arcipelagomilano.org, 3 aprile 2018. Il terribile "anno di moratoria", inserito in una leggie che voleva difendere territorio e paesaggio dalla cementificazione, ma permise di concentrare in un anno decenni di schifezze. Ricordare in futuro
La legge 765 reca la data per così dire ingannevole del 6 agosto 1967 poiché il «ponte» doveva agganciare l’altra riva un anno dopo; infatti, l’applicazione della legge sarebbe iniziata il 6 agosto 1968. Il decreto n.1444 lo denominavamo in quel modo mentre l’incipit del testo dice «limiti inderogabili di altezza, di distanza fra i fabbricati…» e seguono le note indicazioni. Al primo significato del termine «ponte» se ne abbinava però un secondo: esprime il periodo pontiere, creduto quanto mai breve, fino all’approvazione di una nuova legge urbanistica generale sostitutiva della legge 1150 del 1942. Mezzo secolo è passato come attraverso una lunga guerra, vissuta dal paese attraverso immani distruzioni del proprio retaggio storico (patrimonio materiale e spirituale). L’esistenza di leggi regionali le più svariate, magari illegali per postulato e in linea col più smaccato liberismo, basta per giustificare la rinuncia a un unitario provvedimento generale.
La prima definizione della 765 divenne presto testimonianza allibita di fatti gravissimi, di avvenimenti urbanistici e edilizi di segno uguale a quelli che l’articolo 17 della legge intendeva bloccare, ovvero un’edificazione rovinosa nei comuni privi di piano regolatore o piano di fabbricazione ma anche, per certi aspetti diversi, nei comuni dotati di tali strumenti. L’anno «vuoto» dal 6 agosto 1967 al corrispondente giorno del 1968, dunque oltre il decreto degli standard, è stampato nella memoria degli anziani, anzi dei vecchi, e forse solo in loro sfortunatamente. In quei dodici mesi bastava gettare un pilastro di calcestruzzo o alzare pochi metri di muratura a caso in un fondo, persino alla vigilia della scadenza, per assicurarsi la costruzione di un edificio, nel caso migliore progettato falsamente. Nel paese imperversava una specie di banditismo edilizio autorizzato; un bislacco comportamento delle amministrazioni pubbliche sguarniva le città e le campagne d’ogni possibile difesa.
Altro che «limiti inderogabili» a venire. I provvedimenti legislativi, indipendentemente dal rinvio dell’obbligo, furono comunque facilmente aggirabili a causa della loro gracilità. La decantata fantasia italiana potette scatenarsi nelle forme più ardite, né mancò l’intensa partecipazione dei tecnici campioni di opportunismo e servilismo (funzionari pubblici, professionisti architetti, ingegneri, geometri e periti edili). Gli speculatori d’altronde proseguivano tranquillamente nella loro azione cominciata prima che la guerra fosse terminata. In quell’anno caddero un diluvio di metri cubi, come un’enorme frana da sotto in su, all’incontrario e centomila volte più vasta di quella di Agrigento del 19 agosto 1966; a dicembre la dura relazione-denuncia dell’ingegner Michele Martuscelli (1918/2003) sul n. 48 di Urbanistica. Fu il disastro agrigentino la causa creduta preminente della legge 765. Da un lato tentativo di tamponare in qualche maniera la perenne libertà concessa agli imprenditori di ricavare dal territorio e dalle città il massimo di rendita, dall’altro dimostrazione della impossibilità politica di volerlo fare davvero.
La costituzione ambientale storica del paese era già in buona parte sovvertita. Antonio Cederna aveva cominciato a scrivere nel 1949 gli articoli su il Mondo in seguito confluiti nel libro I vandali in casa (Laterza, 1956) allorché quei devastatori che avevano già scorrazzato in lungo e in largo; Leonardo Borgese aveva scritto sul Corriere della Sera i primi articoli della sua campagna in difesa del Bel Paese nel 1946 e proseguirà per 25 anni (oggi possediamo una raccolta di oltre 60 testi nel libro dal titolo-verità L’Italia rovinata dagli italiani, Rizzoli 2005); Cesare Brandi denunciava senza tregua la distruzione del paesaggio naturale e del patrimonio artistico dal 1956, anch’egli insisterà per un quarto di secolo sul Corriere e altri mezzi di informazione (saranno gli Editori Riuniti a pubblicare nel 2001 un bellissimo volume di quasi 500 pagine per 116 testi, dal titolo Il patrimonio insidiato). Il destino di una Napoli come rappresentata nel film di Francesco Rosi Le mani sulla città, 1963, appariva segnato in maniera irrimediabile. Secondo Pasolini, poi, l’Italia era già deturpata in buona parte alla fine degli anni Cinquanta.
Riscriviamo la conclusione della commissione Martuscelli (con Ambrosetti, Astengo, Di Paola, Guarino, Molajoli, Russo e Valle): «la commissione sente il dovere di segnalare la gravità della situazione urbanistico-edilizia dell’intero paese, che ha trovato in Agrigento la sua espressione limite […]. E non può non auspicare che da quest’analisi concreta parta un serio stimolo nel porre un arresto – deciso e irreversibile – al processo di disgregazione e di saccheggio urbanistico». Eppure, dopo una breve sosta attonita, gli stessi girgentini, forse anche ammirati da alloctoni di molle carattere, ripresero la lena e posero mano anche alla dirimpettaia Valle dei Templi, l’antica e da loro malvoluta Akragàs, reclamandola come proprietà ereditaria e dunque atta a essere meglio impiegata, invece che mediante il «classico» statico, mediante il «moderno» dinamico, vale a dire la costruzione di conveniente edilizia, benché bassa e scadente, compensativa dell’ingiusta perdita. E vennero man mano le 700 costruzioni di vario genere nella Valle, vere o false provvisorie a ridefinire il paesaggio, il secondo nuovo dopo il primo dominato dallo spaventoso prospetto dell’insensata espansione urbana destinata al crollo.
Chi potette visitare l’eccezionale ambiente storico e archeologico di Agrigento fino alla metà degli anni Cinquanta non si trovò nella medesima situazione di Alexis de Tocqueville e di suo fratello Eduard che videro nel 1827, «là giunti, l’immensa cerchia delle mura di Girgenti [… e] quasi tutto quel che resta dei monumenti antichi schierato sul bastione naturale che dà sul mare». Tuttavia non vide quasi niente di spaventoso. Il paesaggio giustapponeva la ricca città greca morta e la povera città storica viva in uno scenario nel quale le due realtà parevano ignorarsi ma, a saper ascoltare, potevano dialogare. Quando ritornò ai templi negli anni Sessanta prima della frana, cercò di procurarsi ad arte un qualche godimento dando le spalle all’orrida immanenza della città e osservando la residua Akragàs da sud. Se non avesse resistito e, come Orfeo, avesse girato la testa, la nuova città non sarebbe sprofondata al fondo dell’Ade come Euridice e lui avrebbe vomitato.
Quale nuova esperienza visiva e percettiva per chi vorrebbe trovarsi lì oggi? Altro ambiente altro paesaggio? La Valle piena di robaccia? Girgenti più brutta di prima? Mettiamo che il visitatore abbia cinquant’anni, l’età della legge influenzata dal disastro dimenticato. Sarebbe talmente abituato ad aggirarsi nello schifo medio del territorio nazionale che troverebbe naturale la condizione agrigentina. Perché insistere sul caso siciliano? Perché voler ricordare la determinazione del bravo direttore dell’Urbanistica al Ministero dei lavori pubblici? Perché l’auspicio suo e della commissione fu tradito, la disgregazione e il saccheggio urbanistico, esaltati nell’annata dell’assurdo o del surreale concesso dal legislatore, continuarono come e più di prima, vissero trionfali gli anni, i lustri e i decenni. Ora, più che maratoneti, tagliano il traguardo del 2018 e si fanno ammirare pronti per future avanzate benché sconcertati dinanzi alla sorprendente scarsità di materia disponibile.
Sull'argomento vedi in eddyburg l'articolo di Mauro Baioni, Gli standard urbanistici compiono cinquant'anni. In realtà la legge avrebbe dovuto essere un "ponte" verso una più completa riforma urbanistica, che tutti ritenevano necessari dopo i catastrofici eventi del 1966 (crollo di un intero pezzo di città ad Agrigento, alluvioni a Firenze e Venezia, crolli diffusi a Napoli).
Articolo ripreso dalla pagina qui raggiungibile
il manifesto, 15 marzo 2018. Ricordo di un evento straordinario, che aprì un ventennio nel quale l'inizio della costruzione di un'Italia migliore fu sconfitto dall'avanzata del neoliberismo. Con postilla
Il 19 novembre 1969 si svolse in tutta Italia per iniziativa delle tre confederazioni sindacali nazionali lo sciopero generale per la casa. Uno sciopero imponente, con adesioni e partecipazione altissime. La piattaforma elaborata da Cgil, Cisl e Uil poneva per la prima volta la questione degli alloggi pubblici e delle città al centro dell’iniziativa sindacale. La piattaforma interpretava il clima di quei tempi attraversati da potenti spinte sociali, dal bisogno di case di chi viveva ancora in baracca, da tante occupazioni. La spinta feconda che aveva fatto nascere prima a Milano e poi in tutta Italia, l’Unione Inquilini.
Sono passati 50 anni e converrà ragionare sulle cause strutturali sull’esaurirsi della spinta riformatrice e dell’affermazione della controriforma guidata dalla grande proprietà immobiliare, la cui cifra scandalosa sta nell’esenzione dal pagamento dell’Imu per le società proprietarie di appartamenti di recente realizzazione e in vendita. Calcolando che sono almeno 300 mila gli alloggi nuovi invenduti, ogni anno la potente lobby risparmia 300 milioni. I sostenitori del «libero mercato» hanno stabilito che chi costruisce case e non le vende è esentato dalle tasse che tutti gli altri cittadini pagano.
L’azione degli anni ’70 aveva l’obiettivo di strappare provvedimenti legislativi a favore delle classi deboli. Nel 1971 venne approvata dal Parlamento la legge sulla Casa (n. 865). Nel 1977 la legge «Bucalossi» (n.10) che facilita il governo pubblico delle città. Nel 1978 il piano decennale sulla casa. Nell’agosto di quello stesso anno la legge sull’equo canone.
Pezzo dopo pezzo, tutta l’architettura che dava una risposta ai bisogni delle fasce popolari è stata demolita. Nel 1998 viene chiuso il capitolo dei contributi Gescal che avevano consentito di finanziare l’edilizia pubblica mentre negli anni ’80 due sentenze della Corte Costituzionale limitarono le possibilità dei comuni a costruire nuovi quartieri popolari.
Nel 2008 la legislazione nazionale ratifica il capovolgimento culturale: nasce l’housing sociale invece delle case pubbliche, e inizia la contesa tra istituti di credito e fondazioni bancarie per inserirsi nel mercato. L’offensiva neoliberista si appropria del mercato dell’edilizia per le famiglie a basso reddito. Per alimentare il fondo sull’housing sociale, oltre a Cassa Depositi e Prestiti, si inseriscono i colossi del credito, dalle Assicurazioni Generali a Unicredit, da Allianz a Intesa San Paolo.
La macchina della privatizzazione del comparto delle case popolari sembra destinata al trionfo. Poi arriva la crisi immobiliare del 2008 e il castello di carte crolla. L’impoverimento del ceto medio e la precarietà del lavoro dei giovani rende pressoché impossibile acquistare casa.
Il tragico bilancio della privatizzazione della città è un numero sempre più grande di famiglie in stato di disagio abitativo, della ricomparsa delle baracche, delle tante occupazioni. Un dato ci dice molto di quanto accaduto. Fino al 1990 venivano costruiti in media 18 mila case popolari all’anno. Negli anni ’90 il valore scende a 10 mila. Nel decennio 2000 – 2010 si è arrivati a poco più di 5 mila. È su questo nodo che dobbiamo ragionare se vogliamo risolvere i problemi della casa. Il fronte progressista si è molto indebolito perché molti hanno creduto alla sirena del “privato” ed oggi faticano ad aggiornare analisi e obiettivi. Sindacati di base e i gruppi di difesa delle fasce deboli hanno avuto il grande merito di resistere alla cultura dominante, ma non hanno avuto la forza di imporre un nuova agenda politica e sociale.
Tre sembrano le strade da seguire per ripartire. Ricostruire pezzo dopo pezzo la legislazione in grado di dare risposte alla società impoverita e all’immigrazione. La seconda è quella della certezza dei finanziamenti. Occorre tornare a finanziamenti certi e duraturi: il segnale potrebbe partire dal far pagare l’Imu alla grande proprietà. Infine, ricostruire il welfare urbano selvaggiamente cancellato. Era una delle più innovative conquiste della piattaforma dello sciopero del 1969 e va ripresa. Il fallimento dell’housing sociale ci offre la grande possibilità di ricostruire una prospettiva sociale. La sinistra deve provarci.
postilla
Il 19 novembre 1969 accadde qualcosa che non era mai avvenuto e non si è mai ripetuto: tutta l'Italia si fermò, con uno sciopero generale nazionale sui temi della casa, l'urbanistica, i trasporti. Così dirompente fu l'impatto di quell'evento, così minacciati si sentirono i poteri forti del capitalismo italiano, che all'indomani (precisamente il 12 dicembre dello stesso anno) esplosero le bombe della reazione, esplose a Milano, piazza Fontana: si aprirono così gli "anni di piombo".
La Regione Campania non vuole restare indietro all'Emilia-Romagna, ormai tristemente nota per la sua nuova legge antiurbanistica. In Campania stanno approvando provvedimenti che, col pretesto di colpire l'abusivismo, sollecitano i comuni a incoraggiarlo
Lo scorso 6 febbraio la giunta regionale della Campania presieduta da Vincenzo De Luca ha approvato con la sua delibera n. 57 le “linee guida per le misure alternative alle demolizioni di immobili abusivi” ai fini dell’attuazione della legge regionale 19/2017. L’atto è stato definito con oltre 4 mesi di ritardo rispetto all’impegno dei 90 giorni dall’entrata in vigore enunciato nel testo della legge. Come si ricorderà, su di essa pende il giudizio della corte costituzionale per effetto dell’impugnativa da parte del governo: c’era chi interpretava il ritardo come un indizio di possibili ripensamenti. Ma la campagna elettorale ha esigenze stringenti, non solo in termini temporali. E in tal senso il provvedimento è giunto in tempo utile.
Esso si compone del testo della deliberazione e di un allegato tecnico, che include anche un facsimile di scheda istruttoria. I destinatari infatti sono i comuni campani, unici e autonomi responsabili (il provvedimento lo ribadisce più volte) delle eventuali decisioni in materia. Le linee guida regionali, “ispirate ai principi di semplificazione ed efficienza amministrativa”, sono da intendere come “non vincolanti, volte a favorire l'adozione da parte dei comuni di prassi omogenee e uniformi, a livello regionale, nella istruttoria preordinata alle competenti determinazioni dei consigli comunali ai sensi dell'art. 31, comma 5, del DPR 380/2001 e nella successiva gestione delle scelte inerenti all'utilizzo degli immobili non demoliti”.
“La demolizione di ufficio dell’opera acquisita al patrimonio comunale costituisce la misura ordinaria da adottarsi in ipotesi di abuso”, sottolinea opportunamente l’allegato. “Il consiglio comunale potrà, peraltro, decidere di non procedere alla demolizione (…) ove ravvisi la sussistenza di un interesse pubblico che giustifichi la permanenza dell’opera abusiva e il carattere prevalente dello stesso”.
A tal fine, l’allegato propone “a titolo esemplificativo” disparati casi di “interesse”, elencando l’utilizzo dell’edificio per uffici pubblici o servizi sociali (“anche a gestione privata”), l’incremento del patrimonio comunale per far aumentare le entrate del comune attraverso locazioni o alienazioni, il soddisfacimento di esigenze abitative “attestate dal competente servizio o ufficio comunale”, il contrasto all’ “aggravarsi delle condizioni di disagio abitativo e precarietà sociale in zone ove il fenomeno della realizzazione di edifici ad uso residenziale privi di titolo abilitante riveste proporzioni di particolare rilevanza e nelle quali l’adozione di misure alternative all’abbattimento è compatibile con il perseguimento delle finalità di riqualificazione” indicate nella legge urbanistica regionale 16/2004.
Le farisaiche precisazioni circa la piena autonomia dei consigli comunali non nasconde il messaggio sostanziale. Contro la finalità implicita del testo unico sull’edilizia, cioè impedire che gli edifici abusivi entrino sul mercato, la regione Campania suggerisce ai comuni disposti al compromesso – ma anche agli avvocati degli abusivisti in caso di comuni rigorosi – le giustificazioni opportune alle forme più ampie e disparate di valorizzazione commerciale degli edifici abusivi.
Analogo impegno viene espletato nel consigliare i modi per accertare l’altro requisito richiesto dal DPR 380, il “non contrasto dell’opera con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico”. Per quanto riguarda gli interessi urbanistici, si consiglia di tener conto del grado di infrastrutturazione del contesto, della compatibilità con “il vigente o il redigendo” strumento urbanistico, delle “vocazioni territoriali dell’area e (…) le prospettive di sviluppo territoriale” (sic).
“Ove l’area sia vincolata paesaggisticamente” si potrà valutare “l’incidenza dell’opera abusiva sulla percezione e sul godimento del paesaggio, tenendo conto del contesto antropico esistente”, in particolare se determina “ostacolo o limitazione per le visuali panoramiche godibili da punti di belvedere accessibili al pubblico o da strade pubbliche” o costituisce “detrattore del valore di panoramicità del sito e del contesto”. In ciò riducendo la concezione del paesaggio alle formulazioni visibilistico-contemplative più anguste, come se la legge del compianto sottosegretario Galasso non fosse mai stata approvata.
Ma è in merito alle possibili destinazioni degli edifici acquisiti che il senso del provvedimento si palesa pienamente. L’elenco relativo, ovviamente “a titolo esemplificativo” (che, in effetti, significa: tutt’altro che esaustivo), comprende: uffici pubblici, alloggi di edilizia residenziale pubblica, alloggi per edilizia residenziale sociale, opere pubbliche di interesse pubblico, opere di urbanizzazione secondaria, programmi di valorizzazione immobiliare anche con l’assegnazione in locazione degli immobili destinati ad uso diverso da quello abitativo, programmi di dismissione immobiliare. In altre parole, quanto la regione Campania consiglia ai comuni è di immettere nel mercato immobiliare l’edilizia abusiva, invece di demolirla, attraverso bando pubblico per l’alienazione o la locazione. “Il contenuto del bando sarà improntato (…) ai principi economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell’ambiente ed efficienza energetica.”
Sia in caso di locazione che di alienazione si può riconoscere “preferenza (…), a parità di condizioni, all’occupante per necessità”, ossia appartenente alla fascia di maggior disagio, anche per reddito, individuata nel bando e che non possieda altro immobile sul territorio nazionale.
“Le somme ricavate dalla alienazione o dalla locazione degli immobili potranno essere destinate a finalità di pubblico interesse, secondo i programmi e le determinazioni comunali, ivi compresi interventi di urbanizzazione primaria e secondaria, anche al servizio delle zone ove ricadono gli immobili oggetto di alienazione o locazione.”
E dunque, sostanziale equiparazione dell’edilizia abusiva a quella legale, con qualche vantaggio finanziario per i comuni.
Quale messaggio più adatto, in campagna elettorale, per gli abusivisti (e gli aspiranti tali) ? De Luca batte Berlusconi 1-0.
Negli ultimi 20 anni in Francia la pianificazione territoriale e urbanistica è stata oggetto di numerose riforme legislative: mai di ‘controriforme’, come invece è avvenuto in Italia.
Negli ultimi 20 anni in Francia la pianificazione territoriale e urbanistica è stata oggetto, diretto o indiretto, di numerose riforme legislative: quattro le principali, tutte finalizzate a realizzare un modello di pianificazione e gestione della città e del territorio alla scala pertinente; tutte in direzione opposta e contraria rispetto a ‘controriforme’ come quelle che nel nostro paese sono state, per ora fortunamente solo ipotizzate (ma fino a quando???) a scala nazionale (Legge Lupi e Legge Lupi bis), ma purtroppo di fatto già legittimate in molte Regioni: buona ultima la Regione Emilia Romagna
Dal 1967 (quando, con la Loi d’Orientation Foncière, si introdusse un doppio livello di pianificazione articolato nel POS - Plan d’Occupation des Sols -, di scala comunale e molto simile a un nostro PRG di ‘tradizione’, e nello SDAU - Schéma Directeur d’Aménagement et d’Urbanisme - di scala sopracomunale) al 2000, la pianificazione urbanistica non è stata oggetto di riforme significative.
A partire dal 2000, dopo un decennio di cauta, ma comunque nociva, deregolamentazione, l’attività riformatrice è stata molto intensa: una vera e propria riaffermazione della “puissance de l’état” in materia di governo e pianificazione del territorio. Quattro sono state le leggi più importanti approvate dal 2000 al 2014.
Prima di tutto, una riforma della legge urbanistica nazionale. Con la SRU (Loi Solidarité et Renouvellement Urbains) del 2000, approvata durante il governo Jospin, si è avviato un percorso di innovazione (che verrà ulteriormente arricchito dalle due leggi Grenelle in materia di ambiente del 2009 e del 2010). La SRU sostituisce il Plan d’Occupation des Sols con il PLU (Plan Local d’Urbanisme): il nuovo piano comunale degli usi del suolo, comunque regolativo e prescrittivo, che però si arricchisce di un articolato progetto strategico dell’amministrazione locale formalizzato in tre documenti: Rapport de Présentation, “Projet d’Aménagement et de Développement Durables (PADD)”, e “Orientations d’Aménagement et de Programmation (OAP).
Inoltre, lo SDAU cede il passo allo SCOT (Schéma de la Coherence Territoriale) e, per la prima volta, si sancisce che i PLU debbano essere compatibili con lo SCOT, di competenza delle associazioni intercomunali che dovranno obbligatoriamente esprimere un parere in proposito.
Tre altre leggi più recenti, tutte approvate durante la Presidenza Hollande, hanno di nuovo migliorato sensibilmente le regole del gioco per il governo e la pianificazione del territorio alla scala pertinente: in una direzione per molti aspetti radicalmente innovativa e, appunto, in direzione opposta e contraria a quella, cinicamente e pervicacemente deregolativa, seguita (indipendentemente dalle maggioranze al potere) dai governi nazionali e regionali del nostro paese.
La prima ha istituito i governi metropolitani - “Loi de modernisation de l’action publique territoriale et d’affirmation des métropoles (MATPAM)” del 2014: una legge, molto complessa e articolata, che riconosce e legittima percorsi diversi per realtà metropolitane differenti, privilegiando un modello di governance multilivello, inquadrato comunque da rilevanti dispositivi di comando e controllo per quanto attiene alla ridistribuzione delle competenze.
È su questo aspetto, della attribuzione di competenze all’ente metropolitano, che le due leggi, quella francese e quella italiana (la sciagurata, ma ormai pienamente delegittimata, legge Del Rio, approvata nello stesso anno) divergono in maniera sostanziale - oltre che sulle risorse finanziarie attribuite: cospicue nel primo caso, inesistenti nel secondo. Le Métropoles hanno ricevuto per delega tutte le funzioni di rilevanza metropolitana, sostituendo a pieno diritto i Comuni: economia, ambiente, società, grandi servizi, infrastrutture e, naturalmente, tutte le competenze in materia di pianificazione: Schéma de cohérence territoriale/SCOT, tutti i grandi progetti di rilevanza metropolitana, costituzione di riserve fondiarie, pianificazione di settore, politica della casa - e in particolare per l’edilizia residenziale pubblica -, gestione di tutti i dispositivi contrattuali Stato/comuni in materia di finanziamenti per le politiche sociali urbane, regia e controllo dei grandi progetti in partenariato pubblico/privato di trasformazione urbana che richiederanno una approvazione congiunta Metropoli/Comuni, gestione di tutte le risorse finanziarie allocate dal centro per la realizzazione di edilizia sociale e, infine, pianificazione dei trasporti metropolitani.
Tutte le14 potenziali Métropoles previste dalla legge si sono già costituite come tali senza porre indugi, pur avendo previsto la legge dei percorsi flessibili e a geometria variabile: probabilmente, grazie anche alle cospicue dotazioni finanziarie garantite al nuovo livello di governo. Ma il numero sembra destinato ad ampliarsi: già ne sono previste altre 4 entro il 2018. Da sottolineare poi che tutte le Métropoles sono istituzioni locali a fiscalità propria: una riforma federalista con la quale la nostra legge sulle ectoplasmatiche Città Metropolitane non ha alcun elemento in comune.
La istituzione dei governi metropolitani non è stata che un passaggio (anche se certamente importante) di una più ampia riforma delle amministrazioni locali che ha già ridimensionato il numero delle Regioni (che sono passate da 22 a 13) e che, sempre nel 2015, ha ridisegnato la struttura amministrativa del paese attraverso la Legge n. 991 del 7 agosto 2015 “portant nouvelle organisation territoriale de la République” (NOTRe): una legge che razionalizza e semplifica un sistema amministrativo plurilivello, troppo articolato e frammentato, reso inefficiente dalle molteplici sovrapposizioni di competenze e divoratore di risorse pubbliche, che i francesi hanno sempre definito icasticamente "millefeuille territorial”.
Vengo ora all’ultimo dispositivo normativo importante, approvato nel 2014: si tratta della legge ALUR (Loi pour l'accès au logement et un urbanisme rénové) che affronta il problema del disagio abitativo e della crisi degli alloggi con l’intento di “favoriser l'accès de tous à un logement abordable”. Al Titolo IV (Moderniser les documents de planification et d’urbanisme), la legge inquadra le misure relative alla politica della casa in una prospettiva virtuosa di riforma complessiva del modello di pianificazione urbanistica e territoriale. Infatti, la seconda parte del titolo della legge - “urbanisme rénové”- si traduce nell’articolato non solo nell’obbligo perentorio alla copertura del territorio nazionale con i piani di area vasta intercomunali (SCOT) là dove ancora non sono stati approvati, ma, e questo è l’aspetto più innovativo, nell’obbligo al trasferimento alle associazioni intercomunali delle competenze, oggi comunali, in materia di elaborazione dei piani urbanistici d’uso dei suoli: tutti i piani di destinazione d’uso dei suoli (PLU) dovranno essere dunque sostituiti da PLUi (Plans Locaux d’Urbanisme intercommunaux) poiché ritenuti lo strumento operativo più adeguato per una gestione efficiente delle risorse territoriali.
La legge ALUR ha previsto un trasferimento automatico delle competenze di elaborazione del PLUi alle associazioni intercomunali, secondo una tempistica rigidamente determinata: una caducità dei POS a partire dall’1 gennaio 2016 con il rischio per le amministrazioni locali, se non risultassero a quella data avviati i lavori per la revisione, di essere sottoposte al Règlement national d'urbanisme che limita drasticamente le possibilità di trasformazione urbanistica per le associazioni intercomunali che non abbiano avviato la procedura di PLUi. Contribuisce all’ottimismo sul successo di questa decisione così radicale anche il fatto che le spese relative alla elaborazione e gestione del piano risulterebbero, secondo una valutazione ex ante, letteralmente dimezzate: un incentivo alla cooperazione intercomunale anche su una materia tradizionalmente amministrata con grande spirito di autonomia dai Comuni.
La legge ha inevitabilmente scatenato forti opposizioni, soprattutto da parte dei costruttori per quanto riguarda la prima parte relativa alle misure molto interventiste di regolamentazione del mercato delle abitazioni; ma anche per il PLUi: in questo caso le perplessità sono state avanzate da alcune grandi città, fra cui Lille. Il governo Valls 2, in merito a questo secondo conflitto, ha stabilito che i comuni più grandi (quelli che ospitano il 25% della popolazione urbana del paese) possano opporsi al piano urbanistico intercomunale. Ma la maggior parte dei governi metropolitani sta costruendo, sia pure con tempi dilatati, il consenso dei sindaci (la Métropole de Lyon ha già elaborato i ‘suoi’ PLUi; la Métropole du Grand Paris li sta elaborando: per 12 territoire intercomunali (già istituzionalizzati come Etablissements Publics Territoriaux - EPT) e che hanno una dimensione demografica di almeno 300.000 abitanti).
Il PLUi diventerà dunque, sia pure in tempi più dilatati rispetto a quelli previsti dalla legge, il nuovo piano urbanistico: un piano che vuole costruirsi su un progetto comune alla bonne echelle e che detterà anche le regole in merito alla trasformazione dei suoli dei singoli territori comunali. Obiettivo: garantire una maggiore coerenza delle scelte insediative su un territorio, quello delle associazioni intercomunali (ormai completamente realizzate sul territorio francese dopo la grande riforma del 1999) che costituisce oggi la scala pertinente, perché in esso si svolgono la maggior parte delle relazioni quotidiane e perché in esso si è sviluppato un forte senso di appartenenza della comunità insediata.
Il PLUi, elaborato in concertazione con gli élus dei singoli comuni, avrà un orizzonte di 10-15 anni; disciplinerà aménagement, trasporti, politiche per la casa, ambiente, clima e attività economiche. Come il ‘vecchio’ PLU, il PLUi dovrà essere costituito da: un Rapport de Présentation, dal PADD e dall’OAP; ma, soprattutto, come il precedente PLU, il PLUi costituirà lo strumento urbanistico regolamentare e prescrittivo alla scala locale. Indubbiamente, il PLUi ha costituito un ‘grande balzo in avanti’ nel percorso riformatore dell’urbanistica francese; una sfida impegnativa, ma davvero lungimirante: la co-pianificazione può infatti rafforzare la solidarietà fra comuni; garantire una maggiore coerenza fra il piano di inquadramento strategico (SCOT) e le procedure autorizzative a scala comunale in materia di concessioni edilizie; garantire una gestione più sostenibile delle risorse territoriali limitando la dispersione insediativa e il consumo di suolo, grazie anche alle competenze in materia di trasporti e di tutela paesaggistico-ambientale.
Come concludere queste considerazioni?
Ovviamente, e in primo luogo, sottolineando che in Francia le riforme propendono per garantire una trasformazione insediativa ancorata a regole: buone regole di destinazione d’uso dei suoli, sia pur rivisitate alla scala territoriale pertinente e supportate da visioni e strategie condivise. Non vi è alcuna traccia, né nelle leggi passate né in quelle più recenti, di ‘innovazioni’ quali la perequazione urbanistica (men che meno quella ‘estesa’), il mix funzionale libero, la possibilità per i privati di proporre progetti di trasformazione/rigenerazionee urbana in deroga agli strumenti urbanistici vigenti e affidati a procedure di approvazione semplificate ….e tutte le varie inverosimili affabulazioni e neologismi con i quali di fatto si è premiata la finanza immobiliare negli ultimi decenni nel nostro paese.
Le riforme urbanistiche recenti del Bel Paese nulla condividono con le riforme sperimentate in Francia: in Italia, le riforme legislative si sono tutte indirizzate, se si eccettuano pochissimi casi di eccellenza – che sono già stati, o potrebbero essere nell’immediato futuro, delegittimati al mutare delle maggioranze o, semplicemente, dei governatori regionali, sindaci o assessori di riferimento all’interno di maggioranze stabili – a favore della rendita e della deregolamentazione; non certo della tutela del territorio come bene comune. L’ultima conferma di questa davvero devastante preferenza per il mercato è arrivata con la approvazione di una riforma urbanistica regionale che ha inverato il sogno (e nostro incubo) di Maurizio Lupi: da parte di una Regione, l’Emilia Romagna, stabilmente amministrata dalla ‘sinistra’ e vera testimonial in passato della buona urbanistica.
Millenio Urbano, 25 gennaio 2018. «Uno dei condizionamenti più pesanti sulla strada di un minore consumo di suolo agricolo è stato rimosso, ora si deve lavorare perché anche le leggi regionali agiscano di conseguenza». E non è scontato. (m.p.r.)
Ogni tanto c’è una buona notizia. Dal 1 gennaio gli oneri di urbanizzazione ritornano ad avere una destinazione vincolata, apparentemente coerente con gli scopi per cui vengono riscossi, e per cui erano stati introdotti dalla L. 10/1977 (Legge Bucalossi). Il DPR 380/2001 aveva cancellato il vincolo di destinazione lasciando ai comuni la libertà di utilizzarli per finanziare i più vari capitoli di bilancio, anche quelli inerenti la parte corrente, come per esempio gli stipendi dei dipendenti e i consumi ordinari di cancelleria.
La progressiva contrazione dei finanziamenti statali e la crisi economica hanno indotto i comuni ad avvalersi in modo sempre più sistematico di questa possibilità finendo per assuefarsi e a dipendere da questi introiti per mantenere a galla il bilancio comunale. Le previsioni edilizie sono così state gonfiate ben oltre quanto necessario per rispondere ai fabbisogni locali. L’Agenzia delle Entrate ha con propria interpretazione stabilito che gli oneri per le previsioni edificatorie debbano essere pagati dal momento in cui la previsione è stata inserita nel piano comunale, molto prima quindi di avere ottenuto le autorizzazioni necessarie per passare alla realizzazione. Fatto che rende ancora più difficile per i comuni l’eventuale ritorno a destinazione agricola delle aree non attuate.
Le previsioni insediative hanno così continuato ad essere incrementate nei piani, paradossalmente anche durante il periodo di crisi del mercato immobiliare degli ultimi anni.
In diversi casi la crisi economica, le tasse gravanti sulle aree e l’allontanarsi della prospettiva di una ripresa del mercato immobiliare hanno indotto i proprietari a chiedere o accettare la cancellazione delle previsioni edificatorie e il ritorno delle aree a destinazione agricola. Tuttavia sono pochi i comuni che hanno percorso questa strada, e non pochi contenziosi si sono aperti con quei proprietari che invece preferiscono mantenere il valore aggiuntivo in attesa di tempi più favorevoli di ripresa immobiliare, o dell’occasione di incamerare la rendita vendendo le aree ad altri imprenditori. Abbiamo quindi ancora oggi, nonostante la stasi demografica, piani comunali fortemente sovradimensionati, con relativo consumo ed uso irrazionale del suolo, un po’ in tutte le regioni italiane. Gli interessi in gioco sono tali che le Amministrazioni regionali, indipendentemente dal colore politico, non riescono a sviluppare provvedimenti normativi realmente capaci di arginare il fenomeno.
Gli effetti negativi sono molteplici: il consumo di suolo, ma anche tutto quanto ruota attorno ai guadagni facili della rendita fondiaria, purtroppo anche corruzione e interessi della malavita organizzata. Inoltre, incrementare l’offerta di aree e facilitare l’intervento in zona agricola frena gli investimenti nel riuso delle aree urbane dismesse o degradate, e quindi lo sviluppo di cultura e competenze nella rigenerazione urbana, la quale continua a rimanere semplice intento sulla carta, senza gambe per camminare.
Lo scorso anno la Finanziaria 2017 ai commi 460 e 461 aveva finalmente fissato all’1 gennaio 2018 il termine per reintrodurre i vincoli di destinazione, ovviamente aggiornandoli negli obiettivi rispetto a quelli che erano in vigore nel 1977. Non solo quindi per opere di urbanizzazione primaria e secondaria come era nella Legge Bucalossi. Una maggiore attenzione viene ora dedicata alla riqualificazione della città esistente: recupero dei centri storici, demolizione delle costruzioni abusive, interventi di tutela e riqualificazione dell’ambiente e del paesaggio, mitigazione del rischio idrogeologico. Il testo del comma 460 è qui integralmente riportato.
“A decorrere dal 1º gennaio 2018, i proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, sono destinati esclusivamente e senza vincoli temporali alla realizzazione e alla manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici e nelle periferie degradate, a interventi di riuso e di rigenerazione, a interventi di demolizione di costruzioni abusive, all’acquisizione e alla realizzazione di aree verdi destinate a uso pubblico, a interventi di tutela e riqualificazione dell’ambiente e del paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione del patrimonio rurale pubblico, nonché a interventi volti a favorire l’insediamento di attività di agricoltura nell’ambito urbano”.
In realtà come si legge nel testo una parte degli oneri può ancora interessare la parte corrente dei bilanci, attraverso le attività di manutenzione ordinaria. Si tratta tuttavia di un bel passo avanti, che potrebbe forse innescare una virtuosa inversione di tendenza nei comuni, spostando l’attenzione maggiormente sulla città esistente piuttosto che sulle aree agricole periurbane. La Finanziaria 2018 non ha fortunatamente modificato la precedente norma né ne ha rinviato l’entrata in vigore, anche se sembra che a dicembre qualche pressione per un emendamento in tale senso ci sia stata.
Uno dei condizionamenti più pesanti sulla strada di un minore consumo di suolo agricolo è stato rimosso, ora si deve lavorare perché anche le leggi regionali agiscano di conseguenza. La norma nazionale ha indicato la direzione da seguire, dando priorità e un concreto sostegno all’intervento di riqualificazione sulla città costruita. Le recenti leggi regionali sul governo del territorio e sul consumo di suolo devono ora mostrare più coerenza e più coraggio nell’orientare gli interventi sulla città consolidata stringendo contemporaneamente i vincoli in zona agricola. Dovranno inoltre cancellare tutte quelle eccezioni che, in accordo con una tradizione tipica nostrana, sono state introdotte per aggirare le restrizioni, a volte vanificando nei fatti l’obiettivo stesso di contenimento del consumo di suolo.
Dopo l’approvazione della sciagurata legge urbanistica E-R, una lettera di ringraziamento a chi ha contribuito a combatterla scritta da un grande urbanista che vi operava in anni migliori e che invita a “continuer le combat”. (m. c. g.)
Carissimi compagni, una cosa la possiamo fare: smettere di piangerci addosso. Allo scopo, mi perdonerete la scivolata retorica, ma sento l'esigenza di richiamarvi il passo conclusivo delle Città invisibili di Calvino, un passo che conoscerete certamente e che è diventata abitudine citare quando si è, come oggi, in grande difficoltà. Un passo che tuttavia dimentichiamo spesso, e proprio quando siamo in difficoltà.
«L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare di riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio»
Un po' di «attenzione e apprendimento» ci ha portato, qui in Emilia-Romagna, a tentare di contrastare l'ennesima sciagurata «accettazione dell'inferno» da parte del governo locale a proposito delle regole dell'urbanistica. Mdp, Sinistra e Altra Emilia Romagna (lista ex Tsipras) hanno condotto una lunga battaglia unitaria per impedire l'approvazione della legge (all'inizio, alla fine del 2016 - e dunque molto prima che ci si orientasse alla costruzione di un movimento unitario - partecipavano al lavoro comune persino i 5Stelle. Poi, un robusto richiamo da Roma interruppe la collaborazione. Si è tentato un lungo e minuzioso lavoro di "riduzione del danno", presentando numerosi e pesanti emendamenti, organizzando iniziative, sottoscrivendo appelli, contattando sindaci, professionisti e tecnici comunali. Alcuni di noi hanno sostenuto che la battaglia fosse inutile, vista la sproporzione delle forze in campo (solo quattro consiglieri regionali hanno aderito a questa battaglia, su un totale di 60 consiglieri) e sono stati a guardare.
Naturalmente è finita come era inevitabile che finisse: la legge è passata, con la benevola astensione di Forza Italia, e con i soli voti contrari dei quattro consiglieri di sinistra, ai quali alla fine si sono uniti i voti contrari dei consiglieri 5 Stelle. Le modifiche introdotte, per quanto preziose, sono state minime.
Un lavoro inutile, dunque? No, è stato un lavoro prezioso: si è costruita una solida unità tra contributi diversi, provenienti da storie diverse. Una unità di merito, legata a profondi e competenti elementi di «attenzione e apprendimento», fondata su proposte operative concrete, ragionevoli e facilmente operabili, solo che ci fosse stata volontà politica e non cieco asservimento ai costruttori (cooperative comprese) e proprietà immobiliari. Questo a noi è sembrato «saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno». Sta a noi ora «farlo durare e dargli spazio». La prospettiva riguarda le prossime elezioni, e, per quanto riguarda noi, le prossime regionali della primavera 2019.
il manifesto bologna, 23 dicembre 2017. Una critica argomentata dell'orrenda legge urbanistica approvata da un consiglio regionale indegno della tradizione della "regione rossa"
In Emilia Romagna d’ora in avanti se un costruttore, armato di “accordo operativo”, incontra un sindaco armato di Pug (Piano Urbanistico Generale)…la pianificazione è cosa morta. Ironicamente si può far riferimento agli indimenticabili “spaghetti western” di Sergio Leone, ma in effetti il far West dell’urbanistica, è stato codificato nei settantasette articoli della legge regionale 218/2017 “disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio”.
Una legge che pone pomposamente al primo articolo, alla lettera a) del comma 2, l’obiettivo di “contenere il consumo di suolo quale bene comune e risorsa non rinnovabile che esplica funzioni e produce servizi eco sistemici, anche in funzione della prevenzione e della mitigazione degli eventi di dissesto idrogeologico e delle strategie di mitigazione e di adattamento ai cambiamenti climatici”.
Concetto che ribadisce e specifica all’articolo 5 del capo II, “La Regione Emilia-Romagna, in coerenza con gli articoli 9, 44 e 117 della Costituzione e con gli articoli 11 e 191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, assume l’obiettivo del consumo di suolo a saldo zero da raggiungere entro il 2050.
Infine lo sancisce, fornendo la misura massima di consumo di suolo all’articolo 6 Quota complessiva del consumo del suolo ammissibile comma1. In coerenza con l’obiettivo del consumo di suolo a saldo zero di cui all’articolo 5, comma 1, la pianificazione territoriale e urbanistica può prevedere, un consumo del suolo complessivo pari al tre per cento della superficie del territorio urbanizzato… fatto salvo quanto previsto dai commi 5 e 6.
E qui sta il trucco: mentre da un lato si definiscono obiettivi e limiti apparentemente stringenti al consumo di suolo, nello stesso tempo si elenca una lista di eccezioni al computo:
(Art 6 comma 5) “Non sono computate ai fini del calcolo della quota massima di consumo del suolo di cui al comma 1, le aree dei lotti di pertinenza che, dopo l’entrata in vigore della presente legge, sono utilizzati per la realizzazione: a) di lavori e opere pubbliche o di opere qualificate dalla normativa vigente di interesse pubblico, previa obbligatoria valutazione che non sussistono ragionevoli alternative di localizzazione che non determinino consumo di suolo; b) di interventi di ampliamento e ristrutturazione di fabbricati adibiti all’esercizio di impresa ovvero di interventi di nuova costruzione, nella medesima area di pertinenza o in lotto contiguo, di fabbricati o altri manufatti necessari per lo sviluppo e la trasformazione di attività economiche già insediate; c) di nuovi insediamenti produttivi di interesse strategico regionale che siano oggetto di accordi per l’insediamento e lo sviluppo, di cui all’articolo 7 della legge regionale 18 luglio 2014, n. 14 (Promozione degli investimenti in Emilia-Romagna) o che presentino i requisiti di cui all’articolo 6, comma 1, della medesima legge regionale come specificati con apposito atto di coordinamento tecnico; d) di parchi urbani ed altre dotazioni ecologico ambientali; e) di fabbricati nel territorio rurale funzionali all’esercizio delle imprese agricole; f) di interventi per il parziale recupero della superficie di edifici non più funzionali all’attività agricola, demoliti ai sensi dell’articolo 35, comma 3, lettera e).
(Art.6, comma 6) “Non sono computate altresì nella quota massima di cui al comma 1 le aree utilizzate per l’attuazione delle previsioni dei piani urbanistici previgenti, ai sensi dell’articolo 4”, (vale a dire i 250 Kmq che si dice voler portare a 70Kmq).
Dunque, per un lungo periodo transitorio (tre anni più due) tutti gli interventi ricompresi nelle categorie elencate all’articolo 6 potranno essere realizzate senza che vadano a riempire il carnet del tre per cento, cosicché quella premessa di riduzione dai previsti 250 km quadrati di nuove edificazioni contemplate nei piani precedenti ( cd diritti acquisiti) ai 70 Km quadrati complessivi fino al 2050, in realtà sarà 70 Km quadrati più quanto dei precedenti 250 si riuscirà a realizzare, senza limitazione nei successivi cinque anni: un bel modo di ridurre,(in linea teorica potrebbero addirittura risultare 250 (già previsti e realizzabili) più i 70 prevedibili (relativi al 3% concesso): ovvero 320 Km quadrati.
La legge poi enuclea agli articoli 7,8 e 9 l’altro grande obiettivo enunciato: puntare decisamente sulla “rigenerazione urbana” come grande leva di un nuovo sviluppo del settore, finalizzato a conseguire una più alta attrattività urbana e quindi una rinnovata fase di crescita economica. Lo strumento è individuato, alla lettera c del terzo comma dell’articolo 7, nella possibilità di riqualificazione fondata su interventi “di addensamento e sostituzione urbana”, anche incrementali, che, con particolare riferimento ad aree strategiche della città ovvero ad aree degradate, marginali, dismesse o di scarsa utilizzazione edificatoria, prevedono una loro significativa trasformazione che può comportare la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati, degli spazi aperti e della rete stradale, l’inserimento di nuove funzioni e la realizzazione o adeguamento delle dotazioni, delle infrastrutture e dei servizi pubblici nonché l’attuazione di interventi di edilizia residenziale sociale. Conseguentemente, agli articoli successivi si definisce un corposo elenco di premialità, detrazioni fiscali, aumenti volumetrici e standard differenziati, tali da definire un regime di favore rispetto a qualsiasi altro tipo di edificazione, anche in contrasto a norme nazionali. Una logica che fa scrivere a Roberto Camagni docente emerito di Economia urbana, uno dei più qualificati esperti in materia:
“La mia critica (alla legge) si basa su tre valutazioni:
1. è errata l’interpretazione di fondo che si dà della crisi del settore edilizio e delle difficoltà recenti dei processi di riqualificazione e rigenerazione urbana;
2. è errata e irresponsabile l’attribuzione di tanti privilegi e sconti economici alle attività di riqualificazione e rigenerazione urbana in quanto largamente inefficace nel raggiungere gli obiettivi che la legge si propone e, d’altra parte, perniciosa per la finanza pubblica locale;
3. è contraddittoria la logica che lega gli obiettivi da raggiungere agli strumenti, per la massima parte legati all’iniziativa privata, che si propongono.
Uno degli aspetti più emblematici di questa vicenda è infatti la mole e l’autorevolezza delle critiche piovute sulla proposta di legge da parte dei più qualificati urbanisti ed esperti d’Italia, che hanno evidenziato lo spirito di totale subalternità dell’articolato agli interessi dei poteri forti e la destrutturazione totale del concetto e del primato della pianificazione pubblica, concetto che è stato per decenni elemento distintivo delle politiche urbanistiche della regione e che ne hanno fatto a lungo autorevole e riconosciuta esempio di più avanzato governo del territorio. Un scelta scellerata che si concretizza nel disarmare la pianificazione di ogni possibilità d’incidere sulle scelte ad esclusivo vantaggio dei privati, come specificato agli articoli 31 e seguenti, fino nel più delicato ambito dei centri storici:
(art 31 comma 6). “Per motivi di interesse pubblico e in ambiti specificamente determinati del centro storico, il Pug può disciplinare specifici interventi in deroga ai principi stabiliti al comma 5, lettere a),b) e c), da attuare attraverso l’approvazione di accordi operativi. Il Pug può inoltre individuare le parti del centro storico prive dei caratteri storico architettonici, culturali e testimoniali, nei quali sono ammessi interventi di riuso e rigenerazione, ai fini dell’eliminazione degli elementi incongrui e del miglioramento della qualità urbanistica ed edilizia dei tessuti urbani, ed è ammesso l’aumento delle volumetrie preesistenti”.
Prosegue (all’art 33 comma 2)
“In considerazione degli obiettivi generali stabiliti ai sensi del comma 1, la strategia per la qualità urbana ed ecologico ambientale definisce l’assetto spaziale di massima degli interventi.Tali indicazioni di massima possono essere modificate in sede di accordo operativo senza che ciò costituisca variante al Pug, fermo restando il soddisfacimento del fabbisogno definito dalla strategia stessa.
Da questa breve panoramica, relativa solo ad alcuni degli articoli più emblematici, si vuole rendere chiaro che la portata di questa legge, sull’intero sistema della pianificazione pubblica, potrà determinare conseguenze molto gravi, ed anche conflittuali rispetto ad importanti prerogative e limiti definiti dalla Costituzione e dalle leggi nazionali (anche relative alla fiscalità obbligatoria).
In definitiva, non è stata sufficiente la mobilitazione delle più importanti associazioni ambientaliste, Legambiente e Italia Nostra, prese di posizione dello stesso ANCI, ancorchè non rese pubbliche. Inascoltati gli appelli dei convegni promossi dalle forze di sinistra e dei M5S, con la partecipazione di importanti esperti, critiche riunite in un libro Consumo di luogo (ed Pendragon) che ha avuto una larghissima diffusione. Alla fine, la sordità della giunta Bonaccini e dell’assessore al ramo Donini, ha determinato l’impossibilità del tentativo a lungo portato avanti con generosità da alcuni consiglieri regionali della sinistra, di migliorare attraverso emendamenti per quanto possibile la legge. Alla fine, anche le più ragionevoli proposte di modifica sono state respinte: il richiamo dei cosiddetti “poteri forti”, le imprese edilizie private e cooperative, si è fatto sentire, con tutto il loro condizionate peso di autentici ed unici “stakeholder”. E la Giunta ha piegato la schiena alla voce del padrone.
L’amarezza di coloro che hanno fatto di tutto per migliorare una pessima legge, fa posto alla convinzione che sarà necessaria ancora una forte mobilitazione e un attento monitoraggio per evitare che la speculazione metta le mani su importanti parti del territorio, come sta già avvenendo a Bologna ad esempio ai Prati di Caprara. Una classe politica che fonda le chance di ripresa economica su un ciclo edilizio vetusto ed arretrato non rappresenta un buon auspicio, e prevalgono di gran lunga considerazioni pessimistiche sul futuro. Il voto unitariamente contrario dei gruppi della sinistra e dei M5S, oltre alla lega, il voto favorevole alla legge del solo PD, sono la dimostrazione di un non splendido isolamento.
l'articolo è tratto da "il manifesto bologna"ed è qui reperibile in originale
La città invisibile, 20 dicembre 2017. Dopo l'approvazione della sciagurata legge urbanistica dell'Emilia-Romagna una critica argomentata e la presentazione di un libro collettaneo sull'argomento: Consumo di luogo, a cura di Ilaria Agostini, Pendragon, 2017
Lo smantellamento della materia urbanistica in nome del Libero Mercato, procede. Ne è protagonista la Regione che fu faro della pianificazione e delle pratiche urbane. Il 19 dicembre la proposta di legge urbanistica della Regione Emilia-Romagna – nata in seno alla Giunta PD (e a Confindustria) – è stata approvata in consiglio regionale coi soli voti del PD. Hanno votato contro: Altra Emilia Romagna, SI, Art. 1-Mdp, M5S e Leganord; Forza Italia si è astenuta. La lotta che ha accompagnato l’iter di approvazione è stata intensa. Un nucleo di intellettuali, professionisti e attivisti ha pubblicato un libro che contiene spunti di critica e ipotesi alternative a questa legge di matrice neoliberista. Ne pubblichiamo il capitolo conclusivo.
Il tema della «fine del piano», dell’eclissi del ruolo pubblico nella trasformazione delle città e dei territori, non gode oggi di sufficiente dibattito. La lacuna non può essere colmata dalle riflessioni provenienti dalle pagine di un solo volume – Consumo di luogo. Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia-Romagna – redatto con i tempi stretti del calendario politico. Tuttavia gli scritti contenuti in questo libro collettivo forniscono aperture concettuali e pratiche, capaci di ridefinire una prospettiva urbanistica che ricomprenda il dato sociale, politico e ambientale. Urbanistica vòlta al superamento delle diseguaglianze territoriali e dello spreco di risorse, al miglioramento dell’ambiente di vita e ad una auspicata democratizzazione del processo decisionale.
Aspirazioni di civile convivenza che pure la legge esprime in apertura (stop al consumo di suolo, riuso etc.), ma che promette di eludere, una ad una. Nel suo articolato, essa coniuga infatti modelli gestionali e di trasformazione territoriale pienamente neocapitalisti. Tentiamo di riassumere i capisaldi della sua “filosofia”: polarizzazione in città sempre più vaste ed energivore (le cosiddette, nostrane, “città metropolitane”); territori agro-industrializzati, ridotti a pura estrazione; priorità, nell’organizzazione territoriale, alla strutturazione logistica affetta da gigantismo; corridoi infrastrutturali che allontanano le aree interne, rendendole irrimediabilmente distanti; obliterazione dello spazio pubblico e comune in favore della mercificazione delle città; riduzione delle varietà dell’abitare. Scenario nel quale è fatto ricorso indiscriminato a strumenti di governance di matrice aziendale, dove il pubblico gioca un ruolo subalterno rispetto al privato, che indeboliscono la democratica partecipazione alle scelte inerenti l’habitat.
Per risolvere le patologie territoriali già manifestatesi quale risultato dell’applicazione dei principi neoliberisti, il DdL dispone un’accelerazione proprio di quei processi che sono stati la causa del male. Al consumo di suolo, il DdL oppone consumo di suolo. Lo dimostra Ezio Righi nel suo saggio in forma dialogica: le periferie cresceranno; «il fisiologico sviluppo delle città» (Ance, 2016) troverà nuovo nutrimento. Nel DdL – fondato peraltro sulla mancata presa d’atto che l’indice regionale di consumo del suolo assicura all’Emilia-Romagna una posizione d’eccellenza – non si ravvede infatti né idea né volontà di contenere la pressione dell’espansione edilizia con nuova agricoltura di qualità, le cui potenzialità economiche sono descritte da Piero Bevilacqua in questo libro. Si tratterebbe di preparare il terreno a un’economia agricola che sia garanzia di occupazione lavorativa, di salute ambientale, di salvaguardia delle connessioni ecologiche, di proficui scambi energetici tra città e campagna. Su questi punti fa leva la legge urbanistica della vicina Regione Toscana (che avrebbe potuto costituire un ottimo esempio), della quale scrive nel suo saggio Anna Marson, protagonista della stesura appunto della LRT 65/2014.
All’invenduto aggiunge edificazione. Il DdL, antistoricamente coerente con l’assioma fallace e malsicuro dell’edilizia come leva prioritaria dell’economia, delinea una nuova ondata di costruzioni, fuori e dentro le città. Opere edilizie di tutte le taglie e grandezze, che vengono favorite «dal paravento dell’interesse pubblico», come illustrato da Paolo Berdini. «Esiste[rebbe] una soluzione più rassicurante – scrive in queste pagine Paola Bonora –, che presuppone un cambio di marcia in direzione del recupero e del restauro. Piccole e medie operazioni di risanamento urbano che potrebbero diventare il volano di un reale processo di riqualificazione, di rilancio dell’edilizia e riassorbimento di forza-lavoro». Soluzione ignorata tuttavia nella proposta di legge, che niente dice neanche in merito al fabbisogno di alloggi pubblici e di residenze in affitto, acuito dalla crisi economica.
Alle diseguaglianze sociali aggiunge diseguaglianze sociali. Oltre all’obliterazione degli standard e al doppio regime normativo che crea un discrimine procedurale tra grandi capitali e cittadini “normali” (cfr. lo scritto di Paolo Dignatici), la LUR prevede diffusamente demolizioni e ricostruzioni – ne scrive qui Pier Luigi Cervellati – che nella città consolidata velocizzano i processi di selezione sociale a discapito delle classi popolari. La nuova legge urbanistica trascura la pietra miliare del piano per il centro storico di Bologna (poi riproposto nelle altre, belle città dell’Emilia-Romagna) che fornì alla cittadinanza un sistema di case popolari pubbliche nei quartieri centrali, in un tessuto urbano reso multifunzionale dal riuso sociale dei “contenitori storici” (gli stessi che oggi sono preda degli appetiti speculativi, come ricorda Piergiorgio Rocchi). Anziché dimenticarla – o volontariamente negarla – questa illustre tradizione dell’urbanistica regionale andrebbe semmai affinata e incrementata.
Alle lacune nel governo democratico del territorio, il DdL aggiunge lacune. L’«abbandono della pianificazione urbanistica come strumento essenziale del governo pubblico del territorio» – scrive, nella sua sintesi storica di 75 anni di urbanistica, Edoardo Salzano – lascia libero il campo alla “negozialità” in urbanistica, alla deroga, al gioco tossico dei crediti e dei debiti edilizi. Contribuisce ad erodere gli spazi democratici e riduce la (già scarsa e inefficace) partecipazione popolare alle scelte di gestione urbana. Fa posto a una visione gestionale tutta economicistica, connaturata al sistema degli interessi privati. Ma ancor più grave è il fatto che questa regressione politica avvenga in una Regione che aveva dimostrato di adempiere brillantemente ai compiti di programmazione, pianificazione, governo, e che sta ora legiferando contro il ruolo che la Costituzione le attribuisce. Sulla destituzione, infine, della competenza costituzionale dei Comuni a pianificare il proprio territorio, sull’autonomia comunale offesa (dei grandi comuni ma, soprattutto, di quelli più remoti della Bassa e dell’Appennino) si sofferma Giovanni Losavio.
Dalla considerazione che alla base del progetto di legge sta una visione di radicale sovvertimento delle regole di corretta pianificazione del territorio, finora affidata alla funzione programmatoria del sistema pubblico, scaturisce l’iniziativa di dar vita a un’opposizione attiva “dentro il Palazzo”, assunta dai gruppi consiliari in Regione de L’Altra Emilia Romagna e del Movimento Cinque Stelle, affiancati da Italia Nostra ER, da intellettuali critici e da “urbanisti resistenti”.
Il presente volume, voluto da Piergiovanni Alleva, prende l’avvio da un dibattito regionale le cui tappe fondamentali sono state la conferenza stampa organizzata da Italia Nostra ER (Bologna, 13 dicembre 2016), la pubblicazione di un paio di documenti collettivi redatti e sottoscritti da urbanisti e tecnici critici (riprodotti nell’Introduzione al libro), il convegno presso la Regione ER (Bologna, 3 febbraio 2017) che già nel titolo – Fino alla fine del suolo – ben individuava l’essenza del problema rappresentato dalla proposta di legge.
In questa resistenza critica – i cui protagonisti sono più numerosi degli autori dei saggi – s’impegnano professionisti, tecnici, ricercatori e docenti (alcuni dei quali godono di autorevolezza internazionale) riuniti per scongiurare la svolta regressiva di una regione un tempo all’avanguardia nell’urbanistica di qualità, nella difesa del territorio e dell’ambiente dalle devastazioni conosciute in tante altre parti del nostro sfortunato Paese; per contrastare la resa al privatismo, l’appropriazione di spazi residui in un territorio già troppo impoverito socialmente, la definitiva subordinazione al mercato del «mondo comune» e della città pubblica. Anche per le generazioni future.
L’opposizione al progetto di legge si estende nel territorio, ai molti comuni che avvertono tutti i rischi dell’urbanistica regressiva: lo testimoniano le iniziative in corso che raccolgono un pubblico numeroso ed interessato e che saranno ancor più numerose nei prossimi mesi.
Il PD dell'Emilia-Romagna, emulo della peggiore destra urbanistica italiana, fa sue l'ideologia e la prassi di Maurizio Lupi e approva una legge sciagurata. Silenzio tombale degli istituti culturali, ormai facilitatori degli interessi immobiliari
Con i soli voti favorevoli del PD è stata approvata ieri dall’Assemblea Legislativa della Regione Emilia-Romagna la nuova legge urbanistica: 28 voti favorevoli, 14 contrari e 2 astenuti. Compattamente contrari i consiglieri di L’Altra Emilia Romagna, Sinistra Italiana, Art. 1-Mdp e M5S. Si annunciano tempi bui per le amministrazioni locali: espropriate di qualsivoglia competenza regolativa, dovranno imparare a negoziare con il privato per ottenere qualche vantaggio per le loro comunità.
Complimenti! Una sicura garanzia di tutela del territorio come bene comune e, soprattutto, un autentico baluardo contro la corruzione e le infiltrazioni mafiose. Forse non sanno quello che dicono, ma certamente sanno quello che vogliono fare: privatizzare la città!
il manifesto, 15 dicembre 2017. E' andato via un amico, un compagno. Lo piangiamo con quanti lo conobbero, lo amarono, lottarono le sue battaglie, condivisero le sue speranze
Il progetto di legge urbanistica dell’E-R ignora il circolo vizioso fra degrado fisico ed esclusione sociale che è alla base dell’aggravarsi delle disuguaglianze nella città contemporanea. Relazione al convegno “Privatizzare l’urbanistica?”, Bologna, 15 novembre 2017 (m.c.g.)
La centralità assunta dalla rigenerazione urbana nel discorso politico e nell’opinione pubblica, negli scenari programmatici e negli strumenti operativi promossi da regioni ed enti locali, non può che essere valutata positivamente quando posta in opposizione alle pratiche tradizionali di trasformazione del territorio fondate sull’espansione urbana e il dissennato spreco di suolo. Tuttavia, essa comporta dei rischi dei quali bisogna essere consapevoli.
Si tratta di rischi che si corrono quando, occupandosi di sistemi complessi, i concetti perdono la capacità di cogliere le relazioni con i processi in atto e i contesti d’azione concreti, e diventano parole d’ordine utili ad acquisire facile consenso, di volta in volta intorno a una politica, a una norma, a un programma prospettati come risolutivi di un ‘problema chiave’. A me pare che questi rischi siano oggi legati ad alcune modalità di interpretazioni della “rigenerazione urbana” in rapporto all’obiettivo del contenimento del consumo del suolo.
Un esempio particolarmente efficace di tali rischi è proprio nel progetto di legge della giunta dell’Emilia Romagna recante “Disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio”.
La rigenerazione urbana, com’è noto, è diventata da qualche tempo anche in Italia una nozione ombrello sotto la quale trovano copertura interventi e pratiche molto diversi. Da demolizione e ricostruzione di singoli edifici a programmi messi a punto per interi quartieri, da interventi che riguardano aree dismesse e abbandonate a iniziative che investono parti di città dove si concentrano degrado fisico e disagio sociale, dai centri storici alle periferie recenti, e non manca l’atteggiamento fideistico di chi ritiene la rigenerazione urbana capace di «rimettere in moto l’edilizia», e persino di «far ripartire il Paese».
Ugualmente diverse possono essere le finalità che si intende perseguire mediante la rigenerazione urbana. Nel progetto di legge in questione la rigenerazione delle aree edificate è finalizzata ad aumentarne l’attrattività attraverso la riqualificazione dell’ambiente costruito secondo criteri di sostenibilità, e ad accrescerne la vivibilità con la qualificazione e l’ampliamento dei servizi e delle funzioni strategiche ivi insediati”1.
Di fronte a tali esplicite finalità della norma, sembra importante chiedersi: rigenerazione urbana per chi? Non è scontato, infatti, che interventi di riqualificazione orientati ad attirare investimenti, consumatori, nuovi city users o visitatori, possano migliorare la qualità della vita di chi abita nei quartieri interessati da tali interventi. Peraltro, fra le finalità della rigenerazione urbana individuate dal progetto di legge, non vi è alcun accenno alle condizioni abitative delle popolazioni urbane svantaggiate, emarginate o a rischio di esclusione sociale. E questo accade in una fase nella quale vi è crescente consapevolezza dell’aggravarsi delle disuguaglianze sociali nelle città e del contributo che il progetto urbanistico, spesso proprio in nome dell’innalzamento dell’attrattività e competitività territoriale, ha fornito alle dinamiche di esclusione sociale nello spazio urbano.
La rigenerazione urbana, inoltre, nella prospettiva assunta dal progetto di legge comprende unicamente interventi fisici, e prevalentemente interventi pesanti. Gli “interventi di riuso e rigenerazione urbana” includono “le seguenti tipologie di trasformazioni edilizie e urbanistiche dei tessuti urbani esistenti”1:
gli interventi di “qualificazione edilizia”, diretti a realizzare la demolizione e ricostruzione di uno o più fabbricati che presentino una scarsa qualità edilizia, non soddisfacendo i requisiti minimi di efficienza energetica, sicurezza sismica, abbattimento delle barriere architettoniche, igienico-sanitari e di sicurezza degli impianti, previsti dalla normativa vigente (…);
gli interventi di “Ristrutturazione urbanistica”, comprensivi degli interventi di costruzione e successiva demolizione (…);
gli interventi di “Addensamento e sostituzione urbana”, consistenti nei processi di riqualificazione anche incrementali, che, con particolare riferimento ad aree strategiche della città ovvero ad aree degradate, marginali, dismesse o di scarsa utilizzazione edificatoria, prevedono una loro significativa trasformazione che può comportare, in via esemplificativa: la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati, degli spazi aperti e della rete stradale, la delocalizzazione degli immobili collocati in aree soggette a rischio ambientale e industriale, l’inserimento di nuove funzioni e la realizzazione o adeguamento delle dotazioni territoriali, delle infrastrutture e dei servizi pubblici nonché l’attuazione di interventi di edilizia residenziale sociale2.
Il progetto di legge agevola la realizzazione degli interventi sopra elencati prevedendone l’attuazione, rispettivamente, attraverso l’intervento diretto (fatti salvi gli eventuali limiti e condizioni stabiliti dal PUG e ferma restando l’osservanza della disciplina di tutela del centro storico e degli edifici di valore storico, artistico e testimoniale), il permesso di costruire convenzionato, gli accordi operativi o i piani attuativi di iniziativa pubblica.
Tale approccio alla rigenerazione urbana pone diversi problemi. Innanzi tutto, è un approccio tutt’altro che innovativo. Per alcuni versi esso si colloca sulla scia della tradizione italiana dei cosiddetti programmi complessi, per altri versi ricalca la stagione dell’urban renewal anglo-americano. Un approccio incrementale e frammentato, nel quale le diverse iniziative, prive di qualsivoglia inquadramento strategico, sono state spesso considerate quali occasioni per forzare le rigidità degli strumenti urbanistici comunali; un approccio incentrato sulla dimensione fisica della riqualificazione urbana, che ha trasformato radicalmente parti di città affidando un ruolo centrale al settore privato e mancando di governarne gli impatti sociali e sul più vasto sistema urbano.
Proprio alla luce degli effetti perversi prodotti dagli approcci in ultimo citati, dovrebbe essere d’obbligo porsi alcune domande: gli interventi di rigenerazione incentivati dalla legge sono in favore dell’area o degli abitanti? quali conseguenze sociali può comportare il miglioramento delle condizioni fisiche delle parti di città interessate dagli interventi di riuso e riqualificazione urbana? la rigenerazione urbana, nella forma prevista dalla legge, è probabile che riduca o che aggravi le disuguaglianze sociali nelle città?
Alcune norme contenute nel progetto di legge fanno ritenere che non ci si sia posti queste domande. Su un dispositivo merita soffermarsi in particolare. L’articolo 5, comma 3, prevede che “il consumo di suolo non è comunque consentito per nuove edificazioni residenziali, ad eccezione di quelle necessarie: a) per attivare interventi di rigenerazione di parti del territorio urbanizzato a prevalente destinazione residenziale; b) per realizzare interventi di edilizia residenziale sociale, comprensivi unicamente della quota di edilizia libera indispensabile per assicurare la fattibilità economico-finanziaria dell’intervento.”
Se è probabile che l’interesse degli operatori immobiliari si concentri nelle aree centrali più profondamente degradate, ove è possibile ottenere incrementi dei valori immobiliari più cospicui, queste norme comportano il rischio di espellere la popolazione più disagiata attraverso gli incentivi previsti per la rigenerazione e di spingerla nelle parti più periferiche della città mediante le deroghe disposte per l’edilizia residenziale sociale. Con l’evidente conseguenza non solo di provocare il consumo suolo inedificato, ma anche di aggravare le diseguaglianze spaziali.
In Europa e in Italia da tempo il termine rigenerazione urbana è associato ad azioni finalizzate ad affrontare in maniera integrata il circolo vizioso fra degrado fisico ed esclusione sociale che è alla base dell’aggravarsi delle disuguaglianze nella città contemporanea. L’accezione di rigenerazione urbana fatta propria dal progetto di legge sembra ignorarle.
In tali azioni, le dimensioni sociale ed economica della rigenerazione assumono una valenza essenziale, in una duplice prospettiva. Quella che induce a prevedere misure specificamente orientate a tutelare gli abitanti che vivono nelle aree interessate da programmi di riqualificazione per evitarne l’allontanamento, a contrastarne i processi di esclusione ed emarginazione mediante misure a sostegno della formazione e dell’occupazione, a migliorarne le condizioni abitative mediante interventi di riqualificazione del patrimonio a destinazione residenziale e la realizzazione di servizi e infrastrutture. Quella che induce ad attribuire agli abitanti un ruolo cruciare nella messa a punto e attuazione degli interventi di rigenerazione.
In quest’ultima prospettiva, la partecipazione non è solo esercizio di democrazia ma fattore essenziale per garantire l’efficacia dei programmi di rigenerazione. Il progetto di legge ignora anche questo aspetto. La partecipazione è prevista solo come possibilità per i Comuni. Una previsione, questa, che sembra avere valore puramente simbolico, giacché è difficile immaginare un provvedimento che possa negare a un ente locale la possibilità di promuovere la partecipazione civica. Le norme indicano specificamente i concorsi di architettura e la progettazione partecipata, rimarcando, ancora una volta, l’enfasi posta sulla dimensione fisica della rigenerazione1.
Riconoscere il legame fra condizioni di degrado fisico e disagio sociale è essenziale perché la rigenerazione urbana non si risolva nel migliorare lo stato di parti di città peggiorando nel contempo le condizioni di vita degli abitanti più svantaggiati e generando altre aree di degrado e disagio. Intendere la rigenerazione urbana come processo mirato non solo alla riqualificazione fisica (urbanistica ed edilizia), ma anche alla rinascita culturale e alla inclusione sociale implica la mobilitazione di risorse umane e finanziarie diverse rispetto a quelle utilizzate per attuare la gran parte degli interventi di riqualificazione urbana promossi nell’ormai numerosa serie di politiche per progetti e programmi complessi. E, soprattutto, la rigenerazione urbana richiede che gli abitanti si riapproprino della città come bene pubblico e se ne prendano cura. Di tutto questo non c’è traccia nell’articolato del progetto di legge.
Note
1 Articolo 7, comma 1, del progetto di legge, intitolato “Disciplina favorevole al riuso e alla rigenerazione urbana”. Si noti che nel testo licenziato dalla Commissione consiliare competente la parola vivibilità ha sostituito la parola competitività senza che però siano stati modificati altri contenuti della norma
2 Si veda l’articolo 7, comma 3, del progetto di legge.
3Il testo licenziato dalla commissione ha aggiunto fra gli interventi di “Addensamento e sostituzione urbana” la demolizione senza ricostruzione di edifici collocati in areali caratterizzati da un’eccessiva concentrazione insediativa, con l’eventuale trasferimento delle quantità edificatorie secondo le indicazioni del Piano urbanistico generale (PUG).
4 Si veda l’articolo 17 del progetto di legge, intitolato “Concorsi di architettura e progettazione partecipata”, che prevede che per elevare la qualità dei progetti urbani i Comuni possano promuovere il ricorso al concorso di progettazione e al concorso di idee nonché ai processi di progettazione partecipata per la definizione dei processi di rigenerazione urbana, nonché in sede di elaborazione degli indirizzi strategici e degli obiettivi del PUG e dei contenuti degli accordi operativi e dei permessi di costruire convenzionati.
Relazione al convegno “Privatizzare l’urbanistica?”, Bologna, 15 novembre 2017
Un pressante invito ai sindaci dell'Emilia-Romagna perché fermino una legge che capovolge la tradizione di buongoverno urbanistico. La seduta del Consiglio regionale è stata rinviata al 19 dicembre. Un segnale di difficoltà? Forse i sindaci pensano che la legge mette a serio rischio la finanza pubblica locale? Si legga in proposito qui
Lettera inviata contemporaneamente a “il manifesto”
Corriere del Mezzogiorno, 29 novembre 2017. Alessandro Leogrande è andato via. Un suo ricordo, si Massimiliano Virgilio e un articolo di Leogrande su Rocco Scotellaro
È una doppia commemorazione quella che presentiamo oggi: due giovani scomparsi anzitempo (Rocco Scotellaro, a 30 anni, Alessandro Leogrande, a 40 anni) entrambi speranze di un Mezzogiorno d'Italia sempre più impoverito e disgregato. Si tratta di un articolo che li unisce: un articolo di Alessandro su Rocco. Ci piacerebbe servissero a riaprire un ragionamento sulla disperazione che c'è nella nostra stessa Penisola, e su come rovesciarla in speranza
Corriere della sera
ALESSANDRO LEOGRANDE
di Massimiliano Virgilio
La notizia arriva di mattina presto, rimbalza con messaggi sul telefonino, sui social ed è una di quelle da spezzare il fiato. Alessandro Leogrande (in foto ) è morto. A soli quarant’anni anni. Non ho il tempo di sperare che si tratti di un brutto scherzo, purtroppo una valanga di messaggi seppellisce anche l’ultima speranza. Purtroppo è vero: di colpo realizzo che Alessandro non c’è più. Inutile sprecare parole sulla caducità dell’esistenza, sul fatto che siamo tutti foglie nel vento, fragili, fragilissime. Alessandro se ne è andato. Se posso scrivere qualcosa di sensato adesso, sull’assurdità di un evento che spezza una vita a soli quarant’anni, posso soltanto scrivere la verità, e cioè che Alessandro è stato un grande scrittore e un ottimo giornalista, ma soprattutto è stato un attivista, che ha praticato a lungo il volontariato e l’impegno sociale, che ha combattuto per cause importanti e ha scritto di questioni altrettanto importanti, affrontando alcuni nodi critici del nostro presente. Un tempo si sarebbe detto di lui che era un intellettuale engagé . Naturalmente è stato anche quello, ma Alessandro è stato soprattutto una persona gentile, capace di letture anticonformiste del nostro presente, un uomo colto, un ragazzo del Sud.
L’Emilia che si autorappresenta nella proposta di legge urbanistica non è più la regione che definiva “democratica” la pianificazione. È diventata paladina del neoliberismo, della crescita diseguale e senza regole. Relazione al convegno “Privatizzare l’urbanistica?”, Bologna, 15 novembre 2017.
Da un po’ di anni in Emilia-Romagna si vociferava della necessità di una nuova legge urbanistica che andasse a sostituire la disciplina pianificatoria varata nel 2000, giudicata superata nonostante i ritocchi operati. La crisi e la maggiore consapevolezza dei temi ambientali e climatici hanno corretto il modo di considerare lo sviluppo urbanistico, si diceva. Che, visti i danni prodotti dagli eccessi di consumo di suolo, non va più inteso in termini espansivi ma di limitazione e riciclo del già costruito.
Evviva, ci siamo detti noi che da lungo tempo critichiamo l’immobiliarizzazione e l’abuso di suolo che ne è derivato, che nella nostra regione ha toccato le vette più alte a livello nazionale. Finalmente l’Emilia si sveglia, ci siamo detti e, recuperando l’antica ragionevolezza pianificatoria, ferma lo scempio.
Ma ci eravamo illusi. L’Emilia che si autorappresenta nella proposta di legge in discussione non è più la regione che definiva “democratica” la pianificazione e cercava meccanismi di riequilibrio territoriale e assieme sociale. È diventata la migliore paladina del neoliberismo più acceso, della crescita diseguale e senza regole e, sorda anche alle contraddizioni economiche che hanno condotto alla grande crisi, consegna agli investimenti speculativi privati la politica del territorio.
Eppure gli obiettivi del “contenimento” del consumo di suolo e della “rigenerazione urbana” sono i principi di fondo dichiarati dalla proposta di legge. Peccato siano artifici retorici contraddetti dalle disposizioni indicate, che vanno in direzione opposta.
I costruttori hanno capito da tempo che la crisi del mattone non era congiunturale e risolvibile in termini espansivi, e che non si poteva continuare a edificare in una condizione di mercato saturo per esubero produttivo, deprimendo ancor più i prezzi. Non a caso l’Ance ha varato da almeno un quinquennio il progetto “Riuso” e ha svolto in questi anni una capillare opera di persuasione nei confronti dei soci - i quali tuttavia ancora insistono nel chiedere incentivi e premi volumetrici, non si sa per quale domanda.
Sul piano delle dichiarazioni, anche i politici locali non fanno che ripetere la litania dello “stop al consumo di suolo” e ci intontiscono con il ritornello della “rigenerazione”, ma continuano ad approvare progetti faraonici, il più delle volte inutili – in questa fase è scoppiata la smania di centri commerciali, supermercati e centri culturali, tutti di megadimensioni; i capitali finanziari vanno in questa direzione con la stessa cieca determinazione con cui hanno prodotto prima eccessi di capannoni e poi di residenze: chissà quando scoppierà la bolla.
Nonostante la rendita passiva raggiunga in Italia livelli insani per l’economia (siamo al 39% del Pil) si continua a procedere per il suo incremento.
Rimangono inoltre sul tappeto una serie di questioni, gravi e pericolose che, guarda caso, non vengono correlate e non sono sufficienti a modificare la visuale. Innanzitutto la crisi delle banche legata ai crediti inesigibili. Sofferenze derivate da capitoli diversi ma entro cui - qui sta il nocciolo - il 47,2% dei prestiti deteriorati (Banca d’Italia, 2016) è riconducibile al blocco costruzioni e immobiliare. Un dato che denuncia un’economia sbilanciata, con i forti rischi di instabilità finanziaria richiamati dalla Banca Europea, troppo esposta su questo versante - oltre che comportamenti a dir poco opachi, sia da parte degli immobiliaristi che delle banche, che hanno erogato prestiti imponenti senza esigere garanzie reali.
A ciò si aggiunga che la crisi ha sedimentato in seno agli istituti di credito una grande quantità di immobili, pignorati in parte a cittadini impoveriti ma in prevalenza confiscati alle imprese lanciate in operazioni edilizie fallite per esubero di offerta. Non a caso i principali istituti hanno aperto un filone real estate per smaltire un patrimonio in progressiva svalutazione che grava sui bilanci.
Vi è poi il problema degli immobili invenduti, edifici nuovi da poco costruiti e rimasti senza acquirente oppure cantieri arenati nella crisi: un argomento noto, ben percepito ma mai misurato, salvo stime diversissime sempre contestate. Anche in questo caso se ne trarrebbero considerazioni svalutative, dunque non conviene conoscerne l’esatto ammontare, che invece potrebbe servire per progettarne un sensato utilizzo. Ma sia il governo che le amministrazioni locali si guardano bene dall’impensierire i costruttori. Tuttavia dati eloquenti sulle “rimanenze” – fabbricati classati come merci non vendute – ci vengono dalla Banca d’Italia attraverso l’esame dei bilanci delle imprese di costruzione e immobiliari. Rimanenze che nonostante l’esonero fiscale elargito dal 2013, unite ai debiti, incagliano il ciclo edilizio.
Un eccesso che si è riversato sulle città e sul patrimonio residenziale storico che recenti indagini mostrano in larga misura inutilizzato (1 abitazione su 5) e ampiamente svalutato (il 30% in meno dall’inizio della crisi).
Insomma un quadro economico di desolante preoccupazione, specie a fronte di reiterate richieste dei costruttori, che ora volgono la loro attenzione alla “rigenerazione”, parolina magica dietro cui si nasconde la riconversione del ciclo edilizio. Mi riferisco a un documento Ance inviato al governo il 16 giugno 2016 nel quale si propone la “rottamazione” dei vecchi edifici, e di “rendere gli interventi di demolizione e ricostruzione agevoli, diffusi ed economicamente sostenibili”, di “concepire la sostituzione del patrimonio edilizio come strumento ordinario di intervento sul territorio” e a questo fine di “superare la rigidità delle disposizioni in tema di altezze, distanze, densità edilizia e prevedere una riduzione degli oneri concessori da versare al Comune”. Ancora, si chiede di “incentivare fiscalmente la sostituzione edilizia anche in presenza di aumenti volumetrici” e “detassare i dividendi di chi investe nel capitale di rischio di imprese impegnate in operazioni di rigenerazione delle città”.
Tutto questo, naturalmente, in nome della limitazione del consumo di suolo. Si vuole in questo modo rilanciare l’edilizia senza alcun rischio d’impresa o concessione alla città pubblica, stravolgendo la pianificazione, il governo del territorio e le più basilari regole insediative. La “rigenerazione”, panacea di tutti i mali, si svela nei suoi termini reali di “sostituzione”. Un espediente per rimettere in moto la rendita fondiaria accorciando il ciclo edilizio, ossia la durata dei manufatti, che trova spazio per esplicarsi nelle pieghe di città abbandonate al degrado.
Parole d’ordine che troviamo tradotte per intero nella proposta di legge emiliana, sensibile solo alle ragioni degli investitori.
La “rigenerazione” rappresenterà insomma il core business degli anni futuri. Una svolta che implica l’accorciamento del ciclo edilizio, destinata ad incidere sul piano urbano e territoriale ma che è prima di tutto una svolta culturale. Il bene durevole per eccellenza, che non a caso definiamo e distinguiamo come immobile, diventa labile, deperibile. Una sorte che è già capitata ai valori immobiliari, un tempo assunti a garanzia di investimento di lungo periodo e sicura rivalutazione che invece hanno mostrato la stessa volatilità dei prodotti finanziari di cui erano stampella. Una serie di antichi miti sono caduti, ora sta crollando anche quello della durevolezza dei manufatti.
Un cambiamento che sottende inoltre il passaggio dalla rendita marginale, avvantaggiata nei decenni della fuga dalla città e dello sprawl, a quella posizionale, di rivalutazione della centralità allocativa. Una riconfigurazione del modello di organizzazione spaziale dalle conseguenze importanti sia sotto il profilo territoriale che economico e sociale, da cui potranno derivare intense modifiche degli assetti attuali.
Sullo scacchiere immobiliare si gioca insomma il destino delle città dei prossimi anni, coinvolte in un intenso processo di “riconversione” di abbattimento e ricostruzione - o comunque, come indica la legge, di densificazione, senza rispetto per distanze, altezze, dotazioni, vecchi orpelli di un’urbanistica garantista demodé. Che cambierà la fisionomia e le modalità di utilizzazione di aree centrali, o potenzialmente tali, ora degradate o anche solo sdrucite. Ci si dovrà intendere sul concetto di degrado, se non vogliamo trovarci i picconatori sotto casa. Torna insomma il piccone risanatore, nelle vesti gioiose e politicamente illuminate della rigenerazione.
Che alcune aree, quelle dell’urbanizzazione frettolosa e caotica dell’immediato dopoguerra, meritino riconversione è innegabile. Si aprirà in ogni modo il problema degli abitanti, spesso soggetti sociali disagiati, anziani, stranieri. Una questione che vedrà necessariamente coinvolte le periferie ai margini dell’urbanizzato, nel fatidico 3% di suolo consumabile che la proposta di legge prevede (ma in realtà credo prevalentemente in forma di edilizia convenzionata “di pubblica utilità” e dunque esclusa da questo computo), in cui dovranno sorgere nuovi edifici costruiti all’uopo con contributo esentivo e premiale pubblico, per ospitare le popolazioni espulse dalle zone gentrificate, diventate troppo onerose.
La dinamica è lineare: riconverto zone centrali demolendo e ricostruendo, in più costruisco in periferia su terreni vergini sotto l’ombrello dell’interesse pubblico, accorcio in questo modo il ciclo di vita dei manufatti e introduco l’idea della loro precarietà così mi garantisco un mercato imperituro. Un dispositivo perfetto. Attenzione alle ruspe!
Con il progetto di legge di iniziativa della Giunta regionale in via di approvazione, l’urbanistica e la tutela del territorio in Emilia-Romagna giungono nude alla meta. Nude in due sensi: da una parte, senza veri strumenti di guida pubblica delle trasformazioni territoriali e con le mani legate da forti articoli prescrittivi tutti orientati all’interesse del privato e, d’altra parte, senza risorse per effetto di un taglio drastico delle entrate da fiscalità immobiliare tali da determinare, verisimilmente e rapidamente. una crisi della finanza locale, dei comuni in particolare.
La mia critica si basa su tre valutazioni:
Se gli incentivi sono poi assegnati sotto la forma di premi volumetrici, come banalmente gli operatori si ostinano a chiedere e le amministrazioni persistono nel garantire, l’inefficacia della strategia e dello strumento incentivante è ancora più chiara se, come ho detto, la crisi è una crisi di domanda.
Per quanto concerne i processi di trasformazione e rigenerazione del tessuto urbano concedo che esso implica costi superiori rispetto all’investimento greenfield. Ma a questa obiezione è necessario rispondere che anche i prezzi di vendita dei manufatti e la profittabilità dei processi è pure più alta! E se in passato tali processi non hanno dato i risultati sperati, ciò è dovuto al fatto che essi subivano l’effetto della migliore profittabilità di costruire all’esterno del tessuto urbano compatto, una alternativa che la legge cerca oggi giustamente di contrastare.
Il secondo errore dipende ancora da una imprecisa valutazione della debolezza dei progetti di rigenerazione nel recente passato: è stata soprattutto la farraginosità della legislazione urbanistica e la sovrapposizione di condizionamenti e controlli a tenere lontani gli imprenditori. E dunque nella legge attuale sarebbe bastata una vera semplificazione procedurale a supporto, ben pensata, ben condivisa con le amministrazioni locali e ben comunicata. Una semplificazione che non dovrebbe essere interpretata come indebolimento della guida pubblica delle trasformazioni né come abolizione di ogni indicazione precisa e quantitativa del piano, come si fa nella legge: la buona imprenditorialità chiede regole chiare, limiti e potenzialità altrettanto chiari e, soprattutto, la garanzia che le negoziazioni avvengano in modo trasparente, sulla base di criteri misurabili e uguali per tutti.
La lunga lista di sconti e di azzeramenti sulla fiscalità immobiliare che discende dalla lettera della legge costituisce un elemento di fortissima preoccupazione per il futuro a brevissimo termine della finanza locale, come chiunque può ben capire. È possibile controbattere che nei processi di trasformazione molti elementi di infrastrutturazione sono già presenti. Ma questo elemento è innanzitutto solo parziale, soprattutto nelle grandi trasformazioni; inoltre non si considera che attraverso gli oneri di urbanizzazione le municipalità devono coprire non solo i costi di investimento ma i notevoli costi di gestione e soprattutto di manutenzione della città, che permangono tutti interi. Infine esistono opere, reti, infrastrutture a carattere moderno - pensiamo alle reti in fibra ottica - che devono essere approntate e nuovi servizi, in particolare di solidarietà, che emergono dalla congiuntura politica attuale che devono essere forniti e che richiedono adeguate risorse pubbliche locali.
Nella legge tutte queste preoccupazioni non trovano alcun ascolto: e giudico tutto questo assolutamente irresponsabile. Tanto più che un’ulteriore fonte di risorse per le municipalità appare a rischio: poiché il piano rinuncia a conformare i diritti di proprietà, appare a rischio, secondo molti sindaci, la possibilità per i comuni di continuare a imporre l’IMU sui terreni edificabili in quanto il loro diritto di edificazione diviene “sfumato”. Ma c’è di peggio: alle legittime preoccupazioni dei sindaci, che rischiano di diventare esplosive, la legge risponde con un emendamento dell’ultima ora: vendere i gioielli di famiglia a prezzi di saldo! L’art 15 comma 2a suggerisce infatti di iscrivere in un apposito albo gli immobili facenti parte del patrimonio disponibile comunale “resi disponibili per interventi di riuso e di rigenerazione urbana”, con indicazione – udite udite! – “del relativo prezzo base di cessione, calmierato rispetto a quello di mercato”. Si consente dunque di svendere il patrimonio comunale per far fronte al deficit della gestione urbanistica, creato a forza di inutili sconti sulla fiscalità urbanistica ordinaria.
E qui mi ricollego al mio terzo punto: la contraddittorietà fra obiettivi e strumenti. All’articolo 34 si dispone che il PUG formuli una strategia per la qualità urbana (un decalogo? un documento?), che fissi obiettivi (naturalmente “generali”) e definisca l’assetto spaziale degli interventi (naturalmente “di massima”), cui affidare una lunga serie di desideri: “crescita e qualificazione dei servizi e delle reti tecnologiche, incremento quantitativo e qualitativo degli spazi pubblici, valorizzazione del patrimonio identitario culturale e paesaggistico, miglioramento delle componenti ambientali, sviluppo della mobilità sostenibile, incremento della resilienza del sistema abitativo,…”. questi desideri, sembra banale ricordarlo, hanno un costo anche molto elevato. Come si intende raggiungerli?
Lo strumento esiste, indicato all’articolo 1: la valorizzazione della capacità negoziale dei comuni! Ma in tutti i paesi dove la negoziazione col privato è altrettanto ritenuta fondamentale, l’amministrazione locale vi partecipa spalleggiata da una struttura legislativa chiara e forte in cui emergono non solo i desideri ma anche gli obblighi per il privato, sia in termini di qualità delle realizzazioni attese che di pagamento di oneri. Ma qui la legge sembra scritta solo a vantaggio della controparte privata e toglie strumenti al negoziatore pubblico. Su che cosa dovrebbe e potrebbe negoziare costui, allorché gli oneri sono già portati vicino a zero e a ogni possibile richiesta di qualità si accompagnano ulteriori premi edificatori di legge? Forse solo sull’obiettivo di evitare che gli oneri divengano negativi in forma di contributi netti a favore del privato?
Una ulteriore quasi certezza si accompagna alla previsione di una crisi dei bilanci comunali: un futuro di crescente town cramming, ossia di forte e insostenibile densificazione del tessuto già edificato, senza alcun parallelo incremento della qualità e della quantità degli spazi pubblici e dei servizi [2]. Se l’obiettivo della legge di rilanciare processi di rigenerazione così come da essa definiti e gestiti dovesse avere successo, questa sarebbe la conseguenza inevitabile, accompagnata da un prevedibile eccesso di offerta e quindi da una caduta dei valori fondiari e immobiliari complessivi. Se poi avvenisse il fatto, anch’esso assai probabile, di una corsa a realizzare diritti edificatori pregressi sulle aree esterne al tessuto consolidato nei primi cinque anni e magari, successivamente, ad anticipare le stesse costruzioni nel tempo all’interno dell’aumento consentito nel lungo termine [3] l’eccesso di offerta complessiva diverrebbe sicuro. E’ questo il tipo di futuro che vuole chi guida la Regione?
Ma c’è un ultimo argomento che vorrei toccare, assai complesso, su cui ho dei dubbi che mi piacerebbe fossero fugati in punta di diritto. Si tratta della questione aperta dalle nuove disposizioni nazionali concernenti il contributo straordinario (art. 16 comma 4 lettera d-ter del Testo Unico sull’edilizia), e cioè una nuova componente degli oneri di urbanizzazione che colpisce almeno al 50% i plusvalori creati da varianti urbanistiche, variazioni di destinazione d’uso e permessi di costruire in deroga. Questo contributo, che finalmente in Italia potrebbe colpire davvero la rendita di trasformazione, fa capolino ogni qualvolta si presentano accordi fra pubblico e privato su trasformazioni del territorio, e dunque anche nel caso della nuova legge dove i cosiddetti accordi operativi hanno una forte centralità.
La legge, data la sua natura di fondo che ho già tratteggiato, appare molto preoccupata dell’evenienza che il contributo straordinario possa vanificare la sua filosofia e risponde in due modi, entrambi a mio avviso errati e controproducenti. Il primo è la diretta esclusione dell’applicabilità del contributo straordinario all’interno del territorio urbanizzato, e cioè all’interno di tutti processi di riuso e rigenerazione urbana, “relativamente alle previsioni del PUG che prevedano la variazione dei parametri urbanistici stabiliti dagli strumenti di pianificazione previgenti o il mutamento delle destinazioni d’uso precedentemente ammesse”. Tale esclusione per una parte rilevantissima del territorio e delle trasformazioni territoriali è a mio avviso incostituzionale essendo il nuovo istituto dettato da una legge nazionale di principi, universalmente valida.
La seconda risposta della legge è ancora più drastica: essa abbandona un principio che universalmente caratterizza i documenti istituzionali di uso del suolo e cioè il loro potere di conformare i diritti di proprietà assegnando indirettamente valore a ogni appezzamento o unità territoriale: “il PUG non può stabilire la capacità edificatoria, anche potenziale, delle aree del territorio urbanizzato” (art. 33 comma 5). Se il PUG non conforma la proprietà non indicando una esplicita edificabilità è impossibile realizzarne una variante attraverso i risultati di una negoziazione. Quest’ultima realizza la volontà del piano (e conforma effettivamente la proprietà), ma non c’è una differenza di valore, non c’è plusvalore, quindi non c’è luogo a tassazione. A parte la volontà chiara di vanificare totalmente lo spirito della nuova legge nazionale, questa soluzione proposta è destinata a generare uno scompiglio nel mercato immobiliare, poiché i terreni trasformabili non potrebbero avere più un valore oggettivo fino alla firma dell’accordo. Ne vale la pena? Inoltre questa ‘innovazione’ crea problemi alla stessa logica della legge: quando si assegnano quasi a ogni passo “volumetrie aggiuntive” (ad esempio all’art. 13 o 15), che cosa si intende? Aggiuntive a che cosa? Se non alle indicazioni pubbliche, che non ci sono, saranno aggiuntive alle richieste del privato che ha già prevedibilmente computato tutte le premialità assegnate?
E infine: è possibile in un’economia moderna rinunciare a una funzione così delicata ed essenziale rivestita dai piani regolatori in un mercato fra i più rilevanti? Non verrebbe a somigliare il mercato immobiliare a un mercato di automobili in cui il produttore fosse autorizzato a non dirci di quale cilindrata sia fornito il motore delle automobili che offre?
Queste che mi sembrano contorsioni giuridiche hanno comunque fin da subito un costo. Non adottando il contributo straordinario - eventualmente indicando possibili sue variazioni di intensità in casi particolari - si rinuncia a una grande potenzialità intrinseca allo strumento stesso: quello di rappresentare una soluzione win-win in cui tutti i contendenti, e in questo caso sia il pubblico che il privato, guadagnano: il pubblico perché ottiene risorse per migliorare la qualità urbana attraverso i processi di trasformazione; il privato perché ha la garanzia che queste risorse vengano rimesse nel circuito della domanda pubblica (per esplicita indicazione della legge) rafforzando proprio quell’elemento che appare oggi molto debole e cioè la domanda complessiva di opere edilizie.
Note
[1] Art. 12 comma 3. Il settore edilizio-immobiliare in Italia opera tradizionalmente con una quota irrisoria di capitale proprio e nell’ultima crisi è riuscito a scaricare sul settore bancario tutto il rischio dei suoi investimenti, con effetti devastanti. Ora gli si concede di scaricare una parte dei suoi rischi sul settore pubblico: sarebbe interessante conoscere il parere in merito della Corte dei Conti e anche quello dell’Unione Europea in tema di aiuti di Stato.
[2] È da ricordare poi che “abbuffate” di edificazione concentrata, magari con torri alla milanese (i limiti di densità e di altezza degli edifici sono aboliti dall’art. 9.1.c) possono risultare fortemente idiosincratiche e offensive in un contesto storico (ma anche moderno) che ha la sua forza nell’ omogeneità morfologica, e determinare una riduzione di qualità complessiva del townscape.
[3] Al recente convegno su “Privatizzare l’urbanistica?” a Bologna i difensori della legge hanno avuto buon gioco nel mostrare la ridottissima capacità edificatoria ammissibile al di fuori dell’urbanizzato denso (3% dello stock); ma non hanno citato la dimensione abnorme dei diritti pregressi in circolazione, utilizzabili nei primi 3-5 anni, e, soprattutto, il fatto che la riduzione dei consumi di suolo non deve necessariamente seguire il percorso lineare nel tempo che è stato mostrato al convegno: potrebbe facilmente accadere che nei primi anni si concentri tutta la costruzione consentita nel diffuso, procedendo come nel passato, e si lasci ai futuri amministratori il divieto totale di costruzione (o l’impiccio di richiedere alla Regione un ulteriore 3%!).
Qui articoli contro il progetto di legge urbanistica regionale dell' Emilia-Romagna, di Bonora, Gibelli, Camagni, Cavalcoli e Righi presentati al Convegno "privatizzare l'urbanistica" o scritti per eddyburg. Diciamo no sino all'ultimo minuto!
Una legge sottomessa agli interessi immobiliari, fatale per la finanza pubblica locale di Roberto Camagni
Il progetto di legge della Regione Emilia-Romagna persegue l’obiettivo della rigenerazione urbana attraverso inutili sconti fiscali agli operatori privati e pericolose premialità sui volumi, che rischiano di approfondire la crisi finanziaria dei comuni e densificare senza qualità.
Diciamo no alla privatizzazione dell’urbanistica in Emilia Romagna fino all’ultimo minuto utile! di M.C.Gibelli
Un resoconto del convegno "Privatizzare l’urbanistica", promosso dai gruppi assembleari L’Altra Emilia-Romagna, Misto (Art Uno-MDP) e Sinistra Italiana per discutere dell’inaccettabile progetto di legge urbanistica regionale, Bologna, 15 novembre 2017.
La linea del Piave di Piero Cavalcoli
Una riflessione del responsabile territorio di Italia Nostra Regionale sui disastri che produrrebbero le disposizioni di “semplificazione” formulate nel progetto di legge urbanistica regionale, Relazione presentata al convegno “Privatizzare l’urbanistica?”, Bologna, 15 novembre 2017.
Consumo di luogo. Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia-Romagna, a cura di Ilaria Agostini, prefazione di Tomaso Montanari
Un istant-book scritto nella primavera 2017 per criticare la minaccia neoliberista della regione ex capofila del buongoverno urbanistico. Con scritti di Alleva, Berdini, Bevilacqua, Bonora, Caserta, Cervellati, Dignatici, Foschi, Losavio, Marson, Quintavalla, Righi, Rocchi, Salzano.
Un resoconto del convegno "Privatizzare l’urbanistica", promosso dai gruppi assembleari L’Altra Emilia-Romagna, Misto (Art Uno-MDP) e Sinistra Italiana per discutere dell’inaccettabile progetto di legge urbanistica regionale, Bologna, 15 novembre 2017.
15.11.2017 AM - Per un suolo felice, privatizzare l'urbanistica?
Articoli e link alle relazioni conferenza Privatizzare l'urbanistica finora pervenuti a eddyburg:
Ezio Righi, Una dozzina di “semplificazioni” che ci complicheranno la vita
Piero Cavalcoli, La linea del Piave
il manifesto, 23 novembre 2017. A 76 anni è scomparso Massimo Quaini. E' sempre stato in prima fila nel tentativo, assai problematico, di dare alla geografia in Italia il peso culturale che meriterebbe
Ci ha lasciati un grande geografo, un grande amico e un eccezionale compagno delle nostre pratiche di conricerca, Massimo Quaini. Quando nel 1999 cominciammo a pensare alla fondazione della Società dei territorialisti, uno dei primi che consultammo fu proprio lui. Aderì con slancio al progetto e fu fra i garanti fondatori, attento com’era fin dai tempi della rivista Herodote-Italia, negli anni 70, a contaminare saperi disciplinari per un progetto culturale di rinnovamento del pensiero marxista. Così, dalla sua fondazione fino a ieri, Quaini è stato una delle colonne portanti del Comitato scientifico dell’associazione, dei suoi convegni, dei suoi scritti, delle sue iniziative.
Alla nostra generazione di geografi ha dato un contributo paragonabile a quello di Lucio Gambi alla generazione precedente e va richiamata la sua capacità di dialogare con le altre figure impegnate nelle discipline del territorio: gli storici, prima di tutto, gli urbanisti, gli archeologi, gli ecologisti e le altre discipline implicate nel progetto comune di scienza del territorio.
Come geografo storico, Massimo Quaini è stato in prima fila nel tentativo, assai problematico, di dare alla geografia in Italia il peso culturale che meriterebbe: a questo erano dedicati i suoi lavori degli anni ’70 (il più noto fu Marxismo e geografia, del 1974, uscito per La Nuova Italia).
I suoi contributi alla storia della cartografia sono sempre stati fra i più originali. Ma già con Dopo la geografia del 1978, indicava nuove strade per le generazioni di geografi a venire, che poi si sono tradotte nella partecipazione di Quaini alla fondazione delle Società dedicate rispettivamente agli studi storico-geografici (1992) e alle Scienze del territorio (2010): una partecipazione sempre attiva, stimolante, critica.
Né va dimenticato l’impegno per la tutela del paesaggio nella «sua» Liguria. In un’intervista del primo agosto sulla cronaca genovese di Repubblica auspicava di «partire dall’analisi delle parole, usate spesso in senso positivo per nascondere interventi di tutt’altro genere con indicazioni molto sfuggenti. C’è il grande ombrellone del ’contenere il consumo del suolo’ ma qui in Liguria, per esempio c’è stata anche la legge Crescita del 2016 che prevede semplificazioni per le procedure edilizie e piani urbanistici».
Proprio su questo tema, «partire dalle parole», aveva recentemente avanzato il progetto di un «dizionario territorialista»: il suo saggio uscirà fra breve sulla rivista Scienze del territorio, nel numero monografico dedicato alla «Storia del territorio». A partire da un’analisi dell’esperienza dei dizionari francesi, Quaini propone che la Società dei territorialisti si faccia capofila di questo progetto, aperto a tutte le discipline che operano nella Società stessa.
Per noi, questo progetto è un grande testamento culturale che, speriamo, saremo capaci di onorare.
La città invisibile online, 22 novembre 2017. Prosegue la marcia della distruzione del buongoverno urbanistico nella regione che una volta era all'avanguardia. Un'ulteriore analisi critica di una legge che abbiamo già denunciato. Corruptio optimi pessima, dicevano gli antichi; con riferimenti
Il 29 novembre, presso l’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna è in calendario l’approvazione della proposta di legge urbanistica regionale, ferale attacco alla pianificazione delle città e del territorio. In nome dell’interpretazione del Piano come atto autoritario, l’urbanistica viene oggi annientata. Autoritariamente, tuttavia.
Il disegno di legge, animato da spirito neocapitalistico, riprende e attualizza temi e linguaggio della cosiddetta, mai varata, legge Lupi (2005). La deregulation auspicata dagli industriali (coinvolti, del resto, nella redazione del testo normativo) si invera in ogni passo del testo di legge, accompagnato per mesi da una propaganda istituzionale a suon di slogan: stop al consumo di suolo, rigenerazione urbana etc.
Con gli “accordi operativi” il Ddl ricorre massicciamente alla contrattazione pubblico-privato, nel vuoto pianificatorio. Dietro il paravento della “rigenerazione urbana” nasconde un quadro di demolizioni, anche nei centri storici, e di dislocamento (displacement) dei residenti. A cinquant’anni dal decreto 1444/1968, la proposta legislativa annulla gli standard urbanistici che garantivano ai cittadini italiani l’accesso universale ai servizi e al verde urbano. Per un commento critico corale, approfondito e comparato, rimandiamo al libro “Consumo di luogo. Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia-Romagna” (Pendragon, 2017).
Ma, tecnica a parte, vogliamo qui sollevare la questione politica.
La proposta di legge si fonda su una struttura logico-interpretativa di stampo squisitamente economicista. La «città è una public company» affermano i funzionari regionali (cfr. la registrazione ufficiale del convegno tenutosi in Regione Emilia-Romagna il 15 novembre 2017[1]). E se la città è una società per azioni ad azionariato diffuso, se i cittadini sono i «proprietari della città» (ibidem), la rigenerazione urbana – abbandonato qualsivoglia carattere progressivo in senso sociale – diventa uno strumento di «convincimento» dei cittadini a «investire sul patrimonio di cui sono proprietari» (ibidem). Chapeau: la casa passa da diritto ad asset, a mero oggetto di investimento. La casa, sullo stesso piano di merci e di titoli finanziari. In questo facile sillogismo, l’urbanistica si trasforma in disciplina della negoziazione. Al macero dunque i cittadini in affitto e quelli che neanche si possono permettere regolarmente un tetto a pigione.
All’interno della logica mercantilista, si sa, qualunque forma di pianificazione contrasta con la libertà incondizionata, carattere fondante dell’economia di Mercato. E perciò la Regione che fu il faro dell’urbanistica italiana (e, per certi versi, europea) dà oggi guerra al Piano. In luogo dei «metodi predittivi» (ibidem) che «consegnano la rendita a chicchessia» (ibidem), è la “strategia” che «dà il comando». Dunque, contribuire all’annullamento delle diseguaglianze sociali e fornire un buon ambiente di vita – compiti costantemente sotto attacco da parte della speculazione fondiaria, immobiliare e finanziaria – sono ora in capo alla Strategia (art. 34), a un’arte militare.
Chi poi realmente sia destinato al comando sulle trasformazioni del territorio comunale è una questione che non trova risposta nell’articolato, se non nell’augurale espressione di un intento formulato tra i principi generali: «la presente legge valorizza le capacità negoziali dei Comuni» (art. 1). È sicuro invece che Comuni e (grandi) proprietari si produrranno in tavoli di “co-decisione” assai poco democratici – chi, come decide? in quali sedi? – e punto partecipati.
Se approvata, la legge sottrarrà ai Comuni la potestà normativa sulle trasformazioni edilizie e territoriali, contro il dettato costituzionale. Il Comune infatti, secondo il Ddl emiliano, «non può» quantificare le dimensioni volumetriche delle trasformazioni, né localizzarle (art. 33, comma 5). «Non può»: lo ripetiamo, è testo di legge. «Non può» redigere tavole, né disporre una disciplina di dettaglio: nessuno deve contrastare le presunte virtù autoregolative del Mercato.
È in questa visione normativa, basata su costi, rendita, produttività, profitability, che si inserisce lo sbarramento del 3% di suolo nuovamente consumabile (non riguardante però insediamenti produttivi e logistici che si ritengano “strategici”; art. 6, comma 5). Le previsioni edilizie dei comuni emiliani si configurano oggi come rendita passiva: 250 kmq di nuova edificazione, troppi in periodo di crisi (ma tali non erano prima del 2008…). Il 3%, che comporterà la cancellazione delle previsioni comunali inattuate, entra in vigore, si badi bene, non prima di tre/cinque anni di “interregno” che vedranno, crisi o non crisi, ulteriore cementificazione.
Nella ratio del Ddl, il Piano comunale rappresenta il retaggio di un passato da dimenticare, scomodo reperto di una «collettivizzazione forzata a mezzo di violenza di Stato» (C17). Ma i mezzi per impedire l’autogoverno della società locale, e la conseguente formazione del Piano come espressione del progetto collettivo di tutela e trasformazione della città e del territorio, hanno proprio il sapore di quella “violenza” che si vorrebbe ora obliterare. Eterogenesi dei fini o stalinismo al servizio del Capitale?
*Gruppo urbanistica perUnaltracittà[
Una critica su due temi centrali del progetto di legge urbanistica dell’Emilia Romagna: le misure per il controllo del consumo di suolo e per la rigenerazione urbana affidata alla negoziazione pubblico/privato. E alcune proposte per il “ravvedimento operoso” in sede di approvazione. Testo per la conferenza "Privatizzare l'urbanistica?".
Quaderno di Urbanistica informazioni, dedicato a Edoardo Detti. Oggi lo segnaliamo ai giovanissimi perché ricordino che, se esistettero mondi migliori dal nostro, possono esisterne ancora, se li costruiscno loro
Nel lontano 1986 pubblicammo il primo Quaderno di Urbanistica informazioni, dedicandolo a Edoardo (Daddo) Detti, protagonista della ricostruzione dell'Istituto nazionale di urbanistica, dopo lo scossone del 1968.
Un lavoro e un documento prezioso per la storia dell'urbanistica italiana, redatto con amorevole cura da Mariella Zoppi e Augusto Boggiano. Mi è tornato alla mente in occasione di un intervento radiofonico di Vittorio Emiliani su Radio radicale. L'ho cercato invano sul sito dell'INU, aggi presieduto e diretto da persone molto lontane dal mondo, gli interessi, le idee e le pratiche di Daddo Detti (a partire dalla sua presidente Silvia Viviani). L'ho trovato e ne ho ottenuto la scansione da Ilaria Agostini e Daniele Vannetiello, che ringrazio molto. È scaricabile da chiunque utilizzi questo link: Quaderno 1 di Urbanistica informazioni (1986)
Nell'occasione rinvio anche all'editoriale di Urbanistica informazioni col quale mi accomiatavo dalla rivista e dall'istituto, spiegandone le ragioni (e.s.).
Una riflessione del responsabile territorio di Italia Nostra Regionale sui disastri che produrrebbero le disposizioni di “semplificazione” formulate nel progetto di legge urbanistica regionale, Relazione presentata al convegno “Privatizzare l’urbanistica?”, Bologna, 15 novembre 2017.
Sarebbe pertanto indispensabile che una selezione univoca delle disposizioni che mantengono efficacia nei PTCP fosse compiuta responsabilmente dalle amministrazioni provinciali o di area vasta, prima dell’avvio del nuovo indirizzo regionale, secondo modalità aperte alla consultazione e partecipazione; e che conseguentemente la decorrenza del termine per l’avvio dell’adeguamento della pianificazione urbanistica comunale fosse subordinato alla conclusione di questo adempimento da parte della Provincia. Sarebbe inoltre necessario che gli adeguamenti da parte della Regione e dei soggetti di area vasta prescritti dal comma 1 del medesimo articolo 74 non fossero limitati agli strumenti di pianificazione territoriale, ma riguardassero totalità dei dispositivi di legge o regolamentari che fanno riferimento al sistema di pianificazione disposto dalla legge regionale 20/2000.
Le questioni della necessità di disciplina “diretta” delle trasformazioni diffuse nei territori urbanizzato e rurale sono in verità percepite dal progetto di legge, che abbozza una risposta che disciplinerebbe il territorio urbanizzato mediante uno schema di assetto del territorio urbanizzato (articolo 33, comma 2) e una disciplina urbanistica di dettaglio (comma 4). Questa disciplina di dettaglio è però irrigidita in modo intollerabile dall’assoggettamento di qualsiasi modifica, anche di minima entità, al medesimo procedimento che disciplina la formazione del PUG, del PTAV, del PTR... (ma non quella degli accordi operativi).
Se non che, op là, il Comma 3 del medesimo art.33, dopo aver ricordato gli obiettivi generali, le dotazioni territoriali, la gamma degli usi e delle trasformazioni ammissibili, chiarisce che “in particolare” (il che ha tutta l’aria di significare “in sostanza”) il PUG “definisce, per ciascuna parte del territorio urbanizzato: a) gli interventi di addensamento e sostituzione urbana subordinati alla stipula di accordi operativi….b) gli interventi sul territorio urbano consolidato (perché “consolidato”? significa che gli interventi di “addensamento e sostituzione” sarebbero tipici di un tessuto urbano non consolidato? La prescrizione di suddivisione per parti “omogenee” del territorio urbanizzato sottintende quindi la suddivisione in parti consolidate e non consolidate? ndr) che possono essere attuati direttamente con la presentazione di un titolo abilitativo edilizio”, vale a dire, come chiarisce il successivo comma 4, le trasformazioni “attuabili per intervento diretto”.
Macchè, il comma successivo, come in un gioco da play station, smentisce quanto appena detto e chiarisce che “Gli elaborati di cui al comma 5 non contengono in nessun caso una rappresentazione cartografica delle aree idonee ai nuovi insediamenti bensì indicano, attraverso apposita rappresentazione ideogrammatica…. le parti del territorio extraurbano, contermini al territorio urbanizzato, che non presentano fattori preclusivi o fortemente limitanti alle trasformazioni urbane”. Al mercato la scelta.
Continuano i dibattiti sulla devastante proposta di legge urbanistica della Regione Emilia-Romagna. Il prossimo a Bologna: intervengono tra gli altri anche M.C.Gibelli, R.Camagni, P.Bonora e E.Righi. Con riferimenti. (i.b)
Programma Dettagliato dell'evento
Per un suolo felice
PRIVATIZZARE L’URBANISTICA?
Commento alla proposta di legge urbanistica della Regione Emilia-Romagna
Mercoledì 15, 2017
dalle ore 9.00 alle 18.00
Aula Magna della Regione Emilia-Romagna, viale Aldo Moro, 30 Bologna
Ore 9.00 Sui quattro obiettivi del progetto di legge
Presiedono e introducono: PIERLUIGI CERVELLATI e SERGIO CASERTA
Intervengono: PIERO CAVALCOLI Limitazione al consumo di suolo e pianificazione territoriale
RODOLFO LEWANSKI Partecipazione e democrazia
FILIPPO BOSCHI
ROBERTO CAMAGNI Perché favorire la rendita immobiliare?
PAOLA BONORA Rigenerazione urbana e riconfigurazione della rendita
EZIO RIGHI Potere alla rendita, esautorati i comuni (e semplificare non è semplice)
ROBERTO GABRIELLI
YURI TORRI
IGOR TARUFFI
Ore 13.00 pausa pranzo
Ore 14.30 Urbanistica e politiche regionali
Presiede e introduce SERGIO CASERTA
Intervengono SILVIA PRODI Urbanistica e democrazia
MARIA CRISTINA GIBELLI Perché copiare (e peggiorare) il modello lombardo?
ANGELA BARBANENTE Rigenerazione urbana per chi?
ANNA MARSON Il territorio bene comune? Il ruolo delle politiche regionali
GIOVANNI LOSAVIO
MARINA FOSCHI il paesaggio e il Codice – La Regione e le Sovraintendenze
Conclude PIERGIOVANNI ALLEVA.
Riferimenti
Qui un articolo introduttivo di eddyburg sulla scellerata legge di eddyburg "Diciamo No al progetto al progetto di legge urbanistica della regione Emilia Romagna!" Qui una recensione al libro "Consumo di luogo" - a cura di Ilaria Agostini e testi di Alleva, Berdini, Bevilacqua, Bonora, Caserta, Cervellati, Dignatici, Foschi, Losavio, Marson, Montanari, Quintavalla, Righi, Rocchi, Salzano che critica questa legge urbanistica. Vi segnaliamo anche, sempre su eddyburg gli articoli di Enzo Righi, di Ilaria Agostini di Giovanni Losavio e di Paola Bonora, scritti per i nostri frequentatori.
La legge sui piccoli comuni, approvata il 28 settembre, è piena di buone intenzioni per una causa meritoria. Giuste ambizioni, ma poche risorse e molti impegni affidati alla buona volontà delle istituzioni. Con riferimenti. (m.b.)
Un merito va sicuramente riconosciuto alla nuova legge “Misure per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni, nonché disposizioni per la riqualificazione e il recupero dei centri storici dei medesimi comuni” di recente (28 settembre) approvata in via definitiva al Senato: riportare l’attenzione sullo stato di abbandono di un immenso patrimonio, sia costruito che naturale, che connota le aree interne, ma non solo quelle, del Paese. Un abbandono diverso da quello conosciuto da importanti luoghi delle città a seguito di dismissioni di interi comparti economico-produttivi. Intanto perché meno percepibile da un’osservazione fondata principalmente sui valori economici in gioco, sugli asset aziendali, sulle appetibilità del mercato. Lungo le fasce alpine e prealpine, la dorsale appenninica, persi nelle retrovie delle aree sviluppate” si incontrano luoghi in cui la crisi urbana incontra la crisi ambientale e il dissesto del territorio. Sono i cosiddetti "piccoli comuni", 5.500 enti locali, 2.000 dei quali si trovano in Piemonte e Lombardia. In termini di popolazione, si tratta del 16% degli italiani; in termini di territorio, del 55%.
Il cuore della legge è l’istituzione di un fondo di 85 milioni di euro, ripartito in cinque annualità, destinato a finanziare opere pubbliche di carattere edilizio e infrastrutturale, con particolare attenzione al recupero e alla valorizzazione dei centri storici. Il finanziamento è concesso sulla base di progetti presentati alla presidenza del consiglio dei ministri, sulla base di un piano nazionale, di validità triennale, che dovrà essere approvato entro sei mesi (se il termine sarà rispettato, significa entro la fine dell’attuale legislatura).
Le rimanenti disposizioni hanno per lo più un carattere di principio. La parola più ricorrente è “possono”: i comuni possono individuare zone di pregio (art. 4), acquistare stazioni e case cantoniere (art. 6), stipulare convenzioni con le Poste (art. 10) o con la Diocesi (art. 7), promuovere la vendita dei prodotti locali (art. 11) e la realizzazione di alberghi diffusi (art. 4). Le regioni possono definire interventi ulteriori (art. 1), concorrere alle spese (art. 2), e coordinare l'attività dei comuni (art. 5). E anche le istituzioni competenti in materia di istruzione, trasporti, cultura, informazione ed editoria sono esortate - nell’ambito delle proprie competenze - a dedicare specifica attenzione ai piccoli comuni. Apparentemente, tutte iniziative che si potevano fare anche prima, ma d’ora in avanti si potrà agire non soltanto per buona volontà, ma anche in base alla legge.
In estrema sintesi, si può dire che, per le ottime ragioni e finalità dalla legge, non si può essere soddisfatti dei suoi contenuti.
La prima carenza evidente, riguarda la sproporzione tra fini e mezzi. Considerato nell’arco di 5 anni, lo stanziamento è pari 15.000 € per comune. In altri termini, le risorse sono sufficienti per sostenere un paio di progetti l’anno, in ogni regione. Decisamente poco. Basti pensare che per il solo bando riguardante i laboratori urbani (simile, per contenuti e finalità, a quelli ipotizzabili dalla legge sui piccoli comuni) - la regione Puglia ha stanziato 54 milioni di euro. Insomma, al fondo manca uno zero che potrebbe trasformare un provvedimento simbolico in un sostegno strutturale.
E, ancora: tutte le esperienze condotte negli ultimi venti anni (a partire dai benemeriti “Contratti di quartiere”, stupidamente abbandonati) hanno dimostrato che le iniziative delle persone, delle associazioni e delle imprese sociali contano altrettanto - se non più - degli interventi fisici e che solo un legame virtuoso tra attività e interventi garantisce il necessario abbrivio iniziale. La legge sembra ignorare questo aspetto e c’è da augurarsi che la cantierabilità delle opere non sia l’unico criterio di selezione, come purtroppo sembra costume di questo periodo.
Infine, un ulteriore lato debole risiede nel rapporto tra Stato promotore dell’iniziativa e comuni attuatori: la “governance” del progetto. La linea dei finanziamenti parte dai Ministeri competenti e aspetta di incontrare l’iniziativa dei comuni potenzialmente interessati. Manca l’individuazione di specifiche strutture decentrate in grado di organizzare e sostenere queste iniziative e una visibile riorganizzazione delle pratiche con cui i diversi livelli istituzionali partecipano al gioco.
I piccoli comuni, dispersi non solo geograficamente, necessitano di riorganizzazioni territoriali e funzionali ben orientate a questo scopo. Le unioni di comuni non sono così diffuse e ancor meno lo sono le integrazioni di servizi e cura del territorio. Senza questo salto di qualità della cornice in cui si collocano iniziative come questa hanno il fiato corto. Chi ha avuto occasione di frequentare qualche comune tra quelli potenzialmente interessati ai benefici previsti dalla nuova legge sa quali difficoltà si incontrano. Ha visto una dotazione organica ridotta e messa alle corde nella gestione di attività ordinarie. Ha visto la penuria di mezzi operativi con sindaci e amministratori spesso autoincaricatisi di svolgere servizi quotidiani dell’ente come il trasporto di persone disabili, piccoli lavori di manutenzione, sorveglianza e molto altro. Dire loro “Ti aiutiamo a fermare il declino della tua comunità” senza modificare il circuito dei rapporti istituzionali che, quantomeno, ha contribuito a marginalizzarli non basta. Occorre un supporto attivo che affianchi i comuni interessati. Pensiamo a gruppi di lavoro misti decentrati (per Provincia o area vasta o per ambiti montani etc.) con lo scopo di:
- affiancare i comuni in questo progetto con il compito di rilevare le situazioni segnalate, raccogliere dati e informazioni propedeutiche al progetto, supportare i sindaci nelle negoziazioni con soggetti terzi (altri enti pubblici, istituzioni, istituti finanziari, privati).
- favorire l’incontro tra potenzialità dei luoghi e domande latenti che potrebbero essere intercettate dagli obiettivi del progetto.
- preparare programmi economico-finanziari con individuazione di risorse da attivare e piani di spesa e di rientro generati dalle attività messe in campo dai progetti.
- costituire un Osservatorio per il monitoraggio costante delle iniziative e rilevazione delle criticità su cui intervenire tempestivamente.
- costituire un repertorio delle iniziative per renderle note ed estendibili ad altri luoghi.
In altri termini, per passare da un provvedimento buono solo per le agenzie di stampa a uno utile per cambiare le cose occorre un forte e qualificato impegno organizzativo. L’iniziativa pubblica deve essere univoca, priva di ambiguità, abbandonando, per esempio, velleità di nuovi condoni e altre scelte contradditorie. La legge dice che Stato e regioni “possono” fare la differenza. Vedremo se sarà così.
Qui è scaricabile il testo della legge. Qui potete riascoltare il podcast della puntata di Zona mista - un'interessante trasmissione di Radiopopolare - dedicata allo spopolamento dei paesi alpini.
Su eddyburg trovate diversi scritti di Franco Armino e un'intervista di Francesco Erbani.