Del “piano del lavoro” della CGIL abbiamo scritto nell’eddytoriale 144 del novembre 2010. Su Giuseppe Di Vittorio vogliamo anche ricordare l’episodio della sua vita che è stato commentato dalla figlia Baldina. Rinviamo poi all’archivio della Fondazione Giuseppe Di Vittorio. Sul significato e il possibile contenuto di un new deal italiano oggi rinviamo ai numerosi articoli di Guido Viale ripresi da
eddyburg e oggi negli archivi della vecchia e della nuova edizione.
Lo “stato d’eccezione” che giustifica spostamenti negli equilibri tra i diversi poteri e rende accetto, quasi senza battere ciglio, che un parlamento eletto incostituzionalmente metta mano, addirittura, alla modifica della Costituzione». E l'obiettivo è chiaro: tornare indietro rispetto alla democrazia liberale e assoggettare al Sovrano il potere legislativo.
La Repubblica, 6 agosto 2014
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«Una polemica con un articolo di Marco Albeltaro apparso su L’Unità. Togliatti e Berlinguer hanno visto nella Costituzione la carta che poteva innovare la democrazia» Un opportuno segmento di una riflessione del nostro passato utile per costruire un futuro migliore.
Il manifesto, 27 luglio 2014, con postilla
In un suo intervento apparso su l’Unità del 25 luglio Marco Albeltaro sostiene la tesi della necessità di ricordare Palmiro Togliatti a sessant’anni dalla scomparsa in misura molto maggiore di quanto si stia facendo. Sono del tutto d’accordo. Sia Futura umanità. Associazione per la storia della memoria del Pci», sia Critica marxista, nelle quali sono impegnato, hanno dedicato o dedicheranno a Togliatti contributi di conoscenza e di analisi e. E credo che anche il manifesto non mancherà questo appuntamento. In particolare «Futura umanità» ha aperto le celebrazioni togliattiane con un convegno, svoltosi a Roma nel novembre 2013, le cui relazioni sono state pubblicate quest’anno (Paolo Ciofi, Gianni Ferrara, Gianpasquale Santomassimo, Togliatti il rivoluzionario costituente, Editori Riuniti) e presentate di recente in una sede parlamentare. Qualcosa si è fatto, dunque, e sicuramente nei prossimi mesi altro si farà. E bisognerebbe fare di più, ne convengo con l’autore.
La peculiarità del PCI
Non capisco perché si debbano contrapporre queste due figure della tradizione del comunismo italiano: come Albeltaro stesso dice, hanno vissuto in epoche diverse e fronteggiato problemi diversi. Entrambi sono state eminenti personalità politiche che hanno contribuito a creare, ciascuno nella propria epoca, quella peculiarità del comunismo italiano che in Gramsci ha le sue radici.
Personalità complementari
Appello al Parlamento Europeo in occasione del semestre italiano di presidenza di Barbara Spinelli, Daniela Padoan, Guido Viale. Un appello al quale
eddyburg aderisce e a cui invita tutti ad aderire.
Garantire il diritto di fuga
Per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale, il numero di profughi, richiedenti asilo e sfollati interni in tutto il mondo ha superato i 50 milioni di persone. Si tratta, secondo il rapporto annuale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), del dato più alto mai registrato dopo la fuga in massa, nella prima metà del secolo scorso, dall’Europa dominata dal nazifascismo. “La nostra è stata una generazione di rifugiati che si è spostata nel mondo come mai prima di allora”, ha affermato Ruth Klüger, scrittrice e germanista sopravvissuta ad Auschwitz, “io sono solo una di quegli innumerevoli rifugiati. La fuga è diventata l’espressione del mio mondo e del periodo nel quale sono vissuta. Sono interamente una persona del ventesimo secolo. E nel ventunesimo continueremo ad avere masse di rifugiati, intere generazioni di rifugiati”.
I rifugiati sono oggi il prodotto su scala industriale di quella grande guerra, immateriale e non dichiarata, che è la guerra contro i poveri, dove un confine netto separa chi ha diritto di muoversi da chi quel diritto si vede negato. Ma una guerra planetaria, che distingue tra soggetti di diritto e corpi marginali in balia di eventi decisi altrove, non può rendere l’Europa un filo spinato.
L’Europa che vogliamo deve essere un luogo di accoglienza, di rispetto, di dignità.
Fermare il respingimento dei migranti
Il numero dei migranti forzati è aumentato, nel 2013, di ben sei milioni. Un incremento dovuto principalmente alla continua carneficina siriana che, a tre anni dall’inizio del conflitto, ha visto più di 2.5 milioni di persone perdere la possibilità di vivere nel proprio paese. Uomini, donne, bambini sono da mesi ammassati nella stazione Centrale di Milano, senza che il Comune – di fatto abbandonato dallo Stato – riesca a farsene pienamente carico, nonostante i molti sforzi profusi. Ma si tratta anche di schiere in fuga dalla Repubblica Centrafricana, dal Sud Sudan, dall’Eritrea, dalla Libia gettata nel caos dalla guerra occidentale – che si vanno ad aggiungere ai profughi della Somalia e del Maghreb. Uomini, donne e bambini che giungono alle nostre coste – e a Sangatte, Ceuta, Melilla – in cerca non solo della nuda vita, ma di libertà e di giustizia: di quell’inclusione nel concetto di umanità senza il quale ogni discorso sui diritti perde significato, rimanendo appannaggio di un ceto di privilegiati.
Trovano invece spesso respingimento, inferiorizzazione giuridica, economica e sociale, privazione della libertà. Molti di loro trovano la morte durante il viaggio, così che il Mar Mediterraneo si è trasformato in un cimitero dove si compie il naufragio di quello stesso pensiero di eguaglianza e solidarietà che fonda le nostre democrazie.
Non serve, allora, appellarsi a retoriche rese impronunciabili, dopo lo smascheramento del Cuore di tenebra conradiano: l’Europa non rappresenta “il faro di civiltà, la globalizzazione della civilizzazione”, che il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha descritto a Strasburgo, il 2 luglio, in apertura del semestre italiano di presidenza europea. L’Europa è, anche, quell’orrore che Marlow, il mercante d’avorio, figura dell’avidità e del dominio coloniale, porta in Africa; maschera che disvela fino a che punto il cuore di tenebra si trovi esattamente nella luce che la nostra civiltà ha preteso di esportare, ammantando il proprio dominio di superiorità morale.
Impedire la strage del Mediterraneo
É giunto il momento che l’Unione Europea guardi a se stessa: alla distesa, al mare di morti che le sue politiche hanno causato e continuano a causare, e che cerchi soluzioni concrete e immediate, se non vuole che i suoi stessi cittadini rifuggano lo sguardo delle istituzioni.
I quarantacinque migranti trovati asfissiati nella stiva di un barcone a Pozzallo sono le ultime, povere vittime di una carneficina immane, ma già, mentre scriviamo, se ne aggiungono altre: sono ventimila gli uomini, le donne e i bambini, conteggiati per difetto, annegati nel Mediterraneo dal 1988 in poi. Sono 500 le vittime accertate solo in questa prima parte del 2014. Una tragedia epocale, della quale non potremo dire che non sapevamo, quando sarà diventata storia. Storia d’Europa.
I cittadini europei non possono più assistere passivamente alla strage che giorno dopo giorno si svolge davanti ai loro occhi – tanto più inconcepibile quando si consideri che, nella sua Carta dei diritti fondamentali, l’Unione Europea ha dichiarato di porre la persona al centro delle proprie politiche, e ha considerato le politiche sulle frontiere, l’asilo e le migrazioni come vere e proprie politiche comuni.
Tuttavia l’Unione Europea che dal 2000 dichiara di voler prevenire e combattere il traffico di esseri umani sta, di fatto, permettendo che profughi e migranti attraversino il Mediterraneo mettendo la propria vita nelle mani di organizzazioni criminali transnazionali, perché è stato lasciato loro il monopolio del trasporto in mare.
Attuare i trattati
La cosa è tanto più grave in quanto il Trattato sul Funzionamento dell’Unione prevede una responsabilità diretta in materia di gestione integrata delle frontiere (art. 77), di gestione di tutte le fasi del processo migratorio (art. 79), di accoglienza delle persone (art. 78) e di condivisione degli oneri, non solo finanziari, tra tutti i paesi membri (art. 80).
Si tratta di norme che, a cinque anni dall’entrata in vigore, hanno trovato solo una parziale traduzione legislativa: nella prassi si continuano a privilegiare strategie come il Global Approach for Mobility and Migration e le cosiddette Mobility partnership con paesi terzi, prive di una base giuridica vincolante, realizzate su base volontaria e senza la partecipazione in codecisione del Parlamento europeo.
Il ricorso da parte delle istituzioni a questi espedienti e surrogati, anziché agli strumenti previsti dai Trattati per la realizzazione di politiche comuni, conferma l’assenza di volontà politica da parte degli Stati membri e la pusillanimità della Commissione.
L’insuccesso di questo approccio è provato dall’incapacità di predisporre e attivare soluzioni semplici e improrogabili come la creazione di corridoi umanitari. L’inettitudine nel costruire una maggioranza fra gli Stati membri che realizzi il principio di solidarietà anche finanziaria previsto dall’art. 80 del TFUE non può essere nascosta dalla retorica del Consiglio europeo o dalla valanga di documenti, incontri e conferenze, né dal continuo rinvio al ruolo di Agenzie europee, il cui compito dovrebbe consistere nell’applicare le politiche europee, e non nel fare da schermo alla loro assenza.
Né può essere taciuta l’ipocrisia per cui le politiche di respingimento – previste da molte misure decise in sede di attuazione – vengono presentate come intese a salvare la vita dei migranti e dei profughi, quando sono proprio quelle politiche a condannarli al rischio, sempre più attuale, di morire annegati.
La responsabilità primaria di tutto questo ricade sugli Stati membri, sul Consiglio e sulla Commissione, che hanno completamente ignorato i Trattati – e in particolare le norme volte a trasformare le politiche di controllo delle frontiere, di asilo e di integrazione dei migranti in politiche europee comuni, da attuare nel rispetto del principio di solidarietà. L’ossessione della lotta contro l’immigrazione clandestina e la chiusura dei canali di accesso regolari hanno concretamente operato per accrescere, come strumento di dissuasione, il rischio patito da tutti coloro che cercano di attraversare i confini della fortezza Europa.
Dismettere la fortezza Europa
L’Unione Europea che, incapace di disegnare una vera politica comune, la affida alle proprie agenzie, come Frontex o Europol,[1] ha di fatto abdicato alla missione che si è data con il Trattato di Lisbona e con la Carta dei diritti. Non è questa l’Europa che vogliamo, né è Frontex che i cittadini europei hanno votato lo scorso maggio.
Noi, cittadini europei, diciamo che l’Europa che ha creduto di potersi barricare in una fortezza, ha fallito.
“Non siamo noi ad attraversare i confini, sono i confini ad attraversare noi”. Questo cartello esposto da un migrante durante la Freedom March, giunta il 27 giugno davanti ai giganteschi palazzi di vetro dell’Unione Europea a Bruxelles, descrive perfettamente la condizione in cui si trovano milioni di persone che cercano di entrare, o di restare, nella fortezza Europa.
La zona euromediterranea deve diventare uno spazio di cooperazione e solidarietà tra i popoli, non un’invalicabile frontiera esteriore per chi fugge da guerra e miseria, né un’angosciosa frontiera interiore, messa a separare la biografia di ciascuno, fatta di storia, affetto, legami, appartenenze.
È compito dell’Italia, in questo semestre europeo, promuovere l’attuazione organica e solidale di tutte le disposizioni dei trattati in materia di frontiere, immigrazione, asilo e integrazione dei migranti, facendosi carico di proteggere e accogliere gli sradicati e di consentire loro un nuovo radicamento, qualora lo desiderino.
Promuovere una politica comune europea
Consapevoli delle responsabilità che gli Stati hanno attribuito all’Unione Europea in questi campi, occorre operare con la massima urgenza perché l’UE venga dotata degli strumenti necessari a far fronte ai flussi massicci dei profughi. L’art. 78 TFEU e la direttiva del 2001 sulla protezione temporanea già prevedono la predisposizione di piani di intervento, che tuttavia la Commissione continua a guardarsi dal proporre al Consiglio.
La presunta strategia globale della Task force sul Mediterraneo, dibattuta dal Consiglio europeo e sviluppata dal Consiglio informale Giustizia e affari interni dell’8 luglio – affidata a iniziative su base volontaria, approcci diplomatici poco credibili e strumenti operativi con risorse limitate, come Frontex – è fumo negli occhi, e sicuramente non costituisce una politica comune europea all’altezza della sfida con cui l’Unione, e in particolare i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, sono chiamati a confrontarsi.[2]
Chiediamo che il Parlamento europeo, attraverso la sua commissione competente – in collaborazione con la Presidenza italiana e la Commissione – proceda entro i prossimi sei mesi a una valutazione oggettiva dell’adeguatezza delle politiche e dei mezzi messi in atto dalle istituzioni e agenzie dell’Unione e dagli Stati membri e dei Paesi terzi.
Predisporre corridoi umanitari
Nel frattempo si tratta di prevedere d’urgenza l’apertura di percorsi autorizzati e sicuri per chi lascia il territorio di nascita, di cittadinanza o di residenza – in fuga da guerre, persecuzioni, catastrofi ambientali, climatiche o economiche. Occorre creare un corridoio umanitario tra le coste dell’Africa e le coste europee, prima a terra e poi in mare, sotto la tutela delle Agenzie delle Nazioni Unite e dell'Unione Europea, così da impedire nuove tragedie e garantire l’effettivo esercizio del diritto d’asilo in tutti i paesi di transito; il che implica, al contempo, stroncare le nuove mafie dei trafficanti di uomini.
Il Parlamento europeo deve essere a questo proposito compiutamente informato delle ragioni per cui operazioni come EUBAM[3] sul territorio libico non permettano di aggredire il traffico di esseri umani.
Occorre approntare canali di ingresso legale dove un sistema di traghetti e voli charter sostituisca le carrette del mare, e istituire postazioni dell’Onu e dell’Unione Europea nei principali porti di partenza e nei campi di transito, dove identificare, tutelare e dotare i profughi di visti provvisori.[4]
Occorre dotare l’European Asylum Support Office (EASO) di poteri di coordinamento delle attività degli Stati membri, alla stregua di quanto fatto con Frontex in materia di controllo delle frontiere; occorre smistare gli arrivi fra i vari porti e aeroporti attrezzati per l'accoglienza, così da governare razionalmente la distribuzione sul territorio europeo dei singoli e delle famiglie; occorre far cessare l’insostenibile pressione patita dagli abitanti degli attuali luoghi d’arrivo degli scafisti, primo tra tutti Lampedusa, che spesso si trovano, con grande generosità, a supplire l’abissale assenza dello Stato e dell’Unione Europea.
Più in generale, l’Italia e tutti i popoli del Sud Europa non possono più essere lasciati soli nel gravoso compito dei soccorsi in mare, che ci riguarda tutti, come cittadini d’Europa.
Assicurare la libertà di movimento e il mutuo riconoscimento
Urge rendere permeabili i confini interni dell’Unione Europea, abrogando le norme nazionali e le prassi amministrative che nello spazio Schengen limitano la libertà di movimento delle persone, così come la libertà di scegliere dove vivere e la libertà di riannodare i propri affetti. Questo significa sanare le ferite inferte dall’applicazione deviata da parte di alcuni Stati membri del sistema di Schengen non solo alle persone, ma al concetto stesso di libertà e uguaglianza che la nostra cultura democratica afferma di voler tutelare. Chiunque si trovi nello spazio europeo, indipendentemente dalla sua cittadinanza, deve poter godere del pieno esercizio di pari diritti, così come chiede la Carta di Lampedusa, cui facciamo riferimento.
Per questo chiediamo la chiusura di tutti i centri di detenzione per migranti e profughi, comunque si chiamino, che configurano una forma di detenzione extra ordinem.
Urge, allo stesso titolo, il “mutuo riconoscimento” delle decisioni sull’asilo, alla stregua di quanto già avviene per le decisioni di espulsione, così che le persone siano libere nel movimento e nel ricongiungimento familiare dentro lo spazio dell’Unione. Questo implica la necessità di applicare in modo corretto, secondo le richieste del Parlamento europeo e i suggerimenti dell’UNHCR, il regolamento Dublin III, privilegiando il criterio della riunificazione familiare; così come implica la necessità di adeguare il regolamento alla recente giurisprudenza della Corte in materia di minori.
Facilitare richieste e visti
Urge semplificare le procedure di richiesta dello status di rifugiato e di domanda d’asilo, così come urge l’istituzione di un sistema di visti temporanei richiedibili presso tutte le ambasciate degli Stati dell’Unione Europea nei vari paesi del mondo, per chi fugge da situazioni di guerra o di persecuzione o di rischio per la vita.
Occorre approntare al più presto una normativa capace di restituire dignità giuridica ai rifugiati, che metta fine alle politiche di esternalizzazione dell’asilo con cui l’Unione Europea attualmente demanda la competenza della protezione internazionale agli Stati di transito.
Tutelare i minori non accompagnati
Urge tutelare i minori senza accompagnamento. In Italia sono arrivati, nell'ultimo anno e mezzo, quasi 6000 minori non accompagnati. Molti di loro sono trattenuti da mesi in strutture inadeguate, che non prevedono percorsi di formazione né di integrazione; altri hanno eluso la sorveglianza e sono del tutto privi di protezione. Per sanare questa situazione è stata presentata una proposta di legge,[5] ma i minori senza accompagnamento sono spesso in transito verso altri paesi e occorre trovare soluzioni congiunte, a livello europeo, di accoglienza, identificazione e protezione.
Promuovere l’istituzione dello ius soli
Urge il riconoscimento di una cittadinanza europea basata sullo ius soli. Benché questo dipenda dalla competenza dei singoli Stati membri, adeguati studi e raccomandazioni delle istituzioni europee potrebbero favorire il conseguimento di tale obiettivo.
Operare per una pax mediterranea
Non vanno infine dimenticate le ragioni geopolitiche che sono all’origine delle crisi nei paesi terzi e che determinano il flusso dei rifugiati. Sotto questo profilo la capacità di previsione, analisi e coordinamento dell’Unione europea, dell’Alto rappresentante e dell’European External Action Service è assolutamente inadeguata. Basti pensare al fatto che se accogliessimo davvero i profughi, dando loro possibilità di avere voce e diritti, si creerebbe forse in Europa una "terza forza" in grado di rappresentare il rispettivo paese – per esempio la Siria, la Repubblica Centrafricana, l’Eritrea e tutti i paesi del Corno d'Africa – in un eventuale negoziato, più e meglio dei cosiddetti governi in esilio, che talvolta sono puri fantocci.
La crisi migratoria mostra quanto sia urgente una politica estera attiva dell’Europa, attualmente impedita non solo da sterili sovranità nazionali gelosamente custodite, ma anche dalla sudditanza dell’Unione Europea alla Nato e agli USA, che sono spesso all'origine dei conflitti che deflagrano nel mondo e soprattutto ai nostri confini.
Occorre infine un’azione coerente dell’Unione Europea nel far cessare la vendita di armi nelle aree instabili del mondo da parte di quei paesi membri, come Germania, Francia, Regno Unito, Paesi Bassi, Italia, Spagna e Svezia, che figurano tra i dieci maggiori esportatori. Partner di questo lucroso commercio sono in gran parte proprio i paesi dai quali le persone sono costrette a fuggire per mettersi al riparo da guerre, persecuzioni, violazioni dei diritti umani e soppressione delle libertà democratiche.
Poiché i rifugiati sono il prodotto della guerra, noi, cittadini d’Europa, chiediamo che la nostra pace non sia una retorica né un privilegio di asserragliati, ma si declini in politiche solidali capaci di includere i paesi che si affacciano sul Mediterraneo e l’Africa.
Primi firmatari: Barbara Spinelli, Daniela Padoan, Guido Viale, Alexis Tsipras, Stefano Rodotà, Luigi Manconi, Andrea Camilleri, Umberto Eco, Curzio Maltese, Maurizio Ferraris, Moni Ovadia, Erri De Luca, Gad Lerner, Marco Revelli, Eleonora Forenza, Don Luigi Ciotti, Ermanno Rea, Enrico Calamai, Adriano Prosperi, Aldo Bonomi, Roberta De Monticelli...
PER ADESIONI: corridoio.umanitario@gmail.com
[1] Come affermato l’ultima volta nel Consiglio europeo del 26 e 27 giugno 2013.
[2] Si veda in proposito il documento 11436/14 che Statewatch è sul punto di pubblicare.
[3] EU Border Assistance Mission in Lybia.
[4] Si veda progetto pilota.
[5] Legge n. 1658, 4 ottobre 2013.
«». La Repubblica
La vicenda dell’insegnante messa sotto inchiesta dalla madre superiora di una scuola privata di orientamento cattolico e parificata non ha dell’incredibile. È incredibile che ci si stupisca e si continui a sostenere — come da anni si fa — che la scuola pubblica comprende sia le scuole statali sia quelle private parificate. Il pubblico è uno, dicono i sostenitori del finanziamento pubblico alle scuole private per raggirare l’Art. 33 della Costituzione che afferma chiaramente essere le scuole private libere e “senza oneri per lo Stato”. I retori che non vedono di buon occhio questa norma hanno sofisticamente ridefinito il pubblico e... abracadabra, ecco che tutte le scuole paritarie sono pubbliche come quelle statali! All’insegnante (che per proteggere l’anonimato si presenta come Silvia) la madre superiora della scuola cattolica in questione ha detto di voler verificare le “voci secondo le quali lei aveva una compagna”. Poiché era suo dovere «tutelare questo istituto cattolico” se quelle voci fossero state fondate allora il suo contratto sarebbe stato a rischio (l’insegnante ha un contratto annuale rinnovabile). Perché è quanto meno irragionevole stupirsi?
«Nell’affollata assemblea nazionale tenuta ieri al teatro Vittoria di Roma, più di 500 persone hanno cercato di sviluppare un metodo difficile basato sul consenso e sulle soluzioni condivise, più che su quello basato su una "testa, un voto"».
Il manifesto, 20 luglio 2014 con postilla
Anni di contrasti non si cancellano con un colpo di spugna. In un tempo ragionevole, ma non breve, Sinistra Ecologia e Libertà e Rifondazione Comunista, le associazioni e i gruppi che compongono l’«Altra Europa con Tsipras» stanno cercando di fare tesoro delle differenze e delle debolezze di tutti.
Nell’affollata assemblea nazionale tenuta ieri al teatro Vittoria di Roma, più di 500 persone hanno cercato di sviluppare un metodo difficile basato sul consenso e sulle soluzioni condivise, più che su quello basato su «una testa, un voto».
Gli equilibri restano precari e rischiano di creare precipitazioni in vista delle prossime elezioni regionali in Calabria e in Emilia Romagna, dove si voterà a novembre e i partiti della sinistra con i Verdi e il Pd sono stati in maggioranza negli ultimi cinque anni. O in Puglia dove, ad un anno dalla scadenza del mandato da governatore di Nichi Vendola, il presidente della giunta per le elezioni del senato Dario Stefàno (Sel) ha ufficializzato la sua candidatura alle primarie del centro-sinistra, agitando le acque tra le componenti dell’Altra Europa favorevoli ad una consultazione della base prima di definire le alleanze.
Allearsi, o meno, localmente con il partito democratico di Renzi [su eddyburg lo definiamo il PMR- n.d.r] può essere un boccone indigesto per la lista Tsipras, un ’esperienza che ha fatto dell’anti-renzismo, della lotta contro l’austerità e contro quello che Marco Revelli definisce il «populismo dall’alto», bandiere da sventolare in Italia e in Europa contro le larghe intese tra popolari e socialisti.
Il posizionamento elettorale non è l’unico problema dell’Altra Europa con Tsipras, ma può condizionare la credibilità della sua proposta politica. Lo sdoppiamento delle alleanze alle ultime regionali in Piemonte e in Abruzzo dove Sel si è alleata con il Pd mentre dava indicazioni di voto per Tsipras alle Europee ha penalizzato il risultato della lista. Lo stesso problema è tornato a galla nei gruppi di lavoro che, nel pomeriggio di ieri, hanno affrontato le questioni organizzative e programmatiche.
Le posizioni in campo sono almeno due: quella più netta «mai con il Pd» sostenuta in un documento promosso dal candidato alle europee Domenico Finiguerra e quella, più sfumata, proposta da Eleonora Forenza (Prc) sulle consultazioni territoriali con la base prima di stabilire le alleanze. Per l’eurodeputata la questione è sostanziale: «Sono le alleanze sociali a definire il posizionamento politico, non viceversa. Se candidi tre attivisti No Tav, è difficile allearsi con il Pd che difende il Tav». Il rischio è quello di fare sparire il tentativo unitario che ha contraddistinto l’Altra Europa.
Al momento, non c’è in questo spazio politico un livello decisionale riconosciuto capace di dirimere la questione. Nel corso dei lavori del pomeriggio, Paolo Cento (Sel) ha sostenuto che «l’assemblea nazionale dell’Altra Europa non ha titolo per decidere sulle alleanze alle regionali ed è preferibile lasciare decidere i territori». La discussione resta aperta alla possibilità di sperimentare alleanze con le liste civiche sul modello della «rete delle città solidali» che ha avuto una buona affermazione in città come Pisa.
È stata così prospettata una soluzione interlocutoria: creare una consultazione nei territori prima di definire una collocazione politica, abbandonando il percorso verticistico che ha contraddistinto la lista fino ad oggi. «Le amministrative restano un problema anche per Syriza – ha riconosciuto Massimo Torelli di Alba – Anche se è il primo partito in Grecia, alle ultime elezioni non è riuscita ad affermarsi in due regioni importanti perché alcuni componenti della sua rete hanno preferito altre alleanze. Il modello politico adottato a livello nazionale è difficile da esportare sul piano locale in Grecia come in Italia».
Il dilemma non è solo tattico, ma politico. E mette in discussione la recente storia della «sinistra radicale». Barbara Spinelli ne è consapevole. «Rischiamo di restare prigionieri di una sindrome che può creare divisioni — afferma l’eurodeputata — Non ci salveremo se ci concentriamo solo sulle elezioni. La nostra forza nascerà da un programma incentrato su un “New Deal” della democrazia, della cultura e del lavoro in Italia e in Europa e non dalla collocazione elettorale. Se non ci riusciremo alle regionali, saremo pronti per le politiche. Non dividiamoci sulle regionali quando un soggetto politico ancora non c’è».
Sandro Medici, già candidato alle europee, vede una «reticenza» sulle forme organizzative da dare all’Altra Europa: «Andiamo avanti per approssimazioni successive — afferma — ma l’incastro è difficile. Se spingi sul pedale dell’opposizione, si possono creare divisioni. E quindi c’è chi non vuole iniziare dividendosi. È sempre possibile che, alla lunga, questo processo porterà ad una nitidezza, ma per il momento si galleggia. Siamo in una situazione tragica: la sinistra è irrilevante mentre cresce la povertà, la disoccupazione e la repressione». L’urgenza è uscire da questo incantesimo.
«La differenza si fa sulle pratiche e non sulla tattica. Solo così è possibile recuperare la credibilità che a mio avviso è stata persa quando Spinelli non ha mantenuto l’impegno di lasciare il seggio a Bruxelles dopo l’elezione» sostiene Luca Spadon che partecipa alla campagna Act! lanciata da studenti e precari della lista Tsipras. La prospettiva dell’Altra Europa dovrebbe essere quella di «farsi lievito» e «moltiplicatore» dei comitati politici esistenti e delle istanze dei movimenti che «oggi ci guardano con diffidenza o si rivolgono al movimento 5 Stelle» sostiene Finiguerra.
È fitta l’agenda in vista dell’autunno.L’Altra Europa si schiererà in molte manifestazioni di opposizione al governo. Il momento «clou» sarà un corteo programmato a Roma il 13 dicembre. Si andrà in piazza il 18 ottobre con la Fiom, il 14 novembre con gli studenti contro il «Jobs Act» Renzi-Poletti. Giorgio Cremaschi, dell’associazione Ross@, ha invitato l’Altra Europa a partecipare all’assemblea di fine settembre che proseguirà il «controsemestre popolare» a cui partecipa un ampio cartello di sindacati di base, partiti e gruppi della sinistra.
L’assemblea di ieri ha deciso l’allargamento dell’attuale coordinamento formato da 44 persone ai membri dei comitati territoriali. Questo gruppo esteso coordinerà le attività fino a settembre. Verranno eletti portavoce locali che rispetteranno la parità di genere. Per quelli nazionali si vedrà nelle prossime settimane. Un nuovo incontro nazionale dell’Altra Europa verrà fissato a novembre.
postilla.
A mio parere la direzione di marcia deve essere la rinuncia alle molteplici identità, ieri aggregate nella lista "con Tsipras", e la costruzione di un nuovo soggetto politico caratterizzato da una nuova identità (ideale, sociale strategica, programmatica, organizzativa). La base della nuova identità è rinvenibile nei documenti su cui è nata la lista "con Tsipras". Senza nascondersi i problemi del transito, né le sue difficoltà, le incertezze e gli errori che potranno compiersi, non vedo altre strade. Il rischio di ripetere i fallimenti storici delle sinistre italiane e i tentativi rivelatisi velleitari dei movimenti sociali è molto elevato.
La fine della centralità della classe operaia e l'individuazione del nuovo soggetto sociale da assumere come riferimento di classe è forse la direzione nella quale le intelligenze devono lavorare di più. "Cercare ancora", diceva ieri Claudio Napoleoni e ripete oggi Marco Revelli.
Il testo integrale della relazione che aprirà l'Assemblea della lista "L'altra Europa con Tsipras, che si tiene il 19 luglio 2014 a Roma. Un'analisi ineccepibile del nuovo quadro politico Un premessa alla formazione delle liste di un' alternativa politica nelle prossime scadenze elettorali. E soprattutto la traccia di un percorso difficile ma indispensabile per uscire dall'abisso
Partiamo di qui, l’unico dato incontestabile: il 25 maggio abbiamo raggiunto la famigerata soglia del 4%. Per 8.333 voti (tre centesimi di punto percentuale) siamo entrati tra le realtà politiche che “esistono”. Sarebbe un grave errore sottovalutare l’importanza di questo dato. Intanto perché nell’universo mediatico e politico (che ormai tendono a coincidere) non c’era quasi nessuno disposto a scommettere nemmeno un centesimo bucato su quella “esistenza”, tanto abituati erano ai nostri naufragi. E poi perché la differenza tra l’esser sopra o sotto quell’asticella (ricordiamolo, incostituzionale), anche di un solo pelo in più o in meno, è enorme. Un fallimento avrebbe significato la liquidazione di ogni possibilità anche solo di immaginare una sinistra alternativa in Italia per lungo tempo. Certo anni. Forse decenni, in un momento in cui l’approfondimento e la cronicizzazione della crisi economica e sociale pongono la questione del destino della democrazia in termini drammatici. L’essere invece tra i “salvati” anziché tra i “sommersi”, se di per sé non ci garantisce con sicurezza, lascia però aperto il discorso sul futuro.
Certo, il nostro 4,03% può apparire poca cosa se confrontato con il peso delle altre sinistre europee a noi simili, quasi tutte comprese nella fascia tra il 10 e il 20 per cento che costituisce oggi il campo di oscillazione delle nostre potenzialità: non parliamo di Syriza, che con il suo 26,6% (1.516.699 voti, in un Paese con una popolazione di quasi sei volte inferiore all’Italia!) ha costituito la vera notizia di queste elezioni, ma di Podemos in Spagna (il cui straordinario 8% si somma al quasi 10% di Izquierda Plural, sfiorando il 18%), del Sinn Féin in Irlanda, con il suo 19,5%, della stessa Linke che sfiora l’8% nelle condizioni proibitive per la sinistra in Germania oggi… Nel valutarlo nella sua giusta misura però non dobbiamo dimenticare lo stato comatoso in cui si trovava la sinistra di alternativa italiana alla vigilia della scadenza elettorale, delegittimata dalle sue sconfitte e dalle sue divisioni. Minacciata e svuotata in larga parte del proprio elettorato da due, simmetriche e devastanti, innovazioni del sistema politico italiano come il “grillismo” (prima) e il “renzismo” (poi), entrambi determinati a impiegare spregiudicatamente, su opposti versanti, l’appello in chiave populista alla “discontinuità” di sistema. Né possiamo trascurare le condizioni, per certi versi improbe, in cui si è dovuta combattere la battaglia elettorale, anomale pur in un quadro europeo plumbeo per l’inedita compattezza con cui il sistema mediatico nel suo complesso (pressoché tutta la stampa di diffusione di massa, l’universo televisivo al completo) ha cancellato ogni forma di vita al di fuori del duopolio personale Renzi-Grillo. E la confraternita dei sondaggisti al gran completo (esclusa la Demos di Ilvo Diamanti) impegnata a sfornare profezie che si auto-adempiono accreditandoci su percentuali ridicole.
Per questo è giusto considerare quel milione centotremila duecentotre voti come un “piccolo miracolo”. Ed è di lì, dalla sua dimensione ma soprattutto dalla sua composizione, che dobbiamo partire per ragionare su come andare avanti. Ma ragionando sul serio. In modo spregiudicato. Cioè sforzandoci di non raccontarcela. Di guardare le cose per come sono e non per come vorremmo che fossero. E allora, diciamocelo subito, quel “piccolo esercito” non è un insieme omogeneo. Non è nemmeno un campione rappresentativo della popolazione. Non è un “esercito popolare”. Il voto ha selezionato un settore molto particolare di elettorato: i “refrattari”, potremmo dire, di un po’ tutte le famiglie politiche dell’articolata sinistra. Gli eretici per vocazione o per convinzione. Quelli che “non ci stanno”.
Intanto è un voto differenziato geograficamente. Non è vero quanto affermato da molti commentatori politici, secondo cui i nostri elettori sarebbero distribuiti omogeneamente sul territorio nazionale. Siamo andati bene al Centro – nell’Italia in fondo socialmente e politicamente più stabile -, dove abbiamo fatto il 4,70, in particolare in Toscana (5,12), nel Lazio (4,78, con Roma provincia al 5,29 e Roma comune al 6,16!); e dove abbiamo preso quasi 270.000 voti (80.000 in più del Nuovo Centro Destra, 150.000 in più della Lega di Salvini in versione populista nazionale), più di un quarto del nostro elettorato. Bene anche al Sud (con 239.000 voti e il 4,15%): la sola altra circoscrizione dove abbiamo superato la soglia, con un risultato eccezionale in Basilicata (5,67%), quasi incredibile in Molise (4,54), onorevole in Calabria (4,21) e in Puglia (4,27), un po’ meno in Campania (3,80, con l’eccezione della provincia di Avellino – 4,80 – dove Franco Arminio ha evidentemente lasciato il segno). In una circoscrizione “difficile”, solitamente considerata esposta al voto di scambio e alla presenza della destra, siamo praticamente alla pari con gli eredi di AN e di soli 40.000 voti sotto il partito di Alfano.
E’ un voto, d’altra parte, prevalentemente urbano. Siamo andati generalmente bene nelle città, in quelle grandi e grandissime: Roma, come si è detto, ma anche a Milano (6,48) e Torino (6,57), mentre nei capoluoghi di Regione ci si è tenuti mediamente intorno al 6% (con i picchi di Firenze 8,91 e Bologna 8,89) e in quelli di provincia difficilmente si è scesi sotto il 4-4,5%. Molto meno, o addirittura male in molti piccoli centri (è significativo che sia a Milano che a Torino si abbia un dislivello di 1,5-2 punti tra il risultato relativo al comune e quello della provincia, che sale a 3 punti per Bologna e Firenze).
E’ un voto “informato”, come si suol dire (e come avrebbe potuto essere diverso?). Concentrato nelle fasce di scolarizzazione alta, tra chi si informa con la carta stampata o con la rete, chi legge fuori dal mainstream, chi discute di politica: secondo l’ Ipsos il 27% dei nostri elettori sono laureati (è la percentuale più alta in assoluto, contro l’11% della media generale, il 14% del PD, l’11% del M5S, l’8% di FI e Lega). Il 38% sono diplomati, e appena l’11% ha solo la licenza elementare o è senza nessun titolo, contro una media generale del 26% (un 23% del PD, un 31% di FI…). D’altra parte abbiamo fatto registrare la percentuale di voti più elevata (il 7,8% - quasi 4 punti percentuali in più rispetto al nostro risultato complessivo) tra “chi si informa prevalentemente con Internet”, e siamo comunque sovrastimati tra chi “si informa prevalentemente sui giornali” (5,2%), mentre crolliamo tra chi “si informa solo con la Tv” (un miserabilissimo 1,6%!).
Siamo anche, potremmo dire, un partito di giovani – anche se non il “partito dei giovani” . Sempre secondo l’indagine Ipsos il 18% dei nostri elettori avrebbe tra i 18 e i 24 anni: è la percentuale più alta in assoluto, contro il 9% del totale generale, l’8% dell’elettorato PD, il 7% di quello leghista. Nemmeno i 5 stelle ci stanno alla pari, all’11%, indietro di 7 punti percentuali. Se si considera anche la fascia d’età successiva si scopre che quasi il 40% dei nostri elettori ha meno di 34 anni, mentre siamo debolissimi nella fascia tra i 35 e i 44 anni (solo l’8% del nostro corpo elettorale sta qui) e tra gli ultra-sessantacinquenni (nonostante l’età avanzata dei “garanti”) dove siamo al penultimo posto (22%), superati verso il basso solo dei 5 Stelle (tra i cui elettori solo il 7% sta in questa fascia d’età mentre, per fare un esempio, nel Pd sono il 30%, in FI il 32, per Alfano il 28…).
Questo dei giovani – e quindi dell’area variegata del “precariato” – è forse l’unico insediamento sociale visibile e corposo a cui possiamo riferirci. Perché per il resto il nostro profilo sociale è molto sfumato, difficile da identificare con precisi “soggetti”. Potremmo dire tipico di un “voto di opinione”, per fastidioso che questo ci possa apparire. La categoria nella quale avremmo raccolto la più alta adesione (per quanto può valere questo tipo di analisi, credibile allo stesso modo dei sondaggi) è quella degli studenti (l’8,2%, esattamente il doppio della percentuale complessiva), seguita a ruota dagli insegnanti/impiegati (5,7%). La più bassa è quella degli operai (sic!), solo al 2,2%. Seguita dalla casalinghe (2,5%) e dai lavoratori autonomi (2,8%). In media invece i disoccupati (4,1%). Forte la presenza tra i “dipendenti pubblici”, tra i quali si calcola che abbiamo raccolto il 7,1% mentre tra i privati ci saremmo fermati al 3,5%.
Più complessa, infine, la composizione per “genere”, perché qui i dati sono tra loro contraddittori. Secondo Ipr, infatti, il nostro sarebbe stato un voto prevalentemente femminile con una percentuale di consenso tra le donne del 5,7%, più che doppia rispetto a quella degli uomini (2,5%); situazione esattamente rovesciata – lo dico per curiosità – rispetto al M5S dove gli uomini sarebbero quasi il doppio delle donne (26,3 contro 15,5%). Secondo l’IPSOS, invece, ci sarebbe un sostanziale equilibrio, con una leggera prevalenza del voto maschile (4,1%) su quello femminile (3,9%). A dimostrazione della precarietà degli strumenti utilizzati dai sondaggisti.
Questo per quanto riguarda la composizione del nostro elettorato. E’ però l’analisi dei flussi (“da dove provengono i nostri elettori”) quella che più ci interessa per tentare di rispondere alle domande che oggi più ci riguardano urgentemente: “chi siamo?” (da dove veniamo, appunto). E soprattutto quella fatidica: “che fare?”. Ne abbiamo un paio, di analisi, fatte immediatamente a ridosso del voto, entrambi da prendere con le pinze per il grado di incertezza di questi strumenti, ma comunque utili per darci un quadro indicativo di massima.
La prima, della SWG, direbbe che circa 440.000 dei nostri elettori provengono dal bacino di chi nelle politiche del 2013 aveva votato Sel; altri 200.000 da quello di Rivoluzione civile (ci starebbero dunque dentro i voti del Prc e di Azione civile) e 230.000 dal Pd (di Bersani); 120.000 provengono dal precedente elettorato 5 Stelle mentre 80.000 li avremmo ricuperati tra gli astenuti (il resto da frammenti di elettorato poco rilevanti).
La seconda, dell’IPSOS, indica in 586.000 i voti provenienti da Sel e da Rivoluzione civile (che qui sono conteggiati insieme), in 248.000 quelli provenienti dal PD, e in 95.000 gli ex voto M5S (il resto diviso tra ex astenuti e piccoli frammenti). In compenso ci dice che del resto di quei quasi due milioni di voti che nel 2013 erano andati a Sel e Rivoluzione civile la parte più grossa è andata al Pd (485.000 voti) e all’astensione (409.000), mentre Grillo se ne sarebbe preso solo una parte minore (150.000).
Che cosa ci dicono questi dati, da assumere – non lo ripeterò mai abbastanza - con beneficio di inventario? In primo luogo una cosa che sappiamo benissimo e che ci siamo ripetuti un’infinità di volte: che il nostro risultato è il prodotto di una molteplicità di tasselli, nessuno dei quali può essere assunto come decisivo, e senza nessuno dei quali avremmo potuto stare sopra la soglia. E che nessuna delle formazioni politiche della tradizionale “sinistra a sinistra del Pd” avrebbe potuto affrontare e sopravvivere da sola alla prova elettorale. Probabilmente di più: che sono tutte, in maggiore o minore misura, in via di logoramento o in preda a emorragie tendenzialmente irreversibili. Le fallimentari esperienze prima della Sinistra arcobaleno, poi di Rivoluzione civile hanno tracciato una linea di non ritorno. Organizzarsi separatamente o praticare frettolose alleanze elettorali di cartello significa votarsi all’irrilevanza elettorale e politica. Può forse illudere della possibilità di mantenersi le mani libere per spregiudicate alleanze, o al contrario permettere forme di purezza testimoniale, ma non porta da nessuna parte. A voler essere più radicali e impertinenti, si potrebbe dire anche che la forma organizzativa plasmata sul modello di partito novecentesco, riprodotta in sedicesimo in una democrazia stravolta dalla logica del maggioritario e ferita (forse a morte) dalla mediatizzazione dello spazio pubblico, è messa brutalmente fuori gioco. Non serve nemmeno più come contenitore dei lasciti ereditari.
Dall’altra parte tuttavia bisogna subito aggiungere – e fa parte dell’ossimoro in cui ci dibattiamo – che senza quei pezzi di organizzazione sopravvissuti a diversi tzunami, non si sarebbe non dico potuto sopravvivere, ma neppure esistere. Difficilmente si sarebbe potuto raccogliere quelle 220.000 firme benedette che ci hanno fatto da trampolino di lancio e la cui raccolta ci ha permesso di prendere contatto con territori da cui eravamo assenti, oltre che di presentare il nostro simbolo fino ad allora del tutto sconosciuto. E ancor più difficilmente, per usare un eufemismo, si sarebbe potuto doppiare il capo di buona speranza del milione e centomila voti, dal momento che almeno la metà di esso arrivava da dentro le mura della vecchia “nuova sinistra” organizzata, e l’altra metà da fuori di quelle mura ma da una terra incognita, la cui dimensione e reale aspettativa ci erano sconosciute.
Ora qualcuno potrà dire – e sicuramente lo dirà, anche qui, nella nostra discussione – che se fossimo stati più fermi sui nostri contenuti e sui nostri simboli tradizionali, le nostre bandiere rosse, la parola “sinistra” nel simbolo, un linguaggio più rude, meno da “salotto intellettuale”, magari un rifiuto esplicito dell’Europa in quanto creatura del capitale – insomma se ci fossimo mostrati “più identitari” avremmo fatto meglio. Magari riportando a casa tutti quelli che l’avevano abitata un tempo e che ora sono sparsi chissà dove. Così come nello stesso modo, e specularmente, altri potranno dire all’opposto che se fossimo stati più radicali nella critica delle forme politiche del passato, dei partiti politici in quanto tali, delle vecchie sinistre, tutte, senza pietà, dei loro leader e delle loro forme di militanza, saremmo decollati, dando voce allo scontento (che, indubbiamente, è enorme), alla domanda di radicalità (che è persino inflazionata, a trecentossessanta gradi), al bisogno spasmodico di discontinuità. L’ha appena detto, nell’editoriale della sua rivista, Paolo Flores d’Arcais, parlando di “una Lista Tsipras che avrebbe potuto partorire un elefante (politico) e che invece – pur di tenere in vita le nomenklature dei partitini – ha prodotto un topolino”. E Paolo è uno dei “padri” della Lista, tra i proponenti dell’Appello iniziale e tra i “garanti” della prima ora.
Sono tutte opinioni rispettabili. Ed è bene che nella discussione di questi giorni vengano espresse, se qualcuno davvero le condivide, perché quello in corso deve essere un confronto franco, senza reticenze o non detti. Val la pena tuttavia, per quanto riguarda la seconda, tener presente la realistica considerazione di chi ritiene che quasi sempre, come la natura, anche la politica “non facit saltus”, soprattutto quando si tratta di fenomeni elettorali. Forse una rivolta di piazza può esplodere senza preavviso, istantaneamente. Ma un’esplosione elettorale dal nulla non si è vista quasi mai. Nemmeno quando è apparsa tale, come nel caso del quasi 26% del M5S nel febbraio scorso, o della comparsa di Forza Italia partito vincente nel 1994. Perché a ben guadare il successo grillino era stato preceduto da più di un quinquennio di lavoro sotto traccia, tramite un sito web che figura da anni al vertice delle graduatorie mondiali per frequenza, nei meet up ramificati sul territorio, in una lunga serie di prove intermedie e di tentativi locali. E l’epifania berlusconiana del ’94 era il prodotto di una macchina da guerra come Publitalia, del lavorio sommerso della mafia, di una potenza economica e finanziaria senza precedenti messa in campo da un padre padrone già potente prima di “scendere in politica”. Il “partito istantaneo” descritto dai politologi in realtà non esiste, presuppone spesso un “decennio di preparazione” magari invisibile e un lavoro magari sommerso ma capillare. Il voto d’opinione non si materializza in milioni senza un sopporto di radicamento e di organizzazione, forse informale, ma non semplicemente spontanea, solo per la “magia di un appello”. D’altra parte Syriza ce lo insegna: non è esplosa nelle attuali dimensione da forza di governo al suo primo apparire. Ha impiegato 7 anni, i primi dei quali stentati, con percentuali elettorali inferiori alla nostra, prima di arrivare dove è arrivata.
Quanto alla prima opinione, di chi vorrebbe coltivare le proprie eredità “dentro le mura” nel timore di, per voler troppo, rischiare di perdere anche il poco che si ha – che non ha trovato finora un’esplicita dichiarazione pubblica, un Flores d’Arcais alla rovescia che la esprimesse platealmente, ma che forse è più condivisa, sotto traccia, di quanto non sembri in particolare tra i quadri di partito-, può sembrare orientata a una realistica prudenza, se ci trovassimo in un quadro di ordinaria stabilità politico-elettorale. Con i pezzi ben definiti, su una scacchiera ben delimitata e ferma. In realtà non è così. Siamo nell’occhio di un ciclone politico che rende instabili e mobili tutte le variabili del gioco, al centro di una rosa dei venti che scompagina e rende fluide tutte le identità e le posizioni facendo prevalere, come d’altra parte in economia e negli assetti sociali, le logiche dinamiche di flusso su quelle radicate di luogo. Rendendo liquida non solo la società, come dice Baumann, ma anche il panorama politico. Sradicando pezzi di elettorato fino a ieri “fidelizzati”, insediamenti politici fino a ieri non intaccati né intaccabili… Basta dare, anche qui, un’occhiata alle analisi dei flussi elettorali del 25 maggio…
Può sembrare che molto sia ritornato al proprio posto, col Pd che espande la propria base elettorale (il proprio zoccolo duro) ridotta da Bersani al 25% nel 2013, conquistando nuovi consensi “renziani” fino al fatidico 40,8%. Che il M5S ridimensioni un po’ il proprio peso rientrando in un più “normale” 21-22% (quello che sarebbe il suo elettorato più congruo). Che Berlusconi paghi l’inevitabile declino biologico e giudiziario, mantenendo comunque per il futuro una capacità di attrazione coalittiva forte (con Lega e NCD potrebbe ritornare verso il 30%). E che per noi rimanga uno spazio residuale di opposizione testimoniale nell’angolo in basso a sinistra del campo. C’è persino chi si è lasciato andare all’affermazione, spericolata, che si sia avviato un processo di ri-normalizzazione in direzione di un nuovo bipolarismo (la solita, sciagurata opzione maggioritaria bipolare che da Veltroni in poi ci ha portati al disastro mentale, oggi innestata sul programma di scasso costituzionale, perché a questo servirebbero le cosiddette “riforme”). Altri hanno parlato, un po’ affrettatamente, del Pd di Renzi come nuova Balena bianca, partito “pigliatutto” del nuovo secolo, paragonabile per stazza e corposità a quella che fu nella prima Repubblica la Democrazia cristiana. Qualcuno si è lasciato andare prevedendo addirittura un nuovo ciclo ventennale di egemonia… Per la verità i numeri ci parlano di un’altra realtà. Suggeriscono che sotto la superficie visibile c’è stato un gran movimento, in tutte le direzioni, con veri e propri esodi biblici di sciami di elettori in transumanza.
Intanto il Pd di Renzi: non si è limitato a espandersi oltre i suoi vecchi confini; ad attrarre nuovi elettori da sommare a quelli di prima. I suoi 11 milioni e 913mila voti (che sono in valori assoluti più di quanto preso da Bersani quando ha perso contro Grillo nel 2013 ma meno di quelli presi da Veltroni nel 2008 quando perse contro Berlusconi) sono il prodotto di entrate e di uscite complesse. Di un gran via vai attraverso un’infinità di porte girevoli. Per esempio della fuoriuscita di altri 2 milioni di elettori, un po’ verso di noi, come si è visto, un po’ verso Grillo, ma con il grosso, 1.700.000, verso l’astensione. E dell’ingresso di più di 5 milioni dai quattro angoli del mondo (politico): da Scelta civica e dall’Udc in primo luogo, da cui provengono quasi un milione e 200mila voti e che sono stati letteralmente cancellati dal quadro con una vera e propria annessione. Quasi 900mila dal M5S (che potrebbero essere considerati elettori piddini in libera uscita nel ’13 e ora ritornati a casa, ma non ne sarei del tutto sicuro, nel quadro mobile attuale potrebbero essere anche ex berlusconiani convertiti provvisoriamente al grillismo e poi sedotti dal più simpatico Renzi). D’altra parte più o meno un altro mezzo milione di neoconvertiti al renzismo provengono direttamente da Forza Italia. E addirittura 2 milioni ritornano dall’astensione dove si erano rifugiati alle politiche.
Nonostante questo ritorno, comunque, l’esercito dell’astensione è ulteriormente cresciuto rispetto al livello, già considerato record, delle politiche ed anche rispetto alle europee del 2009: ha superato la soglia impressionante dei 20 milioni (sono 20.348.000 per la precisione, quasi il doppio del trionfante PD, a una dimensione ormai molto vicina alla metà dell’intero corpo elettorale: il vero “partito della nazione”). Rispetto alle politiche, quando gli astenuti furono 12.899.000, si contano dunque 10.400.000 nuovi fuoriusciti, solo parzialmente compensati dai quasi 3 milioni di ritornanti. Più di dieci milioni di elettori che hanno deciso di “uscire”, perché evidentemente non si sentono rappresentati da nessuno! Provengono un po’ da tutti, dal M5S massicciamente (2.550.000), dal PD come si è visto, da Scelta civica e dall’UDC (tanti viste le loro piccole dimensione: 1.270.000), da Rivoluzione civile (357.000), da Sel (225.000), dalle diverse destre più o meno radicali (Fratelli d’Italia, Destra-Mpa: 350.000), dalla Lega (129.000)… Ma soprattutto provengono dal defunto Pdl, che ha perso verso l’astensione quasi 3 milioni di elettori nell’ultimo anno (2.700.000) dopo che già alle politiche aveva subito un salasso spaventoso: il 24 e 25 febbraio del 2013 Berlusconi aveva preso infatti 7.332.134 voti, 6.297.330 in meno rispetto al 2008 (13.629.464). Ora Forza Italia si è ridotta a 4.605.331, meno della metà di quello che aveva preso alle europee del 2009 (10.767.965), meno di un terzo rispetto ai tempi d’oro prima dell’inizio della crisi e prima di Ruby…
Per questo non si può ragionare sul quadro politico con i parametri di prima. Non solo con quelli dell’altro ieri, ma con quelli di ieri. Non solo con quelli del Novecento, ma neppure con quelli del 2013. Perché ci troviamo in un panorama politico che definire “allo stato liquido” è dir poco. Dovremmo dire “allo stato gassoso”.
Il che ci conduce al secondo nodo che dovremo incominciare ad affrontare ora. E cioè alla questione del rapporto tra l’esperienza della lista L’Altra Europa con Tsipras e il suo prolungamento futuro, con la stessa ambizione di lavorare a un processo di costruzione di una soggettività politica nuova, nazionale questa volta anche se concepita come parte integrante di un progetto europeo.
Lo dico subito: credo che sarebbe un grosso sbaglio pensare che questo percorso possa essere una semplice continuazione di quello già fatto. Una proiezione sul piano nazionale dell’esperienza elettorale europea. Sbaglieremmo se non considerassimo la discontinuità che c’è tra quel modello di iniziativa, di organizzazione (se così si può dire), di pratica e di progetto, e quello che ci attende nei prossimi mesi. Così come sbaglieremmo se considerassimo quel 1.103.203 di elettori una “proprietà” acquisita, un “patrimonio” stabile: dire che è da quello che bisogna partire non significa non pensare che, così come si è materializzato dietro quel simbolo nuovo, alla stessa velocità non possa anche disperdersi, se non manterremo fede alla responsabilità che ci siamo assunti quando li abbiamo chiamati a raccolta. Tanto più che il percorso che abbiamo di fronte non sarà simile a quello che abbiamo appena percorso. Per varie ragioni.
Intanto perché l’”avventura” della lista Tsipras è iniziata sotto il segno di una emergenza e di una circostanza d’eccezione (potremmo dire nel quadro di uno “stato d’eccezione”): nell’imminenza di una campagna elettorale anomala com’è in generale quella delle europee, nella quale c’era, quest’anno, il concreto rischio (il paradosso ha detto ieri Alexis) che, unica in Europa, la sinistra italiana non avesse neppure un rappresentante. E in cui, d’altra parte, c’era l’occasione (insperata, da non lasciarsi sfuggire!) di un leader vincente della sinistra di un Paese esemplare come la Grecia che poneva la propria candidatura alla guida della Commissione e svolgeva, per così dire, un ruolo di supplenza ai tanti deficit locali oltre ad offrire la possibilità di ridare un senso al termine rappresentanza. Si spiegano così, con quello “stato d’eccezione”, le tante anomalie che hanno caratterizzato la “Lista Tsipras”. A cominciare dall’anomalia della nascita: non è quasi mai accaduto che una lista elettorale sia nata da un appello. Non dalla negoziazione tra soggetti politici, non da accordi tra gruppi dirigenti o da decisioni di organismi, ma da un’aggregazione di qualche decina di migliaia di persone intorno a un testo, a cui è seguita poi la convergenza di forze via via più ampia.
Proprio per l’importanza di quella condizione da “stato d’eccezione” tenderei a paragonare i due mesi di battaglia elettorale al “comunismo di guerra”, nel quale appunto si dovevano per necessità praticare e accettare forme che in condizioni normali non sarebbero praticabili, a cominciare dal tipo di “governance” (senza dubbio oligarchica, affidata com’era alla verticalità dell’organismo dei “garanti”), e dallo spazio limitato per la discussione collettiva (affidata all’eterogeneità delle forme di aggregazione locale, al funzionamento a macchia di leopardo dei Comitati), oltre alla formazione in qualche misura “per cooptazione” del Gruppo operativo, rappresentativo più per delega fiduciaria che per effettiva elettività. Tutte condizioni che, fuori dalla situazione “d’eccezione” (finita appunto “la guerra”) non si possono più riproporre tali e quali, e richiedono meccanismi di realizzazione della condivisione stabili.
La seconda ragione di discontinuità riguarda il quadro politico. Lo stesso esito della tornata elettorale europea ha infatti prodotto una “frattura di teatro” – come si direbbe in gergo bellico -; una modificazione strutturale dell’ambiente stesso nel quale si svolge la lotta politica, che non è più paragonabile a quello nel quale la campagna elettorale era iniziata, e un mutamento genetico dei suoi protagonisti principali. Ci illuderemmo se pensassimo di applicare alla situazione attuale gli stessi codici con cui ragionavamo prima, e le stesse “forme” della politica: centrodestra, centrosinistra, maggioranza, opposizione, alleanze, il Partito democratico come possibile avversario o interlocutore, le sue componenti interne, più o meno orientate a destra o a sinistra… Stiamoci attenti a questo cambio di scenario, perché corriamo il rischio concreto che la discussione che si sta avviando sulle prossime elezioni regionali, sul rapporto con il PD, sulle alleanza, ripercorra vecchi schemi, da una parte o dall'altra, riducendo i termini della questione a un si o un no sulla base di presupposti a priori senza cogliere il disordine nuovo del contesto tutt'intero e la dinamicità vertiginosa dei tempi politici.
Il renzismo – come già in buona parte a suo tempo il grillismo – ha modificato la logica (e la geografia) profonda del sistema politico italiano, con un potenziale distruttivo estremo. Per la verità aveva incominciato già prima, il proprio sistematico lavoro di decostruzione, fin dalla conquista, dopo breve assedio da fuori delle mura, del vertice del Pd con l’arma non convenzionale delle primarie, e poi dalla successiva occupazione mediante una classica congiura di palazzo del governo. Ma il 40,8% delle europee ha sanzionato con l’unico segno ormai riconoscibile nella logorata antropologia politico-istituzionale - il successo - quel “cambiamento di verso” che è un vero e proprio mutamento di natura del nostro estenuato sistema politico. Che da pluralistico e collegiale si è trasformato in sistema tendenzialmente e potenzialmente monocratico, in cui la tirannia dell’urgenza travolge qualunque progettualità non allineata, qualunque alterità non subalterna, e la retorica dell’ultima spiaggia impone senza residui la logica dell’uomo solo al comando.
Con Renzi – e col patto del Nazzareno, che costituisce l’anima subliminare della sua visione politica – è cancellata (non a parole, ma nella pratica) ogni distinzione tra destra e sinistra, così come ogni sia pur umbratile riflesso etico nella politica, per affermare l’assoluta sovranità della pratica del potere in quanto tale. Funzione salvifica a prescindere, energia virtuale di cui non importa il contenuto né il fine, ma la pura rappresentazione di sé. L’esserci, e il vincere. E’, con un abile gioco di prestigio, la drammaticità della crisi che viviamo trasformata, con un colpo di bacchetta magica, in instrumentum regni. In mezzo (potentissimo) di potere e della sua legittimazione extra-democratica. Che cancella, non tanto e non solo come progetto, ma con il suo solo apparire, l’essenza stessa del parlamentarismo, della democrazia parlamentare e rappresentativa basata al contrario sul confronto tra opzioni diverse e sulla deliberazione. E che ci sbalza, di colpo, in una terra sconosciuta dove nessuna delle vecchie tavole vale più. L’unanimismo con cui l’intero sistema mediatico ne canta il Te Deum e ne tesse le lodi, indifferente all’immagine di servilismo che offre, è indicativo di questo “mutamento di stato” (nemmeno con Berlusconi si era arrivati a un tale conformismo servile). C’è davvero qualcosa di mefistofelico in questa determinazione, in sé profondamente nichilistica, di mettere al lavoro, sistematicamente, tutte le linee di crisi che ci stanno affliggendo per alimentare il proprio personale ruolo di comando, rovesciandone in qualche modo le polarità: l’apparente irrisolvibilità della crisi economica per giustificare la delega al buio alla sua mal assortita squadra di yes men; lo sfacelo della società e del mondo del lavoro per farne la platea privilegiata delle proprie elargizioni liberali; l’impresentabilità della fauna parlamentare selezionatasi in questi anni (della “casta”) per accreditare il suo progetto (intrinsecamente populista) di delegittimazione e di liquidazione delle istituzioni rappresentative. Renzi non è uno dei tanti capi di governo che si sono cimentati nella missione impossibile di mettere una toppa o di rallentare i numerosi processi di crisi che ci assediano: impresa che avrebbe richiesto un salto di scala nella capacità di progettazione e di pensiero, oltre che una esplicita rottura con le dogmatiche dominanti. E’ invece il primo ad aver deciso, cinicamente e spregiudicatamente, di quotarli – quei processi di crisi - alla propria borsa. Di metterli al lavoro tutti, a proprio vantaggio, compresa la crisi del proprio partito. Anzi, a cominciare dalla crisi del proprio partito.
Non se ne sono accorti, e hanno creduto che quel 40,8% del 25 maggio fosse anche una vittoria loro, del loro partito, del Partito democratico, ma in realtà quella è stata una vittoria di Matteo Renzi più che del suo partito. Anzi, per molti aspetti, una vittoria di Renzi contro il suo partito. E’ stato incoronato, con quel suffragio trasversale, più in quanto rottamatore del Pd che non come suo leader e rappresentate. Come liquidatore di quel ceto politico assemblato, con gli strumenti del Porcellum, da Bersani, e rivelatosi nella sua miseria prima in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica, poi nelle pieghe del passaggio da Bersani a Letta, infine datosi senza nemmeno trattare sul prezzo, alla velocità della luce, al nuovo conquistatore. Buona parte del successo elettorale alle europee Renzi lo deve proprio all’ostilità ostentata per mesi nei confronti non solo del gruppo dirigente, ma anche del corpo militante del Pd. E fa di tutto per dimostrare di meritare quella simpatia liquidandolo giorno dopo giorno in quanto “partito”, da buon populista quale è (se per “populista” si intende chi tende a saltare ogni mediazione tra leader e “popolo” eliminando tutti i corpi intermedi e i diversi livelli di rappresentanza sia politica che sociale). In questo senso Renzi non costituisce l’inversione di tendenza nella crisi storica del Partito democratico (iniziata praticamente dalla sua nascita, col fallimento di Veltroni), ma ne rappresenta il compimento. L’estremo punto di arrivo. In un certo senso la fase terminale. A ben guardare, infatti, il Pd renziano non è più un partito. Non dico un “partito” nel senso novecentesco del termine: quello aveva già cessato di esserlo da tempo, per lo meno da quando, tra gli anni Novanta e il primo decennio del nuovo secolo, si era consumato il passaggio tra la “democrazia dei partiti” e quella che Bernard Manin chiama la “democrazia del pubblico”: un modello di democrazia rappresentativa in cui l’elettorato cessava di essere un partecipante e si trasformava in spettatore, mentre la rappresentanza sfumava in rappresentazione, e gli attori politici si affidavano sempre più al marketing per attrarre il voto di quel pubblico volubile e distratto. Ma il Pd cessa oggi di essere “partito” anche nella sua versione post-novecentesca, quando pure la personalizzazione aveva fatto strada, e il partito politico si specializzava sempre più come “macchina” finalizzata a scegliere il leader e a sostenerne l’azione, un po’ come la compagnia teatrale supporta il proprio capocomico.
Il partito renziano va oltre quel modello. Si direbbe che incarni in senso proprio quella che Ilvo Diamanti indica come la fase immediatamente successiva all’esaurimento della stessa “democrazia del pubblico”, caratterizzata da “partiti senza società” e da “leader senza partiti”, in cui “il legame [che pur era sopravvissuto prima] tra leader, partiti e società si è consumato” sotto la pressione di una sfiducia pervasiva e dissolvente di tutte le forme collettive, e sopravvive appunto solo il modello dell’”uomo solo al comando”, connesso al proprio “pubblico” esclusivamente attraverso il filo potente ma fragile della comunicazione in tutte le sue fantasmagoriche forme. Impegnato non più a tentare di produrre un fiducia sempre più impossibile, ma piuttosto determinato a “lavorare” sulla sfiducia dilagante piegandola a proprio favore, impiegandola come arma contro amici e concorrenti. Per questa via il partito si viene trasformando da supporto che era, in estroflessione del capo (quando ne segue docilmente la volontà) o, alla peggio, in zavorra. Da strigliare o mollare, a seconda dei casi. Comunque da guidare dall’esterno e dall’alto (dal Governo, appunto). E destinato a dissolversi nell’aria nel caso in cui il Capo dovesse fallire (è questa in fondo la ragione per cui seguaci e avversari interni finiranno, volenti o nolenti, per sostenerlo all’estremo, nella consapevolezza che “dopo di lui il diluvio”).
Siamo ormai direttamente, bisogna ammetterlo, in una “democrazia ibrida” come la chiama Diamanti, o in una “post-democrazia” come sempre più sussurrano i politologi. Comunque fuori dal quadro di una normale democrazia rappresentativa. E lo dico non certo per essere disfattista, o per sostenere che ormai tutto è perduto e che sarebbero inutili le battaglie di difesa della democrazia e della rappresentanza che si stanno combattendo o preparando. Al contrario. Per sottolineare la maggiore responsabilità che ci incombe. E la necessità, appunto, di rendere più forte e più ampia la nostra azione. Più al livello delle sfide che ci toccheranno nei prossimi mesi.
Ma proprio per questo, perché stiamo dentro a una mutazione genetica radicale del nostro contesto politico e sociale, e perché per uscirne in avanti sono indispensabili una credibilità e un radicamento enormemente più ampi di quanto abbiamo raccolto finora, è necessaria una nuova verifica delle ragioni che ci tengono insieme. E un processo di innovazione delle nostre categorie di analisi, della nostra lettura delle trasformazioni sociali, e della nostra concezione dell’organizzazione e della soggettività politica, radicale. Senza trascurare quelli che sono stati i nostri punti di forza nella campagna elettorale, le “virtù” che ci hanno permesso di restare sopra il pelo dell’acqua: il traino europeo, in primo luogo – perché senza uno scardinamento delle politiche europee attuali, senza far saltare la cerniera neoliberista che domina a Bruxelles e a Francoforte, non solo non c’è salvezza qui, ma neanche politica; i dieci punti del nostro programma elettorale, che sono e restano quanto mai attuali come programma d’azione nel corso del semestre italiano, in primo luogo, e oltre, come cemento per una sempre più stretta rete di relazioni continentali; il riferimento a una figura potentemente unificante come Alexis Tsipras; la natura polifonica della Lista, intreccio di identità e ambienti differenti, capace di intrecciare la dimensione dell’iniziativa “di cittadinanza” con quella “d’organizzazione”, nuovi protagonismi e consolidate militanze, non in un assemblaggio estrinseco per giustapposizione ma in un rapporto di contaminazione reciproca e di pedagogia della cooperazione… Sapendo, tuttavia, che bisogna andare molto al di là: nel radicamento sociale, in primo luogo. Nella ricerca di un “nostro popolo”, che finora ci è mancato e che si conquista solo frequentandolo. Standogli dentro, e insieme. Facendoci “vedere” (dal 25 maggio siamo scomparsi da quasi tutti i luoghi che avevamo frequentato). Ma anche nell’interlocuzione politica, che dovrà essere ad ampio raggio, attraversare molte delle culture politiche che hanno caratterizzato la vita civile di ieri e che stentano oggi a riposizionarsi o riconfigurarsi, non per stemperare i nostri contenuti – inevitabilmente radicali – o per aprire il serraglio degli incroci ibridi, ma per guardare finalmente fuori dagli steccati, e allargare l’orizzonte del nostro pubblico potenziale. Nello spazio esploso della “post-democrazia”, non ci sono più “soggetti politici” con cui intavolare trattative, gruppi o correnti da selezionare come alleati o concorrenti. Il “Partito unico della Nazione” se avrà successo (e per un po’ lo avrà) emulsiona tutto come una gigantesca turbina, fagocita le forze marginali, scioglie le aggregazioni interne, cancella l’eterogeneità politica nel vettore verticale della decisione dall’alto. E quando collasserà non lascerà molto di strutturato dietro di sé. Ma in quello spazio non possiamo pensare di essere i soli ad muoverci in direzione ostinata e contraria. Ci saranno frammenti di rappresentanza politica in sofferenza, e anche di rappresentanza sociale alla deriva. Settori che si staccheranno dal corpo dell’iceberg e cercheranno connessioni. Movimenti bisognosi di sponde politiche su cui non appoggiarsi ma con cui interloquire. Dovremo proporci come catalizzatori, se vogliamo davvero seguire le tracce di Syriza, che ha sempre operato come fattore aggregante, mai escludente, senza presunzione né primogeniture. Dovremo imparare a parlare con tanti, senza negarci pregiudizialmente ma anche senza concederci opportunisticamente a nessuno.
Abbiamo bisogno di “manifestare” – di prendere l’iniziativa e la piazza, contro la rassegnazione e l’isolamento -, ma anche, e tanto, di pensare. Di mobilitare quel potenziale culturale che ha fatto la differenza nella campagna elettorale, e che non deve restare nel ruolo passivo del testimonial. Che è indispensabile per “cercare ancora”. E questo dovremo fare, testardamente: Cercare ancora. Perché quello che abbiamo, e sappiamo, non basta. Ci vuole di più: in termini di idee, di comprensione di quanto ci accade sotto gli occhi, e un po’ ci sconvolge un po’ non lo vediamo nemmeno, di lettura delle trasformazioni antropologiche che maturano sempre più rapide dentro il tritacarne della crisi: come si viene configurando il rapporto tra le generazioni? Tra i generi? Tra le aree geografiche? Tra lavoro e ambiente? Tra compagni? Dobbiamo inventare una modalità di decisione collettiva che non ci schiacci nella routine burocratica o all'opposto nella conflittualità permanente, che sappia tenere insieme le differenze in un rispetto che non sia indifferenza, che riesca a produrre una capacità di parola collettiva in tempi di individualismo devastante. Vi pare poco?
Ce n’è abbastanza per lasciare da parte i dettagli, su cui spesso ci dividiamo, e concentrarci sulle cose importanti, su cui è indispensabile che ci uniamo.
Marco Revelli, 18 luglio 2014
«Il dibattito sulla “riforma” si è caratterizzato dal silenzio sulle proposte alternative. Ma ora che siamo al momento dell’aula, le carte sono tutte sul tavolo: e grazie alla pubblicazione del testo integrale della proposta di Gustavo Zagrebelsky inviata al ministro Boschi, nessuno può più accusare il pensiero critico di non essere anche propositivo».
Il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2014
Nulla di tutto questo è stato offerto agli italiani come materia programmatica su cui esprimere un voto in una elezione politica. Ma proprio questo non conta nella visione del premier, poco disposto ad ascoltare obiezioni e preoccupazioni. Come un ragazzo a cui si chiede di rinunciare a un giocattolo a cui è molto affezionato. Pazienza se “dopo” la democrazia sarà ancora più fragile di quanto lo sia già oggi: Renzi dice che è una grande “occasione” e che il Paese (quale Paese?) non può permettersi il lusso di perderla.
Il dibattito sulla “riforma” si è caratterizzato dal silenzio sulle proposte alternative, rotto soltanto da gesti estremi di oppositori, comunque derisi e alla fine messi a tacere con censura e violenti interventi di sostituzioni al momento del voto in commissione. Ma ora che siamo al momento dell’aula, le carte sono tutte sul tavolo: e grazie alla pubblicazione su Il Fatto del testo integrale della proposta di Gustavo Zagrebelsky inviata al ministro Boschi, nessuno può più accusare il pensiero critico di non essere anche propositivo. Oggi sappiamo che le proposte sono almeno due e anche se una appare già al traguardo sarà il traguardo della Storia che giudicherà il valore dell’una e la saggia lungimiranza dell’altra.
La riscrittura della seconda parte della Costituzione riduce a poco più di passacarte l’assemblea di Palazzo Madama e assegna alla Camera dei deputati nominati e scelti dai capi partito il ruolo di ancelle del governo. Così mortificare un ramo del Parlamento non esalta l’altro ramo, ma il tutto si conclude con una generale mortificazione e perdita di dignità di deputati e senatori. Assieme ad essi mortificati sono tutti i cittadini italiani a cui viene sottratto il potere di eleggere i propri rappresentanti, incidendo contemporaneamente sulla legge elettorale e sulla Costituzione. Due progetti, due visioni, due mondi.
La costituzione di Renzi, no: è prendere o lasciare, mangiare la minestra o saltare dalla finestra. È o così o si scioglie il Parlamento. Dice Renzi che questa è la grande “occasione”. In sostanza oggi c’è una situazione generale che consente di fare quello che ieri non fu possibile: manomettere la carta fondamentale dei diritti e dei doveri, la Carta dello Stato italiano. L’unica occasione a cui viene di pensare è la disperazione generata dalla grande crisi: e come ci hanno sempre ricordato gli storici è in tempi come questi che i popoli accettano cose che in altre condizioni mai avrebbero accettato. Dunque, la chiusura di mezzo Parlamento italiano avviene anche perché gli italiani sono “distratti” dalla difficoltà di sopravvivere. Una grande “occasione” davvero, un’occasione da non perdere.
«La riforma che il Partito democratico si appresta a votare piace molto ai democratici minimalisti proprio perchè restringe al massimo il potere dei cittadini-attori (o sovrani) e amplia quello dei cittadini-arbitri». CRS
centroriformastato.org, 21 giugno 2014
Circa il secondo argomento, quello delle celerità decisionale: è un fatto che nei regimi democratici la tensione tra il potere esecutivo e quello legislativo sia fondamentale e permanente. Ma la tensione dovrebbe risolversi con il riconoscimento della priorità del secondo. La massima tocquevilliana per cui la democrazia si corregge con più democrazia dovrebbe quindi essere così interpretata: nell’equilibrio dei poteri (un bene che il costituzionalismo moderno ci ha regalato) occorre che il potere di proporre e fare le leggi sia centrale perché quello che direttamente discende dalla volontà dei cittadini. In una democrazia elettorale, fare le leggi comporta la centralità degli organi che ricevono autorità diretta dal suffragio. Circola tra i costituzionalisti l’idea che il cittadino sia arbitro.
Perchè bisogna essere critici di questa proposta (che non significa abbandonare l’idea di una riforma del Senato che sappia attuare un parlamentarismo funzionale ovvero che abbia sia il potere di esprimere la maggioranza, e fare leggi, sia che a quello di rappresentare, controllare e infine fermare)? Non è forse vero che Matteo Renzo ha commentato la legge sulla responsabilità dei giudici passata alla Camera dicendo che al Senato la si cambierà? Dunque, anche lui deve ammettere che passare una legge al vaglio due volte consente di correggere errori e migliorare una decisione. Questo solo dovrebbe bastare a convincerci della rilevanza di avere due Camere. Si dice inoltre e insistentemente che un Senato eletto allunga i tempi della politica. Ma si potrebbe obiettare che l’Italia repubblicana ha prodotto un numero spropositato di leggi pur anche con un bicameralismo perfetto! Insomma questi argomenti sono molto poco convincenti. E veniamo così al nodo centrale di questa proposta: l’elezione indiretta dei membri del Senato delle Autonomie.
Cominciamo dall’osservare che volendo riformare la Costituzione, sarebbe opportuno porsi la seguente domanda: Perchè ci proponiamo di attuare questa riforma? Da quale esigenza siamo mossi e per ottenere che cosa? Questo livello preliminare di chiarezza sulle intenzioni è importante perchè consente di affrontare in maniera non approssimativa il problema, ovvero dargli organicità e coerenza. Indubbiamente, sono due le esigenze che giustificano una riforma la legge fondamentale della nostra Repubblica: rendere il sistema politico più trasparente e accountable (rispondenza), e renderlo più funzionale. La prima esigenza detta la legittimitá delle regole e procedure democratiche nell’era del costituzionalismo: neutralizzare e impedire l’arbitrio (anche della maggioranza eletta), e per questo rendere il potere dello Stato più efficacemente esposto al controllo e sapientemente bilanciato nei poteri che lo compongono, in modo che non ci sia accumulo in nessuno di essi.
L’evoluzione della storia politica occidentale è andata in una direzione contraria a quella del voto indiretto; anche perchè è diventato in poco tempo un fatto provato che questo metodo di nomina serviva a generare e proteggere un’oligarchia social-politica, una classe di notabili sensibili agli interessi locali o di chi li nominava. A riprova di ciò potrebbe essere utile ricordare che il Senato degli Stati Uniti d’America fu nella prima fase della storia della federazione americana composto da nominati dagli Stati e diventò un istituto così corrotto e piegato agli interessi non controllabili dei potentati locali e dei notabili che controllavano le nomine da indurre il legislatore a riformarlo instituendo l’elezione diretta dei suoi membri. Quindi la strada semplificatrice e di risparmio che il Partito democratico promette rischia di produrre nuove sacche di corruzione e di privilegio. Un potere in mano ai grandi elettori locali anche se pagato con rimborsi sarà un’occasione di potere appetibile anche perchè fuori del controllo diretto dei cittadini e quindi meno scalfibile. Prevedibilmente si aumenterà la funzione repressiva e ai magistrati verrà dato un nuovo settore di controllo.
Un secondo argomento che si usa per giustificare questa riforma è che dobbiamo seguire modelli riusciti altrove, per esempio quello tedesco. Ma questo argomento è sbagliato e capzioso. La Germania è una federazione compiuta. Ha una Camera direttamente eletta dai cittadini tedeschi e una Camera dei Länder (Bundesrat). Quest’ultima è composta di membri non eletti a suffragio universale diretto, di esponenti dei governi dei vari Länder. Il fatto molto diverso che la federazione consente è che questa camera di nominati è per davvero espressione degli interessi dei Länder e infatti i suoi membri sono vincolati al mandato ricevuto dai loro governi locali per fare gli interessi di ciò di cui sono i rappresentanti (dei loro territori), in violazione del generale principio del divieto di mandato imperativo. L’Italia annacquerebbe il modello tedesco perchè non darebbe mandato imperativo ai rappresentanti dei territori – ma si potrebbe obiettare che in questo modo dà anche meno controllo e molto meno accountability. Se si vuole davvero fare un Senato delle regioni e dei territori occorrebbe avere il coraggio di approdare a un compiuto federalismo, appunto come in Germania. Diversamente, il libero mandato a membri di un Senato nominato dai territori finirà per ascrive un potere troppo grande, poco o nulla rispondente all’interesse dei territori, e troppo fuori controllo. Questo è il paradosso di un federalismo a metà e di un modello tedesco annacquato. Infine, non si tiene contro del fatto che la Germania ha mantenuto questa sua tradizione dall’Ottocento, non è retrocessa dal voto diretto a quello indiretto, come invece faremmo noi. La questione è anche di ragionevolezza e prudenza politica: dopo anni di condanne della casta ora si legittima la casta e si chiede agli italiani di devolvere il loro potere di elezione a funzionari ed eletti locali, piccoli potenti che le cronache quotidiane ci restituiscono come attori di una corruzione capillare ed espansa. E’ il risparmio una ragione sufficiente per rispolverare il voto indiretto o non invece la promessa implicita a una nuova generazione locale di prendersi velocemente una fetta di potere discrezionale? Un Senato che non risponde agli elettori perchè non deve comunque sfiduciare il governo è un Senato che ha comunque troppo potere per non generare una nuova oligarchia, una nuova casta.
«Obiettivo della Campagna è dare piena attuazione all’articolo 52 della Costituzione (“la difesa della patria è sacro dovere del cittadino”) che non è mai stato applicato veramente, perché per difesa si è sempre intesa solo quella armata, affidata ai militari, mentre la Corte Costituzionale ha riconosciuto pari dignità e valore alla difesa non violenta, come avviene con l’istituto del Servizio Civile nazionale».
Sbilanciamoci!,3 giugno 2014 (m.p.r.)
La madre è la Resistenza antifascista, il padre è il Referendum democratico: la Repubblica italiana è nata in un’urna il 2 giugno del 1946. Perché, per festeggiare il suo compleanno, lo Stato organizza la parata militare delle Forze Armate? E’ una contraddizione ormai insopportabile.
Il 2 giugno ad avere il diritto di sfilare sono le forze del lavoro, i sindacati, le categorie delle arti e dei mestieri, gli studenti, gli educatori, gli immigrati, i bambini con le madri e i padri, le ragazze e i ragazzi del servizio civile. Queste sono le vere forze vive della Repubblica che chiedono di rimuovere l’ostacolo delle enormi spese militari ed avere a disposizione ingenti risorse per dare piena attuazione a tutti i principi fondanti della Costituzione: lavoro, diritti umani, dignità sociale, libertà, uguaglianza, autonomie locali, decentramento, sviluppo della cultura e ricerca, tutela del paesaggio, patrimonio artistico, diritto d’asilo per gli stranieri e ripudio della guerra.
I nostri movimenti vogliono celebrare degnamente il 2 giugno promuovendo congiuntamente la Campagna per il disarmo e la difesa civile e lanciando oggi la proposta di legge di iniziativa popolare per l’istituzione e il finanziamento del “Dipartimento per la difesa civile, non armata e nonviolenta”
Obiettivo della Campagna è dare piena attuazione all’articolo 52 della Costituzione (la difesa della patria è sacro dovere del cittadino») che non è mai stato applicato veramente, perché per difesa si è sempre intesa solo quella armata, affidata ai militari, mentre la Corte Costituzionale ha riconosciuto pari dignità e valore alla difesa non violenta, come avviene con l’istituto del Servizio Civile nazionale.
La difesa civile, non armata e non violenta è difesa della Costituzione e dei diritti civili e sociali che in essa sono affermati; preparazione di mezzi e strumenti non armati di intervento nelle controversie internazionali; difesa dell’integrità della vita, dei beni e dell’ambiente dai danni che derivano dalle calamità naturali, dal consumo di territorio e dalla cattiva gestione dei beni comuni.
Il disegno di Legge istituisce un Dipartimento che comprenderà il Servizio civile, la Protezione Civile, i Corpi civili di pace e l’Istituto di ricerche sulla Pace e il Disarmo.
Il finanziamento della nuova difesa civile dovrà avvenire grazie all’introduzione dell’”opzione fiscale”, cioè la possibilità per i cittadini, in sede di dichiarazione dei redditi, di destinare il 6 per mille alla difesa non armata. Inoltre si propone che le spese sostenute dal Ministero della Difesa relative all’acquisto di nuovi sistemi d’arma siano ridotte in misura tale da assicurare i risparmi necessari per non dover aumentare i costi per i cittadini.
Lo strumento politico della legge di iniziativa popolare vuole aprire un confronto pubblico per ridefinire i concetti di difesa, sicurezza, minaccia, dando centralità alla Costituzione che ripudia la guerra»(art. 11).
La Campagna è stata presentata il 25 aprile 2014 in Arena di pace e disarmo; viene lanciata in occasione del 2 giugno 2014, Festa della Repubblica; la raccolta delle 50.000 firme necessarie inizierà il 2 ottobre 2014, Giornata internazionale della Non violenza, e si concluderà dopo 6 mesi.
Certi scritti è meglio pubblicarli tardi che mai. Questo, per esempio, che ci ricorda perché dobbiamo cambiare: nella nostra città, in Europa, nel mondo.
www.cadoinpiedi, 24 gennaio 2014
“Le nostre società stanno andando verso la plutocrazia. Questo è neo-liberismo” ha detto. La sfida del futuro? Non limitarci a osservare il corso degli eventi ed eliminare le istituzioni che perseguono il “tutto per noi stessi, niente per gli altri”.
Noam Chomsky, il maggior linguista vivente, l’autore del capolavoro Il linguaggio e la mente (Bollati Boringhieri, 2010), a 86 anni ha mantenuto una lucidità di pensiero che non lascia spazio a dubbi e illusioni. “Le nostre società stanno andando verso la plutocrazia. Questo è neo-liberismo” ha detto Chomsky.
LA DEMOCRAZIA E’ SCOMPARSA
Chomsky ha ricordato che “secondo uno studio della Oxfam, l’Ong umanitaria britannica, 85 persone nel mondo hanno la ricchezza posseduta da 3,5 miliardi di individui. Questo era l’obiettivo del neoliberismo” di cui parla come di “un grande attacco alle popolazioni mondiali, il più grande da 40 anni a questa parte”.
L’EUROPA E’ AL COLLASSO
In generale “le democrazie europee sono al collasso totale indipendentemente dal colore politico dei governi che si succedono al potere perchè sono decise – sottolinea Chomsky – da banchieri e dirigenti non eletti che stanno seduti a Bruxelles. Questa rotta porta alla distruzione delle democrazie e le conseguenze sono le dittature”. “Mario Draghi – continua – ha detto che il contratto sociale è morto.
Ciò che conta oggi è la quantità di ricchezza riversata nelle tasche dei banchieri per arricchirli. Quello che capita alla gente normale ha valore zero. Questo è accaduto anche negli Stati Uniti ma non in modo così spettacolare come in Europa. Il 70% della popolazione non ha nessun modo di incidere sulle politiche adottate dalle amministrazioni”. E da chi è composto questo 70%? “Da quelli che occupano posizioni inferiori sulla scala del reddito. Quell’1% che sta nella parte superiore ottiene a livello politico ciò che desidera. Questa è la plutocrazia”.
INFORMARSI SOLO SUI BLOG E’ SBAGLIATO
Da sempre punto di riferimento per la sinistra internazionale, Chomsky nei suoi saggi invita a riflettere sulla manipolazione dell’opinione pubblica. Dei new media dice: “Hanno portato ad una maggior vivacità di opinioni rispetto ai media ortodossi” ma un effetto negativo è “la tendenza a sospingere gli utenti verso una visione del mondo più ristretta perchè quasi automaticamente le persone sono attratte verso quei nuovi media che fanno eco alle loro stesse vedute” ha sottolineato. “Se uno si informa solo sui blog le prospettive saranno molto più ristrette”. Inoltre, la proliferazione di informazioni ha avuto, secondo il linguista, come “contraltare la riduzione del livello dei reportage”.
GLI INTELLETTUALI HANNO LE LORO COLPE
Tra i pensatori più autorevoli del nostro tempo, Chomsky non risparmia critiche agli intellettuali che, spiega, “hanno tutte le responsabilità degli altri esseri umani: cercare di incentivare il bene comune e del resto del mondo”. La sfida del futuro è “non limitarci a osservare il corso degli eventi” e per farlo, conclude, “bisogna eliminare la struttura di quelle istituzioni che perseguono il ‘tutto per noi stessi, niente per gli altri’, non colpire il singolo perchè verrà semplicemente buttato fuori dal sistema”.
«Non si può fare tabula rasa e ricominciare senza pregiudizi. È un’illusione infantile». Giovani e vecchi, passato presente e futuro, conservazione innovazione, in una magistrale lezione.
LaRepubblica, 24 maggio 2014
Se la politica è l’arte delle combinazioni che serve a tenere insieme le contraddizioni evitando che scoppino, il nostro sembra essere sempre meno un tempo politico e sempre più un tempo conflittuale. Nutriamo dentro di noi, nel nostro modo di pensare noi stessi rispetto agli altri, fratture che eleviamo a culture, cioè a visioni generali della vita, e che, perciò, diventano difficilmente componibili. Forse, la più profonda perché legata alla biologia, è la frattura generazionale.
A lungo abbiamo osservato e deplorato l’immobile gerontocrazia che ha dominato nel nostro Paese. Ora, i rapporti si stanno rovesciando, se già non sono rovesciati. La gioventù è portatrice d’un carisma che l’autorizza a rivendicare la guida della società. È fresca, spregiudicata, disinibita. Ha occhi ridenti e fuggitivi, soprattutto rapidi. Gli anziani sono conservatori, appesantiti dalle tante cose che hanno visto e vissuto, legati a idee che vengono da lontano, incompatibili con il mondo che cambia. Hanno occhi appannati, intristiti, fissi. Chi troppo ha visto e sperimentato, spesso è privo d’energia verso la realtà: ne conosce tanti o tutti gli aspetti e cade nello scetticismo e nell’abulia ironica. Insomma, gli anziani sono ostacoli. Ciò che una volta si considerava una virtù si è mutato in vizio: l’esperienza è diventata l’intralcio. Il futuro è dei giovani, si lascino gli anziani al loro passato. «Un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia ». Forse non siamo a questo ancora, ma insomma...
Nella sua galleria delle immagini che fissano momenti cruciali della vita, qualcuno avrà forse registrato lo sguardo smarrito di Bobbio e Spadolini di fronte al dileggio cui furono esposti al tempo dell’elezione del presidente del Senato della XII legislatura. Lì si poteva già capire che qualcosa di decisivo si era rotto e che nella frattura uomini nuovi vittoriosamente venivano alla ribalta. Da allora, le cose sono andate avanti. I toni, nei confronti degli anziani, possono essere cortesi o sgarbati, compassionevoli o crudeli, rispettosi o arroganti. Dipende dalla buona o cattiva creanza, ma la materia è la stessa ed è dilagante. Chi non ricorda gli insulti alla senatrice Levi Montalcini? Chi non legge ciò che compare sui social forum non sa che l’argomento decisivo contro gli avversari è sempre più spesso l’anagrafe e che di questo argomento bersaglio preferito è il presidente della Repubblica.
In fondo, che ci se ne renda conto o no, appartiene alla stessa visione del mondo la retorica della rottamazione, il trar motivo di vanto dall’abbassamento della “età media” di ministri e sottosegretari, fino alla polemica contro parrucconi o “professoroni”( o presunti tali). Un tempo si diceva: i giovani hanno solo il diritto di crescere studiando, cioè di cessare d’essere giovani. Oggi, le idee retrocedono e avanza la generazione. Chi viene dal passato s’adegui o, almeno, taccia! Se non arriva a capirlo da sé, c’è chi ci pensa al posto suo. Se non lo si mangia o non lo si cosparge di miele per darlo in pasto alle termiti, come in certe tribù delle civiltà precolombiane, lo si mummifica in qualche accademia: destino più civile e meno spiacevole, ma uguale nel risultato.
Dietro l’atteggiamento di chi fa valere la sua gioventù come plusvalore, c’è una visione del mondo cui, consapevolmente o inconsapevolmente, aderisce. Allo stesso modo c’è una visione del mondo in chi rovescia il plusvalore a favore degli anziani: i giovani hanno un solo dovere, smettere d’esserlo. Sono chiamati in causa i rapporti tra le generazioni. Tutti noi sappiamo che sono rapporti conflittuali, a partire da quelli tra genitori e figli. Prima d’essere genitori siamo stati figli e bene sappiamo che la nostra crescita si è svolta attraverso quel conflitto che poi, generalmente, acquisita la maturità e la sicurezza di sé, si ricompone in un equilibrio in cui né gli uni né gli altri sono più quelli che erano prima.
Così va il mondo degli umani, così la vita procede e ha la vittoria sulla stasi mortifera e nichilista dell’immutabile. Benedetti siano, dunque, quelli che agitano le acque immobili, anche se generano temporanea tempesta.
Dalla piccola dimensione, i rapporti intergenerazionali si proiettano sulla scala vasta della vita sociale. Diventano scontro di culture politiche. Alla fine del Settecento, epoca rivoluzionaria, si diffuse nel mondo occidentale l’intolleranza verso tutto ciò che aveva il sapore dell’Antico Regime. «Il mondo appartiene ai viventi » fu il motto di quegli anni: dunque tacciano le generazioni precedenti. Perfino le leggi e le costituzioni dovevano automaticamente cadere al volgere delle generazioni (più o meno ogni trentacinque anni, si sosteneva), per liberare le nuove dal giogo delle antiche e permettere loro di ricominciare ogni volta da capo.
A questa visione a singhiozzo se ne oppose un’altra. Il mondo non appartiene solo ai viventi. È un lascito testamentario che ogni generazione riceve dalla precedente per consegnarlo a quella successiva. La tradizione unifica le generazioni, ognuna delle quali è chiamata a portare il suo contributo a un’opera di umanizzazione che le trascende. «I viventi appartengono al mondo», si potrebbe dire, rovesciando la citata formula diThomas Jefferson.
In realtà, il mondo appartiene ai viventi e al tempo breve della loro generazione, ma è vero anche il contrario: i viventi appartengono al mondo, il cui tempo lungo scavalca le generazioni. Tra innovazione e tradizione c’è e deve esserci tensione, nella quale alla prima spetta tagliare i rami secchi e alla seconda conservare quelli vitali. Ma, oggi s’è diffuso un sentimento d’impazienza e d’insofferenza generale. Il lascito dei padri appare fallimentare ed è rifiutato dai figli. Si voleva una società dove regnasse pace, giustizia e solidarietà e abbiamo violenze, ingiustizie ed egoismi.
Tabula rasa allora, per poter ricominciare senza vincoli e pregiudizi. Per quanto sia dettata dai migliori sentimenti, questa è un’illusione infantile, perché nessuno ricomincia mai davvero da capo. Ogni svolta storica non velleitaria e non catastrofica si radica in energie morali e materiali che sono venute accumulandosi nel tempo e chiedono di farsi spazio: chiedono cioè di diventare anch’esse tradizione a partire da un’altra tradizione che s’è andata formando. Non basta l’energia, la voglia di fare e cambiare, la velocità. Non basta far leva solo sul malessere. Su questo soltanto non si costruisce, ma si distrugge. Al più, sotto le apparenze del cambiamento, si apre la corsa dei nuovi per prendere il posto dei vecchi: semplice lotta per il potere, tra chi se lo vuol tenere e chi glielo vuol togliere.
È giusta la critica nei confronti di chi ha concepito la politica al di fuori o contro le aspettative e le speranze dei molti e giusta sarebbe anche l’autocritica. Ma la validità delle aspettative e delle speranze non è affatto travolta perché qualcuno tra la generazione dei padri le ha tradite. Anzi, il tradimento le rafforza. Valori e fatti sono cose diverse. Il giovanilismo è espressione del dominio dei fatti, dell’effettività. Ma i fatti non hanno alcun valore. Quando si dice che si deve “cambiare l’Italia”, che occorrono “riforme”, che bisogna “cambiare verso”, o si usano altre simili espressioni di per sé prive di contenuto, si indulge per l’appunto all’attivismo, alla cultura del fare per il fare. A questo fine, il giovanilismo è sufficiente. Se, invece, il fare si vuol inserire in un disegno che valga per l’oggi, apra una strada per il futuro e trovi le sue basi in ciò che di valido viene dal passato, il giovanilismo non basta più. Non è più questione di vecchi e giovani.
«Il populismo è il confine estremo della democrazia rappresentativa. Quando il populismo diventa potere di governo si corre il rischio di un’uscita dalla democrazia e dall’ordine costituzionale. Il populismo mette a rischio l’uguaglianza formale che le regole costituzionali hanno il compito di proteggere».
Micromega, 16 maggio 2014
L’ambiguità del termine è confermata anche dai contributi precedentemente pubblicati su Micromega e rispetto ai quali propongo questa riflessione: John McCormick (Sulla distinzione tra democrazia e populismo) propone di leggere il populismo come “grido di dolore” della democrazia rappresentativa, un grido che può mobilitare tanto la destra quanto la sinistra (tornerò su questa immagine durkheimiana più avanti); Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli (Sulla democrazia machiavelliana di McCormick: perché il populismo può essere democratico) sostengono che la distinzione più convincente per comprendere il ruolo del populismo nelle democrazie moderne è tra populismi solidaristici e populismi razzisti; quando e se solidaristici, i populismi possono avere “potenzialità” democratiche. Come rendere conto dell’ambiguità nell’uso di un termine tra l’altro così frequentemente usato, il fatto cioè che il populismo possa rappresentare tutto e il contrario di tutto?
Il termine populismo designa un fenomeno complesso e ambiguo. Più che un regime, esso è un determinato stile politico o un insieme di tropi e figure retoriche che possono emergere all’interno di governi democratici rappresentativi. La prima distinzione da fare quindi è tra movimento popolare e potere ovvero governo populista. È Occupy Wall Street un movimento populista o un movimento popolare di protesta? La risposta a questa domanda è sintomatica di questa distinzione. Alla fine del presente contributo emergerà perché Occupy Wall Street non è stato un movimento populista e perché il populismo è altra cosa dalla partecipazione democratica nelle forme e nelle procedure stabilite da una costituzione: libere elezioni a suffragio universale con voto segreto per eleggere rappresentanti, libertà di stampa, parole e associazione al fine di partecipare alla costruzione di opzioni politiche, conta dei voti secondo regola di maggioranza e quindi riconoscimento della minoranza (opposizione) come essenziale al gioco democratico (che non è né unanimità né consenso senza libera espressione del dissenso, di qualunque dissenso anche su questioni che la maggioranza ritiene buone e giuste).
Ora, dato il contesto di democrazia rappresentativa e costituzionale, è prevedibile che il tema del contendere è proprio la rappresentazione del popolo (l’ideologia del popolo) nella sua unità politica sovrana; per il populismo il popolo è definito sempre contro un’altra parte che al popolo appartiene formalmente ma non socialmente in quanto detentrice di un potere economico che è in eccesso rispetto a quello degli ordinari cittadini (la soglia che designa l’eccesso è un oggetto stesso del contendere, intraducibile in norma certa). “Popolo” e “grandi”, ci ricorda McCormick, è la classica e mai superata contrapposizione repubblicana che sta alla radice del populismo, e che McCormick rende come tensione tra uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale. Dunque, il populismo non è il popolo ma una sua rappresentazione coniata o promossa da un leader o un partito-leader. Il populismo quindi può essere più di un semplice movimento politico dei molti se i suoi leader riescono a conquistare il potere dello Stato. Come anche McCormick mette in luce, il populismo è impaziente con le regole e le procedure di una democrazia rappresentativa parlamentare perché impaziente con la formalità del diritto: l’eguaglianza politica e per legge ovvero la libertà nel diritto sono categorie che il populismo contesta nel nome di una eguaglianza sostanziale. L’obiettivo polemico del populismo è una lettura giuridica e costituzionale della democrazia, quella appunto che sta alla base del sistema rappresentativo.
Come si è visto con l’approvazione della nuova costituzione ungherese (11 marzo 2013), l’aspetto inquietante del populismo emerge qualora esso abbia l’opportunità di passare da movimento (politico o di opinione) a potere di governo. Infatti, l’esito delle decisioni di un governo populista sarà verosimilmente quello di piegare lo Stato agli interessi del “popolo”, ovvero della sua parte maggioritaria contro quell’altra parte che è minoranza (sia essa economica o culturale o religiosa o etnica). Si potrebbe obiettare che essere contro la minoranza economica non è la stessa cosa che essere contro la minoranza religiosa o civile; si tratta però di un’obiezione debole perché chi ha il potere di decidere chi sia minoranza buona o cattiva ha un potere che è esorbitante e quindi insicuro per tutti. Il populismo ha impazienza verso i principi della democrazia costituzionale, a partire dai diritti individuali (e che proteggono tutte minoranze, anche quelle che possono nascere all’interno del gruppo maggioritario), alla divisione dei poteri e al sistema pluripartitico: insomma a quel che è la democrazia rappresentativa.
Come si intuisce, l’ideologia del “popolo” è centrale. Se per democrazia noi intendiamo il governo del popolo e per popolo intendiamo la volontà politica di “un gruppo sufficientemente esteso” di persone che sono unite da qualcosa di “sostanziale” – reddito, religione, cultura, ecc. – possiamo pensare, con McCormick, che il populismo sia la forma più completa di democrazia, in quanto esso è attento appunto a rappresentare il popolo nella sua totalità, come massa unita da un’equivalenza valoriale che, anche se non interpreta esattamente tutte le sue parti, le unisce in un’omogeneità superiore alle parti stesse (questa è l’idea di populismo come processo di costruzione dell’unità egemonica del popolo che ci ha proposto Ernesto Laclau). Ora, in questo caso, la qualità del populismo dipende da “che cosa” viene usato come termine di equivalenza che unisce le varie componenti di un popolo: se è la condizione economica dei meno abbienti, allora il populismo prenderà l’aspetto di una politica di giustizia sociale e di lotta per l’eguaglianza, mentre se è l’identità culturale, etnica e religiosa a costruire l’egemonia popolare, allora sarà più probabile che il potere populista prenda forme inquietanti di nazionalismo e razzismo. Ecco allora che la distinzione di McCormick e quella di Del Savio e Mameli si sovrappongono: gli uni e gli altri proponendo un’interpretazione di populismo che si identifica con la parte meno negativa di quel che può unificare una massa. Ma con quale criterio viene deciso il “buono” e il “cattivo” populismo se è il contesto a dettare la definizione? Ovvero come uscire dal contingentismo se la dimensione sociologica prende il sopravvento su quella giuridica e delle procedure?
Come si può intuire, la differenza tra le due possibilità – populismo di destra o di sinistra, populismo solidaristico e esclusionario – è soltanto ideologica: dipende cioè dalla narrativa o retorica che viene adottata. Dipende per esempio dal fatto che la destra europea razzista e populista oppure la sinistra europea solidarista e populista abbiano o non abbiano leader capaci; e dipende poi, secondo Del Savio e Mameli, dalle decisione prese dai governi o, come nel caso europeo, dall’Unione Europea, poiché se queste decisioni sono punitive per i molti c’è da aspettarsi che questi ultimi si mobilitino in forme populiste e giustamente reclamino politiche di giustizia sociale. La prima delle due possibilità è connaturata alla lotta politica nelle democrazie elettorali e soprattutto alla politica plebiscitaria con la quale i leader sono incoronati dalle masse. La seconda è decisamente priva di evidenza: non è per nulla scontato che una politica inegualitaria generi politiche populiste di sinistra. Come insegna la storia antica e recente, i pochi che dovrebbero pagare di più in proporzione a quel che pagano i molti, non se ne stanno con le mani in mano e dovendo cercare il consenso della maggioranza a politiche che sono in effetti contro gli interessi della maggioranza, non tardano a creare delle ideologie populiste che unificano il discorso e le masse intorno a temi altrettanto populisti ma capaci di neutralizzare le politiche redistributive: useranno, per esempio, il classico argomento della lotta contro gli immigrati, i comunisti e gli zingari (facendo delle minorante capri espiatori di problemi la cui causa è economica). Insomma dire che il populismo dipende dal contesto nel quale si sviluppa, e che quindi può essere di destra o di sinistra, non aiuta a capire che cosa esso sia né a giudicarlo alla luce di criteri normativi democratici.
Il populismo nasce all’interno della cornice della democrazia costituzionale, un’arena politica fondata sulle elezioni, il pluripartitismo e la regola di maggioranza (ovvero la libertà di poter propagandare le proprie idee senza rischio della propria sicurezza e per conquistare consenso). Il populismo può sorgere solo in questa cornice di libertà politica e civile, non dove non c’è democrazia (a meno che non si voglia rubricare come populista tutto quel che accade nell’universo politico, quindi anche i movimenti di rivolta, le rivoluzioni e le ribellioni). Proprio per evitare il rischio onnivoro che un termine impreciso contiene, quel che si dovrebbe tentare di fare è capire: a) se, una volta acquistato il potere di prendere decisioni, la maggioranza populista rispetterà le regole che le hanno permesso di vincere ovvero se vorrà accettare il rischio di perdere; b) se si asterrà dall’usare il sistema statale per favorire la sua parte contro l’opposizione sconfitta così da crearsi le condizioni per una rielezione assicurata; c) se non gestirà le nomine delle cariche dello Stato favorendo solo la sua parte; d) se non riscriverà la costituzione allo scopo di restare al potere più a lungo; e) se non userà il potere fuori dalle regole e contro i limiti stabiliti dalla costituzione. Siccome il populismo è critico della democrazia costituzionale e rappresentativa, mettere in conto che potrebbe operare in modo non legittimo è quanto meno doveroso.
Quindi delle due l’una: o il governo retto da una maggioranza populista non opererà contro le regole costituzionali e allora questo non sarà altro che un nuovo governo, un caso cioè di normalità o politica ordinaria; oppure il governo populista cambierà la connotazione del regime costituzionale, dando luogo a una dittatura o una forma autocratica di regime. In questo secondo caso, chiamarlo populismo sarebbe inappropriato, perché si tratterebbe di una dittatura o autocrazia. L’uso delle regole da parte di un partito populista che ha conquistato la maggioranza è un elemento di giudizio molto importante proprio perché il populismo (di destra o di sinistra, solidaristico o esclusionario) si afferma criticando la struttura del sistema politico rappresentativo e costituzionale. Come ha scritto Benjamin Arditi, esso è la periferia estrema del regime democratico, oltre la quale c’è un altro regime, quello per esempio dittatoriale. Ecco dunque un importante tassello interpretativo: il populismo è un possibile modo di essere della politica praticata in una democrazia rappresentativa, un modo di interpretare il “popolo”, di unificare le varie esigenze interne a un popolo plurale intorno a un tema comune: questa è l’azione di un movimento populista che opera e continua a operare dentro le regole democratiche.
Ma se questa interpretazione ha un senso, allora non è per nulla chiaro come facciamo a distinguere questo processo di normalità politica da altri processi e movimenti peculiari alla normale dialettica politica democratica. Un esempio: anche i partiti socialisti e comunisti occidentali del Secondo dopo guerra conducevano una politica di unificazione dei vari interessi esistenti nel popolo per unirli intorno a un interesse comune: questa fu, per esempio, la politica dell’alleanza nazionale lanciata da Palmiro Togliatti (e che ha ispirato Laclau nella sua teorizzazione della costruzione egemonica populista); eppure sarebbe sbagliato sostenere che il Partito Comunista fosse un partito populista. Evidentemente questo processo politico di unificazione del popolo non è sufficiente a denotare il populismo, a meno che tutta la politica democratica non sia intesa come populista (questa è l’identificazione che propone Laclau, per il quale infatti populismo, politica e democrazia diventano una sola cosa). Ma questa equivalenza di termini è fallace proprio perché azzera le differenze nell’intento di spiegarle. Quindi identificare il populismo con la normalità della lotta ideologica in una democrazia non aggiunge nulla alla nostra conoscenza e non ci dice ancora che cosa sia il populismo.
Il populismo deve essere qualche cosa di diverso dalla politica democratica e dalla democrazia (ovvero dalla pratica ideologica normale di unificazione degli interessi di un popolo) e quindi dalla costruzione del consenso politico in vista di conquistare la maggioranza. A meno che non usiamo la parola populismo per descrivere la realtà effettuale, ma in questo caso tutto può essere incluso: populismi di destra o di sinistra, solidaristi o identitario, e così via. Se vogliamo elevarci dal discorso ideologico e cercare di capire un fenomeno politico allora dobbiamo cercare per quanto è possibile di estrarre dalle varie esperienze quelle specificità e costanti che ci consentono di dare un senso alla categoria “populismo”. Partendo da questa premessa ho cercato altrove di distinguere tra movimento popolare e populismo e per fare questo ho cercato di individuare alcune coordinate di orientamento (relative al populismo come potere, ovvero che aspira allo Stato): unificazione del popolo sotto un leader; trasformazione ideologica del conflitto in polarizzazione e quindi semplificazione della pluralità di interessi in opposizione binaria (“noi”/”loro”); e poi, quando e se il partito populista diventa partito di governo, se usa le risorse dello Stato per avvantaggiare la propria parte a danno dell’opposizione, quindi violando la divisione dei poteri (messa a repentaglio dell’autonomia del giudiziario) e dei diritti di libertà.
Si può quindi sostenere che il populismo vada oltre la “potenzialità democratica” dei movimenti. Tutti i movimenti possono o non possono avere potenzialità democratiche, e in questo senso il concetto di “potenzialità” è troppo lasco. Altrettanto insoddisfacente è appellarsi alla famosa espressione che Durkheim usò per il socialismo, ovvero il populismo come “grido di dolore” delle società democratiche rappresentative. In quanto “grido di dolore” il populismo non ci dice nulla su quale sia la ragione del dolore, né ci consegna una diagnosi, quindi non ci dice quale debba essere il movimento per correggere quel dolore. Il “grido” è un’indicazione della sofferenza, niente altro. E infatti, vi è una componente di dolore (come insoddisfazione e scontento) nel moto socialista come in quello populista, eppure sarebbe improprio dire che socialismo e populismo sono uguali in quanto gridi di dolore. A chi spetta la diagnostica e la cura? Diagnostica e cura mettono in moto competenze e azioni che sono esterne al “grido di dolore” e rispetto alle quali il popolo gioca il ruolo non dell’attore ma del paziente che consente ai leader di fare la diagnosi e di intraprendere la cura. Allora, perché criticare la democrazia elettorale di espropriare il popolo della sua voce se lo stesso appello al popolo del populismo lascia tanta latitudine di delega ai leader o ai tecnici dell’ideologia sulla diagnosi e la cura? Se il popolo grida, esso ha comunque bisogno di qualcuno che interpreti le sue grida. Per questo, viene il dubbio che la differenza tra populismi non sia altro che una differenza tra leader e le loro rispettive ideologie. È lo stesso McCormick che alimenta questo dubbio quando ci ricorda con buoni argomenti che la storia delle democrazie ha registrato demagoghi amici del popolo e demagoghi tiranni: dunque, la differenza tra populismo buono e populismo cattivo sta nella leadership, nel capo che rappresenta il “grido di dolore” del popolo paziente.
Abbiamo aggiunto così un importante tassello alla nostra conoscenza del fenomeno populista: il bisogno di un leader che unifichi o dia il senso ideologico di ciò che unisce il popolo. Senza questa leadership, senza l’apice cesarista (quella che ho altrove chiamato correzione mono-archica della democrazia) il movimento populista resta un movimento popolare come ce ne sono, e giustamente, tanti in un regime democratico: Occupy Wall Street o il movimento degli “indignados” sono casi di movimenti popolari di denuncia e di protesta ma non movimenti populisti. Occupy Wall Street rifiutò anzi ogni rappresentanza per mezzo di un leader e volle essere solo un’espressione di critica pubblica nel nome di un valore, quello dell’eguaglianza, che le società democratiche pretendono di incorporare. Chiamare questo tipo di movimenti “populisti” è sbagliato per la semplice ragione che, in questo caso, tutto sarebbe populista in democrazia. E allora che senso avrebbe usare il termine? Il fatto è che il populismo non presume solo e semplicemente l’esistenza di una massa di poveri o disoccupati; non basta il “grido di dolore” per denotarlo; esso presuppone un leader, e una macchina che produca un’ideologia che dia a quel grido un’unità rappresentativa finalizzata a uno scopo: la conquista del consenso per raggiungere il governo e prendere decisioni.
Vediamo dunque di capire perché il populismo è molto di più di un movimento popolare e perché ha senso temerlo. A questo fine torniamo al “grido di dolore” di un popolo che soffre. Dice McCormick: “Durkheim disse una volta che il socialismo è il grido di dolore della società moderna. Il populismo è ilgrido di dolore delle moderne democrazie rappresentative. Il populismo è inevitabile nei regimi politici che aderiscono formalmente ai principi democratici ma di fatto escludono il popolo dal governo”. Ecco dunque: il populismo non ha come punto fondante questioni di redistribuzione economica o di giustizia sociale, ma questioni di gestione del potere politico: è dunque una contestazione radicale alla democrazia rappresentativa in vista di una gestione diretta del governo da parte del popolo. Il quale se è economicamente oppresso dai pochi è perché non prende decisioni direttamente ma attraverso quei pochi che elegge. Quindi: il populismo si manifesta quando il popolo come entità sovrana c’è già e chiede che la sua autorità sia esercitata in maniera non indiretta. Per McCormick dunque populismo si identifica con la democrazia diretta (ovvero assemblea aperta a tutti i cittadini; lotteria per selezionare i magistrati; tribunali composti da cittadini comuni) in un contesto in cui questa non c’è più. Siccome nel nostro tempo questa forma di governo non può essere attuata come nell’Atene classica, è stata adottata la rappresentanza la quale, come Carl Schmitt e poi Bernard Manin hanno sostenuto (entrambi seguendo Montesquieu), è sinonimo di governo “aristocratico” o “oligarchico” ovvero dei pochi, in quanto fondato sulle elezioni. In sostanza, ci dice McCormick, in una democrazia rappresentativa è fatale che sorga il populismo: il quale “è l’altra faccia della medaglia della normalità politica nelle repubbliche elettorali”. Ecco che siamo tornati a quanto sosteneva anche Laclau: il populismo si indentifica con la politica e con la democrazia nei governi rappresentativi. Delle due l’una: o la politica è ordinaria routine (politica dei pochi con il consenso dei molti) oppure è l’opposto e cioè populista (politica dei molti contri i pochi, con o senza il loro consenso visto che i molti hanno la maggioranza comunque).
Ora, se la politica ordinaria opera secondo le norme formali (che garantiscono “l’uguaglianza politica formale” senza doverla tradurre in “eguaglianza socio-economica”), il sistema non ha scossoni. Ma quando la questione economica si fa pressante (il “grido di dolore”), allora l’uguaglianza formale (come la democrazia rappresentativa che si regge su di essa) mostra i suoi limiti. A questo punto, al popolo non resta che impossessarsi del potere per riportare equilibrio tra uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale. Ciò che non è chiaro – e McCormick non aiuta a chiarire – è come si possa giungere a questo riequilibrio senza decisioni che limitano l’uguaglianza formale, ovvero senza violare i principi costituzionali e usare mezzi eccezionali per giungere alla realizzazione del fine desiderato (uguaglianza sostanziale). Ma a questo punto, la democrazia populista sarebbe un’uscita dalla democrazia costituzionale: mezzi e fini si separerebbero e con lo scopo di raggiungere il fine buono (uguaglianza sostanziale) il mezzo (violazione della legge) viene ad essere giustificato. Che sia Marx o Schmitt l’ispiratore di questa visione, è evidente che il populismo diventa a questo punto esterno alla democrazia costituzionale; non una forma politica interna alla democrazia, ma una trasformazione del regime da sistema nel quale gli attori politici prendono decisioni con la regola di maggioranza a sistema che dichiara essere il governo della maggioranza contro la minoranza (per ragioni “buone” come l’eguaglianza sostanziale). Il confine della democrazia è a questo punto oltrepassato.
In conclusione, possiamo dire che o il populismo non è altro che un movimento politico popolare, sacrosanto movimento di protesta (Del Savio e Mameli), per cui non è chiaro perché chiamarlo populismo; oppure è più di un movimento (McCormick) e in effetti una estrema tensione della democrazia rappresentativa verso una soluzione che rischia un’uscita dall’ordine costituzionale.
Qui il testo dell’articolo scaricabile in formato .pdf
La cronaca della protesta da New York a Milano e la lotta per portare la paga oraria a 15 dollari, di Antonio Sciotto e Joseph Giles.
Il manifesto, 15 maggio 2014
«Siamo noi il Quarto stato. Io vivo con 650 euro al mese ma allo sciopero non rinuncio». Giuseppe Augello, delegato milanese di McDonald’s è carico, pronto per incrociare le braccia insieme a tutti i suoi colleghi che nel mondo friggono panini e battono scontrini alla cassa. Cappellino e uniforme di ordinanza, i ragazzi degli archi dorati si preparano a cortei, volantinaggi e flash mob per rivendicare salari più alti, il diritto a un lavoro full time e ritmi umani.
Giuseppe è Rsa Filcams Cgil da cinque anni, da quando cioè ha cominciato a lavorare per la multinazionale del panino: da allora, McDonald’s lo ha spedito prima a Bergamo e poi in ben due locali destinati alla chiusura, pur di costringerlo ad andarsene («perché io rompo e metto i paletti»), ma lui ha resistito. Giuseppe ha citato l’azienda davanti al giudice, per contestare un apprendistato lungo tre anni ma senza formazione (il recente decreto Poletti suggerisce qualcosa?): McDo ha accettato di conciliare, ha dovuto assumerlo a tempo indeterminato e pagargli tutti gli arretrati. Giuseppe è solo un esempio, parla di un mondo di lavoratori che non si arrende. Per oggi la IUF (International Union Food, sindacato globale della ristorazione) ha indetto una giornata di iniziativa mondiale, la #FastFoodGlobal, a cui l’Italia aderisce – con lo sciopero di domani, che in realtà riunisce tutti i lavoratori del turismo.
«Il nostro contratto non è un menù», dice il volantino dei milanesi in sciopero. «Su Milano e in tante altre città porteremo i lavoratori in corteo», annuncia Giorgio Ortolani della Filcams. In effetti la mobilitazione italiana è stata indetta da Cgil, Cisl e Uil soprattutto per il contratto: perché la Fipe-Confcommercio – cui aderisce McDonald’s, con i suoi 16 mila dipendenti – ha disdetto il contratto nazionale, lanciando una sfida senza precedenti al sindacato. Il gesto della Fipe è davvero «rivoluzionario», visto che l’associazione che riunisce grossi marchi come Autogrill, MyChef, ChefExpress, vorrebbe idealmente passare al superamento del contratto nazionale, per applicare dei regolamenti aziendali unilaterali. Abbattendo gli scatti di anzianità, i permessi retribuiti, le maggiorazioni per notturni e festivi, la quattordicesima. «La disdetta ci era stata comunicata a partire dal primo maggio 2014 – spiega Cristian Sesena, segretario nazionale Filcams Cgil – Poi hanno deciso di prorogarla al 31 dicembre: forse adesso vogliono sedersi a un tavolo».
A minacciare i principali istituti contrattuali, anche se non hanno scelto di disdettare il contratto, anche gli albergatori aderenti a Confindustria e Confesercenti. Una situazione – quella di un contratto che non si riesce a rinnovare ormai da un anno (se si eccettuano Federalberghi e Faita campeggi, unici ad aver firmato) – che mette gli addetti ancora più in crisi, se già non bastassero condizioni di lavoro spesso precarie e al confine con la povertà.
Sesena di recente è stato a New York, dove ha partecipato al summit indetto dalla IUF per organizzare le mobilitazioni: «Il fatto positivo è che stiamo cercando di uscire dal localismo – spiega – McDonald’s ha un’organizzazione del lavoro simile in tutto il mondo, che si ripete un po’ nei 33 paesi che hanno aderito alla protesta. E uguali sono i metodi di formazione. È importante creare un coordinamento delle lotte globali: che però non deve essere fatto solo di azioni estemporanee, per guadagnare visibilità, pure fondamentale. Serve una strategia sindacale». Negli Usa, ad esempio, si chiede il raddoppio della paga oraria: da 7,25 dollari a 15 (tenendo conto che non è un netto: i lavoratori con questa cifra devono pagarci anche l’assicurazione sanitaria). Ecco il senso della campagna #fightfor15.
In Italia, seppure il tema del reddito sia importante – non solo sul piano del contratto nazionale, ma anche sulla obbligatorietà di fatto del part time – la vertenza va anche su altri temi: «Si deve parlare di orari, di conciliazione vita-lavoro, di tutela delle donne e delle mamme – dice Sesena – Non dimenticando che McDonald’s non ha mai voluto sedersi per discutere un integrativo». A Milano, tra l’altro, si parla anche di Expo: come lavoreranno nel 2015 gli addetti di ristoranti e alberghi se non avranno un contratto?
Quindi ecco le campagne che la Filcams Cgil ha lanciato per gli addetti dei fast food, spesso giovani e un po’ a digiuno di conoscenze sindacali, intercettabili però sui social network: la campagna «Faccia a faccia con la realtà» è diventata un blog (www.fastgeneration.it) dove i lavoratori si raccontano (su Twitter l’hashtag è #fastgeneration).
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Il pollo transgenico di McDonald’s che fa litigare Usa e Germania
«Che cosa intendiamo per politiche tecnologiche e industriali? Sono le politiche che generano e stimolano innovazione tecnologica, che stimolano e favoriscono l'apprendimento e la produzione da parte di imprese private, e che creano e sostengono attività produttive pubbliche in settori e localizzazioni particolari. Oggi in Europa servono programmi pubblici finalizzati a precisi obiettivi tecnologici soprattutto nel campo dell'ambiente e della salute». Sbilanciamoci. infonewsletter n. 328, 12 maggio 2014 (m.p.r.)
Per una trentina d'anni, fino alla crisi del 2008, di politiche industriali e tecnologiche non si poteva parlare: erano brutte parole per tutta la gente per bene, inclusa la sinistra moderata e riformista, e non solo in Italia. Il mantra era – ed in buona parte è ancora – «la magìa del mercato», come la definì quel grande economista che era Ronald Reagan; una «magìa» che alimentava la retorica del «lasciar fare» e del «perché la politica dovrebbe saperne di più delle imprese?»
È il momento di spiegare invece che le politiche tecnologiche sono state cruciali, almeno dalla seconda guerra mondiale in poi, nella generazione della maggior parte delle innovazioni di cui oggi godiamo (o soffriamo) e che le politiche tecnologiche ed industriali sono sempre state cruciali nei processi di industrializzazione soprattutto nei paesi ritardatari – e si ricordi che due secoli fa anche Usa e Germania erano ritardatari rispetto all'Inghilterra.
Innanzi tutto, che cosa intendiamo per politiche tecnologiche e industriali? Ne voglio dare una definizione molto ampia: sono le politiche che generano e stimolano innovazione tecnologica, che stimolano e favoriscono l'apprendimento e la produzione da parte di imprese private, e che creano e sostengono attività produttive pubbliche in settori e localizzazioni particolari.
Partiamo dall'innovazione tecnologica. Come mostra il bel libro di Marianna Mazzucato Lo stato innovatore, di imminente pubblicazione per Laterza, senza le innovazioni generate nei grandi programmi pubblici di ricerca (come il Cern per la fisica) e nei programmi militari e spaziali oggi non avremmo internet, il microprocessore, il web, l'iPad e così via. Senza i grandi programmi pubblici del National Institute of Health negli Usa non avremmo nemmeno i (pochi) farmaci innovativi che le grandi imprese farmaceutiche ci offrono a carissimo prezzo. Come ironizzava il compianto Keith Pavitt, la leadership Usa è stata alimentata dalle paranoie americane del comunismo e del cancro.
Guardando al futuro, ciò di cui abbiamo bisogno oggi in Europa sono massicci programmi pubblici focalizzati, mission-oriented, cioè finalizzati a precisi obiettivi tecnologici – come nel passato sono stati mandare un uomo sulla luna o un grappolo di missili inter-continentali sull'Unione Sovietica – soprattutto nel campo delle tecnologie verdi e della sostenibilità ambientale, della medicina e della salute sociale più in generale. Invece buona parte del discorso politico mitologizza i garage degli Steve Jobs e Bill Gates senza considerare le fonti (pubbliche) della tecnologia che questi imprenditori hanno messo assieme. D'altro lato, invece, finanziamo mission altrui e pure fallimentari come i cacciabombardieri F-35 che, come sostiene un rapporto della Rand Corporation di qualche anno fa, «non combatte, non vira, non vola».
Perché servono anche politiche industriali ? La risposta è che in molte circostanze, specialmente nei paesi ritardatari – o in quelli, come l'Italia di oggi, che perdono terreno rispetto ai paesi più avanzati – le imprese private non hanno né le capacità organizzative, né gli incentivi di profitto per operare in aree magari molto promettenti dal punto di vista delle potenzialità innovative e di mercato, ma nelle quali esse hanno uno svantaggio comparato ed assoluto rispetto alla concorrenza internazionale.
Se due economie, una high tech e una dell'età della pietra, cominciano ad interagire, sicuramente gli operatori economici nella seconda avranno un incentivo a produrre e commerciare beni ad «alta intensità di pietre», ma la società nel suo complesso progredirebbe molto di più se si imparasse l'high tech, anche se si è meno efficienti dell'altro paese. Le politiche industriali comprendono tutte le misure appropriate all'accumulazione di conoscenze e capacità produttive nelle tecnologie più dinamiche e più promettenti. Alla fine dell'Ottocento si trattava della chimica e dell'elettromeccanica; oggi delle tecnologie dell'informazione, della bioingegneria, delle tecnologie ambientali. In effetti le politiche industriali sono state un ingrediente fondamentale nell'industrializzazione dagli Stati Uniti alla Germania, al Giappone, alla Corea, alla Cina (ne discutiamo in dettaglio nel volume curato da Cimoli, Dosi e Stiglitz, Industrial Policies and Development, Oxford, University Press). Incidentalmente gli Usa sono il paese che oggi ne pratica di più, senza parlarne.
Che cosa si fa oggi in Europa, e in particolare in Italia? Per lungo tempo, possiamo dire, sono state fatte politiche anti-industriali. È una storia antica, che comincia almeno dal rifiuto del governo italiano di sostenere lo sviluppo dei calcolatori Olivetti (quasi sicuramente su pressione americana) all'inizio degli anni sessanta. Continua con la dissennata politicizzazione e finanziarizzazione della Montedison, e poi la con la sua dissoluzione, che ha portato anche alla liquidazione di fatto di un piccolo gioiello nella farmaceutica come Farmitalia. Ha il momento cruciale nella liquidazione con "spezzatino" delle imprese a partecipazione statale, per ottenere nella crisi del 1993 entrate straordinarie: «pochi soldi, maledetti e subito». Con quale conseguenza? Una delle prime cose che hanno fatto i privati è stato chiudere le attività di ricerca e sviluppo (come in Telecom), o liquidare addirittura la produzione (come in Italtel). Tutto questo si è accompagnato per quasi un trentennio alla mitologia del "piccolo è bello", con il risultato di un quasi azzeramento della partecipazione italiana all'oligopolio internazionale della chimica, dell'acciaio, della farmaceutica, dell'elettronica, delle telecomunicazioni, del software e così via.
Che cosa fare? In Italia molte cose sono difficili da fare perché ormai i buoi sono scappati dalle stalle, ma è ancora possibile favorire l'emergere di attori tecnologicamente forti, italiani o quanto meno europei. E, per farlo, spesso è necessario l'intervento diretto dello Stato, per esempio via Cassa Depositi e Prestiti, che già un po' fa di queste cose, ma senza una strategia industriale seria, quasi con la paura di disturbare la "magìa" del mercato. Tante cose si possono fare a livello europeo, a condizione di abbandonare la frenesia mercatista. Un esempio recente per tutti: c'è qualcuno che crede che il governo americano starebbe a guardare se Alstom e Siemens si mettessero assieme e tentassero di acquisire General Electric, invece di quest'ultima che tenta di scalare Alstom?
Poi ci sono alcune cose che non bisogna assolutamente fare. Tra queste l'accordo di libero scambio transatlantico, che rappresenta essenzialmente una folle cessione di sovranità della politica, nazionale ed europea e l'assolutizzazione degli interessi degli investitori privati, indipendentemente dall'utilità sociale degli investimenti stessi.
«». Ecco le proposte concrete per uscire dalla crisi promuovendo il lavoro attraverso un forte intervento pubblico liberato dai "lacci e lacciuoli" del Mercato. Sbilanciamoci. info
La retorica dei governi insiste sulla ripresa. Ma la realtà dell'Europa è la stagnazione dei paesi «forti» e la depressione nella «periferia». Germania a parte, la crescita del Pil nel 2014 sarà sotto l'1% nei maggiori paesi dell'eurozona, l'Italia retrocessa allo 0,5%, la Grecia sempre sottozero.
Il senso di quello che sta succedendo ce lo dà l'industria: rispetto al 2008, l'Italia ha perso un quarto della produzione; Spagna, Grecia e Portogallo sono cadute ancora più in basso; gravi perdite si contano in Francia, Olanda, Finlandia e Irlanda. Questa distruzione di capacità produttiva in mezza Europa – il risvolto del successo tedesco – mette in discussione le fondamenta dell'integrazione europea più della crisi del debito o del salvataggio di qualche banca. Quale può essere l'interesse di un paese a «restare in Europa» quando le politiche europee cancellano un quarto delle fabbriche e dei posti di lavoro?
Se si vuole evitare questo deserto, è indispensabile un ritorno della politica industriale, che è stata essenziale nel novecento per la crescita dell'Europa e che trent'anni di neoliberismo hanno messo al bando in nome dell'efficienza del mercato. A mezza bocca l'ha capito anche Bruxelles, che parla di "Industrial Compact". In Francia il ministro Montebourg si sforza di limitare le delocalizzazioni e sostenere, con capitali pubblici e soci stranieri, imprese come la Peugeot. Ma le proposte più innovative pensano a una politica industriale a livello europeo, con risorse comuni investite soprattutto nei paesi in difficoltà. In questa direzione vanno le iniziative della Dgb, la confederazione sindacale tedesca e la versione un po' annacquata proposta dalla Confederazione europea dei sindacati.
Guarda più avanti la proposta di Sbilanciamoci! e EuroMemorandum di una ricostruzione della capacità produttiva a scala europea. Si potrebbe investire il 2% del Pil europeo per dieci anni in nuove produzioni – pubbliche e private – in tre settori prioritari: la conversione ecologica dell'economia, con abbattimento delle emissioni, energie rinnovabili e risparmio energetico; le tecnologie dell'informazione e le loro applicazioni; il sistema della salute, dell'assistenza e del welfare. Tre quarti degli investimenti potrebbero andare nella «periferia», il resto nelle regioni arretrate dei paesi del «centro». I fondi potrebbero venire dalla Bce, da Eurobond e dalla Bei, oppure da nuove entrate – una tassazione europea dei profitti, della ricchezza o delle transazioni finanziarie. A deliberare il piano il Parlamento europeo; a decidere su quali progetti spenderli un'Agenzia europea per gli investimenti dove non siedono banchieri, ma si raccolgono competenze economiche, organizzative, sociali e ambientali. A realizzare gli investimenti, imprese o soggetti pubblici locali, con uno stretto monitoraggio.
Un programma di questo tipo darebbe uno stimolo alla domanda e ci farebbe uscire dalla depressione. Porterebbe a nuove attività e posti di lavoro nei settori e nei luoghi «giusti». E ridarebbe un ruolo all'azione pubblica, rovesciando trent'anni di privatizzazioni che non hanno prodotto né sviluppo, né efficienza. Proprio qui sta il problema: si può davvero tornare a un forte intervento pubblico nell'economia? Fabrizio Barca, in queste pagine, sceglie ancora il mercato rispetto a una pubblica amministrazione incapace. Ma è sicuramente possibile avere un controllo democratico sulle scelte d'investimento senza regalare potere ai partiti. Organizzare lo sviluppo senza collusioni e corruzione. E, soprattutto, trovare una risposta più giusta alla domanda su che cosa produciamo, come, e per chi.
Di invecchiamento medio della popolazione si parla ormai da decenni, ma sembra che nonostante tutto l'unica reazione importante sia quella di escogitare nuovi prodotti ad hoc per anziani, scordandosi che la questione riguarda, per forza, tutti.
La Repubblica, 1 maggio 2014, postilla (f.b.)
Dal rinascimento delle bocciofile ai corsi per capire l’Ipad riservati agli over 65, dal boom delle crociere per soli nonni all’esplosione del turismo religioso: ecco i cento piccoli indizi che raccontano quanto stia diventando olders oriented la società italiana. Una mutazione inevitabile in un paese di diversamente giovani dove nel 2020 si venderanno più pannoloni che pannolini. La conseguenza più importante dell’invecchiamento della popolazione è economica e culturale: gli ex baby boomers, i nati tra il 1946 e il 1964 che avevano cambiato la società tra gli anni Sessanta e gli Ottanta, tornano a rivoluzionare le abitudini di oggi, trasformando il nostro in un mondo di anziani al potere.
È l’Economist a segnalare il «miliardo di sfumature di grigio » che sta per governarci. Un miliardo di ultrasessantacinquenni che nel 2035 avrà saldamente in mano le leve che contano nel pianeta. E sarà sempre meno disposto a cederle. Perché soprattutto i lavoratori qualificati e di esperienza in un mondo di anziani, saranno sempre preferiti a giovani con minore esperienza e minori rapporti. Tendenze che in Italia si esasperano: i dati di Eurostat spiegano che la Penisola è il paese che è invecchiato di più tra quelli europei nei venti anni tra il 1991 e il 2011. L’Italia è seconda solo alla Germania come percentuale di ultrasessantacinquenni (da noi sono il 20,3 per cento) ma i giovani tedeschi tra il 15 e i 24 anni sono l’11,2 per cento mentre i giovani italiani rappresentano solo il 10 per cento.
«Il potere degli anziani? In Italia nella scelta dei dirigenti conta molto l’esperienza e la rete di rapporti che ciascuno porta con sé. Nel resto del mondo questo è certamente un elemento di valutazione ma non è l’unico: è messo sullo stesso piano di altri come la capacità di leadership o l’abilità nel prendere decisioni di fronte a cambiamenti improvvisi». Parla così Antonio Baravalle, oggi amministratore delegato di Lavazza, negli anni scorsi alla guida di Alfa Romeo, uno dei Marchionne boys chiamati a rivoluzionare i protocolli sabaudi del Lingotto: «Quando siamo arrivati in Fiat ci guardavano come fossimo bambini ma eravamo già sui quarant’anni».
La società degli anziani cambia la vita di tutti. I primi ad accorgersene sono stati i politici. Fin dagli anni Novanta soprattutto il centrodestra ha spinto sul tasto della sicurezza, uno dei talloni d’Achille di chi non si sente più in forze. È in quell’epoca che nacque il concetto di «insicurezza percepita», a dispetto della discesa dei dati sulla criminalità. È insicuro soprattutto chi è solo. Gian Pietro Beghelli racconta come nacque l’idea del «Salvalavita», il sistema automatico di chiamata di soccorso e antintrusione: «Siamo nati e cresciuti in provincia. Vedevamo queste coppie di anziani che trascorrevano una vita insieme. Poi, quando uno dei due veniva a mancare, l’altro finiva in una casa di riposo pur essendo ancora autosufficiente. E toglierti dalla tua abitazione, dove hai sempre vissuto, ti fa invecchiare ancora di più. Per combattere questo malessere è nata l’idea dell’apparecchio».
Ci sono anche conseguenze più piacevoli dell’invecchiamento. «Abbiamo cambiato prodotti e modo di venderli», racconta Francesco Cecere, direttore marketing di Coop Italia. Un mondo che invecchia, spiega Cecere, «mangia meno proteine, sceglie cibi più leggeri e in quantità ridotte. Così sono in crescita le vendite di monoporzioni (per i singles, non solo anziani) e aumenta la quantità di carne bianca sugli scaffali rispetto a quella rossa». Cambiano anche gli scaffali: «Sono meno alti così come stanno diventando più piccoli e maneggevoli i carrelli». Il problema principale è che a una certa età non si ha la forza di guidare l’automobile e di portare la spesa a piedi per molti isolati: «Alla Coop abbiamo cominciato a fornire il servizio di trasporto a casa per gli anziani con difficoltà motorie».
Il marketing si adatta ai capelli grigi. Gianluigi Guido, docente all’Università del Salento, ha recentemente pubblicato per Il Mulino un saggio sul Comportamento di consumo degli anziani, passando in rassegna tutti gli studi compiuti sull’argomento negli ultimi quarant’anni. «Si fa in fretta a dire anziani», premette il professore. E ricorda i quattro senior- tipo secondo gli studiosi di marketing. Sono gli eremiti in buona salute, i socievoli acciaccati, i fragili reclusi e gli indulgenti in forma. Questi ultimi sono i consumatori migliori, quelliche hanno molto in comune con un’altra categoria costruita dai sociologi, gli anziani new age: «Normalmente — spiega Guido — una persona di età superiore ai 65 anni senza particolari problemi di salute si comporta come se avesse sette anni di meno. Gli anziani new age vivono come se avessero dodici anni meno della loro età». Sono loro la pacchia di chi vende: «In genere non badano a spese». Il loro giovanilismo li spinge a coronare sogni che i ventenni non possono permettersi: moto di grossa cilindrata, apparecchiature elettroniche costose. All’opposto sono i nostalgici, quelli che ascoltano una musica di gioventù e comperano il prodotto abbinato. Tra qualche anno vedremo gli spot delle dentiere con il jingle dei Rolling Stones.
Il marketing dice molto dei cambiamenti indotti dall’invecchiamento ma non tutto. «Il nodo vero — osserva il sociologo Bruno Manghi — è quello del potere. Soprattutto in Italia il potere si trasmette per cooptazione e spesso i giovani non sono capaci di rompere il meccanismo». Per questo per decenni in alcuni settori come quello bancario gli ottuagenari l’hanno fatta da padroni. E molti non hanno la forza di compiere il gesto di Diocleziano che ricostruì l’impero e poi abdicò ritirandosi nel suo palazzo di Spalato. Quando i figli tornarono a chiedergli di riprendere il potere, rifiutò: «Se voi sapeste come sono buoni i cavoli che crescono nel mio orto, non mi fareste una proposta simile ». Chi ha il coraggio di imitarlo?
postilla
Pare davvero incredibile che anche da un resoconto di respiro piuttosto ampio come quello dell'articolo manchi completamente la prospettiva secondo cui anziani lo diventano tutti, e sempre più tutti. Ovvero che l'allungamento della vita riguarda appunto la vita, non il potere e i consumi che questo potere (economico o altro) garantisce. Si dimentica in modo allegrone ai limiti del rimbecillimento (affatto senile) che riuscire a campare discretamente non è affatto frutto di potere o consumi, ma dei decenni di investimento pubblico in welfare: salute, servizi, ambiente, qualità della vita e dell'abitare, roba che non si compra, che non si può comprare. Non è un caso se, come dimostrano sempre più studi sociali sviluppati senza certe fette di salame sugli occhi, certi modelli abitativi sciagurati del '900, in primo luogo quelli della dispersione urbana o del quartiere segregato, e in generale il territorio macchina per produrre, si adattano malissimo ad esempio a chi ha superato una certa fase della vita, e per riflesso anche a chi non corrisponde a quel modello genericamente giovanilista produttivo conformista su cui continuano a costruirsi le retoriche della cosiddetta competitività applicata ad ogni aspetto dell'esistenza. Qualcuno, anche tra i progettisti di spazio e servizi e trasporti, sta iniziando a intuire questa necessità di trasformazione epocale, ma è ancora troppo poco, tra le tante cose da capire davvero c'è anche che La Città è un Buon Posto in cui Invecchiare (f.b.)

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Le persone e gli esuberi
Ho letto mercoledì su «l’Unità», in un editoriale di un economista che stimo, Paolo Leon, che gli «esuberi» (questa è la parola usata) alla Olivetti italiana sono quattromila. Gli esuberi: cioè quelli o quelle che all’Olivetti dovranno lasciare il lavoro. Gli esuberi: cioè le quantità esuberanti. Quelli che devono lasciare il lavoro sono una quantità esuberante. A conoscerli direttamente quelli che devono lasciare il lavoro sono – a seconda dei casi – biondi o bruni, irosi o calmi, alti, bassi. Si chiamano Giulio, Antonio, Luisa, Marco. Giovanna. Un giorno, un mattino, improvvisamente, essi diventano degli «esuberi».
Questi Giulio, Luisa, Marco sono non soltanto alti, o biondi o bruni: sono anche una determinata capacità lavorativa, e – alla Olivetti – un sapere molto qualificato: un sapere umano, fatto di mente, occhio, mano, tecnica, memoria, emozione, volontà. Un mattino si svegliano e si trovano quantità. Il loro essere bruni o biondi, il loro sapere – pure così moderno – si dissolvono. L’azienda non sa più che farsene. L’Ingegnere dice: non dipende da me. Essi sono un «esubero». La sorte che tocca a Giulio, Antonio, Luisa sta fuori di loro stessi: li trascende. Altri dicono invece: c’è stato nell’azienda uno sbaglio di strategia. Se è così, uno sbaglio di strategia dell’azienda porta esseri umani ad alta qualifica lavorativa a diventare degli esuberi. Altri invece dice che la causa è il «mercato». Se è cosi, la fonte che rende esuberi è ancora più lontana, spostata fuori, indifferente alla sorte di Giulio, Luisa, Antonio. E Giulio, Luisa, Antonio non hanno nemmeno la possibilità di prendersela con qualcuno, perché gli rispondono: è la congiuntura, o – come diceva l’articolo de «l’Unità» – la fase di recessione.
Si potrebbe dire che Giulio, Luisa. Antonio, di fronte alla congiuntura e all’azienda dell’Ingegnere, diventano «cosa». Qualcuno, esterno a loro, li riduce a «cosa». Oppure è come se venisse una pioggia, o un temporale che si è accumulato. Ma la pioggia e i temporali oggi i meteorologi sanno prevederli. Era prevedibile il temporale alla Olivetti? Forse sì. Allora, in questo caso, ricorriamo a un’altra immagine: potrebbe esserci stato un sisma di non si sa quanti gradi. In ogni caso: una irruzione esterna a Giulio, Luisa, Antonio, che li riduce a «cosa». Attenti però. Ci assicurano che gli esuberi non si troveranno senza un soldo. Ci sarà, pare, forse il prepensionamento. E lasciamo da parte da dove verranno i soldi per prepensionare.
Gli esuberi potranno quindi tornare a casa: riposare, portare a spasso i nipotini. O anche lavorare altrove o per proprio conto, con quella abilità del tecnico, dell’impiegato, dell’operaio qualificato che io non ho. E quindi anche, forse, guadagnare qualche quattrino in aggiunta alla pensione. Che si vuole di più? Perché allora – come sembra – alcuni di questi tecnici od operai sono in collera? Perché si sono sentiti, appunto, bruscamente, violentemente, «esuberi»; perché non hanno scelto loro di andare a casa. Altri ha detto: non servite più; siete esuberi. Cioè: cosa, quantità, numeri.
Non è così semplice apprendere da un giorno all’altro che uno è cosa, quantità, numero. Al mattino, gli uomini quando si fanno la barba, si guardano allo specchio. Cercano di scrutare il proprio viso. È una storia curiosa questa di farsi la barba: uno guarda la sua faccia. Io mi faccio male la barba: quasi tutte le volte. Mi restano sempre dei peli non rasati, perché mi distraggo a guardare nello specchio me stesso, domandandomi: che razza di tipo sono? Temo che alcuni di quei prepensionati – almeno per un po’ di tempo – si faranno male la barba. Essi, che si sono sentiti esuberi, si guarderanno negli occhi; e quindi alcuni peli, distrattamente, non verranno rasati. Quello che provano le donne diventando esuberi, e non facendosi la barba, lo possono raccontare solo loro. Ma alcuni pensieri – proprio di loro: donne che tornano a casa – qualcuno può anche immaginarli.
Io potrei invece raccontare delle testimonianze di «cassintegrati » FIAT degli anni Ottanta, che ho letto e che ho presentato in un libro. Il fatto che più colpiva, leggendo quelle testimonianze, era il tentativo angoscioso di restare aggrappati alla fabbrica. Eppure la FIAT non è dolce. Era per bisogno di lavoro? Sì. Ma mi sembra non solo per bisogno di pane: anche – e parecchio – per sentirsi parte di un fare e un sapere collettivo. Anche dopo, essendo in CIG (Cassa integrazione guadagni), volevano restare insieme. Sembravano avere una paura folle, proprio folle, di disperdersi: più esattamente di frantumarsi.
Esuberi. CIG. Che strano vocabolario. Non già Giulio, Antonio, Luisa, Laura: esuberi, CIG. Un mio amico poeta, Cesare Viviani, ha scritto un bellissimo libro di poesie, che ha un titolo significativo: Preghiera del nome. Perché, di fronte agli «esuberi», non dovrei sentirmi comunista? Io speriamo che me la cavo, come diceva quel bambino napoletano, nel libro di Dall’Orta. Ma non posso lamentarmi. Io posso firmare questo articolo col mio nome.
Il manifesto, 23 aprile 2014
Ci si chiedeva spesso, decenni fa, nelle scuole e sui media, come fosse stato possibile che nel 1931, su oltre milleduecento docenti universitari, solo una quindicina avesse rifiutato di giurare fedeltà al fascismo; e come fosse stato possibile che con loro si fossero allineati migliaia di giornalisti, di scrittori, di intellettuali — la totalità di quelli rimasti in funzione — contribuendo tutti insieme a costruire una solida base di consenso alla dittatura di Mussolini.
Il contesto è sicuramente cambiato, ma forse il servilismo è rimasto invariato. Oggi, senza nemmeno l’alibi di un’imposizione da parte di un potere autoritario e incontrollato, a cui peraltro anche allora molti erano già ben predisposti, la corsa ad allinearsi con il potente di turno, magnificandone qualità e operato, ha assunto da due decenni a questa parte un andamento a valanga; per poi accorgersi, una volta usciti temporaneamente o definitivamente di scena i destinatari di tanta ammirazione, che i risultati del loro operare — del loro «fare» in campo economico, sociale, istituzionale e, soprattutto, culturale — erano inconsistenti, negativi, o addirittura drammatici. Ma rimaneva tuttavia, in alcuni angoli riservati del giornalismo cartaceo e televisivo, lo sforzo di un vaglio critico delle misure assunte dai governi che lasciava uno spiraglio alla legittimazione di un’opposizione.
Da qualche mese, al seguito della cavalcata sul nulla di Matteo Renzi — «dà con una mano per prendere con l’altra» (e molto di più) è la sintesi del suo operato — il coro delle ovazioni si è fatto assordante; lo spazio che gli riservano giornali e tv è totalitario (come documenta l’osservatorio sulle tv di Pavia); i toni sono perentori; i rimandi alle sue poliedriche capacità incontinenti; il servilismo degli adulatori dilagante (papa Francesco copia «lo stile di Renzi» ci ha informato un notiziario). Non c’è più un regime fascista a imporre questo allineamento; sono piuttosto questi allineamenti a creare le solide premesse di un «moderno» autoritarismo. «Moderno» perché è quello auspicato dall’alta finanza, che ormai controlla la politica e le nostre vite; come emerge anche da un documento spesso citato della Banca J.P.Morgan che si scaglia contro le costituzioni antifasciste e democratiche che ostacolerebbero il proficuo svolgimento degli «affari». È l’autoritarismo perseguito dalle «riforme» costituzionali ed elettorali di Renzi, tese a cancellare con premio e soglie di sbarramento ogni possibilità di controbilanciare i poteri dei partiti — o del partito — al potere: non solo in Parlamento, ma ovunque; a partire dai Comuni, non certo aiutati a «fare», bensì paralizzati dai tagli ai bilanci e dal patto di stabilità per costringerli ad abdicare dal loro ruolo, che è fornire quei servizi pubblici locali di cui è intessuta l’esistenza quotidiana dei cittadini. Renzi, come Letta, Monti e Berlusconi, vuole costringerli ad alienarli: come aveva fatto Mussolini sostituendo ai consigli comunali i suoi prefetti.
Una riprova non marginale di questo clima è il modo in cui stampa e media seguono la campagna elettorale europea, confinandola interamente in un confronto Renzi-Grillo (con Berlusconi ormai ai margini) privo di contenuti programmatici e tutto incentrato sulle diverse forme di «carisma» che i due leader esibiscono.
In questo contesto il silenzio calato sulla lista L’altra Europa con Tsipras, l’unica che si presenta con un programma per cambiare radicalmente l’Europa (che è l’argomento di cui è proibito parlare) e non per abbandonarla insieme all’euro, né per continuare sulla rotta di quell’austerity difesa e votata fino a ieri come passaggio obbligato per tornare alla “crescita”. Della lista L’altra Europa stampa e tv hanno seguito e ingigantito le difficoltà incontrate nel corso della sua formazione, per poi calare una cortina di silenzio totale sulla sua esistenza e sui suoi successi. La venuta di Tsipras a Palermo, con un teatro pieno, la gente in piedi e mille persone rimaste fuori ad ascoltare, con una visita all’albero di Falcone accompagnato da centinaia di sostenitori e con l’incontro con il sostituto Di Matteo, non ha meritato nemmeno un cenno o una riga. Nemmeno la consegna delle 220 mila firme raccolte per consentire la partecipazione della liste alle elezioni, un risultato su cui molti media avevano scommesso che non sarebbe mai stato raggiunto, ha avuto la minima menzione. L’apertura della campagna elettorale al teatro Gobetti di Torino con la partecipazione di Gustavo Zagrebelsky e altre centinaia di sostenitori è anch’essa scomparsa nel nulla. Quando si accenna di sfuggita alla lista L’altra Europa, per lo più per denigrare o sbeffeggiare i tanti intellettuali di valore che la sostengono — ribattezzati “professoroni”; e solo per questo se ne parla — il suo programma viene assimilato a quello dei no-euro, dei nazionalisti o addirittura dei fascisti. Perché “se non si è con Renzi non si può che essere contro l’Europa”.
Il baratro in cui è precipitato il giornalismo italiano si vede dal fatto che molti non riescono nemmeno a capire che si possa volere un’Europa diversa da quella che c’è; che è quella di Renzi, come lo era di Letta, di Monti e anche di Berlusconi e Tremonti quando erano al governo. Eppure non è mancato agli stessi giornali e telegiornali lo spazio per occuparsi del congresso del “nuovo” (il 14°) partito comunista fondato da Rizzo, della presentazione della lista elettorale Stamina, della riammissione dei Verdi alla competizione elettorale anche senza aver raccolto le firme (mentre chi le ha raccolte non ha meritato nemmeno una riga).
Il tutto viene completato con la presentazione di sondaggi che danno la lista per morta: sono i tre divulgati dalle tv di regime, mentre tutti gli altri sondaggi la danno due o tre punti al di sopra della soglia di sbarramento, ma non vengono resi noti. Io, che ho lavorato anche in una società di sondaggi, so bene come si fa ad orientarli (e anche a falsificarli) e quanto contribuiscano a “orientare” e a manipolare la realtà. Giornali occupati dalla stigmatizzazione della casta non fanno un cenno del fatto che siamo l’unica lista ad affrontare questa campagna elettorale senza un euro di finanziamenti di stato o di pubblicità. E così via. Poco per volta, e a volte impercettibilmente, si scivola verso un nuovo regime e in questa temperie persino le critiche all’operato di Renzi vengono proposte come ragioni per un sostegno dovuto e ineluttabile.
Ma soprattutto mostra dove porta questa teoria, o visione, o percezione, sempre più diffusa dai media e tra la gente, del governo Renzi come “ultima spiaggia”. Così, quando si sarà compiuto il disastro economico, sociale e istituzionale a cui ci sta trascinando quella sua cavalcata fatta di vuote promesse, di trucchi contabili e di nessuna capacità di progettare un vero cambiamento di rotta per l’Italia e per l’Europa, non si potrà più tornare indietro. È per questo che bisogna fermarlo qui e ora, a partire da un rovesciamento dei pronostici — meglio sarebbe chiamarli auspici di regime — tutti a favore delle destre nazionaliste e razziste mascherate dietro la campagna anti-euro, o delle larghe intese tra Ppe e Pse, con le quali la politica economica, fiscale e monetaria dell’Unione dovrebbe proseguire indisturbata il suo cammino di distruzione.
«Paul Krugman ha parlato di «mezzogiornificazione» delle periferie continentali. Sarebbe utile ristudiare cosa è accaduto in Italia quando i governi incitavano a emigrare, esattamente come oggi nel sud Europa». Il manifesto, 18 aprile 2014 (m.p.r.)
Rispetto a questa unificazione europea, noi italiani abbiamo la dura e storica esperienza della nostra unificazione nazionale e dell’ormai famosa “questione meridionale”. Oggi siamo di fronte alla questione meridionale europea e questo giudizio non è solo mio ma, molto più autorevolmente, di Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, che già nel 1991 ha messo in evidenza la «mezzogiornificazione» delle periferie europee, dimostrando che con la moneta unica l’Europa sarebbe stata investita da intensi processi di concentrazione della produzione e dell’occupazione nei paesi economicamente più forti, mentre le aree periferiche del continente europeo sarebbero state colpite da fenomeni di desertificazione produttiva e di migrazione verso l’estero.
La nostra questione meridionale nell’attuale situazione va ristudiata. Prima della nostra unità nazionale le regioni del sud, benché non come la Lombardia, non stavano tanto male: avevano la loro moneta e si proteggevano con le dogane e altro. Vale ricordare che il Regno di Napoli aveva un suo splendore e che in Italia la prima linea ferroviaria vide la luce in Campania, tra Napoli e Portici e che la città di Napoli aveva un prestigio internazionale. È con l’unità nazionale che le regioni del Sud vedono chiudere le industrie e vengono investite dalla fuga nell’emigrazione nelle Americhe e nel nord Europa. Una fuga migratoria – non va dimenticato — che si è ripetuta subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, prima che si pensasse a una pur modesta riforma agraria e alla Cassa del Mezzogiorno. «Imparate le lingue» consigliavano i ministri di allora quando si recavano nel sud, per incoraggiare i meridionali ad emigrare, ad andare a far funzionare le industrie del nord Italia, e del nord Europa. Ed è lo stesso fenomeno di oggi che coinvolge i cittadini dei Pigs. Per gli spagnoli e i portoghesi le vie dell’emigrazione sono le ex colonie, l’Angola, il Mozambico, il Brasile e i paesi latino-americani (non hanno nemmeno bisogno di imparare le lingue!). Per gli italiani e i greci resta il nord Europa, con il risultato che così si allarga il gap tra Mezzogiorno d’Europa e Nord.
Insomma l’unificazione europea non è ancora compiuta e già si è aperta una questione meridionale a livello continentale e molto più grave e pericolosa di quella italiana. E non dimentichiamo che non solo in Italia, ma anche in Spagna, Portogallo e Grecia ci sono stati governi fascisti. In Italia la questione meridionale si è aperta con uno stato unitario, con eguali diritti e doveri per tutti i cittadini e anche per tutte le banche. Uno stato unitario che produsse anche la Cassa del Mezzogiorno. Pensate se in Italia (come oggi in Europa) ci fosse stata solo l’unificazione monetaria: la lira valida in tutte le regioni, ma con l’autonomia legislativa di ciascuna regione. In questa ipotesi le regioni autonome del Mezzogiorno sarebbero state ancora di più condannate alla miseria. L’unificazione è solo monetaria, e quindi disastrosa, e al contrario di quel che ci insegnavano a scuola, non è più il sovrano che batte moneta, ma ormai sovrana è la moneta.
La sottile battaglia alle europee contro il «populismo dall’alto» di Renzi e contro il «populismo dal basso» di Grillo, Nichi Vendola la vuole combattere con la razionalità. All’esordio della campagna elettorale di Sinistra Ecologia e Libertà, ieri a Roma in un teatro Vittoria gremito da un pubblico di età media matura, il suo presidente ha rivendicato la scelta di correre alle elezioni del 25 maggio con l’«Altra Europa con Tsipras» senza le bandiere del suo partito. «Per Sel rinunciare al simbolo e confluire in questa lista non è stato facile – ha spiegato – Siamo nati da una sconfitta e abbiamo attraversato una stagione difficile, ma non ci riconosciamo nella posizione di chi, come il Pd e il socialismo europeo, si è illuso di potere guidare il liberismo e poi ha sottoscritto le politiche di austerità, pensando di fare a meno di un’Europa senza la Grecia».
È la linea che ha vinto il congresso di Sel al Palacongressi di Riccione nel gennaio scorso. Quella di Nicola Fratoianni, oggi deputato e coordinatore del partito, che ha introdotto l’incontro. Dopo il fallimento dell’alleanza «Italia bene comune» con il Pd di Bersani, Sel ha rotto le incertezze e ha lasciato il guado. Non vuolefarsi «catturare nella spirale trasformistica che, in nome dell’emergenza, ha dato vita alle larghe intese con Berlusconi» ha detto Vendola seduto al centro del palco con il giornalista Luca Telese e Barbara Spinelli, una delle «garanti» della lista di cittadinanza con il nome del leader greco di Syriza. Sel si è così schierata con Tsipras, candidato alla presidenza della Commissione Ue dalla Sinistra Europea e da Rifondazione Comunista in Italia. Lo ha fatto per necessità, ma anche come una sfida, ha precisato il suo presidente. In questo percorso Vendola ha riconosciuto alla Spinelli e agli altri garanti (Revelli, Viale, Gallino) un effetto ricompositivo a sinistra con Rifondazione e la garanzia di rivolgersi ad un elettorato più ampio.
Gli inizi non sono stati facili. Le polemiche tra i garanti sulle candidature di Sonia Alfano, Valeria Grasso, Luca Casarini, poi quella di Antonia Battaglia sull’Ilva a Taranto contro Sel e il suo presidente hanno allontanato Flores D’Arcais e Camilleri. Avere superato in poche settimane le 150 mila firme necessarie per presentare la lista è stata un’impresa che ha rinfrancato molti. Per Vendola questo successo non scontato è il vero inizio. La lista sta prendendo forma, la partecipazione di attivisti e militanti l’hanno premiata. I problemi però non sono finiti, e Telese li ha elencati uno dopo l’altro. Come si può riconoscere questa lista in un dibattito politico dominato dalla retorica aggressiva dei 5 Stelle, e di chi vede nell’uscita dall’euro la salvezza dall’Europa dell’austerità? In più, il nome di Tsipras «lo conosce solo chi legge i giornali, non alle masse popolari». «Grillo ha un vantaggio straordinario: tutto per lui è facile.
Basta allora l’esorcista, una bestemmia, per fare colpo — ha risposto Vendola — È difficile affrontare questo plebeismo piccolo borghese per cui tutto è un complotto. Basta svelarlo per ritrovarsi in un nuovo mondo. Questo porta voti. Noi non possiamo fare altro se non costruire un programma alternativo fondato sulla razionalità. Diremo alle persone che non si salveranno seguendo chi dice che il nemico è solo l’euro o le tecnocrazie». È la stessa situazione in cui si trova Tsipras, solo che in Grecia le parti si presentano rovesciate. Oggi Syriza è in testa ai sondaggi e avrebbe la maggioranza relativa.
Il programma è lo stesso per la lista italiana e per quelle che appoggiano Tsipras in Europa: mutualizzazione del debito, reddito minimo, un New Deal di investimenti pubblici per rilanciare l’occupazione, riforma radicale della Bce e di tutti i trattati europei eliminandone l’ispirazione neoliberista. E infine la proposta più importante: un referendum in Italia sul Fiscal Compact, «ma non per uscire dall’Euro» ha precisato Spinelli.
«Grillo è l’espressione di un disagio profondo da comprendere, ma le sue proposte sull’Europa sono di una confusione estrema — ha continuato la giornalista– non c’è un’idea che duri più di una settimana. C’è un vago proposito di battere sul tavolo i pugni con la Merkel, un po’ come dice di volere fare Renzi, oppure fare il referendum sull’euro perchè secondo lui è facile uscirne. Tutto questo non è populista ma conservatore, mira al ritorno dell’equilibrio tra le potenze nazionali al nazionalismo e alla xenofobia, a tutto ciò che c’era prima l’europa unita». L’altro punto sono le alleanze. L’ambizione di rifare l’Europa non è da poco, e non sarà facile, come ha ricordato Spinelli, farlo con i soli socialdemocratici che candidano Martin Schultz, espressione dell’Spd che in Germania governa con Angela Merkel.
Vendola riconosce la distanza tra i suoi propositi radicali di riforma e l’astuzia conservatrice dei socialdemocratici, ma sostiene di non volersi rassegnare: «Il socialismo europeo dovrà fare i conti con le contraddizioni reali dell’austerità che ha distrutto il ceto medio, fondamento delle nostre democrazie»
«L’amministrazione americana vuole tornare al credito facile. Eppure ancora paghiamo la crisi partita dalla bolla dei subprime. Ma nemmeno in Italia c’è da essere ottimisti con il meccanismo di “Plafond casa” gestito dalla Cdp. Un intervento rischioso e controproducente».
Lavoce.info, 15, aprile 2014 (m.p.r)
Mutui made in Usa…
Il governo americano rischia di riattizzare la bolla dei mutui subprime. La bolla, scoppiata nel 2008, è stata creata da dieci anni di troppo facile accesso al credito. Il governo Usa ha drogato la domanda per i mutui obbligando due società finanziarie parastatali, comunemente chiamate Fannie e Freddie, a comprare una grossa percentuale di mutui “tossici.” Le banche hanno volentieri creato un’offerta per questa domanda “drogata”, originando una adeguata quantità di mutui tossici da rivendere, con profitto, a Fannie e Freddie: sono giunte a emettere mutui con 0 per cento (sì, zero) di downpayment (acconto) e i cosiddetti “Ninja loans”. (1) Dopo la crisi, Fannie e Freddie sono state nazionalizzate (cioè accollate alla collettività) e date in gestione a Edward DeMarco, un economista non politico, che ha innalzato i requisiti per ottenere un mutuo. E oggi, grazie anche alla ripresa economica, i debiti tossici di Fannie e Freddie si stanno riducendo. Ma la stretta ai cordoni del credito non è piaciuta al partito democratico, che vuole il credito facile per i meno abbienti. E quindi, a fine 2013, il presidente ha defenestrato DeMarco, mettendo a capo di Fannie e Freddie un uomo politico che, prima della crisi, era fra i maggiori fautori dei mutui facili. La preoccupazione è che riporti in auge il vecchio sistema di credito drogato.
…E mutui made in Italy
In Italia, ci dobbiamo preoccupare per queste vicende americane? Secondo me, sì. Primo perché un’altra crisi del mercato immobiliare Usa non ce la meritiamo, abbiamo già abbastanza problemi. Secondo, perché i nostri politici sembrano avere imparato la lezione americana, hanno imparato che il credito facile fa bene alle urne. I nostri governanti hanno messo in piedi un meccanismo “Fannie e Freddie de noantri”. La Cassa depositi e prestiti (Cdp, la nostra banca di Stato) gestisce infatti la convenzione “ casa”, e sulla base di questa concede alle banche finanziamenti a condizioni agevolate (con un limite di 2 milioni di euro totali), che verranno poi utilizzati dagli istituti di credito per erogare mutui-casa alle giovani coppie e alle famiglie numerose. (2)
Il credito in Italia è difficile da ottenere ed era ora che si pensasse ai giovani e alle famiglie numerose. Ma un dettaglio preoccupa: la convenzione non specifica i tassi da applicare alla clientela. Saranno le banche a determinarli. Praticamente: prima le banche intascano lo sconto fatto dallo Stato, poi decidono quanta parte traslarne a favore del cliente. Ma se finisce che le banche si intascano lo sconto? L’accordo sarebbe allora un trasferimento di denari pubblici (cioè nostri) alle banche? In più, il 18 dicembre 2013 è stata rimossa anche la condizione che i “mutui Plafond” siano riservati all’acquisto della prima casa. Vorrà dire che daremo un sostegno anche alle giovani coppie immobiliariste …
Sul sito del ministro delle Infrastrutture si legge che, al 19 marzo, «alcune mail [...] segnalano difficoltà nell’applicazione del casa [...] Cittadini che si sono presentati allo sportello delle banche [...] per richiedere il mutuo per l’acquisto della prima casa o per la ristrutturazione e che si sono sentiti rispondere “Non ne sappiamo nulla”». Nel solo 2011 il credito erogato per l’acquisto di abitazioni è stato di circa 72 miliardi. (3) Di contro, la quantità di credito agevolato è solo 2 miliardi e quindi per forza ci sarà un eccesso di domanda. Da cui segue un interrogativo: chi saranno i fortunati a cui le banche estendono il credito agevolato? Procedendo con la lettura si scopre che il ministro ha «girato queste mail a Cdp e all’Abi perché verifichino che cosa è successo e risolvano il problema». Ai detentori dei 72-2=70 miliardi di credito non agevolato non resta dunque che affidarsi alla alacre attività informatica del ministro che, girando e-mail a chi di dovere, sicuramente provvederà alla moltiplicazione dei pani e dei pesci.
Ma cerchiamo di mantenere l’ottimismo e di convincerci che una parte consistente dello sconto da tutti noi pagato sui “mutui Plafond” andrà alle coppie giovani, in modo che abbiano più soldi per comprare casa. Nasce però un altro problema. Siccome la quantità di case è più o meno fissa, non c’è il rischio che i prezzi salgano? Questo della traslazione è un classico risultato della scienza delle finanze. Nel nostro caso, una politica disegnata per favorire i compratori di prime case (giovani) finisce per beneficiare i venditori di case (presumibilmente vecchi, oppure i loro eredi) e svantaggiare gli altri acquirenti (quelli non giovani). Intervenire nel mercato dei mutui è rischioso e inefficace, o addirittura controproducente nel lungo periodo. Ma mi rendo conto che nessun governo, né quello Usa né quello italiano, riesce a resistere alla tentazione di farlo. Il consenso elettorale che deriva dallo spendere i soldi pubblici è, in una democrazia, troppo attraente. Chi ne fa le spese è la collettività, cioè chi paga le tasse.
(1) Ninja è l’acronimo per “no income, no job nor assets”. Sono mutui che la banca concedeva senza verificare la veridicità delle dichiarazioni del contraente riguardo a reddito, posizione lavorativa e patrimonio.
(2) Sito web del ministro Lupi consultato il 1/4/14. L’agevolazione non è limitata, ma solo “prioritizzata’” ai giovani (coniugi o conviventi in cui almeno uno dei due componenti non abbia superato i 35 anni e l’altro non superi i 40 anni), alle famiglie con un soggetto disabile o alle famiglie con tre o più figli.
(3) Tavola a pag. 10 de “Il mercato immobiliare italiano: tendenze recenti e prospettive”, Nota di ricerca dell’Ufficio studi Aitec, febbraio 2012.
Quando diciamo che siamo per un’Altra Europa, la vogliamo davvero e non solo a parole. Abbiamo in mente un ordine politico nuovo, perché il vecchio è in frantumi. Non può essere rammendato alla meno peggio.
In realtà il nostro è l’unico progetto che non si limita a invocare a parole un’altra Europa, ma si propone di cambiarla con politiche che riuniscano quel che è stato disunito e disfatto. Gli altri partiti sono tutti, in realtà, conservatori dello status quo.
Sono conservatori Matteo Renzi e il governo, che parlano di cambiamento e tuttavia hanno costruito quest’Unione che umilia e impoverisce i popoli, favorendo banche e speculatori. Sono conservatori i leghisti, che denunciano l’Unione ma come via d’uscita prospettano il nazionalismo e la xenofobia. Nei fatti è conservatore il Movimento 5 Stelle, che si fa portavoce di un disagio reale, ma senza sbocchi chiari.
Tutta diversa la Lista Tsipras. Il progetto è di cambiare radicalmente le istituzioni europee, di dare all’Unione una Costituzione scritta dai popoli, di dotarla di una politica estera non bisognosa delle stampelle statunitensi. Tutta diversa la prospettiva della Lista Tsipras. La nostra non è né una promessa fittizia, come quella di Renzi, né una protesta che rinuncia alla battaglia prima di farla. Metteremo duramente in discussione il Fiscal compact, e in particolare contesteremo — anche con referendum abrogativo — le norme applicative che il Parlamento dovrà introdurre per dare attuazione all’obbligo del pareggio di bilancio che purtroppo è stato inserito ormai nell’articolo 81 della Costituzione, senza che l’Europa ce l’abbia mai chiesto. In ogni caso, faremo in modo che non abbiano più a ripetersi calcoli così palesemente errati e nefasti, nati da una cultura neoliberista che ha impedito all’Europa di divenire l’istanza superiore in grado di custodire sovranità che sono andate evaporando, proteggendoli al tempo stesso dai mercati incontrollabili, dall’erosione delle democrazie e dalla prevaricazione di superpotenze che usano il nostro spazio come estensione dei loro mercati e della loro potenza geopolitica.
Ecco le 10 vie alternative che intendiamo percorrere:
1 - Siamo la sola forza alternativa perché non crediamo sia possibile pensare l’economia e l’Europa democraticamente unita «in successione»: prima si mettono a posto i conti e si fanno le riforme strutturali, poi ci si batte per un’Europa più solidale e diversa. Le due cose vanno insieme. Operare «in successione» riproduce ad infinitum il vizio mortale dell’Euro: prima si fa la moneta, poi per forza di cose verrà l’Europa politica solidale. È dimostrato che questa “forza delle cose” non c’è. Status quo significa che s’impone lo Stato più forte.
2 - Siamo la sola forza alternativa perché crediamo che solo un’Europa federale sia la via aurea, nella globalizzazione. Se l’edificheremo, Grecia o Italia diverranno simili a quello che è la California per gli Usa. Nessuno parlerebbe di uscita della California dal dollaro: le strutture federali e un comune bilancio tengono gli Stati insieme e non colpevolizzano i più deboli. In un’Europa federata, quindi multietnica, l’isola di Lampedusa è una porta, non una ghigliottina.
3 - Siamo la sola forza alternativa perché non pensiamo che prioritaria ed esclusiva sia la difesa dell’«interesse nazionale»: si tratta di individuare quale sia l’interesse di tutti i cittadini europei. Se salta un anello, tutta la catena salta.
4 - Siamo la sola forza alternativa perché non siamo un movimento minoritario di protesta, ma avanziamo proposte precise, rapide. Proponiamo una Conferenza sul debito che ricalchi quanto deciso nel 1953 sulla Germania, cui vennero condonati i debiti di guerra. L’accordo cui si potrebbe giungere è l’europeizzazione della parte dei debiti che eccede il fisiologico 60 per cento del pil. E proponiamo un piano Marshall per l’Europa, che avvii una riconversione produttiva, ecologicamente sostenibile e ad alto impatto sull’occupazione, finanziato dalle tasse sulle transazioni finanziarie e l’emissione di anidride carbonica, oltre che da project bond e eurobond.
5 - Siamo la sola forza alternativa perché esigiamo non soltanto l’abbandono delle politiche di austerità, ma la modifica dei trattati che le hanno rese possibili. Tra i primi: l’abolizione e la ridiscussione a fondo del Fiscal Compact, che promette al nostro e ad altri Paesi una o due generazioni di intollerabile povertà, e la distruzione dello Stato sociale. Promuoviamo un’Iniziativa Cittadina (art. 11 del Trattato sull’Unione europea) con l’obbiettivo di una sua radicale messa in discussione. Chiederemo inoltre al Parlamento Europeo un’indagine conoscitiva e giuridica sulle responsabilità della Commissione, della Bce e del Fmi nell’imporre un’austerità che ha gravemente danneggiato milioni di cittadini europei.
6 - Siamo la sola forza alternativa perché non ci limitiamo a condannare gli scandali della disoccupazione e del precariato, ma proponiamo un Piano Europeo per l’Occupazione (Peo) il quale stanzi almeno 100 miliardi l’anno per 10 anni per dare occupazione ad almeno 5–6 milioni di disoccupati o inoccupati (1 milione in Italia): tanti quanti hanno perso il lavoro dall’inizio della crisi. Il Peo dovrà dare la priorità a interventi che non siano in contrasto con gli equilibri ambientali come le molte Grandi Opere che devastano il territorio e che creano poca occupazione, ad esempio il Tav Torino-Lione e le trivellazioni nel Mediterraneo e nelle aree protette. Dovrà agevolare la transizione verso consumi drasticamente ridotti di combustibili fossili; la creazione di un’agricoltura biologica; il riassetto idrogeologico dei territori; la valorizzazione non speculativa del nostro patrimonio artistico; il potenziamento dell’istruzione e della ricerca.
7 - Siamo la sola forza alternativa perché riteniamo un pericolo l’impegno del governo di concludere presto l’accordo sul Partenariato Transatlantico per il Commercio e l’Investimento (Ttip). Condotto segretamente, senza controlli democratici, il negoziato è in mano alle multinazionali, il cui scopo è far prevalere i propri interessi su quelli collettivi dei cittadini. Il welfare è sotto attacco. Acqua, elettricità, educazione, salute saranno esposte alla libera concorrenza, in barba ai referendum cittadini e a tante lotte sui “beni comuni”. La battaglia contro la produzione degli Ogm, quella che penalizza le imprese inquinanti o impone l’etichettatura dei cibi, la tassa sulle transazioni finanziarie e sull’emissione di anidride carbonica sono minacciate. La nostra lotta contro la corruzione e le mafie è ingrediente essenziale di questa resistenza alla commistione mondializzata fra libero commercio, violazione delle regole, abolizione dei controlli democratici sui territori.
8 - Siamo la sola forza alternativa perché vogliamo cambiare non solo gli equilibri fra istituzioni europee ma la loro natura. I vertici dei capi di Stato o di governo sono un cancro dell’Unione, e proponiamo che il Parlamento europeo diventi un’istituzione davvero democratica: che legiferi, che nomini la Commissione e il suo Presidente, e imponga tasse europee in sostituzione di quelle nazionali. Vogliamo un Parlamento costituente, capace di dare ai cittadini dell’Unione una Carta che cominci, come la Costituzione statunitense, con le parole «We, the people.…». Non con la firma di 28 re azzoppati e prepotenti, che addossano alla burocrazia di Bruxelles colpe di cui sono i primi responsabili.
9 - Siamo la sola forza alternativa a proposito dell’euro. Pur essendo critici radicali della sua gestione, e degli scarsi poteri di una Banca centrale cui viene proibito di essere prestatrice di ultima istanza, siamo contrari all’uscita dall’euro e non la riteniamo indolore. Uscire dall’euro è pericoloso economicamente (aumento del debito, dell’inflazione, dei costi delle importazioni, della povertà), e non restituirebbe ai paesi il governo della moneta, ma ci renderebbe più che mai dipendenti da mercati incontrollati, dalla potenza Usa o dal marco tedesco. Soprattutto segnerebbe una ricaduta nei nazionalismi autarchici, e in sovranità fasulle. Noi siamo per un’Europa politica e democratica che faccia argine ai mercati, alla potenza Usa, e alle le nostre stesse tentazioni nazionaliste e xenofobe. Una moneta «senza Stato» è un controsenso politico, prima che economico.
10 - Siamo la sola forza alternativa perché la nostra è l’Europa della Resistenza: contro il ritorno dei nazionalismi, le Costituzioni calpestate, i Parlamenti svuotati, i capi plebiscitati da popoli visti come massa amorfa, non come cittadini consapevoli. Dicono che la pace in Europa è oggi un fatto acquisito. Non è vero. Le politiche di austerità hanno diviso non solo gli Stati ma anche i popoli, e quella che viviamo è una sorta di guerra civile dentro un’Unione che secerne di nuovo partiti fascistoidi come Alba Dorata in Grecia, Jobbik in Ungheria, Fronte Nazionale in Francia, Lega in Italia. All’esterno, poi, siamo impegnati in guerre decise dalla potenza Usa: guerre di cui gli Stati dell’Unione non discutono mai perché vi partecipano servilmente, senz’alcun progetto di disarmo, refrattari a ogni politica estera e di difesa comune (il costo della non-Europa in campo militare ammonta a 120 miliardi di euro annui). Perfino ai confini orientali dell’Unione sono gli Stati Uniti a decidere quale ordine debba regnare.
L’Europa che abbiamo in mente è quella del Manifesto di Ventotene, e chi lo scrisse non pensava ai compiti che ciascuno doveva fare a casa, ma a un comune compito rivoluzionario.
Oggi L’Altra Europa con Tsipras presenta la proprie liste elettorali nei 5 capoluoghi di circoscrizione, forte delle più di 220 mila firme raccolte in un mese per rendere possibile la nostra partecipazione alla scadenza delle elezioni del Parlamento europeo. Lo faremo con iniziative gioiose e colorate, intanto perché festeggiamo questo risultato, che una legge elettorale perlomeno di dubbia legittimità costituzionale rendeva quasi impossibile da realizzare. E poi anche perché, per noi, la raccolta delle firme ha rappresentato a tutti gli effetti l’apertura della campagna elettorale e questa scelta — al di là dell’obbligo di legge — è già un timbro di come la intendiamo. Il rapporto diretto con centinaia di migliaia di persone, il fatto di aver ragionato con ciascuno di loro sulle ragioni e sui contenuti che qualificano la lista. Non una riedizione di esperienze già compiute in passato ma un’ operazione inedita. Facendo leva, contemporaneamente, sui soggetti politici (Sel e Rifondazione Comunista) e sociali organizzati che condividono quest’approccio e su quelle realtà di sinistra diffusa e di cittadini impegnati che in questi anni sono stati protagonisti di tanti conflitti e proposte nelle vertenze nazionali e territoriali. Con la disponibilità di tutti di mettersi in discussione e di provare ad uscire dai recinti e da una dimensione settoriale che per troppo tempo ha caratterizzato le esperienze politiche e sociali da diversi anni in qua.
220 mila firme in un mese, un dato — per usare un riferimento un po’ improprio — che corrisponde al numero delle firme necessarie in 3 mesi per indire un referendum. È stato possibile perché ci siamo dotati di un minimo di organizzazione, con un nucleo centrale e una rete diffusa di centinaia di militanti e volontari, i primi protagonisti dell’attività concreta della raccolta delle firme, ma, ancor più, perché abbiamo raccolto un bisogno di nuova politica, di chi vuole fuoriuscire dai populismi più o meno dolci di Renzi e Grillo e misurarsi realmente con la necessità di far camminare un progetto di trasformazione reale degli assetti di potere esistenti e di uscire da una logica, apparentemente oppositiva ma in realtà non così dissimile, di chi si appiattisce sulle “riforme strutturali” che vengono imposte da Bruxelles e di chi ipotizza irrealistici ritorni alla “sovranità nazionale”, che da sola non potrebbe comunque uscire dai vincoli dettati dai mercati internazionali.
Ci aspetta ora la sfida difficile, di una campagna elettorale che sappiamo si proverà a contrassegnare con una rappresentazione falsata tra chi sta con l’Europa, magari limando le politiche di austerità, e chi si oppone ad essa, con relativo corollario tra chi è favorevole e chi è contrario all’euro. E che tenterà di oscurare la presenza della lista dell’Altra Europa per Tsipras, magari dipingendola come puro residuo di una sinistra passatista e magari anche litigiosa. Sta a noi, ai tanti e diversi che si stanno impegnando in questo progetto, far emergere un percorso inedito e condiviso al di là delle appartenenze e delle esperienze di provenienza. Che si unifica appunto nell’idea di un’altra Europa e che si può ben identificare in un approccio che, dentro la più grave crisi del capitalismo dagli anni ’30 del secolo scorso, è radicale nei contenuti che propone, maggioritario nello sguardo della propria proposta, innovativo nelle forme della discussione e dell’agire politico. L’esperienza della raccolta delle firme ci dice che tutto questo è possibile, che, tra il subire le politiche dell’austerità e dei sacrifici e limitarsi a urlare la propria indignazione, si può pensare di percorrere la via della trasformazione e del cambiamento.
Dopo il nuovo fallimento della «Rivoluzione Civile» di Ingroia alle elezioni successive del 2013, quello dell’alleanza «Italia Bene Comune» tra Sel e Pd che ha preferito le «larghe intese» con Berlusconi e oggi con Alfano, dopo l’affermazione del Movimento 5 Stelle di Grillo, Tsipras è tornato in Italia come «Papa straniero». Ha federato i residui di quell’esperienza (Rifondazione Comunista e Sel, ma non il Pdci) con altri soggetti o raggruppamenti come Alba, per il momento in vista delle europee. Sulla continuazione di questa esperienza, ad oggi tenuta insieme dal prestigio intellettuale dei suoi «garanti» (Luciano Gallino, Marco Revelli, Barbara Spinelli, Guido Viale) poco, o nulla, si sa. Per il momento avanza la suggestione per una figura politica, che ha attraversato il movimento No Global, si è poi messo a fare politica senza mai rinunciare aalle sue idee politiche. Un esempio di coerenza e lungimiranza che oggi viene riconosciuto a livello internazionale.
Il libro di Pucciarelli e Russo Spena è il primo a raccontare, da sinistra, la storia di una battaglia impari, quella di un Davide greco, per di più di «sinistra radicale» contro i poteri forti in Grecia e il Golia tedesco in Europa. Un Davide che un sondaggio Mrb per il sito Real .Gr viene dato al 19,9% contro il 19,7 di Nuova Democrazia del primo ministro Antonis Samaras alle europee. I sondaggi per le prossime politiche ad Atene conferiscono al partito di Tsipras la maggioranza relativa e la definitiva cancellazione del Pasok – il Pd greco – responsabile dei quattro memorandum e delle politiche di austerità imposte dalla Bce, dalla Ue e dall’Fmi che hanno distrutto la Grecia. Con queste elezioni europee Syriza si è messa alla guida «della resistenza europea al neoliberismo» sostiene Tsipras nell’intervista rilasciata agli autori del libro. L’operazione è intelligente: dal suo punto di vista, il leader greco conduce una battaglia importante a livello continentale e sta usando la sua campagna elettorale per prepararsi a vincere le elezioni in patria.
È questa la lezione machiavelliana che Syriza ha imparato stando nelle lotte, durissime, condotte dalla società greca contro i governi delle larghe intese e le politiche di austerità. Una scelta difficilissima, quella di «stare nel gorgo» di una lotta, nelle sue contraddizioni, nel dramma di uno scontro che ha saputo dispiegare efferatezze, da entrambe le parti.
Radicamento sul territorio, costruzione di coalizioni con sindacati e movimenti di diversa ispirazione, ampia e articolata dialettica interna che Pucciarelli e Russo Spena definiscono una «babilonia» saldata dall’organizzazione di Syriza ma soprattutto dal carisma del suo leader 39enne. La sfida del governo non sarà facile per Tsipras che guida un partito che affronta l’aggressività interna, anche dei nazisti di Alba Dorata, e soprattutto gli attacchi della dittatura europea della Troika.
Il suo programma è solidamente socialdemocratico, neo-keynesiano, europeo e non nazionalistico, «avvicinabile a un neo socialismo di stampo latinoamericano» scrivono gli autori. La proposta per l’Europa è di riscriverne i trattati e promuovere un New Deal, un grande piano di investimenti pubblici per lo sviluppo. Per fare tutto questo, Syriza punta sulla virtù e sulla fortuna, elementi che non gli sono mancati dal 2004 ad oggi. Il libro sarà presentato domani a Roma al Forte Fanfulla alle 20 con Barbara Spinelli, Sandro Medici e Argiris Panagopoulos. Modera Daniela Preziosi.
Una domanda e una risposta su cui è utile riflettere. L'interrogativo che resta aperto è: a che serve il movimento che riempie le piazze e non riesce a cambiare ciò che vorrebbe? E' solo testimonianza, o può preparare il futuro? E se la risposta è questa, quali sono le condizioni che mancano? Il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2014