabilire le destinazioni urbanistiche dell’area di Bagnoli, definendole “livelli essenziali delle prestazioni” per poi affidare come è ormai prassi consolidata ad un commissario la realizzazione di quello che il governo ha stabilito attraverso un programma di riqualificazione urbana. Il commissario lo nomina il governo. Avete già capito.

Il programma deve anche prevedere un ampio elenco di opere infrastrutturali di ogni tipo, tutte poste a carico dello Stato, da realizzarsi, insieme con gli interventi privati e le altre opere e interventi, compresa la bonifica, da parte di un “soggetto attuatore” da scegliersi con evidenza pubblica ma di cui non sono indicati né requisiti, né qualificazione né altre caratteristiche tali da consentire la individuazione dei soggetti aventi titolo a partecipare alla selezioe.

E’ evidente che il Governo vuole avere mani libere nella scelta del soggetto attuatore tanto più che quest’ultimo in soli 40 giorni deve fare tutti i progetti, i piani urbanistici, definire le infrastrutture, predisporre VAS e VIA.

Chi può farlo se non qualcuno che ha da tempo le mani in pasta ? Il soggetto attuatore inoltre ha la possibilità di definire volumetrie aggiuntive e premiali, destinazioni d’uso ulteriori ecc, insomma a lui sono attribuiti i compiti propri della Amministrazione comunale a cui la legge, finora , aveva attribuito la potestà in materia urbanistica.

Ovviamente del tutto assenti, di nuovo contro ogni disposizione legislativa vigente e anche contro il diritto comunitario e le convenzioni internazionali, la partecipazione dei cittadini alle decisioni riguardanti le trasformazioni urbanistiche del loro territorio. Inutile dire che perfino il cavalier Benito Mussolini non si era spinto a tanto.

Tutto da approvarsi in conferenza di servizi, da concludersi in 30 giorni, compresi Via e Vas. Una beffa bell’e buona.

Nel Pacchetto 13 – Cosa non si fa per l’Energia ( rt. 70 – 71) ci sono altre norme inaccettabili : i gasdotti e gli oleodotti e gli stoccaggi rivestono interesse strategico ma ad essi , non soddisfatti delle norme esistenti, aggiunte nel 2004 dal Governo Berlusconi al DPR 327/2001, che consentivano all’approvazione di gasdotti e oleodotti di sostituirsi alla VIA e di fare variante urbanistica, ora la medesima approvazione potrà anche costituire variante ai Piani Paesaggistici, ai Piani dei parchi e ad ogni altro piano di tutela comunque denominato, di nuovo contro il dettato Costituzionale.

Ovviamente ogni demanio pubblico è obbligato ad accettare le proposte di attraversamento di chi fa gasdotti e oleodotti e in caso di ritardi scatta il solito silenzio assenso anche per chi massacra foreste.

Sono resi ancora più remunerativi gli stoccaggi e se ci sono dubbi sulla loro pericolosità poco importa: sono di interesse strategico anch’essi. Si introduce la libertà di prospezione e di ricerca di idrocarburi, con buona pace della subsidenza che, nel caso di estrazioni “sperimentali” in mezzo al mare, deve essere accertata a posteriori : se si verifica una subsidenza, ci si deve fermare ; se non emerge un fenomeno del genere, i programmi sperimentali della durata di 5 anni possono essere prolungati di altri 5.

La legge 1150, approvata in pieno svolgimento dell’ultima guerra e in pieno fascismo, è la “legge madre dell’urbanistica italiana” (Edoardo Salzano, urbanista). “Una buona legge, una legge moderna” ( Vezio De Lucia, urbanista). La legge 1150/1942 è un momento alto della cultura giuridica in quanto, funzionalizzando la proprietà a fini d’interesse collettivo, assegnava all’urbanistica (come governo del territorio) il compito non soltanto di disciplinare “l’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati”, ma anche “lo sviliuppo urbanistico in genere del territorio” (Gianni Lanzinger, giurista). In effetti, ha fornito il primo quadro complessivo e coerente per la pianificazione dal territorio comunale a quello –diremmo oggi- di ‘area vasta’.

Eppure, la relazione di Michele Martuscelli del 1966 (24 anni dopo) dovette occuparsi del più clamoroso esempio/scempio di speculazione edilizia sul territorio nazionale. Fu quello il segnale -tragico per il patrimonio paesaggistico di Agrigento- delle conseguenze del problema, rimasto irrisolto, dalla legge 1150, come ebbe a far notare (già allora) un fascista–critico come Bottai. Si tratta del problema, da settant’anni ben presente a tutti –urbanisti, politici, amministratori- della supposta esistenza del ‘diritto ad edificare’ connaturato a quello della proprietà privata dei suoli. Il tentativo illuminato di Sullo (antecedente all’immane catastrofe di Agrigento) e quello successivo di Bucalossi che, pur ispirandosi alla separazione dello jus aedificandi dal diritto di proprietà ma rimasta mutilata e sostanzialmente ambigua, non hanno vinto contro l’uso indiscriminato del territorio come merce resa sempre più pregiata dalla sua edificabilità.

Proprio la legiferazione successiva alla 1150 (le leggi emergenziali -dimentiche dell’urbanistica- col pretesto della ricostruzione , la legge ‘ponte’, le leggi ‘tappo’, la stessa legge 10 del 1977) dimostrano, con tutta evidenza, che la mancata definizione legale dell’inesistenza di quel diritto privato a costruire, non potrà mai far recedere l’uso speculativo del bene collettivo costituito dal territorio. Tutti i tentativi, se non quello di togliere il territorio dal mercato, di ridimensionarne perlomeno l’abuso, non hanno sortito alcun effetto: si è garantito, grazie ad una edificazione senza limiti, l’incessante dilagare della cementificazione del suolo, associata al dissennato consumo e al gigantesco dissesto di tutto il territorio nazionale. La storia del ‘governo del territorio’ italiano dimostra questo, il risultato è questo, i fatti sono questi: finchè costruire sulla propria porzione di terra costituirà un diritto, ciò favorirà la commercializzazione dei terreni e i tentativi di espropriazione a fini sociali saranno sbarrati da altrettante sentenze legali per ‘manifesta’ illegalità.

La separazione dello jus aedificandi dal diritto di proprietà era già stata proposta inizialmente (come ipotesi di lavoro) dall’ex Presidente della Corte costituzionale Aldo Sandulli e ripresa da buona parte della cultura urbanistica alla fine degli anni ‘60. Anche quando la politica (come in occasione della formazione del primo governo Moro) pare cogliere la necessità di recidere il nodo gordiano generatore della smisurata rendita fondiaria (concordando sulla preminenza dell'interesse pubblico attraverso l'acquisizione alla collettività delle plusvalenze fondiarie) viene contestualmente deciso di escludere il diritto di superficie. Inoltre (gennaio 1980), la Corte Costituzionale si pronuncia nuovamente sulla incostituzionalità della legge urbanistica a partire dall’istituto degli espropri per pubblici interventi. Nel frattempo, le neonate regioni cominciano a svuotare il programma poliennale di attuazione e le norme contro l’abusivismo rimarranno inapplicate.

Da una legge di riforma attesa da settant’anni e dopo l’evidenza sopra richiamata, ci si sarebbe aspettato il classico rimedio, risolutivo – seppur tardivo - della vera causa della trasformazione del ‘giardino d’Europa’ nella nazione più dissipativa del privilegio delle sue bellezze naturali. Per questo, per la storia di disgregazione e di saccheggio urbanistico che abbiamo alle spalle, i primi ‘pilastri’ portanti di una nuova legge urbanistica nazionale avrebbero dovuto essere: la ripresa del coraggioso tentativo del 1962 contro lo jus aedificandi (Fiorentino Sullo, ex ministro DC degli anni ‘60) e il superamento delle tre sentenze della C. Cost. n. 55-56/1968, n.153/1977, n. 5/1980 (Paolo Maddalena, magistrato, ex membro della C. Cost.) perché in netto contrasto con l’art. 42 della stessa Costituzione che garantisce la proprietà privata a condizione però che ne sia assicurata “..la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.

Il terzo pilastro avrebbe dovuto essere la definitiva assunzione di responsabilità diretta sulla cessazione del consumo di suolo. Cessazione, non limitazione, perché siamo arrivati a questo punto: al punto di non poterne più consumare neanche un mq. L’abuso, la devastazione -testimoniatici dai periodici frane, smottamenti, crolli, alluvioni, interi paesi coperti di fango, stravolgimento di corsi d’acqua, distruzione di litorali, ecc. ecc. – impongono di adottare l’opzione zero: il divieto, senza deroghe ed eccezioni, a consumare altro suolo e quindi a costruire solo sul già costruito, a preservare anche le poche aree libere rimaste all’interno dell’abitato, nel rigoroso rispetto dell’invalicabilità della ‘cintura rossa’ (De Lucia) di confine tra città e campagna. Solo il divieto può essere efficace a tale scopo, solo il divieto può dichiararsi sostenibile. Ogni altro tipo di ostacolo continuerebbe ad essere aggirato e il consumo continuato.

Il quarto pilastro avrebbe dovuto essere l’altrettanto rigorosa osservanza , da imporre anche questa per legge, dell’art. 117,s della Costituzione (“tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali”) oltre che del suo art. 9. Occorre garantire al rispetto, alla salvaguardia e al ripristino del paesaggio – tramite imprescindibile prescrizione normativa e regolamentare- la priorità assoluta nell’iter di pianificazione e governo territoriali. I Piani Paesaggistici sono (devono essere) statutariamente sovra-ordinati a tutti gli altri Piani (da quelli regionali, di area vasta, a quelli metropolitani, di coordinamento, intercomunali, comunali, ecc.). Nella legge dovrebbe materializzarsi la precisa presa di coscienza del valore primario del paesaggio (rif. al “Codice”, 2004, e alla Conv. Europea sul P., 2000). Un valore che precede tutti gli altri perché la sua compromissione non è solo la rovina di un bene prezioso insostituibile, pone la prospettiva di una catastrofe economica e di civiltà. Di conseguenza, sarebbe bene conferire pieni poteri alle Commissioni comunali per il paesaggio in sostituzione di quelle igienico edilizie attuali.

Solo la chiara fissazione di questi presupposti –resi ineludibili quanto efficaci- priverebbe di ogni retorica il principio della sostenibilità ambientale ed economica più volte evocato nel testo della ‘Riforma Lupi’ e renderebbe meno aleatorie e scontate (quanto ininfluenti) le affermazioni in esso contenute: “..lo Stato, le Regioni e le Province autonome favoriscono..lo sviluppo economico sostenibile e la coesione sociale e territoriale..”, “..tenendo conto delle prospettive di sviluppo del territorio, delle sue peculiarità morfologiche, ambientali e paesaggistiche..”, “..assicurando il razionale uso del suolo..”, “..Lo Stato .. individua altresì le politiche generali in materia di tutela e valorizzazione dell’ambiente e del paesaggio .. per lo sviluppo urbano sostenibile ..”, ecc.

Parole che risultano tutte vuote perchè i presupposti, gli irrinunciabili principi -e conseguenti obiettivi- della riforma proposta dal ministro Lupi sono altri: il garantismo -“..garantire il valore della proprietà.. “, rinnovato in senso più ‘liberista’, verso la proprietà privata (cui è interamente dedicato l’art. 8) già precisato nell’art. 1 e quello verso i diritti edificatori (cui è dedicato l’art. 12 e, in subordine, gli artt. 10, 11, 13 concernenti Perequazione, Compensazione e Premialità) non facendosi sfiorare dal dubbio che la proprietà privata è già garantita dalla Costituzione italiana (ma “..allo scopo di assicurane la funzione sociale..”) e che quelli edificatori non sono, non sono mai stati, dei diritti (“..Non c’è nessuna norma del C.C. ..che contempli questo supposto diritto a edificare come uno dei contenuti del diritto di proprietà privata..”, P. Maddalena, “il territorio bene comune degli italiani”, ed. Donzelli, 2014).

Decisamente diverso risulterebbe il governo del territorio secondo i pilastri più sopra da noi elencati, fondati sulla qualità ecologico-ambientale e sull’armonico, misurato, godimento del territorio come il primo dei beni di tutti (“primario” ed “assoluto”, C. Cost., 5 maggio 2006, nn. 182, 183):

- La riforma, organica e pervasiva, del governo su tutto il territorio nazionale, sarebbe rigorosamente fondata sulla precedenza da dare alla difesa e valorizzazione dei suoli e del paesaggio (e del loro ripristino); sarebbe di guida alla definizione di criteri di ricerca della qualità paesaggistica -territoriale e urbana- per la valutazione di qualunque proposta di intervento –comunque escludente consumo di suolo- in base agli obiettivi di qualità e convenienza pubblici.

- Si renderebbe necessaria una nuova ripartizione del territorio per il censimento dei diversi livelli di qualità dell’insediato (anche in relazione alle urbanizzazioni primarie e secondarie –servizi esistenti) condotto sulla base di standard di qualità ecologica-ambientale di superamento di quelli attuali e di profonda revisione dello strumento della VAS (Valutazione Ambientale Strategica) affinchè possa recuperare il suo ruolo di possibile contrasto attivo.

- La nuova ripartizione, con i suoi nuovi criteri di qualità, dovrebbe condurre a scenari di equità fiscale in campo urbanistico con il prioritario obiettivo del recupero della rendita fondiaria –da sempre sottratta alla collettività- affinchè sia socializzata e devoluta ad opere di miglioramento della qualità urbana stessa.

- Il perseguimento della qualità verrebbe attuato anche tramite strutture territoriali per favorire la partecipazione organizzata dell’utenza al controllo e al giudizio sugli interventi della modifica ambientale e del paesaggio (ri-orientamento degli Urban Center). A questo scopo, molta attenzione sarebbe dedicata alla divulgazione ed efficacia della comunicazione-formazione, anche tecnica, da più punti di vista e con la fornitura di più soluzioni. Solo con la corretta , larga informazione si garantirebbe il diritto di tutti , non solo di alcuni interessati al guadagno per sé di cui parla l’art. 1 (“.. la partecipazione dei privati [proprietari] anche nell’esecuzione dei programmi territoriali..).

Da queste prime linee guida (In buona misura, già presenti in leggi regionali approvate da tempo) potrebbe muovere un articolato che aggiorni efficacemente quello di settan’anni fa ma, sempre, “..funzionalizzando la proprietà a fini d’interesse collettivo..”, com’era già nelle intenzioni di allora.

In una breve intervista, pubblicata dal Sole 24 Ore del 5 agosto scorso, Roberto Morassut, capogruppo del Pd in commissione territorio della Camera dei deputati, prende posizione a favore della proposta di riforma urbanistica del ministro per le infrastrutture Maurizio Lupi. Afferma infatti che “è sicuramente un fatto positivo” che sia stata depositata la proposta, e dice testualmente che “va bene eliminare il DM 1444/68”, posizione questa che immaginiamo non sia condivisa dal suo gruppo politico e si limita soltanto a chiedere genericamente maggiori benefici per le pubbliche amministrazioni in modo da “migliorare la qualità e la quantità dei servizi”. Dunque, per l’esponente democratico va bene abolire per legge le quantità minime di standard urbanistici ma nel contempo bisogna “aumentare la loro quantità. Quando si dice gli scherzi del caldo romano.

Morassut non ha neppure criticato la stesura dell’articolo 1 della proposta in cui c’è scritto che la pianificazione appartiene alla pubblica amministrazione insieme “ai proprietari di immobili”: una formulazione palesemente incostituzionale. Afferma infatti la Costituzione l’uguaglianza dei diritti di tutti i cittadini: in Italia esistono dodici milioni di persone che non posseggono immobili e vengono conseguentemente discriminati rispetto a chi un immobile lo possiede.

Ma il breve pastoncino pubblicato dal Sole serviva soltanto per rilanciare stancamente il modello dell’urbanistica romana. Morassut dice infatti che “per rendere più equa la distribuzione della rendita tra pubblico e privato occorre prendere a modello il piano urbanistico romano del 2008” che ha introdotto maggiori oneri per i promotori edilizi. La storia ci insegna che chi è stato protagonista di una stagione –e Morassut è stato assessore all’urbanistica di Roma dal 2001 al 2008- non ha mai l’atteggiamento migliore per compiere un esame equilibrato di quanto è avvenuto. Ma un minimo di onestà intellettuale forse poteva manifestarla. Proviamo dunque a ricordargli alcuni –l’’elenco è sterminato- episodi in cui il tanto mitizzato piano del 2008 è stato il suggello del trionfo della rendita speculativa fondiaria.

Uno degli scandali dell’urbanistica contrattata romana, è il caso delle “Terrazze del Presidente”ad Acilia (quadrante sud di Roma), un mostruoso insieme di cemento che era nato per ospitare uffici privati e che l’amministrazione pubblica volle generosamente trasformare in più preziose residenze in cambio “di maggiori oneri” da utilizzare nella costruzione di un indispensabile svincolo protetto sulla via Cristoforo Colombo. Le case sono abitate da dieci anni e dello svincolo non c’è traccia. Il costruttore Pulcini ha fatto festa e gli abitanti delle sue case sono incolonnati per andare al lavoro.

A Bufalotta (quadrante nord) un gigantesco quartiere privato di tre milioni di metri cubi doveva essere realizzato nell’equilibrio definito dalla pianificazione urbanistica: 33% residenziale e stessa quota per il commercio e per gli uffici. L’amministrazione di Veltroni, ergo Morassut, cambiò quest’ultima funzione in residenziale ed oggi il quartiere è una desolata periferia urbana con al centro solo un immenso centro commerciale, a proposito della qualità dei servizi urbani.

E infine, Morassut sa bene che grazie alla scellerata stagione dell’urbanistica contrattata Roma ha contratto un debito di bilancio di 22 miliardi di euro (certificati dal commissario governativo al debito comunale). Paghiamo venti anni di espansione edilizia incontrollata cui il Comune ha dovuto garantire la realizzazione dei servizi pubblici. La capitale sarebbe fallita se non fosse stata creata una sorta di bad company (il vecchio comune di Roma) e istituito il comune di Roma capitale con gli stessi confini, le stesse funzioni e lo stesso personale. Un trucco per cancellare il debito sperimentato ad esempio nella vicenda Alitalia e per scaricare i costi della mala gestione urbanistica su tutta la collettività.

Non riusciamo dunque a comprendere quali successi Morassut attribuisca al suo modello urbanistico. A Roma hanno trionfato solo gli interessi privati portando al fallimento proprio la città pubblica che apparentemente gli sta tanto a cuore. Ma evidentemente si sente appagato dal fatto che Lupi ammette generosamente la supremazia derogatoria dell’urbanistica romana perché inserisce nella sua proposta il concetto di “diritti edificatori” tanto cari a Morassut quanto inesistenti sul piano giuridico nazionale. Ma forse è questo l’unico scopo della legge: stabilire per la prima volta l’esistenza di diritti edificatori incancellabili.

Ci sarà tempo a settembre –la finzione della partecipazione on-line aperta dal ministro scade infatti alla metà del mese, per un confronto con altre proposte di legge che mettono al primo posto gli interessi pubblici e il recupero delle città. Allora si vedrà chi ha le proposte migliori e non sarà la schiacciante maggioranza vantata sulla carta dal governo Renzi-Berlusconi a garantire l’approvazione di una proposta sbagliata che rischia di far fallire tutte le città italiane allo stesso modo con cui ha portato al fallimento di Roma.

Riferimenti

Sul PRG di Roma vedi su eddyburg, archivio della vecchia edizione, l'amplissimo dossier nella cartella Roma, in particolare dalla pagina 7 alla 12. Sulla nuova proposta del ministro Maurizio Lupi vedi gli articoli di Mauro Baioni , di Paolo Baldeschi e di Ilaria Agostini. . Sui diritti edificatori ha scritto su eddyburg Edoardo Salzano E’ confermato: non esistono “diritti edificatori” né “vocazioni edificatorie” di suoli non ancora edificati. Sulle vecchie edizioni della leggi Lupi si veda sul vecchio archivio di eddyburg Tutto sulla legge Lupi,.

Il manifesto, 3 agosto 2014 (m.p.r.)

Per avere pre­sen­tato una pro­po­sta di legge urba­ni­stica che limi­tava il domi­nio della ren­dita immo­bi­liare, il mini­stro dei lavori pub­blici demo­cri­stiano Fio­ren­tino Sullo, fu sot­to­po­sto ad una inau­dita cam­pa­gna dif­fa­ma­to­ria orche­strata dalla grande pro­prietà fon­dia­ria e dai costrut­tori edili. Fu accu­sato di voler «togliere la casa agli ita­liani» e sulla base di que­sta men­zo­gna la legge fu accan­to­nata per sempre.
Era il 1963 e a distanza di cin­quan­tuno anni si capi­sce il motivo della vio­lenza della classe diri­gente nei suoi con­fronti: le case degli ita­liani le vole­vano ven­dere loro. Per cin­que decenni hanno domi­nato incon­tra­stati il mer­cato della casa impo­nendo prezzi senza con­trollo; costruito peri­fe­rie di brut­tezza e disor­dine inim­ma­gi­na­bili nell’Europa occi­den­tale; gua­da­gnato for­tune incal­co­la­bili. Nel momento di crisi del loro modello di governo pen­sano che sia venuto il momento di com­piere l’ultimo misfatto. I tri­sti nipo­tini dei pro­ta­go­ni­sti della dif­fa­ma­zione di Sullo hanno infatti ideato – e il mini­stro delle infra­strut­ture Mau­ri­zio Lupi l’ha pron­ta­mente pre­sen­tata al Par­la­mento– una pro­po­sta di riforma urba­ni­stica che mette per la prima volta nella sto­ria dell’Italia con­tem­po­ra­nea a rischio le case delle fami­glie italiane.
La pro­po­sta, infatti, non dice nulla sui motivi che a par­tire dal 2007 hanno por­tato a una dimi­nu­zione dei valori immo­bi­liari che nelle aree mar­gi­nali del paese ha rag­giunto il valore del 40% e si atte­sta sul 20% nelle peri­fe­rie delle grandi città. Ci sono decine di migliaia di fami­glie di lavo­ra­tori che si sono inde­bi­tate per acqui­stare una casa e oggi il valore dei loro alloggi è infe­riore a quello di acqui­sto. Il crollo dei valori immo­bi­liari è stato cau­sato dalla crisi eco­no­mica mon­diale ma anche per­ché nel ven­ten­nio domi­nato dal neo­li­be­ri­smo si è costruito senza regole a ritmi folli e oggi tutti gli isti­tuti di ricerca di set­tore par­lano di almeno un milione di alloggi nuovi inven­duti. I valori delle abi­ta­zioni sono crol­lati per­ché c’è troppo inven­duto.
Anche una per­sona nor­male – non biso­gna essere mini­stri — com­prende che se si costrui­scono altre case, il valore degli immo­bili esi­stenti dimi­nuirà ancora e le fami­glie ita­liane subi­ranno un ulte­riore impo­ve­ri­mento dopo il taglio degli sti­pendi, delle pen­sioni e del wel­fare. La pro­po­sta cosid­detta «Lupi», ma che viene dalla potente asso­cia­zione della pro­prietà immo­bi­liare e dai costrut­tori ita­liani, è tutta pen­sata per favo­rire un’ulteriore costru­zione di nuove case senza pren­dere atto del fal­li­mento dalla poli­ti­che seguite fino ad oggi.
Al di là di vuoti richiami alla pro­spet­tiva di fer­mare il con­sumo di suolo, essa si basa infatti sullo stesso pila­stro che ha favo­rito la cemen­ti­fi­ca­zione, e cioè il diritto edi­fi­ca­to­rio rico­no­sciuto per legge in eterno e – addi­rit­tura — afferma nei prin­cipi della legge (art. 1) che «ai pro­prie­tari di immo­bili è rico­no­sciuto il diritto di ini­zia­tiva (…) anche al fine di garan­tire il valore degli immo­bili». Pen­sano alla grande pro­prietà, gli altri cit­ta­dini non contano.
Ma oltre che con un ulte­riore deprez­za­mento, vogliono rubare real­mente la casa agli ita­liani anche con il recu­pero del patri­mo­nio edi­li­zio esi­stente. Nei brevi arti­coli dedi­cati a quello che dovrebbe invece essere il pila­stro dell’edilizia del futuro, si trova infatti un mec­ca­ni­smo inam­mis­si­bile e odioso. Si dice che se ci sono pro­prie­tari con­trari ad ini­zia­tive edi­li­zie si potrà agire in loro danno spo­stan­doli in un’altra parte della città senza il diritto a rien­trare dopo le opere nella casa in cui sono vissuti. Così gli spe­cu­la­tori «valo­riz­zano» le loro immense pro­prietà e i più poveri dovranno sot­to­stare una volta di più alle ragioni del più forte. Una vera mascal­zo­nata sociale.
La pro­po­sta di legge Lupi è la dimo­stra­zione amara delle teo­rie di Luciano Gal­lino sul trionfo di un revan­sci­smo pro­prie­ta­rio di classe che sem­bra non incon­trare limiti. Una con­ferma delle reali inten­zioni del governo Renzi che ha infatti con­fer­mato il mini­stro ex ber­lu­sco­niano di ferro. È ora di rico­struire uno schie­ra­mento alter­na­tivo al libe­ri­smo e idee per ali­men­tarlo. A par­tire da una pro­po­sta che azzeri il domi­nio intol­le­ra­bile della ren­dita paras­si­ta­ria in Italia.

Il manifesto, 3 agosto 2014 (m.p.r.)

«Il governo del ter­ri­to­rio è rego­lato in modo che sia assi­cu­rato il rico­no­sci­mento e la garan­zia della pro­prietà pri­vata (…) e il suo godi­mento». L’art. 8 è il distil­lato della bozza di ddl ([/ACM_2]Prin­cipi in mate­ria di poli­ti­che ter­ri­to­riali e tra­sfor­ma­zione urbana) pre­sen­tata dal mini­stro Lupi al Maxxi di Roma il 24 luglio scorso.

A distanza di nove anni dal ddl 3519/2005 noto come «legge Lupi», appro­vato dalla Camera nel Ber­lu­sconi III e poi for­tu­no­sa­mente boc­ciato in Senato col con­tri­buto della destra che lo ritenne anta­go­ni­sta alla tut­tora vigente legge urba­ni­stica n. 1150/1942, il mini­stro di rito ambro­siano ci riprova. Nella nuova ver­sione, sta­gio­nata e arric­chita di auto­cra­zia ren­ziana, restano fermi quei prin­cipi di «isti­tu­zio­na­liz­za­zione del “pri­va­ti­smo” in urba­ni­stica» – come ha scritto Ser­gio Brenna – allora stig­ma­tiz­zati da urba­ni­sti e giu­ri­sti in un volume curato da Maria Cri­stina Gibelli (La con­tro­ri­forma urba­ni­stica, 2005), ma vi si aggiunge un colpo di reni da crisi glo­bale, scop­piata in seguito pro­prio alle pesanti spe­cu­la­zioni immobiliari.
La soluzione è semplice. Per Lupi infatti urba­ni­stica coin­cide con edi­li­zia e la riforma è dun­que fina­liz­zata a tro­vare linfa per il set­tore immo­bi­liare, sta­gnante. La solu­zione è sem­plice: ren­dere vir­tual­mente edi­fi­ca­bile l’intera peni­sola, per raf­for­zare la ren­dita fon­dia­ria attra­verso l’istituzione dei diritti edi­fi­ca­tori «tra­sfe­ri­bili e uti­liz­za­bili (…) tra aree di pro­prietà pub­blica e pri­vata, e libe­ra­mente com­mer­cia­bili» (art. 12).

Il «regi­stro dei diritti edi­fi­ca­tori» san­ci­sce la finan­zia­riz­za­zione della disci­plina: si pro­fila uno sce­na­rio di urba­ni­stica dro­gata, dove pere­qua­zione, com­pen­sa­zione, pre­mia­lità ed espro­prio (sì, espro­prio, cfr. art. 11, c. 2) sono ripa­gati con titoli tos­sici come in un gioco di borsa. Tutto il con­tra­rio della pia­ni­fi­ca­zione. La pro­po­sta legi­sla­tiva flut­tua nel com­pleto distacco dalla con­cre­tezza fisica del ter­ri­to­rio e dell’ambiente urbano che tenta di gover­nare; lo slit­ta­mento dall’oggetto della pia­ni­fi­ca­zione (città e ter­ri­to­rio) alle pro­ce­dure, genera, in sede di pre­sen­ta­zione, affer­ma­zioni ever­sive disci­pli­nar­mente, poli­ti­ca­mente e social­mente, tra cui spicca, per duplice gros­so­lana apo­ria, «la fisca­lità immo­bi­liare come leva fles­si­bile (sic) del governo del ter­ri­to­rio». Ma lungo l’articolato tra­pela la vera pas­sione del mini­stro: le grandi opere. L’istituenda DQT, Diret­tiva Qua­dro Ter­ri­to­riale, quin­quen­nale e diret­ta­mente appro­vata dal pre­si­dente del con­si­glio dei mini­stri (art. 5), è con­fi­gu­rata come un piano nazio­nale delle infra­strut­ture (affin­ché non ci si debba più con­fron­tare con ponti sullo Stretto «pro­cla­mati e mai rea­liz­zati») che sov­verte l’ordine delle cose, subor­di­nando il pae­sag­gio al governo del ter­ri­to­rio, in con­tra­sto col Codice dei beni cul­tu­rali.

La pia­ni­fi­ca­zione comu­nale (che si con­fron­terà con la DQ Regio­nale) sarà sud­di­visa tra parte pro­gram­ma­to­ria «a effi­ca­cia cono­sci­tiva e rico­gni­tiva», e parte ope­ra­tiva, dove «il cam­bio di desti­na­zione d’uso (…) non richiede auto­riz­za­zione» (art. 7, c. 10, che pro­se­gue pudìco: «lad­dove la nuova desti­na­zione d’uso non neces­siti di ulte­riori dota­zioni ter­ri­to­riali rispetto a quelle esi­stenti»). Comun­que sia, il piano comu­nale è tra­volto e annien­tato dagli «accordi urba­ni­stici» (art. 15), ispi­rati agli stru­menti cri­mi­no­geni di con­trat­ta­zione pubblico/privato che tanto lustro hanno dato all’urbanistica mila­nese e romana.

La Lupi II punta sul «rin­novo urbano» rea­liz­za­bile senza regola alcuna, «anche in assenza di pia­ni­fi­ca­zione ope­ra­tiva o in dif­for­mità dalla stessa pre­vio accordo urba­ni­stico» (art. 17). Assenti in tutto l’articolato i cen­tri sto­rici – privi di tutela come ormai è moda (si veda il piano strut­tu­rale fio­ren­tino) – mal­grado Vezio De Lucia, già a fronte del ddl 2005, avesse denun­ciato lo scor­poro della tutela dall’urbanistica che si ridu­ceva così «a disci­pli­nare esclu­si­va­mente l’edificazione e l’infrastrutturazione del ter­ri­to­rio». Assenza gra­vata da un sen­tore di depor­ta­zioni di regime: pro­prie­tari o loca­tari degli immo­bili sog­getti al rin­novo urbano (fino a demo­li­zione e rico­stru­zione) saranno ospi­tati in alloggi di nuova costru­zione «per esi­genze tem­po­ra­nee o defi­ni­tive» (art. 17, c. 10, cor­sivo nostro). Que­sta la pro­spet­tiva: nuova edi­fi­ca­zione prov­vi­so­ria o defi­ni­tiva nelle peri­fe­rie, espul­sione dei ceti sociali svan­tag­giati dalle zone urbane con­so­li­date, o addi­rit­tura cen­trali, che diven­tano nuove aree di spe­cu­la­zione (ora che nella prima peri­fe­ria anche le aree indu­striali dismesse diven­tano merce rara).

Le conquiste smantellate. Esem­plare la per­vi­ca­cia eser­ci­tata nello sman­tel­la­mento delle con­qui­ste degli anni ‘60-‘70. Un esem­pio per tutti: la disap­pli­ca­zione del dm 1444/1968 sugli stan­dard urba­ni­stici, che attri­bui­sce ad ogni cit­ta­dino ita­liano, dalla Cala­bria al Veneto, una quan­tità minima di ser­vizi e attrez­za­ture. Il prin­ci­pio car­te­siano di egua­glianza penin­su­lare ver­rebbe ora spaz­zato via e sosti­tuito da «dota­zioni ter­ri­to­riali», cal­co­late regione per regione e il cui sod­di­sfa­ci­mento sarebbe garan­tito anche dai sog­getti privati.

Una riforma urba­ni­stica nazio­nale, anzi­ché rias­su­mere in un unico testo le peg­giori espe­rienze urba­ni­sti­che ita­liane del dopo Bas­sa­nini (Roma, Milano, Firenze etc.), avrebbe potuto (anzi, dovuto) rias­su­mere – per esten­derne i bene­fici all’intero paese – gli esempi posi­tivi, che pure esi­stono nel pano­rama legi­sla­tivo regio­nale. A titolo d’esempio il ddl pre­sen­tato dall’assessore Anna Mar­son al con­si­glio toscano, con­te­nente una decli­na­zione della “linea rossa”, auspi­cata dal dibat­tito disci­pli­nare inter­na­zio­nale, da trac­ciare tra città e cam­pa­gna. Ma anche il ribal­ta­mento del para­digma ter­ri­to­riale da «risorsa» o «neu­tro sup­porto«, a «patri­mo­nio» – ossia, da valore di scam­bio a valore d’uso – gio­ve­rebbe alla messa a punto di uno stru­mento sin­ce­ra­mente vòlto alla limi­ta­zione del con­sumo del suolo fertile.

Misure cui potrebbe aggiun­gersi il ripri­stino dell’art. 12 della Buca­lossi (L. 10/1977) che legava i pro­venti delle con­ces­sioni edi­fi­ca­to­rie alle opere di urba­niz­za­zione, al risa­na­mento dei cen­tri sto­rici, all’acquisizione delle aree da espro­priare, e il cui tra­vaso nelle spese ordi­na­rie dei comuni è stato rico­no­sciuto come prin­ci­pale causa dell’alluvione cemen­ti­zia dell’ultimo quindicennio.

Siamo dun­que di fronte alla bozza di un ddl bifronte, alfiere da una parte del libe­ri­smo senza freni in difesa della pro­prietà pri­vata, e dall’altra di un auto­ri­ta­ri­smo sta­ta­li­sta – o auto­cra­zia? – che anti­cipa il rifor­mando art. 117 della Costi­tu­zione secondo il quale le norme gene­rali sul governo del ter­ri­to­rio tor­ne­reb­bero ad essere mate­ria di «esclu­siva com­pe­tenza» dello stato. «8100 rego­la­menti edi­lizi comu­nali – affer­mava Lupi – non sono un segno iden­ti­ta­rio, ma un ele­mento di confusione».

E al mini­stro delle Infra­stru­ture, in luogo del Pic­colo prin­cipe le cui cita­zioni hanno get­tato nell’imbarazzo gli astanti di media cul­tura alla pre­sen­ta­zione romana, pro­po­niamo un’altra più edi­fi­cante let­tura, sul rap­porto tra libertà di azione e vin­colo: Lo sguardo da lon­tano di Claude Lévi-Strauss. «Ritengo – chio­sava l’antropologo – che la libertà, per avere un senso e un con­te­nuto, non debba, non possa, eser­ci­tarsi nel vuoto».

Riferimenti

Sulle diverse edizioni della leggi Lupi si veda sul vecchio archivio di eddyburg Tutto sulla legge Lupi, Di recente gli articoli di Mauro Baioni e di Paolo Baldeschi. Sui diritti edificatori ha scritto su eddyburg Edoardo Salzano E’ confermato: non esistono “diritti edificatori” né “vocazioni edificatorie” di suoli non ancora edificati. Tanti altri riferimenti utilizzando il cerca.
Stimolata dall'articolo di Francesca Leder sull'urbanistica vicentina, Chiara Mazzoleni ci segnala questa suo scritto pubblicato sul sito Venetoius, Diritto e Giurispudenza in Veneto, il 9 giugno 2014, relativo ad una ricerca svolta in ambito dell'Università IUAV.

Un bilancio attento degli esiti dei nuovi piani comunali (dai Piani di assetto del territorio ai Piani degli interventi) nel Veneto – che verrà restituito in un volume di prossima pubblicazione – svolto da un gruppo di ricercatori e docenti (coordinato da chi scrive) del Dipartimento di progettazione e pianificazione in ambienti complessi dell’Università IUAV di Venezia, mette in evidenza come tra i nuovi strumenti urbanistici e i vari Piani Casa deliberati dalla regione ci sia una forte sintonia di intenti, relativamente al primato degli interessi proprietari e, più in generale, del mercato. Ancor più, larga parte dei dispositivi di pianificazione adottati a livello locale supera, in “espedienti”, degrado delle regole e comportamento opportunistico delle istituzioni, il contenuto dei Piani Casa.

Il quadro tracciato, a dieci anni dall’approvazione della legge di governo del territorio regionale (Lr n. 11/2004), non sembra affatto coincidere con quello rappresentato dalle dichiarazioni delle principali figure istituzionali – politiche e tecnico-amministrative – della regione. Queste affermano che il dispositivo “Piano Casa” dovrebbe servire a promuovere quel libero dispiegarsi dell’iniziativa privata, che i piani urbanistici ostacolano, con le loro previsioni decennali affidate a “mastodontici” strumenti. I quali, del resto, sono gli stessi che distinguono la nuova stagione urbanistica avviata con la legge regionale del 2004 e sono stati presentati, con grande propaganda, dai responsabili regionali come strumenti innovativi di governo del territorio finalizzati a garantirne “la tutela dell’integrità fisica e ambientale nonché dell’identità culturale e paesaggistica”. Dall’approvazione della legge si è assistito a una proliferazione di procedure, di atti, molti dei quali derogatori, e ai più svariati contenuti dei piani. Dobbiamo aggiungere che il 90% dei nuovi Piani di assetto del territorio (Pat) è stato redatto in regime di co-pianificazione con la struttura urbanistica della regione, i cui funzionari sono co-progettisti degli strumenti e, per questa funzione, hanno percepito uno specifico compenso aggiuntivo. Quindi, la responsabilità di questo stato dell’arte è essenzialmente dell’istituzione regionale e ne evidenzia il livello di incapacità e inefficienza raggiunto.

In assenza di una nuova legge quadro nazionale e di fronte alla frammentazione dei dispositivi regionali, l’unico quadro unitario è attualmente rappresentato dal Piano Casa di stampo “federalista”, promosso dal governo Berlusconi nel 2009, attuato in modo discrezionale da varie regioni e giunto alla terza edizione nel caso del Veneto.

Si tratta, nella sostanza, di un provvedimento straordinario, come i precedenti, “a sostegno del settore edilizio”, in deroga ai regolamenti e ai piani vigenti, che stabilisce misure “premiali” – dal bonus di cubatura, all’esonero dal pagamento degli oneri – per l’ampliamento degli edifici esistenti e per nuove costruzioni. Con il terzo Piano casa (Lr n. 32/2014), la regione Veneto ha introdotto una “innovazione” rispetto alle edizioni precedenti – già commentata da Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera (sabato 25 gennaio 2014) – esautorando di fatto il ruolo dei governi locali nella gestione del territorio. Per rassicurare la sparuta schiera di sindaci che ha impugnato la legge regionale, il Vice Presidente della Regione con delega all’urbanistica, nonché ex-parlamentare di Forza Italia passato al Nuovo Centro Destra – Marino Zorzato – ha precisato che le disposizioni regionali non prevalgono su tutte le disposizioni, bensì solo su quelle che contrastano con i contenuti della legge! Come meglio commentare: oltre al danno, la beffa.

Il terzo Piano Casa intende l’aumento del volume del costruito quale modo più idoneo per contenere il consumo di suolo. Ciò non è una novità. Alcuni comuni del Veneto hanno da decenni praticato la “densificazione” del tessuto edilizio esistente, aumentando significativamente gli indici edificatori in modo indiscriminato e consentendo permute di volume tra lotti attigui. Nessuna valutazione è stata finora svolta sugli esiti perversi di queste trasformazioni del patrimonio edilizio esistente in termini di esternalità negative (tra le quali l’inadeguatezza delle reti infrastrutturali, il peggioramento della qualità urbana, il danneggiamento o il consumo di beni pubblici essenziali) e di conseguenti maggiori costi fatti gravare sulla collettività.

Diversi sono gli esempi che consentono di verificare cosa ha prodotto la densificazione, applicata in modo indiscriminato, e di denunciare lo stato di degrado istituzionale in materia di governo del territorio. Il più emblematico è quello di uno dei capoluoghi provinciali – il comune di Vicenza – che dispone sia di un Piano di assetto del territorio, redatto in co-pianificazione con la Regione, e di un più recente Piano degli interventi, lo strumento operativo, il solo di carattere conformativo, non soggetto a verifiche di istituzioni sovraordinate. Esaminando entrambi gli strumenti e soprattutto le modifiche introdotte nel Piano degli interventi dall’amministrazione comunale, si può a ragione sostenere che ci sia una sostanziale continuità, tra l’amministrazione di centro-destra precedente e quella attuale, nell’uso strumentale dei piani come dispositivi che meglio permettono di mobilitare l’interesse proprietario a fini elettoralistici. È evidente che si sia attuata una metamorfosi profonda dell’interesse generale, del tutto sostituito con l’interesse particolare o proprietario.

Per favorire discrezionalmente gli interessi particolari e aggirare il controllo del consumo di suolo, diversi sono gli “espedienti” utilizzati. Tra questi i più significativi sono i seguenti. In primo luogo la delimitazione disinvolta, nel Piano di assetto del territorio, delle aree di urbanizzazione “consolidata”, comprendente, oltre alle zone residenziali previste dal piano regolatore non ancora attuate, anche ampie aree agricole inedificate che possono così essere interessate da trasformazione edilizia in assenza di piani di lottizzazione. Quindi, la previsione – nel Piano degli interventi – di nuovi volumi edificabili, in gran parte aggiuntivi alle previsioni del Pat, per 470 nuove costruzioni “a volumetria definita” di 600 mc su lotti “virtuali” di 400 mq. Di dubbia legittimità in relazione all’effettivo consumo di suolo, queste nuove cubature sono disseminate nelle aree agricole di frangia e del tessuto disperso nonché in aree previste a standard e in zone di fragilità idraulica. Complessivamente si tratta di una volumetria aggiuntiva di 270.000 mc, che aumenta la dispersione insediativa, corrode in larga parte il territorio agricolo e occulta il consumo di suolo reale.

In sintesi: nessun Piano Casa riuscirebbe a “scardinare il vecchio modo di fare urbanistica” – come auspica il dirigente dell’urbanistica regionale, dimenticando che questo è il modo introdotto dalla legge urbanistica del 2004 – più di quanto dimostra di saperlo fare la “nuova stagione urbanistica” nel Veneto. In questo contesto, i governi locali che vogliono reagire a questa incultura urbanistica e si prefiggono di attuare un governo responsabile del territorio incontrano sempre maggiori difficoltà e sono spesso costretti a ricorrere presso i massimi organi di tutela giuridico-amministrativa per difendersi dai provvedimenti dell’istituzione sovraordinata.

Chiara Mazzoleni è docente di Urbanistica presso l'Università Iuav di Venezia

«La domanda è: cosa c’entra questo Piano casa con l’interesse pubblico? Come si può coniugare una pianificazione attenta ai bisogni della città e dei cittadini e rispettosa dell’ambiente con una legge che permette “in automatico” ai privati di moltiplicare cubature bypassando completamente il parere dei Comuni e i piani regolatori?». Carteinregola, 23 luglio 2014

Alla Regione Lazio riprende al rallentatore l’iter delle modifiche al “Piano Casa Polverini”, che in realtà riguardano solo il minimo indispensabile per non perdere la faccia. Faccia comunque ampiamente persa, se si considera che, quando era all’opposizione, il centrosinistra PD/SEL aveva eretto barricate contro la legge “moltiplicacubature” che oggi, con un piccolo lifting, rimane praticamente tale e quale. Ma i motivi di indignazione di chi ha votato per l’attuale governo regionale aspettandosi un cambio di rotta anche sul Piano Casa sono parecchi…


In un paese normale, quello che stiamo per raccontare sarebbe da tempo sui giornali, e noi potremmo limitarci a pubblicare i link degli articoli. Invece nessun quotidiano se n’ è finora occupato nè – possiamo scommetterci – se ne occuperà, e il nostro grido d’allarme raggiungerà, se va bene, quel migliaio di “soliti ambientalisti” che fanno sempre meno testo, mentre il nostro territorio continua a subire scempi irreversibili.

Questo l’antefatto. IL cosiddetto “Piano Casa” nelle intenzioni iniziali doveva servire a rilanciare l’edilizia offrendo la possibilità ai proprietari di casette uni o bifamiliari di “allargarsi” di qualche metrocubo. E così avviene in tutta Italia, ma in Lazio, quando arriva la Polverini, la legge regionale subisce una “mutazione genetica”, che consente, da un lato, di moltiplicare le cubature di qualunque edificio, compresi quelli non ancora esistenti, dall’altro, di modificare destinazioni d’uso di capannoni industriali ed uffici trasformandoli in appartamenti e persino in centri commerciali, senza più sottostare ad alcuna pianificazione pubblica (1). Le possibilità introdotte sono talmente eccessive che ben due ministri – Galan e Ornaghi – impugnano il “Piano casa Polverini” davanti alla Corte Costituzionale. Anche l’opposizione insorge, formando un fronte di lotta che va da Sinistra Ecologia e Libertà ai Radicali Italiani allo stesso Partito Democratico, cosicchè quando Zingaretti diventa il nuovo Presidente del Lazio, tutti si aspettano che ponga velocemente fine al “vulnus”.

Invece, non solo a un anno e mezzo dall’insediamento del nuovo Consiglio è ancora vigente il Piano Casa Polverini, ma, grazie alla delibera di Giunta approvata a settembre, il governo regionale ha convinto il ministro Bray – erede del ricorso – a chiedere, il 5 novembre scorso, il rinvio dell’udienza davanti alla Consulta. E in questi 9 mesi a nessuno è più venuto in mente di rimettere la questione nel calendario della Corte, nonostante il fatto che, se la legge fosse stata dichiarata incostituzionale, la retroattività della sentenza garantisse la cancellazione di molti efferati interventi in corso, compresi quelli che possono aggirare i vincoli delle aree protette.

Ma le cose sono andate anche peggio: infatti la proposta di legge 76 – quella costruita per “sanare” i rischi incostituzionalità, che avrebbe dovuto avere una corsia preferenziale, si affaccia solo ora al voto del Consiglio, mentre l’altra proposta, la 75, che contiene invece le misure edilizie - il “Piano casa Zingaretti” che ricalca in buona parte quello Polverini - non è stata ancora neanche calendarizzata.

Se poi a tutto ciò si aggiunge che una legge deve restare vigente almeno per un anno dalla sua approvazione e che la scadenza naturale del “Piano casa Polverini” è il 31 dicembre 2014, appare chiaro che le intenzioni di Zingaretti e del suo assessore Civita (e di buona parte del Consiglio, maggioranza e opposizione) sono quelle di prorogare il Piano Casa di un altro bel po’. Il centro destra, dal canto suo, ha già proposto in commissione di rinnovarlo fino al 2018.

Ma che la legge regionale sia prorogata di poco o di tanto, la domanda è: cosa c’entra questo Piano casa con l’interesse pubblico? Come si può coniugare una pianificazione attenta ai bisogni della città e dei cittadini e rispettosa dell’ambiente con una legge che permette “in automatico” ai privati di moltiplicare cubature bypassando completamente il parere dei Comuni e i piani regolatori ? Se il problema era quello di introdurre incentivi per l’housing sociale (la solita striminzita foglia di fico) si potevano trovare molte altre strade da percorrere sotto il controllo di un soggetto pubblico.

Per capire a cosa rischiamo di andare incontro: in questi giorni è esploso il dibattito sul nuovo stadio della Roma, e sullo “studio di fattibilità” del proponente privato che, per garantire “l’equilibrio economico”, chiede di costruire anche due torri di uffici che con lo Stadio non c’entrano niente. Si dice: ma i commi della legge di stabilità sugli stadi (2) se non altro impediscono la speculazione, vietando l’edificazione di residenziale. Forse sarà vero nel resto d’Italia, ma in Lazio il costruttore potrà, grazie al Piano casa Polverini-Zingaretti, chiedere il cambio di destinazione d’uso e trasformando gli uffici in case ancora prima della posa del primo mattone…

Che differenza c’è tra un’amministrazione di centro destra e una di centro sinistra? Se si dovesse giudicare da questa vicenda, praticamente nessuna…

Post scriptum: nei giorni scorsi l’Assemblea Capitolina ha approvato una delibera che concede ad alcuni privati che intendono avvalersi del Piano Casa ma che non hanno abbastanza superfici per gli obbligatori standard urbanistici (verde, servizi, parcheggi) di considerare come standard urbanistici aree appartenenti alla collettività (3). UNA SOLA DOMANDA: DOV’E’ L’INTERESSE PUBBLICO?

(1) La sintesi risponde alla realtà, ma per approfondimenti vedere Piano casa – cronologia materiali
(2) Scarica i commi della legge sugli stadi Legge 27 dicembre 2013 (commi stadi)
(3) vedi nostro post “Accade in Aula” del 9 luglio 2014

Riferimenti
Per approfondire sul sito di Carteinregola il confronto tra le proposte di legge regionale Marrazzo, Polverini, Giunta Zingaretti e numerosi altri documenti
In eddyburg gli articoli raccolti nella cartella Temi e problemi del vecchio archivio

Finalmente una buona notizia. Il prezzo che si è dovuto pagare per superare l'ottusa resistenza degli interessi economici dei rottamatori del territorio (di cui ci occuperemo a breve) è l'ultimo pedaggio pagato a un passato devastatore? lo speriamo. Il Fatto Quotidiano,5 luglio 2014

Nel 2010 il libro Paesaggio, Costituzione, cemento di Salvatore Settis si chiudeva arrischiando una profezia: “I segnali molto positivi che vengono dalla nuova amministrazione regionale toscana, per bocca del presidente Enrico Rossi e dell’assessore Anna Marson, sono molto incoraggianti: forse questa regione così ricca di civiltà e di meriti potrà segnare una svolta”. Quattro anni dopo si può dire che Rossi e Marson non hanno tradito questa aspettativa: da martedì scorso la Toscana ha un Piano Paesaggistico Regionale, il primo redatto insieme al ministero per i Beni culturali.

Ma che cos’è un Piano Paesaggistico? È un lavoro enorme (a quello toscano ha lavorato un centinaio di tecnici) che innanzitutto “fotografa” l’intero territorio regionale, in tutta la sua complessità di geomorfologia ed ecosistemi, sistemi agrari, produttivi e urbanistici. Dopo il Piano, l’evanescente definizione di “paesaggio toscano” non coincide più con la collinetta coronata da cipressi, ma si traduce in una montagna di carte dettagliate, schede, elenchi di beni naturali, paesaggistici, archeologici. Ora sappiamo esattamente cosa vogliamo difendere, e cosa, e come, possiamo usare. Già, perché un Piano è esattamente il contrario di un vincolo: quest’ultimo strumento (prezioso, ma limitato) mi dice quello che non posso fare in un certo posto, mentre il Piano dice come, dove e quanto la Toscana vuole continuare a crescere.

A crescere in modo uniforme e (appunto) pianificato: evitando la balcanizzazione del territorio dovuta al moltiplicarsi e all’intrecciarsi delle competenze. E, soprattutto, a crescere in modo sostenibile: tenendo ben presente che “il paesaggio rappresenta un interesse prevalente rispetto a qualunque altro interesse, pubblico o privato, e, quindi, deve essere anteposto alle esigenze urbanistico-edilizie” (così una sentenza del Consiglio di Stato del 29 aprile scorso).

L’approvazione del Piano toscano ha una forte valenza politica nazionale. In un momento in cui Matteo Renzi dice che le regole e le soprintendenze sono un intralcio allo sviluppo (leggi: al cemento), è fondamentale far capire che dall’altra parte non ci sono solo i “no” dei vincoli: ma c’è anche la capacità di una comunità di decidere come trasformare il proprio territorio in modo responsabile e unitario. Come dire: non ci sono solo gangster e sceriffi, c’è spazio anche per un progetto di crescita condivisa. Come ha scritto Enrico Rossi (nel suo Viaggio in Toscana, in uscita presso Donzelli) “il Piano offre una cornice di regole certe, finalizzate a mantenere il valore del paesaggio anche nelle trasformazioni di cui esso è continuamente oggetto”.

Certo, nel Piano ci sono anche rigorose prescrizioni: come, per esempio, quelle che dicono dove non si potranno collocare impianti eolici o centrali elettriche a biomasse. Per capirsi: se il Molise si fosse dato un simile Piano, il suo territorio e la sua archeologia non sarebbero state massacrate da un eolico selvaggio che solo gli sforzi eroici del Direttore regionale del Mibac Gino Famiglietti stanno ora arginando. E se lo avesse fatto l’Emilia Romagna, non rischieremmo di perdere definitivamente il Palazzo San Giacomo a Russi, minacciato da una centrale a biomasse.

Nei giorni precedenti all’approvazione la discussione si è accesa soprattutto sul futuro delle cave delle Apuane. Ma nonostante le minacce e gli insulti della lobby del marmo, la Giunta ha sostanzialmente tenuto. Le associazioni ambientaliste hanno ragione a lamentare alcuni gravi cedimenti, ma ora le vette sopra i 1200 metri saranno finalmente salve, alcune cave saranno chiuse, e non sarà più possibile aprirne nei territori vergini del Parco delle Apuane. E soprattutto ogni futura decisione sull’apertura di nuove cave dovrà passare attraverso un percorso decisionale aperto ai cittadini: insomma, il Piano dà ottimi strumenti alla resistenza di chi si oppone al genocidio delle montagne del marmo.

Il merito principale va alla competenza e alla tenacia della mite e preparatissima Anna Marson, ordinaria di Pianificazione territoriale allo Iuav di Venezia e assessore alla Pianificazione: il suo lavoro dimostra che il rapporto tra sapere scientifico e amministrazione pubblica non deve per forza ridursi alle complici consulenze del Mose o dell’Expo. Il successo politico, invece, è di Enrico Rossi: se troverà il coraggio di riunire e rappresentare l'anima di sinistra che ancora sopravvive nel Partito democratico, avrà nel Piano Paesaggistico il suo miglior biglietto da visita.

«L’idea niente affatto sottesa è che la rendita immobiliare e fondiaria sia il vero cardine del disegno di legge urbanistica». La Nuova Sardegna 10 giugno 2014

Il Ministro del Governo Renzi, Maurizio Lupi, ha fatto predisporre al suo Gruppo di Lavoro “Rinnovo Urbano” un secondo disegno di legge urbanistica. Il primo lo aveva presentato come ministro di Berlusconi, ritirato grazie alla denuncia di autorevoli studiosi in materia di territorio per la clamorosa sottomissione degli interessi pubblici a quelli privati. Anche il secondo disegno di legge esprime questa sottomissione che è esplicita fin dal titolo: Principi fondamentali in materia di governo del territorio, proprietà immobiliare e accordi pubblico-privato. Come a dire, il “Lupi perde il pelo ma non il vizio”.

Se escludiamo i generici preamboli e i riferimenti alla Costituzione, in nome della sussidiarietà, partecipazione e via discorrendo, l’idea niente affatto sottesa è che la rendita immobiliare e fondiaria sia il vero cardine del disegno di legge urbanistica. Idea che ritroviamo in modo diffuso in tutti i commi dei 21 articoli. A partire dall’art. 1, comma 4, dove si dichiara che: “Ai proprietari degli immobili è riconosciuto, nei procedimenti di pianificazione, il diritto di iniziativa e di partecipazione, anche al fine di garantire il valore della proprietà conformemente ai contenuti della programmazione territoriale. Le procedure di pianificazione assicurano la partecipazione dei privati anche nell’esecuzione dei programmi territoriali senza dar luogo a sperequazioni tra le posizioni proprietarie”. Per proseguire con espressioni quali “leale collaborazione con il privato” (art. 5, comma 6); oppure con la esplicitazione che gli interessi privati “si intendono come preliminari di piani urbanistici attuativi” (comma 7).
Ma il clou di questa sottomissione lo troviamo negli articoli 10 (Perequazione), 11 (Compensazioni) e 12 (Trasferibilità e commercializzazione dei diritti edificatori), nei quali è ben chiaro che il disegno di legge parte dal presupposto che un proprietario di suolo ha automaticamente un diritto di edificazione e che, se non glielo si concede, magari perché l’area è sottoposta a tutela, allora il pubblico (ossia la collettività) lo deve compensare in modo congruo.Orbene, da molti anni studiosi del territorio chiedono che l’Italia si doti di un nuova legge urbanistica nazionale, giacché quella del 1942 con oltre 70 anni di deroghe, ha perso significato e nei fatti ha consentito a troppi speculatori di trasformare gli interessi della rendita fondiaria in quel mostro che divora tutto e che ha potuto agire sulla società in modo corruttivo.
Ma una nuova legge urbanistica dovrebbe essere impostata, anzitutto, alla luce di quel che è successo nei territori italiani in questi decenni, soprattutto a partire dagli anni ’80. Anni di scempio e saccheggio di cui ci scandalizziamo e allarmiamo solo quando si scoprono tangenti e disastri; in secondo luogo, dovrebbe andare di pari passo con un’idea di sviluppo economico e sociale. In ragione di ciò, la legge urbanistica dovrebbe essere un insieme di regole (cornice), a mio avviso essenziali ma chiare e inderogabili, entro cui collocare i piani regionali, di area vasta, comunali.
Regole dettate all’insegna di alcuni principi quali: 1. non consumare altro territorio, non perché si è nemici della proprietà privata, ma perché la cementificazione selvaggia ha impoverito le persone e i territori, in cambio di poco lavoro instabile e, peraltro, non rispondendo alla crescente domanda di case delle popolazioni più svantaggiate; 2. il territorio è una risorsa scarsa e irriproducibile e perciò bisogna averne cura; 3. i processi di risanamento e riqualificazione del patrimonio esistente vanno regolamentati, dove è possibile all’insegna della bioedilizia. L’on. Pigliaru ha dichiarato che entro il 6 luglio presenterà una bozza di legge urbanistica regionale. Spero che la sua direzione sia opposta a quella del ministro Lupi che continua a pensare che il “sostegno all’economia” sia da concentrarsi sull’edilizia espansiva e non su quella finalizzata alla riconversione e contenimento.

Sull'argomento si veda su questo sito lo scritto di Mauro Baioni
Riforma urbanistica: una proposta preoccupante

Il gruppo di lavoro “rinnovo urbano” facente capo alla segreteria tecnica del ministro delle infrastrutture e dei trasporti, Maurizio Lupi, ha predisposto e reso pubblica la bozza di disegno di legge riguardante i principi in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana.

Il titolo primo, composto da 16 articoli, è dedicato ai principi fondamentali in materia di governo del territorio, proprietà immobiliare e accordi pubblico- privato. Il titolo secondo, composto da 5 articoli, riguarda le politiche di “rinnovo urbano”, l’edilizia sociale e la delega al Governo, d’intesa con la Conferenza unificata delle Regioni, per la riscrittura del testo unico dell’edilizia (dpr 380/2001) al fine di introdurre ulteriori semplificazioni.

Qui di seguito forniamo alcune considerazioni sugli aspetti più critici di questa proposta. Il testo è disponibile sul sito Casa e territorio del Sole 24 ore.

La Costituzione alla rovescia. Beneficiario di questa proposta di legge è la proprietà immobiliare, così come chiarito sin dal titolo primo e dall’articolo 1 dove si attribuisce ai proprietari il diritto di iniziativa e di partecipazione – nella pianificazione - per “garantire il valore della proprietà. “Il governo del territorio è regolato in modo che sia assicurato il riconoscimento e la garanzia della proprietà privata, la sua appartenenza e il suo godimento” recita l’art. 8.
È il rovesciamento della Costituzione: quest’ultima impone vincoli e obblighi alla proprietà privata in nome dell’utilità collettiva e stabilisce il principio della “funzione sociale” della proprietà. Nella proposta di legge urbanistica tutto è rovesciato: vincoli e obblighi limitano l’iniziativa pubblica, affinché non produca riduzioni al valore immobiliare dei terreni.

La scomparsa del territorio. Chiunque, anche un osservatore distratto, sa che le nostre città sono sorte senza prestare adeguata attenzione ai rischi idrogeologici, alla protezione della natura e alla considerazione del paesaggio. Nella proposta di legge nessuna di queste materie (e nessuna delle leggi organiche che le disciplinano) è menzionata, nemmeno per inciso. Sappiamo che le leggi di tutela, fortunatamente, dettano disposizioni prevalenti rispetto a quelle della pianificazione, ma l’obliterazione di questi argomenti in una legge che tratta del governo del “territorio” riporta indietro di un secolo l’urbanistica, confinandola nell’alveo angusto delle trasformazioni edilizie.

L’ignoranza dei centri storici. Non meno clamorosa è l’assenza anche di un minimo cenno ai centri storici. Una dimenticanza incommentabile.

La diluizione dello spazio pubblico. Gli spazi pubblici sono l’essenza della città, l’elemento qualificante e ordinatore. Senza spazi pubblici la città è ridotta ad un ammasso di edifici. Non per questa proposta di legge, che oblitera il concetto di “spazio pubblico”, lo sostituisce con una locuzione generica (dotazioni territoriali) che comprende un coacervo di funzioni di interesse generale (agli ospedali pubblici si sostituisce la salute, alle scuole l’istruzione, e così via), nel quale tutto si equivale e si confonde. Ma soprattutto prosegue l’accanimento contro gli standard urbanistici. Ogni regione può fare come gli pare. Ma davvero il problema, per dare qualità alle città italiane, è la cancellazione degli standard minimi di spazio pubblico?

La compressione della democrazia. Per ignoranza o per furia iconoclasta, la legge dimentica (o sopprime) ogni riferimento democratico. Scompare dai principi nazionali non soltanto la cosiddetta partecipazione, ma persino la possibilità di presentare osservazioni e opposizioni. A maggior ragione, è assente ogni riferimento alla valutazione ambientale e alle procedure di coinvolgimento del “pubblico” previste dalla direttiva europea.

In sintesi, possiamo dire che nessuna delle funzioni di coordinamento delle attività umane, nello spazio e nel tempo, che costituisce l’essenza della pianificazione urbanistica è trattata in questa legge. Nessuna delle finalità sociali (dalla tutela dell’ambiente e della salute alla conservazione del paesaggio, dalla presenza di spazi e servizi pubblici alla gestione della mobilità e dell’accessibilità) trova in questa legge alcuna traduzione. Nessuna delle garanzie, anche minime, di democraticità trova assicurazione. Tutto è delegato – in bianco – alle regioni, salvo la tutela della proprietà immobiliare.

La morte della pianificazione comunale. La pianificazione comunale è articolata in una componente “di carattere programmatorio” e una “di carattere operativo”. La prima ha efficacia (sic) “ricognitiva e conoscitiva”. Poco più di un libro. Non ha nemmeno un blando carattere di indirizzo o di direttiva. Niente di niente: un mero scopo ricognitivo e conoscitivo. Secondo la legge, il piano operativo deve essere approvato (!) in meno di cinque o di dieci anni, altrimenti perde efficacia. Qui il legislatore ha probabilmente confuso efficacia quinquennale del piano e durata del procedimento di approvazione.
Tutto qui, per la pianificazione comunale? Tutto qui. La legge non dice altro, che non riguardi il rapporto pubblico-privato.

Pubblico e privato. Al rapporto tra pubblico e privato sono dedicati i contenuti salienti del capo I e tutto il capo II del titolo I. Niente di nuovo sotto il sole, rispetto agli istituti ben noti dell’urbanistica romana: perequazione, compensazione, premialità edificatorie. La proposta di legge, tuttavia, perfeziona tali istituti – nel senso deteriore del termine. Occorre essere molto chiari: in base a questo Ddl, una volta che il comune abbia riconosciuto la possibilità di costruire a fronte della cessione di terreni o della realizzazione di opere, tale facoltà di edificare viene trasformata in un “diritto”, non reversibile se non dietro indennizzo. Perde quindi la sua natura urbanistica per trasformarsi nell’oggetto di un contratto. Meditare quindi: ogni volta che il sindaco o la giunta o il consiglio precedente (la legge non si occupa di distinguere quali organi assumono le decisioni) riconosce un “diritto edificatorio”, produce un debito che l’amministrazione successiva è chiamata a onorare o indennizzare. Spero che non sfugga la follia di questo meccanismo che rende perpetua la rendita! A quale scopo? Per quale utilità sociale, tutto ciò?

Rinnovo urbano. Tutto si fa con il concorso dei privati, in deroga ai piani urbanistici operativi, ricorrendo a incentivi urbanistici (in pratica, si ammette una generalizzata densificazione). Se non possono essere applicati sul posto, gli incentivi danno origine a trasferimenti di volumetrie in altre zone edificabili. L’idea che si possa riconvertire edifici dismessi (e quindi privi di valore) attraverso operazioni di diradamento, comunque remunerative dell’investimento, non è presa in considerazione. Né sembrano esserci particolari facilitazioni per interventi di recupero diffuso. Tutto si basa e tutto si esaurisce nella concessione di incrementi di volume e deroghe.

Edilizia residenziale sociale. La legge prevede, per l’edilizia residenziale sociale, il ricorso al permesso di costruire in deroga: altra picconata alla pianificazione. Le definizioni di ERS sono mutuate da analoghe descrizioni contenute in documenti e in provvedimenti di legge, ma si omettono due questioni fondamentali:
- la distinzione tra alloggi pubblici destinati alle categorie sociali svantaggiate, e sociali destinati alla cosiddetta “zona grigia”; equipararli e confonderli è un errore: la produzione di alloggi sociali dovrebbe costituire un tassello della pianificazione ordinaria, non un grimaldello per la sua delegittimazione;
- nessuna specificazione è data dalla legge né sulle categorie di beneficiari, né sulla commerciabilità degli alloggi (compresi quelli, ab origine, destinati alla vendita), senza le quali l’edilizia residenziale sociale è una truffa.

Il Fatto Quotidiano, 24 maggio 2014

Luci e ombre nel decreto legge sulla cultura e il turismo approvato giovedì dal Consiglio dei ministri. Un decreto di cui siamo costretti a parlare in base a schemi e riassunti diramati dallo stesso ministero per i Beni culturali, o su vecchie versioni (come quella inviata il 14 alle Regioni). Già, perché il decreto, di fatto, non esiste: l’ufficio legislativo del ministero per i Beni culturali lo sta ancora scrivendo. E uno si chiede come funzioni la collegialità di questo governo, e come il Quirinale possa accettare una simile prassi. Il perché di questa fretta è fin troppo ovvio: le elezioni. Occorreva scrivere qualcosa sotto la voce “cultura” nel dossier che raccoglie i risultati, veri o presunti, del governo: e i soldi che (giustamente) arrivano al Maggio Musicale Fiorentino servivano a Dario Nardella prima, e non dopo, domenica. Ciò detto, il decreto dimostra la buona volontà di Dario Franceschini: e, dato il governo in cui siede, non è una notizia da poco.

Il cosiddetto Art Bonus (propagandato da un pacchianissimo logo composto dalle firme di grandi artisti) è la vera novità. Esso prevede un credito d’imposta del 65% in tre anni per chi fa donazioni per “interventi di manutenzione, protezione e restauro di beni culturali pubblici, musei, siti archeologici, archivi e biblioteche pubblici, teatri pubblici e fondazioni lirico sinfoniche”. Se funzionerà, aumenteranno finalmente i fondi per la cultura.

Si può notare che alla fine ci sarà ovviamente un minor gettito per il fisco, e dunque tanto valeva stanziare direttamente i denari che servivano per la manutenzione del patrimonio, senza dover dipendere dalla generosità dei singoli: ma è importante è aver affermato il principio. I 50 milioni in più concessi al fondo per le Fondazioni liriche che risanano i loro bilanci è un’altra buona notizia. Sono spiccioli, ma sono particolarmente di sinistra i 3 milioni annui che andranno “a finanziare progetti di attività culturali, elaborati da enti locali nelle periferie urbane”. Ed era ora che si permettesse di fare nei musei tutte le foto che uno vuole, purché “con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene, né l’esposizione dello stesso a sorgenti luminose”.

Quelle che lasciano, invece, molto perplessi sono le misure sulla struttura del ministero. Confermando tutti coloro che avrebbe invece potuto rimuovere, Franceschini ha perso l’occasione di operare un radicale rinnovamento della struttura apicale: ma nel decreto egli imbocca l’infausta strada dei commissariamenti. E non ha senso procedere per misure eccezionali e contemporaneamente mummificare la struttura centrale: c’è bisogno che la macchina funzioni con regole ordinarie, e non violando sistematicamente queste ultime. Al Direttore generale di Pompei vengono attribuiti “poteri commissariali”, e questa è una pessima buona idea. L’ultimo commissariamento di Pompei ha prodotto una serie di disastri (tra i quali la cementificazione del Teatro Grande) e uno strascico di processi. E l’Expo insegna che i poteri eccezionali in fatto di appalto generano corruzione: ora il direttore generale di Pompei è l’integerrimo generale dei carabinieri Giovanni Nistri, nominato da Massimo Bray, ma domani? E il posto di vicedirettore è ora vacante: e a questo punto la scelta sarà pesantissima. Stesso discorso vale per la Reggia di Caserta: quello che nelle prime bozze del decreto era un segretario generale ora è diventato (salvo varianti dell'ultima ora) un commissario senza se e senza ma.

Infine, l'inevitabile cedimento all’odio di Renzi contro le soprintendenze: il decreto impone la figura del mitico manager nei poli museali presenti e futuri. Per capire bene come funzionerà bisognerà leggere l’articolato: nello schema si dice che il manager avrà “specifiche competenze gestionali e amministrative in materia di valorizzazione del patrimonio culturale”. Il che potrebbe voler dire che deciderà quali mostre fare, con immaginabili disastri culturali. È un pessimo passo, ma non è (ancora) la strage voluta da Renzi: sarà per questo che, in un tweet, il presidente del Consiglio ha definito il decreto solo “molto interessante”, invece che usare uno dei superlativi che di solito riserva alle proprie gesta.

. 16 maggio 2014

Nonostante varie sentenze stabiliscano che i posizionamenti di case mobili siano da considerare interventi di nuova costruzione se non sono "diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”, un emendamento infilato nel "Decreto EXPO" in approvazione oggi alla Camera, interviene sulla precedente formulazione inserita nel "Decreto del fare", per consentire l' installazione di casette e bungalow senza permesso di costruire, necessario, ad esempio, anche per realizzare una semplice tettoia in una casa di campagna.

Racconta Emanuele Montini, avvocato e urbanista, consigliere di Italia Nostra di Roma: «La solita manina si è infilata di nuovo dentro un decreto legge in conversione per risolvere un problema alle associazioni di campeggiatori che, nel Decreto del Fare, erano riuscite a fare il colpo gobbo: far passare per opere precarie le case mobili. Ma non tutte le ciambelle riescono con il buco, e i lobbisti che avevano scritto l'emendamento avevano bisticciato con le parole, e anzichè scrivere che le case mobili non erano più soggette a permesso di costruire, con un “ancorchè” avevano introdotto esattamente il contrario: “[sono interventi edilizi] l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee, ancorche' siano installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno di strutture ricettive all'aperto, in conformita' alla normativa regionale di settore, per la sosta ed il soggiorno di turisti (art. 3 lett. e.5 del DPR 380/2001) A nulla erano valse le grida dei campeggiatori, che si volevano trasformare in novelli affittacamere a costo zero (ricordiamo che le case mobili non pagano una lira nè di oneri concessori nè di TASI), in quanto l'italiano è (per ora) una scienza esatta e gli uffici tecnici degli enti locali (e le procure) in questi mesi hanno contestato la loro lettura "elastica" dell'articolo, che essi stessi avevano fatto inserire. Ma ecco che un gruppo di senatori PD interviene sul decreto EXPO (d.l. n. 47/2014) e modifica la parolina incriminata in "salvo che", e la magia è fatta, a suon di fiducia».

I promotori dell'emendamento sono Stefano Collina, primo firmatario, Mario Morgoni e Andrea Marcucci e Manuela Granaiola, entrambi firmatari, nel novembre scorso, di un emendamento che aveva l'obiettivo di vendere le aree demaniali agli stabilimenti balneari, sinora in concessione, per "contribuire al risanamento dei conti pubblici" e "offrire agli attuali concessionari il diritto di prelazione all'acquisto”;emendamento poi ritirato tra le polemiche (lo stesso Marcucci aveva tolto la firma).

Adesso luoghi naturalistici di pregio potranno riempirsi di casette prefabbricate, con buona pace dell'articolo 9 della Costituzione ma anche della nutrita giurisprudenza che è sempre andata esattamente nella direzione opposta dello sciagurato emendamento: ancora nell'ottobre scorso la Cassazione si è pronunciata a proposito di un campeggio di Alghero, stabilendo che se l’insediamento è stabile e ha concreta incidenza sul territorio, non si può prescindere da autorizzazioni espresse sul piano urbanistico-edilizio e sul piano paesaggistico. E sulla stessa linea si sono espresse numerose sentenze del TAR e del Consiglio di Stato.

Il Decreto, con tutti gli emendamenti, è già passato in Senato grazie alla fiducia. Oggi è arrivato alla Commissione Ambiente della Camera, ma a quanto pare il Presidente Ermete Realacci (PD) non ha concesso la discussione degli emendamenti abrogativi della norma sui campeggi in nome della necessità di chiudere la votazione entro oggi per dare ai partiti il tempo di fare la campagna elettorale per le europee. Pensare che lo stesso Realacci pochi mesi fa, a proposito di un altro provvedimento, fortunatamente poi decaduto, tuonava: «Non c’era francamente bisogno, oltre alle tante norme del tutto estranee al testo iniziale [del decreto legge 126/2013], che venisse inserita anche una sanatoria indifferenziata per case in legno, cabine, bungalow, roulotte o altri manufatti non previsti dalle concessioni e realizzati in aree demaniali senza nessuna valutazione nel merito e a fronte di una aumento del canone francamente irrisorio. Non è così che si fanno gli interessi dell’ambiente, del turismo, del Paese. E’ un autogol per l’Italia che punta ad un futuro migliore ed è stato realizzato, per quanto mi risulta, senza coinvolgere il ministero dell’Ambiente. Non è così che si fanno buone leggi».

Evidentemente il clima preelettorale spinge ad altre valutazioni, ma a nostro avviso, visto che ormai tutte le forze politiche indistintamente fanno a gara nei proclami per la tutela dell'ambiente, la fiducia degli elettori ormai si conquista solo con i fatti, cioè con scelte legislative a favore dell'interesse generale, e non con gli emendamenti infilati dove non c'entrano niente per fare favori a qualche categoria. E forse una riflessione in più, in questi casi, converrebbe farla...

Più ampie informazioni nel sito Carteinregola.

Il manifesto, 30 marzo 2014

I com­pleanni di Pie­tro Ingrao sono sem­pre occa­sione di rifles­sione sulla sua bio­gra­fia e sul suo pen­siero poli­tico. Quest’anno, com­pleanno numero 99 il 30 marzo, si è deciso di pro­muo­vere alcune ini­zia­tive nei luo­ghi della for­ma­zione del gio­vane Pie­tro: Lenola, città nativa; For­mia, dove fre­quentò il Liceo clas­sico Vitru­vio e sco­prì l’antifascismo degli inse­gnanti Gioac­chino Gesmundo e Pilo Arbe­telli uccisi alle Fosse Ardea­tine; Fondi (i primi rap­porti con alcuni intel­let­tuali); Roc­ca­gorga (si occupò della costru­zione di una Casa del popolo negli anni cin­quanta); Gaeta (le vacanze al mare, i ricordi di gio­ventù). Su que­sti luo­ghi molto amati dal festeg­giato scrive lo stesso Ingrao nei primi capi­toli dell’autobiografia (Volevo la luna, Einaudi, 2006) ricor­dando radici mai recise.

In qual­che occa­sione l’ex pre­si­dente della Camera, scher­nen­dosi, ci ha tenuto a sot­to­li­neare la sua for­ma­zione “pro­vin­ciale” indi­can­dola come un limite. In effetti, è arduo dire cosa sia l’«ingraismo» e a quali rife­ri­menti cul­tu­rali fac­cia rife­ri­mento (i con­ve­gni di que­ste set­ti­mane potreb­bero aggiun­gere ele­menti utili a capire).

Il fascino della per­so­na­lità di Ingrao – altro che pro­vin­cia­li­smo – sta nella sete di cono­scere, capire, appro­fon­dire senza arren­dersi a una visione acco­mo­dante e tec­ni­ci­stica della poli­tica. Per lui, quest’ultima non può pri­varsi di una dose di crea­ti­vità e uto­pia per ridi­se­gnare assetti sociali e ine­diti valori (basti ricor­dare la rifles­sione ingra­iana sui «nuovi beni» che pre­cede la vul­gata sui «beni comuni»). Da qui prende le mosse l’ingraismo, spe­ci­fica variante del comu­ni­smo italiano.

L’Ingrao poli­tico è stato spesso defi­nito uto­pi­sta e visio­na­rio per­ché la poli­tica resta per lui ten­sione morale e pro­getto, oltre che comu­ni­ca­zione con gli altri e un po’ pro­fe­zia del tempo futuro: non solo tec­nica o ammi­ni­stra­zione dell’esistente. Que­ste pecu­lia­rità ingra­iane non pia­ce­vano ai suoi «nemici» nel par­tito, a ini­ziare da Gior­gio Amen­dola fino ai «miglio­ri­sti» della cor­rente di Gior­gio Napo­li­tano. Resta tut­ta­via un mistero spie­garsi le ori­gini del pen­sare l’agire poli­tico così par­ti­co­lare da parte di un intel­let­tuale di Lenola, pro­fonda pro­vin­cia ita­liana, con scarsa cono­scenza della realtà inter­na­zio­nale, che in gio­ventù aveva una forte voca­zione per cinema e poe­sia.

Lo stesso Ingrao ha più volte ricor­dato come siano stati gli eventi tra­gici del Nove­cento (il fasci­smo, la guerra civile spa­gnola, la seconda guerra mon­diale) a sospin­gerlo oltre l’intimismo intel­let­tuale che avrebbe pre­fe­rito rispetto a un eccesso di vita pub­blica. Ingrao appar­tiene alla gene­ra­zione che è stata “costretta” a fare poli­tica. Del fascino gio­va­nile per la parola faranno fede pun­ti­glio­sità e per­fe­zio­ni­smo che sono restati al poli­tico negli scritti e nelle interviste.

Dopo la morte di Pal­miro Togliatti nel 1964, Ingrao ini­zia a par­lare insieme ad altri di «nuovo modello di svi­luppo» per supe­rare l’orizzonte della «demo­cra­zia pro­gres­siva» che non poteva por­tare il Pci al governo causa con­ven­tio ad exclu­den­dum. A spin­gerlo in quella dire­zione può essere stata la pro­fonda cono­scenza della società agri­cola (tor­nano le radici di Lenola e din­torni) che si andava tra­sfor­mando in realtà mar­gi­nale nell’Italia che diven­tava società pre­va­len­te­mente indu­striale. Il nome di Ingrao – inno­va­tore per eccel­lenza, con­ser­va­tore solo quando si trattò di scio­gliere il Pci – è spesso legato all’analisi pun­tuale delle tra­sfor­ma­zioni del capi­ta­li­smo ita­liano, alla sol­le­ci­ta­zione della demo­cra­zia par­te­ci­pa­tiva, allo stu­dio siste­ma­tico del potere decen­trato degli enti locali, alla riforma delle isti­tu­zioni e – negli anni Ottanta – alla crisi degli stati nazione e all’affacciarsi sulla scena dell’Europa poli­tica come ipo­tesi (Masse e potere del 1977, la con­ver­sa­zione con Romano Ledda Crisi e terza via del 1978, Tra­di­zione e pro­getto del 1982 sono libri che trac­ciano un per­corso). Il Crs da lui pre­sie­duto prima e dopo l’incarico di pre­si­dente della camera (1976–1979) è stato inol­tre fucina di discus­sioni, ricer­che e for­ma­zione di varie gene­ra­zioni di studiosi.

Chi ha amato da gio­vane cinema e poe­sia prima di diven­tare uno dei mas­simi diri­genti del Pci, deve aver guar­dato al fare poli­tica in modo tota­liz­zante come un limite, pur accen­tan­done la disci­plina (la «ragione di par­tito»). E deve aver con­ser­vato la curio­sità intel­let­tuale per altre forme di pen­siero e di lin­guaggi che non fos­sero la poli­tica. Nono­stante la lau­rea in giu­ri­spru­denza, che gli tor­nerà utile quando diri­gerà il Cen­tro riforma dello Stato (Crs) a ini­ziare dal 1975 e si occu­perà di decen­tra­mento e forme della demo­cra­zia, nel pen­siero di Ingrao è più il pro­getto che la norma la prin­ci­pale preoccupazione.

Con la forza delle idee, ha lasciato un’impronta sulle discus­sioni più vitali degli ultimi cinquant’anni della sini­stra ita­liana. Forse è stata la for­ma­zione cul­tu­rale fatta di approcci plu­rali e non orto­dos­sa­mente mar­xi­sta a favo­rire la ricerca imper­niata sul moni­to­rag­gio di cul­ture – com­presa quella cat­to­lica – e movi­menti che chie­de­vano al Pci di rin­no­varsi e di stare al passo coi tempi. È stato ad esem­pio pro­prio Ingrao, con il Crs, a pro­muo­vere i primi con­ve­gni sulla sini­stra euro­pea e il pos­si­bile destino dell’Europa. Ne sono la riprova gli Annali di poli­tica euro­pea pub­bli­cati dal Crs dal 1988 al 1993 insieme al con­ve­gno sul «caso sve­dese» pro­mosso addi­rit­tura nel 1983 in cui si discusse delle con­qui­ste social­de­mo­cra­ti­che del wel­fare di Stoccolma.

L’Ingrao stu­dioso e inno­va­tore non può quindi essere sepa­rato dall’Ingrao diri­gente di primo piano del Pci. Quello che ha diretto l’Unità per dieci anni (1947–1957), che nel 1966, all’XI Con­gresso del Pci (il primo dopo la morte di Togliatti), pose il pro­blema del plu­ra­li­smo interno e della liceità del dis­senso legan­dolo a un’altra let­tura delle moder­niz­za­zioni che attra­ver­sa­vano l’Italia (il suo applau­di­tis­simo inter­vento è pas­sato alla sto­ria per quel «non mi avete con­vinto», con­tiene però una vera e pro­pria ana­lisi alter­na­tiva a quella impe­rante in que­gli anni nel par­tito e andrebbe riletto in quella chiave). È stato pre­si­dente del Gruppo del Pci per due legi­sla­ture (1964–1972), prima di salire sullo scranno più alto di Montecitorio.

Nac­quero a ini­ziare dagli anni Ses­santa varie gene­ra­zioni di «ingra­iani», alcuni della prima die­dero vita a il mani­fe­sto e si sepa­ra­rono dall’antico mae­stro rima­sto fedele al par­tito (il «gorgo», dirà oltre trent’anni dopo in un semi­na­rio ad Arco della sini­stra comu­ni­sta interna ed esterna al Pci che si poneva il pro­blema di cosa fare dopo la «svolta» di Achille Occhetto). Una fedeltà riba­dita al par­tito fino al 1993, quando decise di abban­do­nare il Pds. Prima ancora c’era stato il rifiuto a ripe­tere l’esperienza di pre­si­dente della camera (Ingrao disse no alla pro­po­sta fat­ta­gli da Enrico Ber­lin­guer) per­ché aveva voglia di tor­nare a stu­diare immer­gen­dosi nell’attività di ricerca del Crs. I limiti dell’Ingrao poli­tico sono l’altra fac­cia delle spe­ci­fi­cità dell’Ingrao intel­let­tuale che abbiamo ricor­dato fin qui. Non è mai stato un poli­tico puro, forse ha perso alcune occa­sioni per ren­dere più inci­siva la sua azione nel Pci.

Nell’ultimo ven­ten­nio Ingrao non ha mai smesso di pen­sare, scri­vere, par­lare, par­te­ci­pare alle mani­fe­sta­zioni con­tro la guerra in Kosovo, Afgha­ni­stan, Iraq. È sem­pre stato un punto di rife­ri­mento per la sini­stra critica.

Negli anni Novanta ha pro­vato a ricon­giun­gersi con il mani­fe­sto, par­te­ci­pando prima all’esperienza del Cer­chio qua­drato (inserto set­ti­ma­nale curato da Ida Domi­ni­janni) e poi alla seconda serie della rivi­sta men­sile diretta da Lucio Magri. Del resto, tra le sue auto­cri­ti­che c’è sem­pre stata quella di non essersi oppo­sto nel 1969 alle radia­zioni dal Pci di Luigi Pin­tor, Ros­sana Ros­sanda, Aldo Natoli, Luciana Castel­lina, Valen­tino Par­lato, Lucio Magri, Eli­seo Milani, Filippo Maone e tanti altri. Con Ros­sanda ha scritto nel 1995 il libro Appun­ta­menti di fine secolo segna­lando la quan­tità di pro­blemi irri­solti che il Nove­cento con­se­gnava al secolo nuovo.

A ini­ziare dal 1986, sen­ten­dosi chissà libero dal ruolo di diri­gente di par­tito, Ingrao pub­blica final­mente i suoi libri in versi. Si ripe­terà quando la scom­parsa del Pci gli porrà il pro­blema di usare un altro lin­guag­gio – più com­plesso e meno certo di quello della poli­tica – per capire le novità legate al crollo del Muro di Ber­lino. Il dub­bio dei vin­ci­tori (1986), L’alta feb­bre del fare (1994) e Varia­zioni serali (2000) sono le sue anto­lo­gie poe­ti­che. Nel primo volume Ingrao fa i conti con uto­pia, scon­fitta, e dub­bio. Nel secondo, le domande riguar­dano il «fare» come limite. Le poe­sie di Varia­zioni serali sono infine elo­gio dell’esi­tare. Se c’è un filo che lega que­sta ideale tri­lo­gia, va ricer­cato nella sot­to­li­nea­tura delle emo­zioni indi­vi­duali alla ricerca di senso: un’attenzione a temi che pur­troppo la poli­tica ignora. Il vec­chio Pie­tro ritorna attento come in gio­ventù ai segni seman­tici delle parole, ad ambi­guità e incom­piuto. Con que­sta scelta ci stu­piva ancora una volta come quando in una inter­vi­sta – già ultraot­tan­tenne – svelò l’interesse per la video­mu­sic che lega forme e ritmi diversi della comunicazione.

C’è un dolore in que­ste gior­nate di festa per il com­pleanno numero 99. È l’assenza di Laura Lom­bardo Radice (quest’anno avrebbe com­piuto 101 anni), la sua amata com­pa­gna, che un libro curato da Chiara Ingrao (Sol­tanto una vita, 2005) ci ha resti­tuito nella sua com­ples­sità bio­gra­fica. A fare com­pa­gnia a Pie­tro ci sono i figli Chiara, Renata, Guido, Bruna e Cele­ste, i nipoti e i pro­ni­poti. E ci sono i tanti che vogliono bene a Ingrao e pro­vano a ispi­rarsi a quel sin­go­lare metodo del pen­sare e fare che è l’«ingraismo».

Come ottenere il consenso dei Comuni e lasciare laRegione libera di trasformare a piacimento il territorio? Ce lo spiega.. .>>>


Come ottenere ilconsenso dei Comuni e lasciare la Regione libera di trasformare apiacimento il territorio? Ce lo spiega la "Proposta di adeguamento dellalegge urbanistica della Liguria" (febbraio 2014), che, con alcune limitatema significative integrazioni alla LR n. 36 del 1997, se approvata, raggiungel' obiettivo.

Vediamo come. Agliartt. 11 e 16 bis viene introdotta una innovazione cruciale: la Regione inambiti o aree o per interventi definiti dal Piano Territoriale Regionale (PTR)può promuovere, adottare e approvare progetti urbanistici o edilizi regionaliimmediatamente prevalenti sulle previsioni degli strumenti di pianificazioneterritoriale di livello metropolitano, provinciale e comunale. I progetti sonodi esclusiva competenza della Giunta, mentre il Consiglio non ha voce incapitolo, né tanto meno gli enti locali e i cittadini di cui non si prevedealcuna forma di partecipazione. La Giunta potrà così decidere in esclusiva su inceneritori,impianti di smaltimenti di rifiuti, centrali di produzione energetica, bretellestradali, ma anche porti, ospedali, carceri: insomma, tutto quello che nonrientra direttamente nelle grandi opere della legge obiettivo.

E i Comuni?Devono subire (ammesso che sia vero) i progetti della Giunta, ma allo stessotempo riacquistano una pressoché totale autonomia nella pianificazione localecon due semplici mosse. La prima: mentre nella legge vigente le prescrizioni delPTR dovevano essere recepite da Province e Comuni, pena l'esercizio di poterisostitutivi, questa fondamentale clausola è scomparsa nella Proposta. Non èchiaro, perciò, cosa avverrà qualora i Comuni non adeguino disciplina oprevisioni del Piano urbanistico comunale (PUC) entro il termine fissato.Qualcosa di simile si è verificato Toscana, dove la Regione può opporsi solodebolmente a un piano comunale in contrasto con il Piano di indirizzoterritoriale ed è impotente se questo viola la legge di governo del territorio:ciò che ha motivato una rabbiosa resistenza dei Comuni alla nuova leggeurbanistica approvata dalla Giunta regionale, che detta loro regole più stringenti.

Altrettantoimportante è la seconda mossa: né Regione né Provincia, né Città metropolitanaeserciteranno più alcuna forma di controllo sul Piano urbanistico operativo(PUO), lo strumento conformativo degli usi del suolo in cui si coagulano gliinteressi privati e le pressioni speculative. Se ora la Provincia può annullareun PUO non conforme alle prescrizioni regionali o provinciali, in futuro leistituzioni sovraordinate si troveranno inermi rispetto a un Piano operativoche ignori le disposizioni del PTR, del Piano provinciale e dello stesso Pianocomunale. L'esperienza toscana - analoga per le condizioni di permissività aiComuni - ha visto Piani strutturali pieni di buone intenzioni e Piani operativi(in Toscana, "Regolamenti urbanistici") che ne raddoppiavano dimensionamentie carichi urbanistici o introducevano varianti contestuali quando nonsurrettizie, senza che la Regione potesse (ammesso che volesse) esercitarealcun intervento di opposizione.

Le strategiedella precedente amministrazione regionale toscana e di quella attuale dellaLiguria si sostanziano in un patto politico in cui alla Regione spettano leiniziative e gli accordi con i poteri forti (con lo Stato, con le banche, conla grande imprenditoria), mentre ai Comuni spetta di gestire e trovare il consensodi un "battaglione edilizio" che, nonostante tutto, vede nellacementificazione del territorio l'unica via di arricchimento. Il fatto che laLiguria crolli sotto il peso delle grandi opere, delle attrezzature impattantie inutili (per la collettività) e per un'imprenditoria di retroguardia cheintende occupare ogni residuo suolo disponibile, evidentemente non turba gliamministratori regionali.

La nuova leggedella Toscana - già commentata su eddyburg - e la nuova legge della Liguria, sonoperciò due maniere radicalmente differenti di intendere il governo delterritorio, la partecipazione dei cittadini, la necessità di contenere ilconsumo di suolo. Due modelli opposti per la nuova legge urbanistica statale.Affidata questa al premier Renzi e al ministro Lupi, vi sono pochi dubbi suiquale modello prevarrà.

Né chiarezza né coerenza né risorse nel pasticcio della Cittàmetropolitana in salsa Delrio, Lavoce.info, 18 febbraio 2014

Il disegno di legge Delrio, approvato dalla Camera e oggi indiscussione al Senato, oltre a trasformare le attuali Province in enti disecondo livello e in prospettiva in pure agenzie a supporto dei Comuni e delleUnioni di Comuni, stabilisce l’organizzazione, le funzioni e le modalità dielezione degli organi delle Città Metropolitane, previste dal Titolo V dellanostra Costituzione. Il Sindaco del comune capoluogo diverrebbe anche ilSindaco metropolitano, e il nuovo ente, che si sostituirebbe alla Provincia sulsuo territorio, sarebbe governato da un consiglio, eletto da – e fra - gliattuali sindaci e consiglieri comunali, e da una conferenza in cui siederebberotutti gli attuali sindaci. Il Sindaco metropolitano attribuirebbe deleghe aconsiglieri di sua fiducia; tutte le cariche sarebbero a titolo gratuito, inomaggio all’obiettivo della legge di “ridurre la classe politica” e di limitarela spesa pubblica. A certe condizioni, dopo tre anni si potrebbe procedereall’elezione del Sindaco a suffragio universale.
Sarebbe la terza volta in cui ci si accinge a costituirequesto nuovo ente, ritenuto necessario per rilanciare la competitività dellenostre grandi città nonché l’efficienza e la qualità delle loro aree diinfluenza. Speriamo che sia la volta buona! Ma il problema sta nel fatto che laparte delle legge che tratta del tema della Città Metropolitana, al suo statoattuale, è inadeguata: la distanza fra obiettivi e soluzioni appare tale da farpresagire un’ennesima occasione mancata per il paese.
Servirebbe infatti, come recita la relazione al disegno dilegge iniziale, “uno strumento di governo dalle ampie e robuste competenze”. Mala proposta legislativa va in tutt’altra direzione: le Città Metropolitaneassomigliano in larghissima misura alle Province, già deboli istituzionalmentee ulteriormente indebolite, “enti governati dai sindaci” che prestano gratuitamentei loro servizi, senza risorse per le poche competenze aggiuntive. Le funzioniassegnate sono infatti “le funzioni fondamentali delle Province”(pianificazione territoriale di puro coordinamento, infrastrutture interne e servizidi mobilità, ambiente, rete scolastica). Di nuovo troviamo sostanzialmente solo:
- il piano strategico: uno strumento di coordinamento e diindirizzo, certamente utile, ma che è possibile attivare comunque, come hadimostrato la recente esperienza realizzata dalla Provincia e dal Comune diBologna;
- la promozione dello sviluppo, ma totalmente senza risorse;
- la pianificazione territoriale generale, non meglio definita,che duplica e rischia di appiattirsi sulla pura pianificazione di coordinamento.
Di più: se si volesse passare all’elezione diretta delSindaco metropolitano occorrerebbe lo smembramento del comune capoluogo, unavecchia e sbagliata idea dei primi anni ’90. Indeboliamo la città centrale percostruire una Città Metropolitana già debole?
Vediamo più in dettaglio quattro punti chiave. Lapianificazione territoriale di area vasta - cui si dovrebbe attribuire ilcompito fondamentale di ridurre l’insensato consumo di suolo, anche riorientandol’attività edilizia verso la rigenerazione urbana - temo stia subendo lo stessodestino che si vuole per le Province: un sostanziale ridimensionamento. La sua attribuzionea istituzioni di secondo livello è certo accettabile, come avviene in Franciaper le Communautés urbaines, ma a condizione che se ne definiscano i poteri diinquadramento e di vincolo sulla pianificazione comunale, le funzioni loro trasferitedai Comuni, il sistema di incentivi; in sintesi, l’ ’adeguatezza’ delle nuovestrutture per esercitare funzioni di area vasta. Occorrerebbe almeno indicare,come è stato giustamente suggerito da Luciano Vandelli, che la pianificazionemetropolitana coincida con la ‘pianificazione di struttura’ introdotta edefinita da molte leggi regionali italiane.
Quanto alla condizione dello scorporo del comune centrale –una condizione alleggerita alla Camera per le CM con più di 3 milioni diabitanti, ma in modo non facilmente giustificabile - essa potrebbe rispondere all’esigenza dievitare conflitti fra il sindaco del comune centrale e il sindacometropolitano, una volta che entrambi siano eletti direttamente, secondo la giustapreoccupazione di molti. Ma ribatterei: perché utilizzare uno strumento natoper tutt’altro obiettivo – quello di evitare scontri fra capoluogo e hinterland– e comunque sbagliato? Perché temere un conflitto aperto fra le dueistituzioni, che potrebbe essere evitato differenziando in modo chiaro lefunzioni loro attribuite? Questa condizione renderebbe ancora più difficile ilpassaggio all’elezione diretta del sindaco metropolitano, un obiettivo didemocrazia, anche se da raggiungere nel lungo periodo.
Una parola sul numero di CM prevedibili sulla base del testodi legge attuale. In Francia, dopo un periodo di sperimentazione di cinquant’annisulle Communautés urbaines, si è deciso oggi di passare alle Métropolesistituendone tre (per il momento). In Italia, dopo un dibattito di qualche mesee soprattutto nessuna sperimentazione, stiamo per lanciarne 18 (9 obbligatorie+ Roma + 5 possibili nelle regioni a statuto speciale + 3 nelle province conpiù di un milione di abitanti), aumentabili in futuro, più uno statuto disimile autonomia per due province montane. Ogni commento è superfluo.
Infine occorrerebbe rafforzare nettamente sia gli obiettiviche le competenze attribuite alle città metropolitane, prevedendo almeno:
- una robusta competenza di pianificazione territoriale “distruttura”, come già detto,
- una delega sulla fiscalità delle trasformazioniimmobiliari e sulle relative rendite, oggi frammentata e tenuta a livelliincompatibili col finanziamento finanche delle infrastrutture di base e dellamanutenzione urbana,
- un esplicito obiettivo di riduzione dei consumi di suolo,
- un obiettivo di semplificazione ed efficientamento dellagestione delle aree produttive,
- una competenza su edilizia sociale e riuso del patrimonioedilizio inutilizzato,
- l’istituzione di un “consiglio di sviluppo” metropolitano conle parti sociali, economiche e culturali, sull’esempio francese,
- la proposizione di credibili procedure per lapartecipazione dei cittadini,
- un’azione di comunicazione e di costruzione di un’identitàmetropolitana.
Si tratta di materie che potrebbero essere anchesuccessivamente introdotte nei singoli statuti metropolitani con leggiregionali, ma sulle quali sarebbe molto meglio che la legge nazionale dessealmeno un forte indirizzo, invece di restare totalmente muta. Al Senato spettanooggi a mio avviso queste cruciali responsabilità.

Non si può adoperare il grimaldello della “perequazione” estendola al di là degli ambiti individuati dai piani urbanistici e smantellando così il sistema della pianificazione. Venetoius online, 13 febbraio 2014
Che la cosiddetta “perequazione” sia una sorta di escrescenza maligna dell’urbanistica a noi è sempre apparso evidente. Ma non tutti lo pensano o, se lo pensano, non lo dicono. In verità ci risulta difficile non pensare che la perequazione sia diventata una imposta creata illegittimamente dai comuni in violazione dell’articolo 23 della Costituzione (perchè manca una legge statale che la giustifichi).

Un mezzo passo avanti, però, lo fa il Consiglio di Stato con la sentenza n. 616 del 2014, che stronca duramente una perequazione accettata dal comune di Oderzo. Oggetto del ricorso di un dissenziente erano il P.I. e gli atti presupposti (tra i quali l’accordo di pianificazione ex art. 6 l.r. n. 11/2004), che hanno modificato la destinazione di un’area da residenziale a commerciale direzionale, rendendo possibile la realizzazione da parte della controinteressata di un fabbricato ad uso commerciale direzionale, con annessa sistemazione della viabilità contermine, in modo particolare mediante la realizzazione di una rotonda al fine di favorire gli accessi limitrofi. In via perequativa, a fronte della nuova destinazione urbanistica dell’area oggetto dell’accordo, il soggetto privato si impegnava nei confronti dell’amministrazione comunale alla realizzazione degli interventi di sistemazione e riqualificazione di Piazza della Vittoria.

Il Consiglio di Stato ha accolto il motivo di ricorso col quale l ’appellante lamentava la violazione dell’art. 46 delle norme tecniche del PAT, delle linee guida approvate con delibera n. 60 del giorno 8 marzo 2010, nonché eccesso di potere sotto il profilo dell’illogicità, dello sviamento e del difetto di istruttoria. In concreto, l’appellante si doleva della modalità con cui era stato applicato al caso in specie il principio perequativo, atteso che l’accordo intervenuto tra il Comune e la ditta interessata si è fondato sulla disponibilità della società a realizzare a proprie spese, in cambio della variazione della destinazione urbanistica dell’area di interesse, gli interventi di risistemazione di un’area pubblica, ossia piazza della Vittoria, per un importo di circa €. 400.000 Euro, dando vita così ad opere slegate funzionalmente con l’area dell’intervento.

Così il Consiglio di Stato spiega perchè la perequazione non può portare a realizzare opere fuori ambito:

«Osserva la Sezione come il tema del rispetto degli standard urbanistici abbia nuovamente assunto di recente un rilievo centrale nell’ambito degli strumenti di governo del territorio. In questo senso, sono riscontrabili non solo interventi normativi (peraltro organizzati secondo prospettive dialetticamente opposte riguardo al tema della loro necessità e cogenza, poiché mirano, da un lato – come nel caso della legge 14 gennaio 2013, n. 10 “Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani” - a marcarne la rilevanza ai fini della qualità di vita urbana e, dall’altro – come con l’introduzione dell’art. 2-bis “Deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati” nel d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia” – a renderne al contrario più flessibile e meno stringente il contenuto), ma anche prese di posizione di questo Consiglio, che non si è sottratto al dovere di esprimere il proprio avviso su un tema così rilevante nella costruzione del tessuto urbanistico.

«In particolare, questo Giudice ha già delineato una propria linea interpretativa in merito al collegamento tra interventi edilizi e ricerca degli standard urbanistici e ha così assunto decisioni che hanno, ad esempio, negato la sufficienza di un parcheggio collocato in area non fruibile, dove la fruibilità era collegata non a valutazioni normative, ma fattuali, poiché il “terreno pertinenziale destinato a parcheggio deve ragionevolmente intendersi come condizione necessaria per la migliore fruizione del parcheggio medesimo da parte di tutti coloro che intendono comodamente accedervi con i propri mezzi di locomozione per poi uscire con i relativi acquisti più o meno ingombranti e/o pesanti da collocare su tali mezzi” (Consiglio di Stato, sez. V, 25 giugno 2010 n. 4059); oppure decisioni che hanno evidenziato i pericoli legati alla smaterializzazione degli standard, sottolineando come “la monetizzazione degli standard urbanistici non può essere considerata alla stregua di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò perché, da un lato, così facendo si legittima la paradossale situazione di separare i commoda (sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli incommoda (il peggioramento della qualità di vita degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela giuridica agli interessi concretamente lesi degli abitanti dell’area” (Consiglio di Stato, sez. IV, ord. 4 febbraio 2013 n. 644).
«Ancora, si è affermato che “qualora si potessero individuare gli standard costruttivi in ragione del solo dato dimensionale, verrebbe conseguentemente posto in ombra il dato funzionale, ossia la destinazione concreta dell’area, come voluta dal legislatore. Soddisfacendo gli standard con la messa a disposizione di aree non utilizzabili in concreto (ossia, seguendo l’indicazione del T.A.R., utilizzando “le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti un posto macchina standard ma insufficienti per realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile accesso”), la norma di garanzia verrebbe frustrata, atteso che il citato art. 41 sexsies della legge urbanistica non contempla un nudo dato quantitativo, ma un dato mirato ad uno scopo esplicito” (Consiglio di Stato, sez. IV, 28 maggio 13 n. 2916). Come si vede, il quadro complessivo emergente dalla giurisprudenza è quello di una marcata attenzione alla funzione stessa degli standard urbanistici, intesi come indicatori minimi della qualità edificatoria (e così riferiti ai limiti inderogabili di densità edilizia, di rapporti spaziali tra le costruzioni e di disponibilità di aree destinate alla fruizione collettiva) e come tali destinati a connettersi direttamente con le aspettative dei fruitori dell’area interessata. Il che comporta, come già notato dalle decisioni che precedono, come il criterio essenziale di valorizzazione e di decisione sulla congruità dello standard applicato sia quello della funzionalizzazione dello stesso al rispetto delle esigenze della popolazione stanziata sul territorio, che dovrà quindi essere posta in condizione di godere, concretamente e non virtualmente, del quantum di standard urbanistici garantiti dalla disciplina urbanistica. La Sezione non può peraltro esimersi dal notare come la cogenza di questa stretta correlazione spaziale tra intervento edilizio e localizzazione dello standard, correlazione che connota il tema della qualità edilizia, assuma una valenza ancora più marcata nei casi in cui operino strumenti urbanistici informati al principio della perequazione. Infatti, la soluzione perequativa, che tende ad attenuare gli impatti discriminatori della pianificazione a zone, sia in funzione di un meno oneroso acquisto in favore della mano pubblica dei suoli da destinare a finalità collettive, sia per conseguire un’effettiva equità distributiva della rendita fondiaria, si fonda su una serie di strumenti operativi che, letti senza un congruo ancoraggio con le necessità concrete cui si riferiscono, favoriscono astrazioni concettuali pericolose.
«L’utilizzo di formule retoricamente allettanti (aree di decollo, aree di atterraggio, pertinenze indirette, trasferimenti di diritti volumetrici et similia) non deve fare dimenticare che lo scopo della disciplina urbanistica non è la massimizzazione dell’aggressione del territorio, ma la fruizione, privata o collettiva, delle aree in modo pur sempre coerente con le aspettative di vita della popolazione che ivi risiede. In particolare, l’assenza di una disciplina nazionale sulla perequazione urbanistica (tanto più necessaria dopo che la Corte costituzionale ha affermato, con la sentenza del 26 marzo 2010 n, 121, che le “previsioni, relative al trasferimento ed alla cessione dei diritti edificatori, incidono sulla materia «ordinamento civile», di competenza esclusiva dello Stato”, con ciò rendendo dubbia la presenza di discipline regionali emanate prima della fissazione di un quadro organico statale – che non si limiti all’aspetto della mera documentazione della trascrizione dei diritti edificatori, di cui all’art. 5 comma 3 del D.L. 13 maggio 2011, n. 70) dimostra la viva necessità di una disamina concreta delle diverse previsioni adottate negli strumenti urbanistici, al fine di evitare che l’estrema flessibilità delle soluzioni operative adottate dalle singole Regioni si traduca in una lesione di ineliminabili esigenze di salvaguardia dei livelli qualitativi omogenei di convivenza civile (e la riconducibilità dell’attività amministrativa, intesa come “prestazione”, al parametro di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m) della Costituzione, proprio in rapporto a istituti di diritto dell’edilizia, è chiarissima nella giurisprudenza del giudice delle leggi, cfr. Corte Costituzionale, 27 giugno 2012 n. 164).
«Conclusivamente, la Sezione intende rimanere fedele al suo orientamento che vede lo standard urbanistico collocarsi spazialmente e funzionalmente in prossimità dell’area di intervento edilizio, al fine di legare strettamente e indissolubilmente commoda e incommoda della modificazione sul territorio. Sulla scorta delle coordinate appena indicate, appare del tutto palmare l’inidoneità della soluzione proposta dal Comune, che ha reperito gli standard collegati all’intervento edilizio proposto dalla parte privata appellata acconsentendo alla realizzazione di un’opera pubblica in area non contigua né funzionalmente collegata con quella di riferimento. Infatti, con l’accordo intervenuto tra il Comune e la CAMA s.r.l. si è stabilito che la società, in cambio della variazione della destinazione urbanistica dell’area di interesse, realizzasse a proprie spese gli interventi di risistemazione di un’area pubblica, ossia piazza della Vittoria, per un importo di circa €. 400.000 Euro. Si tratta di un’area collocata in zona non contigua né funzionalmente collegata con il sito dove avverrà la trasformazione urbanistica da residenziale a commerciale. Il primo giudice ha dato atto che le norme tecniche del PAT ammettono il ricorso alla procedura perequativa, disponendo in termini generali che per le aree interessate dalle linee di espansione residenziale la modalità perequativa consiste nella cessione del 50% dell’area che il PI attiverà, da destinare alla dotazione urbanistica o al trasferimento dei crediti edilizi. La stessa disposizione prevede inoltre che, in alternativa alla cessione delle aree e a seguito della valutazione operata da parte dell’amministrazione, potrà essere ammessa la realizzazione di opere di interesse pubblico, laddove l’amministrazione ne ravvisi l’opportunità. Tuttavia, interpretando il contenuto di tale disciplina, ha fondamentalmente scisso i due momenti, affermando che, “se è vero che in linea generale la medesima disposizione delle norme tecniche qui richiamata prevede che ai fini perequativi possano anche essere considerate aree distinte e non contigue, purchèé funzionalmente collegate, è anche vero che detta prescrizione si collega direttamente all’ipotesi ordinaria e cioè a quella per cui la modalità perequativa viene perseguita mediante la cessione di una percentuale delle aree che il PI attiverà. All’ipotesi diversa e derogatoria rispetto a tale previsione, ossia quella consistente nella realizzazione a spese del privato di opere di pubblico interesse, non pare applicabile anche l’invocato requisito della contiguità e funzionalità delle aree, per il semplice motivo che le valutazioni dell’amministrazione (valutazione che, richiamando il termine utilizzato nella stessa disposizione, è di opportunità) possono anche ravvisare l’interesse alla realizzazione di opere in altri ambiti del territorio comunale. In altre parole, una volta ammesso che ai fini della perequazione sia possibile anche compensare il vantaggio ricevuto con la realizzazione di un’opera pubblica, ciò non implica necessariamente che detta opera debba essere unicamente realizzata in aree funzionalmente collegate. In realtà come correttamente indicato nelle linee guida di cui alla delibera di Giunta n. 60/2010, è sufficiente che si tratti di opere rientranti nel programma triennale delle opere pubbliche e quindi che le stesse siano giustificate dalla programmazione comunale e dall’interesse pubblico sotteso alla loro realizzazione.”
«La Sezione contrasta decisamente tale assunto, proprio nella considerazione che la tipologia di esigenze pubbliche, che giustificano l’inserimento di un’opera nel programma triennale di cui all’art. 128 del codice appalti, non sono sovrapponibili a quelle che animano la disciplina degli standard urbanistici, visti i contesti topograficamente differenziati e gli interessi dimensionalmente distinti che li giustificano. In particolare, la vicenda qui in esame lo dimostra in maniera lampante come gli interessi privati e pubblici sottesi ai due diversi provvedimenti siano addirittura opposti: infatti, se è vero che in una determinata area cittadina vi sarà un miglioramento della viabilità, è pur vero che in un’altra avrà luogo un parallelo peggioramento della qualità di vita, conseguente alla diversa dislocazione degli interventi edificatori. Il che contrasta con il criterio di radicamento territoriale degli standard sopra evidenziato e rende concreto quel pericolo di miopia concettuale sopra tratteggiato, dove il rispetto della costruzione teorica fa perdere di vista il risultato effettivamente conseguito e il suo impatto sul territorio. E deve essere rimarcato come il ricorso a concetti di più difficile concretizzazione, come appunto quello di interesse pubblico, non deve far dimenticare come questo non abbia una sua connotazione unica e globalizzante, ma sia oggettivamente complesso, frammentato e, nella sua connotazione più utilizzata, quella di interesse pubblico in concreto, sia il frutto di una ponderazione di tutti gli interessi, privati e pubblici, che si equilibrano nel procedimento. Il che rende ragione dell’insidiosità della sovrapposizione (e della ritenuta preminenza) dell’interesse concreto che ha giustificato la redazione di un atto amministrativo, come il piano triennale delle opere pubbliche, rispetto all’altro interesse concreto (ma individuato in generale in previsioni di rango legislativo e regolamentare) che impone il rispetto degli standard urbanistici. Pertanto, in riforma della pronuncia del primo giudice, deve darsi atto dell’effettivo contrasto degli atti gravati con l’art. 46 delle norme tecniche del PAT e delle linee guida approvate con delibera n. 60 del giorno 8 marzo 2010, con consequenziale declaratoria di illegittimità in parte qua».

Un'oasi nel deserto dell'Italia renzusconiana: la Toscana. La legge urbanistica e il Piano paesaggistico regionale. Le proposte della Giunta passeranno indenni al vaglio del Consiglio? dipenderà anche dalla società. L'Unità, 29 gennaio 2014


I paesaggi toscani, amati in tutto il mondo, così diversi dall’Appennino al Tirreno, paesaggi come fatti a mano dall’uomo nei secoli, terrazzamento dopo terrazzamento, filare dopo filare, seminati di borghi e di città turrite e murate hanno, dopo due anni di studi e di confronti fra Regione e Ministero, un nuovo piano generale con un apparato imponente di elaborati (ben 25 dvd). L’ha approvato la Giunta presieduta da Enrico Rossi (Pd) che lo definisce “un piano ciclopico per un territorio tutelato al 60 per cento”. Ma che, purtroppo, nei decenni precedenti ha subito aggressioni pesanti. A colpi di lottizzazioni. Al punto che fu salutata come una svolta la dichiarazione di esordio, oltre tre anni or sono, dello stesso presidente Rossi: “Non credo che il futuro della Toscana siano le villette a schiera.”

Quelle villette a schiera sotto accusa un po’ dovunque ad opera di comitati di base attivissimi, partiti dalla denuncia della mediocre lottizzazione di Monticchiello in Comune, nientemeno, di Pienza la città ideale di Pio II, e del convegno che ne seguì nel 2006. Nel 2004 erano stati rilasciati in Toscana permessi per quasi 5 milioni di metri cubi di sole residenze. Una colata. Dopo le elezioni regionali del 2010, venne chiamata a reggere lo strategico assessorato all’Urbanistica un’ottima docente della materia a Venezia, Anna Marson, con casa in Toscana, la quale si è gettata con passione e competenza nell’opera di revisione di una politica che rischiava di intaccare un patrimonio comune inarrivabile dalla Maremma alla Versilia, dal Senese all’Aretino, al Cortonese. “Il paesaggio in Toscana conta”, osserva l’assessore Marson, che ha dovuto e dovrà parare, come il presidente Rossi, non pochi attacchi. “E’ un bene comune di tutti i suoi abitanti che incorpora la memoria del lavoro di generazioni passate e costituisce un patrimonio per le generazioni a venire”. Esso richiede “non solo tutela, ma anche cura e manutenzione continua, rappresenta un valore aggiunto straordinario in termini di riconoscibilità, ma di attrattività anche economica del territorio”. So per certo che a chi esporta negli Stati Uniti vini toscani di qualità i compratori americani chiedono anzitutto delle buone immagini che consentano di capire in quali paesaggi sono collocate quelle vigne doc: più essi sono belli e più quei vini valgono. La bellezza come valore economico oltre che sociale.

Non è stato un cammino facile questo del Piano elaborato col Ministero dei Beni culturali come prevede il Codice per il Paesaggio, e lo sarà ancora meno in Consiglio regionale. Come quello della parallela legge urbanistica regionale, di cui parleremo in altra occasione. Ma dobbiamo augurarci che, grazie anche all’apparato di studi e di approfondimenti dal quale nascono le nuove regole paesaggistiche, esso possa vincere resistenze e opposizioni, divenendo un esempio per le altre Regioni, per lo Stato stesso, per il Parlamento che da troppo tempo assiste inerte alla cementificazione diffusa, ad un consumo di suolo forsennato. Di suolo e di paesaggio.

Il piano definisce in modo puntuale il territorio urbanizzato differenziando le procedure per intervenire in esso da quelle per la trasformazione in aree esterne sia per salvaguardare i territori rurali, sia per promuovere riuso e riqualificazione delle aree degradate o dismesse. Esso non consente nuove edificazioni residenziali o le sottopone al parere obbligatorio della conferenza di copianificazione. Ci sarà un maggior accesso dei cittadini agli atti urbanistici e il monitoraggio costante della situazione territoriale. In modo di fornire alla Regione e alla conferenza paritetica fra le istituzioni materiali e pareri tecnici elaborati. Nel paesaggio come “bene comune costitutivo dell’identità collettiva toscana” - fa notare l’assessore Marson - si compie lo stesso percorso realizzato negli anni ’50 e ’60 dal vincolo su singoli edifici alla tutela di interi centri storici. Con un recupero concettuale e politico importante: i piani urbanistici intercomunali. All’agricoltura va evitato il più possibile lo spezzettamento dovuto a interventi non agricoli: essa, se rispettosa dell’ambiente, può risultare fondamentale “per lo sviluppo sostenibile e durevole, garantendo la qualità alimentare e ambientale, la riproduzione del paesaggio, l’equilibrio idrogeologico, il benessere anche economico della regione”. Funzioni molteplici, tutte essenziali, che l’abbandono delle terre alte e un’agricoltura “industriale” non rispettosa dell’ambiente (spianato a colpi di ruspe) hanno depotenziato o cancellato, provocando, incrementando frane, smottamenti, alluvioni. Guasti di cui l’uomo è responsabile e che bisogna sanare, prevenire.

Il piano paesaggistico è organizzato su di un livello regionale e su venti ambiti, dalla Lunigiana alla bassa Maremma, dal Casentino alla Val d’Orcia. Esso “è un piano sovraordinato cui sono tenuti a conformarsi gli altri piani e programmi di livello regionale e locale”. Gerarchia fondamentale. Con una certezza delle regole tale da ridurre al minimo la discrezionalità relativa ai procedimenti e alle stesse valutazioni di merito, ai tempi della pianificazione (da accorciare dai 6 anni attuali a 2 al massimo).

Quanti in Italia credono ancora, nonostante le mille cocenti delusioni, al presente e al futuro della pianificazione, alla tutela attiva del paesaggio e dell’ambiente di un Belpaese amato più all’estero ormai che in Italia, si schierino a favore di questa copianificazione esemplare fra Ministero e Regione Toscana e della parallela legge urbanistica regionale. Questo è vero, orgoglioso regionalismo. Questo che afferma un codice di regole condivise “per il buongoverno”. Come non ricordare, a questo punto, gli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo pubblico di Siena sul Buongoverno in città e in campagna? Come non ricordare le lontane parole di Emilio Sereni, storico del paesaggio agrario, “il gusto del contadino per “il bel paesaggio” agrario nato di un sol getto con quello di un Benozzo Gozzoli per il “bel paesaggio” pittorico, e con quello del Boccaccio per il “bel paesaggio” poetico del Ninfale fiesolano”? Notazione ripresa nel ‘77 da Renato Zangheri anche se le campagne sembravano davvero divenute marginali. Oggi sappiamo che, per tanti versi, non è più così. La collina italiana si è in parte ripopolata e la montagna ha quanto meno arrestato la fuga biblica durata oltre mezzo secolo. Ma per tornare a sperare dobbiamo pianificare.

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