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Con la nuova legge elettorale sembra concludersi il ciclo di distruzione della democrazia in nome della governabilità, iniziato sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso. Ultima speranza istituzionale, la Corte costituzionale: prima che il tiranno riesca a cambiarla. Articoli di AndreaFabozzi e Alfio Mastropaolo. Il manifesto, 7 maggio 2015

MATTARELLA FIRMA DOPO RENZI
di Andrea Fabozzi,
Promulgata la nuova legge elettorale. Il capo del governo anticipa il capo dello stato. Entrambi i presidenti diffondono via twitter l’annuncio. Palazzo Chigi aggiunge una dedica entusiasta
Mat­teo Renzi ha fir­mato alle nove del mat­tino, Ser­gio Mat­ta­rella nel pome­rig­gio. Entrambi i pre­si­denti hanno imme­dia­ta­mente dif­fuso la noti­zia via twit­ter, ma il pre­si­dente del Con­si­glio ha aggiunto una foto — la mano destra con la biro, il foglio fer­mato con l’indice della sini­stra — e una dedica: «A tutti quelli che ci hanno cre­duto, quando era­vamo in pochi a farlo». Delle due firme quella impre­vi­sta è la prima, quella di Renzi. Ha anti­ci­pato il pre­si­dente della Repub­blica, quando è noto che il capo del governo deve con­tro­fir­mare le leggi una volta pro­mul­gate dal capo dello stato. La for­mula che si intra­vede sul foglio twit­tato da Renzi è la clas­sica che accom­pa­gna la pub­bli­ca­zione in Gaz­zetta Uffi­ciale — «La pre­sente legge, munita del sigillo dello stato, sarà inse­rita nella Rac­colta uffi­ciale degli atti nor­ma­tivi…» — ma la firma di Mat­ta­rella ancora non c’era. È arri­vata, ine­vi­ta­bil­mente, poco dopo.

Il pre­si­dente della Repub­blica non ha accom­pa­gnato la pro­mul­ga­zione con un breve mes­sag­gio, al modo in cui qual­che volta aveva fatto Gior­gio Napo­li­tano, così smen­tendo quanti ave­vano pre­vi­sto qual­che parola dal Colle sul neces­sa­rio col­le­ga­mento dell’Italicum alla riforma costi­tu­zio­nale. La legge che il par­la­mento ha man­dato al pre­si­dente si sarebbe pre­stata a qual­che osser­va­zione, visto che è pre­vi­sto che resti sospesa per oltre un anno (fino al luglio 2016). La Corte costi­tu­zio­nale (con il voto dello stesso Mat­ta­rella) anche nella sen­tenza del 2014 che ha abbat­tuto il Por­cel­lum aveva ricor­dato come il paese non può restare un solo giorno senza una legge elet­to­rale appli­ca­bile. Eppure il par­la­mento scri­ven­done una nuova ha deciso di lasciarla tra paren­tesi. E non si è pre­oc­cu­pato nem­meno di fare gli inter­venti neces­sari a ren­dere appli­ca­bile da subito il Con­sul­tel­lum, cioè il sistema resi­duato dalla sen­tenza della Corte (e dalla Corte stessa pre­vi­sti). La sospen­sione, infine, è addi­rit­tura senza limite per il senato, posto che l’Italicum vale per la sola camera e il sistema è desti­nato a restare incom­pleto fino a che non sarà abo­lito il senato elet­tivo. Su tutto que­sto Mat­ta­rella non ha rite­nuto di pre­ci­sare nulla.

Il pre­si­dente non ha avuto alcuna osser­va­zione da fare nean­che sulle più volte sol­le­vate que­stioni di inco­sti­tu­zio­na­lità della legge, ma in que­sto secondo caso si tratta di una scelta assai più pre­ve­di­bile e com­pren­si­bile alla luce delle pre­ro­ga­tive del capo dello stato. È invece pro­prio su que­sto, cioè sul non aver rifiu­tato del tutto la firma, chie­dendo alle camere una nuova deli­be­ra­zione, che il Movi­mento 5 Stelle ha preso imme­dia­ta­mente — e pesan­te­mente — ad attac­care il pre­si­dente della Repub­blica, al quale pure si era rivolto con grandi spe­ranze nell’ultimo inter­vento alla camera prima del voto finale. Men­tre dal pre­de­ces­sore di Mat­ta­rella, Gior­gio Napo­li­tano, è arri­vato un pre­ve­di­bile mes­sag­gio di con­senso: «È un rag­giun­gi­mento impor­tante, era ine­vi­ta­bile appro­vare l’Italicum che del resto non è arri­vato in un mese ma in oltre un anno».

Sono pas­sati in realtà tre mesi scarsi da quando il testo della legge elet­to­rale è stato cri­stal­liz­zato in senato, imme­dia­ta­mente prima dell’elezione di Mat­ta­rella. Nulla è cam­biato da allora, il pre­si­dente lo cono­sce bene e dun­que non ha senso giu­di­care «rapida» la sua firma, arri­vata il giorno stesso in cui la legge è uffi­cial­mente appro­data sulla sua scri­va­nia. Dieci anni fa Carlo Aze­glio Ciampi lasciò tra­scor­rere otto giorni prima di pro­mul­gare il Por­cel­lum, ci pensò bene, ma la legge fu ugual­mente giu­di­cata inco­sti­tu­zio­nale dalla Con­sulta, molti anni più tardi.

In attesa dei giu­dici della Corte Costi­tu­zio­nale davanti ai quali sarà cer­ta­mente por­tata (prima o poi) anche que­sta legge elet­to­rale, si sono fatte sen­tire le agen­zie inter­na­zio­nali di rating. Fitch ha scritto che l’approvazione dell’Italicum «nel medio ter­mine raf­for­zerà il pro­filo di cre­dito del paese ridu­cendo i rischi poli­tici che gra­vano sulle poli­ti­che eco­no­mi­che e di bilan­cio». Men­tre secondo il Finan­cial Times con la nuova legge elet­to­rale si mette fine all’«ossessivo sistema di pesi e con­trap­pesi che ha rego­lar­mente pro­dotto coa­li­zioni di governo insta­bili» e si «accre­sce la forza dell’esecutivo». Forse per­sino troppo: One worry is that it may place too much power in the hands of the executive

LA DEMOCRAZIA «NORMALE»

di Alfio Mastropaolo

L’esecutivo decide, il parlamento finge di controllare, ma registra, la popolazione si adegua. Non tutta: quella piccola parte che paga, detta le sue condizioni

Stiamo final­mente diven­tando una demo­cra­zia “nor­male”. Cioè una demo­cra­zia in cui l’esecutivo decide, il par­la­mento finge di con­trol­lare, ma regi­stra, la popo­la­zione si ade­gua. Se non è con­tenta, cam­bierà governo alle pros­sime elezioni.

Non tutta la popo­la­zione si ade­gua. In realtà c’è una pic­cola parte che detta all’esecutivo le sue con­di­zioni. Le detta, forte del fatto che è lei a soste­nere i mostruosi costi delle cam­pa­gne di per­sua­sione elet­to­rale. Con l’abolizione del finan­zia­mento pub­blico della poli­tica li sosterrà ancor di più. E quindi det­terà con­di­zioni ancor più strin­genti. Pos­siamo senza fatica fare ipo­tesi su quali poli­ti­che attuerà l’esecutivo. Di destra o di sini­stra che sia, o che si dica, le dif­fe­renze sta­ranno nei par­ti­co­lari, non irri­le­vanti, ma sem­pre par­ti­co­lari. L’essenziale delle scelte poli­ti­che lo deci­derà chi paga. E poi­ché, dato lo stato del nostro sistema impren­di­to­riale, a pagare saranno soprat­tutto imprese stra­niere, la pres­sione inter­na­zio­nale si accen­tuerà ulte­rior­mente. Si ade­guerà il grosso della popo­la­zione, ma si ade­guerà l’intero paese. Desti­nato a diven­tare sem­pre più mar­gi­nale e sot­to­messo nella divi­sione del lavoro planetaria.

Abbiamo già avuto qual­che avvi­sa­glia del destino che ci aspetta. Ma finora ser­vi­vano le peren­to­rie impo­si­zioni di Bru­xel­les e Fran­co­forte. D’ora il poi basterà loro sol­le­vare un soprac­ci­glio. La cupi­di­gia di ser­vi­li­smo è iper­tro­fica nelle classi diri­genti ita­liane. Ciò lascia pen­sare che riu­sci­ranno per­fino a pre­ve­nirle. Resterà qual­che pic­colo osta­colo, come la Corte costi­tu­zio­nale. Ma non durerà troppo a lungo. I giu­dici pas­sano, d’ora in poi li sce­glierà l’esecutivo, in com­butta con un’opposizione che sarà il suo dop­pio, e i giu­ri­sti pronti a met­tersi a ser­vi­zio sono una folla. Le sen­tenze capric­ciose e imba­raz­zanti come l’ultima sulle pen­sioni potremo scordarcele.

Sarebbe inge­nuo attri­buire la respon­sa­bi­lità — o il merito — di que­sta infau­sta nor­ma­liz­za­zione a Renzi. Renzi e la sua lea­der­ship sono figlie delle cir­co­stanze, lui ha pro­fit­tato delle cir­co­stanze favo­re­voli e ha ope­rato coe­ren­te­mente con la sua cul­tura, ma la nor­ma­liz­za­zione arriva da lon­tano. È dai primi anni 80 che poli­tici e intel­let­tuali per­se­guono que­sto dise­gno con grande deter­mi­na­zione. Con le parole e coi fatti. Qual­cuno si dichiara al momento insod­di­sfatto. In effetti c’è ragione per discu­tere sulla totale rimo­zione di ogni garan­zia che si veri­fi­cherà una volta con­clusa la para­bola delle riforme ren­ziane. Ma si tratta di det­ta­gli. La sma­nia di deci­sio­ni­smo sovra­sta que­sti det­ta­gli ed è molto antica.

Qual­cuno di coloro che sma­niano da quasi mezzo secolo dirà che la demo­cra­zia dei par­titi era alla para­lisi. Ma a que­sto argo­mento si può repli­care che quel modello demo­cra­tico si poteva ade­guarlo senza stra­vol­gerlo. E che le dosi mas­sicce di deci­sio­ni­smo già iniet­tate nel nostro regime demo­cra­tico hanno pro­dotto solo effetti disa­strosi. Così come non bril­lanti sono i risul­tati con­se­guiti dalle demo­cra­zie nor­mali che stanno intorno a noi. Così poco bril­lanti da met­ter in dub­bio l’idea stessa di nor­ma­liz­za­zione. La quale sicu­ra­mente con­viene ad alcuni — i poten­tati economico-finanziari — ma non alla mag­gio­ranza della popolazione.

Il signi­fi­cato della parola demo­cra­zia è incerto. O con­tro­verso. Dac­ché i regimi demo­cra­tici hanno sosti­tuito quelli libe­rali è comin­ciata una guerra per cir­co­scri­verlo è che ha avuto suc­cesso. Demo­cra­zia, si dice, è il suf­fra­gio uni­ver­sale, le libere ele­zioni, la con­cor­renza tra i par­titi. Il resto avanza. Nes­sun dub­bio che que­ste cose ci stiano. Ma la demo­cra­zia e il suf­fra­gio uni­ver­sale li si era voluti pro­prio per can­cel­lare il pri­vi­le­gio delle oli­gar­chie libe­rali e per fina­liz­zare in maniera più egua­li­ta­ria l’azione di governo. Ebbene, le demo­cra­zie sono state svuo­tate e siamo tor­nati indie­tro di oltre un secolo. In nome della demo­cra­zia nor­male.

Che farà il grosso della popo­la­zione, che è a ben vedere gros­sis­simo, come la crisi ha dimo­strato? Un esito certo è la cre­scita dell’astensione. La fru­stra­zione aumen­terà la sfi­du­cia. Gli imbe­cilli diranno che capita ovun­que ed è quindi nor­male. Cre­sce­ranno anche i sen­ti­menti di rivalsa, la cui mani­fe­sta­zione più evi­dente è il raz­zi­smo. Con que­sto sistema elet­to­rale - la Fran­cia inse­gna - il rischio che un par­tito raz­zi­sta, quan­tun­que mino­ri­ta­rio, vinca le ele­zioni, è piut­to­sto alto.

Vedremo. C’è però una terza pos­si­bi­lità. Che il grosso della popo­la­zione si ribelli. Che intenda che la demo­cra­zia nor­male serve a fre­gare ulte­rior­mente i gio­vani, gli ope­rai, gli impie­gati, gli inse­gnati, se l’è già presa coi pro­prie­tari di case e pre­sto se la pren­derà con gli avvo­cati, i pro­fes­sio­ni­sti e quant’altri. Il capi­ta­li­smo finan­zia­rio se ne infi­schia di tutti. Punta a pel­le­gri­nare infor­ma­ti­ca­mente per il pia­neta, per spe­cu­lare dove meglio con­viene. Bassi con­sumi per i più, cibo di qua­lità sca­dente e con­sumi di lusso per le vedette dello spettacolo.

Di con­tro, se que­sta por­zione lar­ghis­sima di società non cadesse nella trap­pola della guerra tra poveri e si met­tesse insieme, sarebbe un modo di difen­dersi. Biso­gna ridursi come la Gre­cia per capirlo? È vero che la Gre­cia non rie­sce a sot­trarsi ai suoi spie­tati aguz­zini. Ma è vero anche che se la Gre­cia non fosse sola, se la lotta con­tro la demo­cra­zia nor­male e il capi­ta­li­smo di rapina si allar­gasse, la par­tita si riaprirebbe

Apartheid nella "civilissima" Europa. Una cronaca di Vladimiro Polchi e un commento di Michele Serra sul gravissimo episodio avvenuto ieri ai confini italiani, con la complicità dei nostri.

La Repubblica, 1° maggio 2015

“LACACCIA AL NERO È UNO SCANDALO
I PROFUGHI SIANO LIBERI DI VARCARE IL CONFINE”

di Vladimiro Polchi

«I controlli su base etnica sono inaccettabili: fermate la caccia al nero». Negli uffici della Caritas e delle organizzazioni internazionali esplode il caso “apartheid sui treni”. Col Pd che chiede immediati chiarimenti al Viminale: «È una gravissima discriminazione, intollerabile in un Paese civile».

Il fatto: in questi mesi, come ha raccontato ieri Repubblica , i treni in partenza da Bolzano e diretti oltre confine vengono controllati da pattuglie miste di poliziotti italiani, tedeschi e austriaci che bloccano chi non è bianco e impediscono ai migranti di salire sulle carrozze. «La polizia di frontiera sta facendo qualcosa di inaccettabile — attacca Oliviero Forti, responsabile immigrazione della Caritas — i controlli legati al colore della pelle fanno tornare in mente vicende terribili che non vorremmo più vedere in Europa. Anche la Caritas di Bolzano ci ha confermato queste ispezioni. Lo stesso avveniva nel 2011 coi tunisini alla frontiera francese.

È una vicenda preoccupante. I controlli ci sono sempre stati, ora si è superata la misura. L’Europa dimostra la sua incapacità nel gestire un fenomeno che non può rimanere solo italiano. Il nostro governo deve attivarsi con quello austriaco per fermare la caccia allo straniero». Va giù duro anche Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano rifugiati: «Questa è una storia incredibile. La sostanza è sempre la stessa: sono responsabili la polizia italiana e l’Europa, che preme sul nostro Paese per non far uscire gli immigrati, in applicazione del sistema di Dublino che impedisce la circolazione dei rifugiati. Ma sono le modalità nuove e incivili a stupire: ricordano il 1937. E attenzione, non accade solo sui treni. Mi è capitato di assistere a controlli basati sul colore della pelle anche di ritorno da Algeri. I passeggeri africani venivano controllati sulla pista, appena scesi dall’aereo, senza neppure farli entrare nel terminal.
Si sta diffondendo una cultura di chiusura. L’Europa deve permettere la libera circolazione di chi scappa dalle guerre». Hein chiede due interventi urgenti: «Il ministero dell’Interno deve impartire istruzioni affinché cessino questi controlli. E l’Italia deve chiedere al Consiglio europeo di superare le rigidità di Dublino». A essersi già rivolto al Viminale è Khalid Chaouki (Pd) coordinatore dell’intergruppo parlamentare sull’immigrazione: «Ciò che sta accadendo al confine con l’Austria è una gravissima discriminazione, intollerabile in un Paese civile. Ho sentito informalmente il ministero dell’Interno. Non ci possono essere controlli su base etnica. I Paesi europei stanno dando il peggio di sé, non rispettando neppure gli impegni di collaborazione presi a Bruxelles. L’Italia non può fare il guardiano dei rifugiati. Credo che quello che sta avvenendo alla frontiera debba spingerci ad aprire un fronte di crisi diplomatica con alcuni Paesi confinanti». Critico anche Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni: «Molti migranti che arrivano in Italia via mare vogliono ricongiungersi con i propri familiari residenti in altri Stati Ue. Sarebbe opportuno prevedere un approccio all’accoglienza di queste persone a livello europeo, per evitare che diventino vittime dei trafficanti anche all’interno dell’Unione».

LA VERGOGNA DI QUEI TRENI
CON I NERI DIVISI DAI BIANCHI
di Michele Serra
L’UOMO bianco può salire sul treno. L’uomo nero no. Il criterio è il colore della pelle, una forma di identificazione a vista che più primitiva, più rude, più discriminante non ce n’è. Lo raccontava ieri un reportage di Jenner Meletti dalla stazione di Bolzano.

Una vicenda quasi incomprensibile per quanto anacronistico e detestabile è il criterio applicato dalle pattuglie italo-austro-tedesche che hanno l’incarico (tra l’altro del tutto velleitario) di frenare l’approdo nel Nord Europa dei profughi africani che cercano di raggiungere i parenti in Germania, Svezia, Norvegia.

Il presidente del Consiglio ha dichiarato nei giorni scorsi che, finito il travaglio spossante della riforma elettorale, il governo si occuperà di diritti. Viene da dire: si occuperà della sostanza della politica e non più solamente della sua forma, con tutto il rispetto per la forma e per la faticosissima, contrastatissima ri-forma. Ecco una eccellente occasione per farlo. Chiedersi come sia potuto accadere, per quale assurdo accidente procedurale o per quale dolosa rozzezza, che in territorio italiano uomini in uniforme siano costretti, umiliando anche se stessi e il proprio ruolo, a dire “tu no” e “tu sì” ai passeggeri di un treno a seconda della loro razza, abbiano o non abbiano un biglietto in tasca.

Di questi rifiutati, compresi i bambini, esistono bivacchi che vivono ai margini delle stazioni affidandosi al soccorso di volontari e di associazioni umanitarie. Sono la testimonianza vivente dell’inesistente visione europea sulla questione, enorme, dell’esodo africano, malamente avviato alle coste italiane e poi rimpallato dai nostri partner europei. Una risacca che trova lungo le Alpi un secondo vaglio, dopo il mare le montagne, replicando anche su terra ferma quella negazione del diritto di viaggiare (non di risiedere: di viaggiare) che a ogni europeo sembra il più naturale dei diritti, almeno dalla caduta del Muro in poi. E per molti africani è diventato un azzardo, una scommessa, un rischio assurdo. Per quanto enorme sia il problema, per quanto delicato affrontarlo, lo spettacolo di un treno sgomberato dai neri e riservato ai bianchi non è ammissibile, rimanda a discriminazioni la cui fine è giustamente celebrata come una liberazione in ogni parte del mondo dove vigevano forme di segregazione. La liberazione da un incubo. Il ministro degli Interni e le altre figure istituzionali interessate riaprano i loro cassetti (pare che quelle pattuglie “trilaterali” siano un portato degli accordi di Schengen), cerchino di capire come rimediare a un così maldestro obbrobrio, non costringano uomini dello Stato a individuare la pelle nera come un pericolo e la pelle bianca come un lasciapassare.

Per quanto difficile sia capire, sulla questione dei migranti e dei profughi, che cosa bisogna fare, è facilissimo capire che cosa non bisogna fare. Non bisogna che il criterio razziale trovi una benché minima forma di leggibilità, di dicibilità. “Tu non puoi perché sei nero” è indicibile, e basta. Che il governo Renzi si occupi di diritti non è, in questo caso, un buon proposito o un punto della futura agenda politica. È qualcosa da fare e da risolvere oggi, stamattina. Adesso.

La rilettura. Stralcio di un libro che dopo 20 anni è ancora di bruciante attualità. Almeno per chi vuole uscire dalla crisi: "L’età dello spreco. Disoccupazione e bisogni sociali".

Il manifesto, 30 aprile 2015, con postilla

Giorgio Lunghini, i. Bollati Boringhieri, 1995

In una con­fe­renza sulle “Pro­spet­tive eco­no­mi­che per i nostri nipoti”, tenuta a Madrid nel 1930, negli anni dell’ansia, John May­nard Key­nes affer­mava che (…) nell’arco di cent’anni l’umanità avrebbe risolto il suo pro­blema eco­no­mico (…). Nei ses­san­ta­cin­que anni pas­sati da allora l’umanità non si è mossa nella dire­zione della libertà dal biso­gno, della libe­ra­zione dalla neces­sità di ven­dersi in cam­bio dei mezzi di vita. Dall’età dell’ansia che Key­nes ha cer­cato di scio­gliere siamo pas­sati all’età dello spreco, non a quella della libertà e della sobrietà. L’atroce ano­ma­lia della disoc­cu­pa­zione in un mondo pieno di biso­gni è oggi ancora più grave di allora (…). Alla pro­li­fe­ra­zione immane delle merci e alla cre­scita della disoc­cu­pa­zione si accom­pa­gnano vec­chie e nuove povertà, guerre fra poveri e un gene­rale imbar­ba­ri­mento dei rap­porti mate­riali dell’esistenza. La teo­ria eco­no­mica e l’arte del governo non sanno spie­gare né vogliono risol­vere il pro­blema economico-politico più grave: troppe merci, poco lavoro (…). La mia tesi è che la disoc­cu­pa­zione ha oggi carat­tere strut­tu­rale, ha ori­gine nelle forme attuali del cam­bia­mento tec­no­lo­gico e orga­niz­za­tivo, ed è ten­den­zial­mente irre­ver­si­bile. Nel ragio­na­mento seguente sostengo che la fama­co­pea orto­dossa non ha medi­ca­menti che pos­sano risol­vere o almeno lenire la nuova forma della malat­tia cro­nica del capi­tale, la con­trad­di­zione tra spreco e penu­ria. Occorre cer­care anche altrove, fuori da una logica esclu­si­va­mente mer­can­tile. Occorre met­tere in moto lavori con­creti, essen­zial­mente lavori di cura delle per­sone, delle città e delle campagne. (stralci dalle pagine 7-9)

postilla

Lunghini pone il tema della finalizzazione del lavoro. Il lavoro è uno strumento per la produzione di merci destinate a loro volta a essere vendute a un prezzo superiore al loro costo di produzione, oppure un'attività mediante la quale l'uomo (e l'umanità) raggiunge i fini che volta a volta si pone in relazione ai suoi obiettivi? Nel primo caso il lavoro (anzi la "forza lavoro", cioè la capacità degli uomini di lavorare) è anch'esso una merce, che al proprietario e gestore dei mezzi di produzione conviene pagare il meno possibile; il reddito del lavoratore sarà il prezzo che egli riuscirà ad ottenere da compra la sua forza-lavoro. Tutt'altro è invece è il ruolo e il destino sociale del lavoro se, come Claudio Napoleoni, lo si concepisca come «lo strumento, peculiarmente umano, col quale l’uomo consegue i suoi fini; ed è strumento universale, nel senso che esso è a disposizione dell’uomo per ogni possibile suo fine» (vedi in proposito alcuni dei testi di Marx, di Robbins e di Napoleoni indicati nella nota Il lavoro su eddyburg . Se si sviluppasse il ragionamento a partire da queste premesse la questione del New Deal per l'Europa, posto da Guido Viale e da altri autori in occasione della vicenda della lista "l'Altra Europa con Tsipras" e il dibattito sul "reddito di cittadinanza" acquisterebbero un carattere più concreto, perché più solidamente fondato in una visione dell'uomo e dello sviluppo.

La dura critica al progetto Renzi da un costituzionalista d'ispirazione liberale. «La governabilità dipende dalla politica, non dalla matematica. Non basta trasformare i deputati in soldatini, e non basta un deputato in più per conseguirla».

Corriere della Sera, 30 aprile 2015

Più che la fiducia, ormai serve la fede. Un atto religioso, non politico. Un giuramento, non un voto. Ieri il governo ha chiesto (e ottenuto) la fiducia dai parlamentari; ma è come se l’avesse chiesta a tutti gli italiani, separando gli infedeli dai fedeli. È infatti questo il retroscritto della legge elettorale: non ne cambio più una virgola, nemmeno quella falsa clausola di salvaguardia che desterà non pochi grattacapi a Mattarella quando dovrà metterci una firma. Non lo faccio perché l’Italicum è già il meglio, perché non si può migliorare il meglio. E voi dovete crederci.

Noi crediamo alle buone intenzioni del presidente del Consiglio. Ne ammiriamo l’energia, ne appoggiamo il progetto d’innovare norme e procedure. Ma quando l’impeto riformatore investe le stesse istituzioni occorre la ragione, non la fede. E il costituzionalismo alleva una ragione scettica, diffidente nei confronti del potere. Perché ha esperienza dell’abuso, sa che l’uomo troppo potente diventa prepotente. Non sarà il caso di Renzi, ma può ben esserlo di chi verrà dopo di lui. D’altronde le regole del gioco durano più dei giocatori.

Da qui il primo dubbio che ci impedisce d’ingoiare l’ostia consacrata. L’Italicum determina l’elezione diretta del premier, consegnandogli una maggioranza chiavi in mano. Introduce perciò una grande riforma della Costituzione, più grandiosa e più riformatrice di quella avviata per correggere le attribuzioni del Senato. Ma lo fa con legge ordinaria, anziché con legge costituzionale . L’ avessero saputo, i nostri costituenti sarebbero saltati sulla sedia. Loro non volevano questa forma di governo, e infatti ne hanno stabilita un’altra.
Dunque l’Italicum stride con la Costituzione vecchia, ma pure con la nuova. Perché quest’ultima toglie al Senato il potere di fiducia, e toglie dunque un contrappeso rispetto al sovrappeso dell’esecutivo. Mentre a sua volta dimagrisce il peso dell’opposizione: con una soglia di sbarramento fissata al 3 per cento, in Parlamento si fronteggeranno un polo e una poltiglia. Eppure basterebbe poco per trasformare i vizi in altrettante virtù. Alzando la soglia dal 3 al 5 per cento, come avviene in Germania. Distribuendo il premio fra tutti gli alleati, o meglio fra i partiti coalizzati che abbiano superato quella soglia minima, per evitare che in futuro si ripeta quanto sperimentò Prodi con Mastella. Rendendo obbligatorio il ballottaggio se nessuno conquista il 45 (non il 40) per cento dei consensi, in modo che il bonus di maggioranza lo decidano sempre gli elettori, anziché il legislatore. E magari aggiungendo un bonus di minoranza, in premio al secondo partito. Come del resto succede in Champions League, dove accedono le prime due del campionato. Ne otterremmo in cambio un’opposizione più forte, non un governo più debole. Nessuno di questi correttivi demolirebbe l’impianto dell’Italicum. Il presidente del Consiglio tuttavia li ha rifiutati, declamando una parola magica: governabilità. Sta a cuore anche a noi, rendere il sistema più efficiente.
Ma la governabilità dipende dalla politica, non dalla matematica. Non basta trasformare i deputati in soldatini, e non basta un deputato in più per conseguirla. La governabilità dei numeri - su cui insiste, per esempio, D’Alimonte - è una formula rozza, oltre che fallace. Quest’ultima deriva viceversa dalla legittimazione dei governi, dunque da regole legittime e da politiche condivise. Altrimenti divamperà l’incendio, sicché a Palazzo Chigi avremo bisogno d’un pompiere. Come disse Leonardo Sciascia in Parlamento (5 agosto 1979): «governabilità nel senso di un’idea del governare, di una vita morale del governare». Ma Sciascia è morto, e neanche noi stiamo troppo bene.
«I muta­menti dell’organizzazione demo­cra­tica e i cam­bia­menti del sistema isti­tu­zio­nale pro­po­sti nei dise­gni di legge rimet­tono in discus­sione il rap­porto che esi­ste tra governo, par­la­mento e cit­ta­dini. Si pone dun­que l’esigenza di rive­dere gli stru­menti di par­te­ci­pa­zione attiva della popo­la­zione.

Il manifesto, 28 aprile 2015 (m.p.r.)

L’isteria con cui il governo avanza nella discus­sione sulla riforma della Costi­tu­zione e sulla legge elet­to­rale è un fatto del tutto nuovo nel nostro paese, e per que­sto deve farci riflet­tere. La neces­sità di attuare le riforme, da noi con­di­visa, non può pre­scin­dere da un per­corso di con­fronto e di ascolto sul merito delle que­stioni, e invece il governo si limita all’affermazione, più volte ripe­tuta dal mini­stro Boschi, «abbiamo già discusso». Le riforme isti­tu­zio­nali per la loro spe­ci­fica natura devono essere appro­vate con il più ampio con­senso e non a colpi di maggioranza.

La Cgil da tempo sostiene il supe­ra­mento del bica­me­ra­li­smo per­fetto, l’istituzione di una Camera rap­pre­sen­ta­tiva delle Regioni e delle auto­no­mie locali e la modi­fica del Titolo V della Costi­tu­zione. La stessa modi­fica del Titolo V appor­tata nel 2001 sulla quale è una­nime il giu­di­zio nega­tivo per aver pro­dotto un con­fuso fede­ra­li­smo con una forte sovrap­po­si­zione tra le pre­ro­ga­tive dello Stato e quelle delle Regioni, ci dimo­stra che non basta volere il cam­bia­mento, biso­gna anche saperlo pro­muo­vere e soprat­tutto qualificare.

Nel merito della discus­sione, ciò che ci pre­oc­cupa mag­gior­mente è il com­bi­nato dispo­sto della modi­fica costi­tu­zio­nale con la nuova legge elettorale.

La riforma costi­tu­zio­nale pro­po­sta dal governo intro­duce un pro­ce­di­mento legi­sla­tivo far­ra­gi­noso e non fa della seconda camera un luogo di rap­pre­sen­tanza delle isti­tu­zioni locali ade­guato a defi­nire un nuovo equi­li­brio isti­tu­zio­nale, reso ancor più neces­sa­rio dall’accentramento di com­pe­tenze legi­sla­tive pre­vi­sto dalle modi­fi­che pro­po­ste nel Titolo V.

Per noi il pro­blema non è l’elezione diretta dei sena­tori, ma quali saranno i poteri della seconda camera del Par­la­mento. Se il Senato deve rap­pre­sen­tare le Regioni e le Auto­no­mie, in una logica di equi­li­brio tra Stato, Regioni e Comuni e con l’obiettivo di eser­ci­tare la neces­sa­ria coo­pe­ra­zione isti­tu­zio­nale tra i dif­fe­renti livelli di governo, deve poter votare le leggi che hanno una rica­duta ter­ri­to­riale, a comin­ciare dalle risorse. Nell’attuale testo di riforma, invece, si attri­bui­sce a Palazzo Madama la pote­stà legi­sla­tiva piena sulla Costi­tu­zione, ma non sui prin­ci­pali prov­ve­di­menti che inte­res­sano Regioni e autonomie.

Que­sta situa­zione, uni­ta­mente ad una legge elet­to­rale come l’Italicum, che pre­vede un bal­lot­tag­gio con regole sba­gliate e deter­mina una grave incer­tezza su chi sce­glie real­mente i depu­tati che sie­de­ranno a Mon­te­ci­to­rio, potrebbe por­tare ad una peri­co­losa con­tra­zione democratica.

Nella legge elet­to­rale, noi non con­te­stiamo che il pre­mio di mag­gio­ranza venga dato al secondo turno, ma rite­niamo che per quest’ultimo deb­bano valere regole diverse da quelle con­te­nute nel testo gover­na­tivo. L’Italicum non pre­vede né la pos­si­bi­lità dell’apparentamento, né una soglia che per­metta il bal­lot­tag­gio uni­ca­mente tra par­titi con una rap­pre­sen­tanza pari, almeno, al 50% degli elet­tori del primo turno, come avviene in Fran­cia per l’elezione dell’assemblea nazio­nale, dove in caso di man­cato supe­ra­mento di tale soglia il bal­lot­tag­gio è allar­gato ai primi tre candidati.

Senza que­ste pre­vi­sioni si rischia di dare la mag­gio­ranza asso­luta dei seggi a una forza poli­tica che ha con­qui­stato solo il 20% dei voti al primo turno. Al con­tra­rio, l’auspicata sem­pli­fi­ca­zione isti­tu­zio­nale che si avrebbe con il supe­ra­mento del bica­me­ra­li­smo per­fetto, richiede neces­sa­ria­mente un sistema elet­to­rale in grado di garan­tire un forte man­dato ai depu­tati, che renda l’aula di Mon­te­ci­to­rio la sede della rap­pre­sen­tanza poli­tica del paese in tutta la sua com­ples­sità, senza mor­ti­fi­care, in nome del prin­ci­pio di gover­na­bi­lità che deve essere comun­que tute­lato, il plu­ra­li­smo politico.

I muta­menti dell’organizzazione demo­cra­tica posti dalla moder­nità e i cam­bia­menti del sistema isti­tu­zio­nale pro­po­sti nei dise­gni di legge rimet­tono in discus­sione il rap­porto che esi­ste tra governo, par­la­mento e cit­ta­dini. Si pone dun­que l’esigenza di rive­dere, in modo ade­guato, gli stru­menti di par­te­ci­pa­zione attiva della popo­la­zione. Su que­sto fronte pen­siamo che con la riforma costi­tu­zio­nale si sia persa un’occasione: il governo ha appor­tato delle pic­cole e insuf­fi­cienti modi­fi­che al refe­ren­dum abro­ga­tivo e alla pro­po­sta di legge di ini­zia­tiva popo­lare, e nel pre­ve­dere l’istituzione del refe­ren­dum pro­po­si­tivo e di indi­rizzo lo ha riman­dato ad una suc­ces­siva legge costi­tu­zio­nale, senza fis­sarne cri­teri e para­me­tri, rin­vian­done di fatto la reale introduzione.

Poi­ché siamo nell’epoca delle isti­tu­zioni sovra­na­zio­nali e della velo­cità, c’è biso­gno di rie­qui­li­brare il rap­porto tra governo, par­la­mento e popolo attra­verso un’idea della demo­cra­zia che pre­veda l’espressione del popolo nel merito delle grandi scelte. Que­sta, secondo noi, deve essere la nuova fron­tiera degli stati demo­cra­tici moderni e deve diven­tare il prin­ci­pio di governo anche nei grandi stati, non solo nei pic­coli, altri­menti si rischia una demo­cra­zia rove­sciata in cui i governi deci­dono e i popoli si devono adeguare.

Danilo Barbi è Segretario confederale Cgil
«Al di là dei rituali cele­bra­tivi, se oggi tor­niamo a riflet­tere sul senso e sull’attualità del 25 aprile non è solo per la sod­di­sfa­zione di ciò che abbiamo con­se­guito ma soprat­tutto per l’insoddisfazione di ciò che non è stato rea­liz­zato».

Il manifesto, 26 aprile 2015

Ven­ti­cin­que aprile settant’anni dopo. Il filo rosso della memo­ria è il tenue rac­cordo che ha attra­ver­sato que­sti sette decenni rima­nendo uguale a se stesso. Ma intorno tutto o quasi è cam­biato o sta cam­biando. Que­sto vale per il con­te­sto euro­peo come per lo stesso con­te­sto ita­liano. Non si tratta sol­tanto di un ovvio e natu­rale cam­bia­mento gene­ra­zio­nale, che pure ha il suo peso, ma di qual­cosa di più pro­fondo che segnala muta­menti di punti di vista, muta­menti di pro­spet­tive poli­ti­che, muta­menti di ana­lisi sto­ri­che, in una parola muta­menti di cultura.

In que­sto pro­cesso c’è qual­cosa che va al di là dell’esito natu­rale del tra­scor­rere del tempo. Che ogni gene­ra­zione e al limite ogni indi­vi­duo inter­pre­tino il 25 aprile a modo loro, muo­vendo dall’unico dato certo comune della con­clu­sione della lotta di libe­ra­zione dal nazi­fa­sci­smo, è un fatto ovvio e dif­fi­cil­mente con­te­sta­bile. Ciò che non era pre­ve­di­bile e che rap­pre­senta il fatto nuovo con il quale ci tro­viamo a fare i conti è la pre­senza in que­sto set­tan­te­simo anni­ver­sa­rio di quelli che siamo ten­tati di chia­mare strappi della sto­ria. Chi ha vis­suto que­sti settant’anni non può certo avere inte­rio­riz­zato una visione idil­liaca ma quanto meno lineare del per­corso di que­sti decenni.

Al di là dei rituali cele­bra­tivi, se oggi tor­niamo a riflet­tere sul senso e sull’attualità del 25 aprile non è solo per la sod­di­sfa­zione di ciò che abbiamo con­se­guito ma soprat­tutto per l’insoddisfazione di ciò che non è stato rea­liz­zato. Il 25 aprile del 1945 la ricon­qui­sta della libertà sot­to­li­neando lo scam­pato peri­colo dal rischio che l’umanità aveva corso di soc­com­bere alla bar­ba­rie del nazi­fa­sci­smo, sem­brò aprire la pro­spet­tiva di una uscita dalla crisi rela­ti­va­mente indo­lore. La capa­cità della rico­stru­zione in Ita­lia fu un esem­pio di quanto una popo­la­zione aperta alla spe­ranza è in grado di rea­liz­zare. Ripren­dersi la vita dopo le sof­fe­renze e le umi­lia­zioni della dit­ta­tura e della guerra era una parola d’ordine e una ragione suf­fi­ciente per rial­zare la schiena e segna­lare la volontà di tor­nare a contare.

Allora, settant’anni fa la quiete dopo la tem­pe­sta ali­mentò l’impressione che le grandi cesure dei decenni pre­ce­denti si stes­sero chiu­dendo. Un dif­fuso ma gene­rico euro­pei­smo sem­brò annun­ciare la paci­fi­ca­zione e rimar­gi­nare le ferite di un con­ti­nente che era stato dila­niato da una lunga guerra che aveva dato sfogo a lotte inte­stine di nazio­na­li­smi con­trap­po­sti e di sistemi poli­tici incompatibili.

Ma il mondo non poteva tor­nare ad essere quello di prima del 1939. Troppi equi­li­bri erano sal­tati e la ricerca di nuovi punti di rife­ri­mento den­tro e fuori dell’Europa mise in evi­denza il ridi­men­sio­na­mento della vec­chia Europa, inco­min­ciato già con la prima guerra mon­diale, l’ascesa degli Stati uniti d’America, il nuovo ruolo nella stessa Europa e a livello mon­diale dell’Unione Sovie­tica, l’accelerazione della deco­lo­niz­za­zione desti­nata a dare il colpo di gra­zia al pri­mato mon­diale dell’Europa. Non era sol­tanto un equi­li­brio geo­po­li­tico, ma gli stessi popoli libe­rati dal nazi­fa­sci­smo si tro­va­vano a dovere rico­struire le basi della con­vi­venza civile.

Pochi tra i paesi libe­rati pote­rono ripri­sti­nare le isti­tu­zioni e lo sta­tuto poli­tico sospesi dall’occupazione delle potenze dell’Asse. La mag­gior parte dei paesi libe­rati si trovò ad ela­bo­rare nuovi sta­tuti poli­tici; la crisi dell’Europa sfo­ciata nella guerra non era stata sol­tanto crisi di ege­mo­nia e delle rela­zioni fra i popoli, era stata anche crisi di un modello poli­tico, tra i gua­sti di una demo­cra­zia in disfa­ci­mento e le ten­ta­zioni auto­ri­ta­rie e cor­po­ra­tive di com­pa­gini sta­tuali più o meno improv­vi­sate che cer­ca­vano di sup­plire al defi­cit di tra­di­zioni demo­cra­ti­che con la scor­cia­toia della dema­go­gia corporativa.

La guerra sep­pellì sotto le sue mace­rie que­sta Europa inver­te­brata (ram­men­tata, piena di con­trad­di­zioni e priva di fidu­cia in se stessa). Nelle diverse parti dell’Europa i movi­menti di Resi­stenza rap­pre­sen­ta­rono la pro­te­sta e la rispo­sta ai dilemmi in cui la guerra e le occu­pa­zioni pre­ci­pi­ta­rono i rispet­tivi paesi.

I settant’anni tra­scorsi ci hanno inse­gnato che gli ele­menti di paci­fi­ca­zione intra­vi­sti, o forse solo auspi­cati, nel 1945 erano più insta­bili e più prov­vi­sori di quanto si sarebbe potuto spe­rare. Breve è stata la memo­ria degli indi­vi­dui per rea­liz­zare i bene­fici e le poten­zia­lità nella tre­gua dei con­flitti. Lo sce­na­rio che oggi si pre­senta in Europa e nel mondo ci induce a pen­sare che il ricordo del 25 aprile non si può esau­rire in un richiamo cele­bra­tivo o tanto meno nostal­gico; esso è piut­to­sto un per­ma­nente cam­pa­nello d’allarme, un appello a stare all’erta per­ché le insi­die con­tro la pace e con­tro i valori per i quali si è com­bat­tuto nella Resi­stenza tor­nano a frap­porsi sul cam­mino dell’umanità.

Se ci era­vamo illusi che il fasci­smo fosse stato debel­lato per sem­pre, il riaf­fio­rare a più livelli e in diverse parti d’Europa di movi­menti di estrema destra sol­le­cita una nuova “chia­mata alle armi”; il fatto che esso si pre­senti in forme diverse dal fasci­smo sto­rico non esime dal rico­no­scerne le ascen­denze e la peri­co­lo­sità, anche se non ha alle spalle il rife­ri­mento di una isti­tu­zione sta­tuale per­ché la sua peri­co­lo­sità risiede pro­prio nella sua dif­fu­sione come fasci­smo quotidiano.

Si è affie­vo­lita la sen­si­bi­lità al raz­zi­smo che la crisi economico-sociale ha rivi­ta­liz­zato spesso masche­rando latenti con­flitti di classe con fat­tori più facil­mente per­ce­pi­bili anche ad una sen­si­bi­lità popo­lare. Negli scon­tri tra popoli le riven­di­ca­zioni iden­ti­ta­rie hanno rie­su­mato forme di intol­le­ranza reli­giosa al limite di un nuovo asso­lu­ti­smo. Nuovi con­flitti di ege­mo­nie che spesso rical­cano le orme di una vec­chia geo­po­li­tica ten­dono a ripro­durre tra gli stati gerar­chie che sem­brano supe­rate: alcuni stati tor­nano ad essere più sovrani di altri.

In que­sto con­te­sto il 25 aprile non può essere solo la festa della libe­ra­zione. Deve essere l’occasione di una vigile rifles­sione sul suo signi­fi­cato sto­rico di tappa di un cam­mino che non è ter­mi­nato ma che dal giorno della libe­ra­zione trae la spinta per affron­tare gli osta­coli che ancora si frap­pon­gono al con­so­li­da­mento di una società demo­cra­tica sem­pre più compiuta.

Il manifesto, 26 aprile 2015

Il rap­porto tra discorso pub­blico e Libe­ra­zione ha cono­sciuto fasi molto diverse, a volte con­tra­stanti. Si pos­sono cer­ta­mente indi­vi­duare delle costanti, ma è ancora più utile riflet­tere sui muta­menti di fase e sulle loro impli­ca­zioni. Del resto è un feno­meno che si svi­luppa in forma sostan­zial­mente auto­noma rispetto alla sto­rio­gra­fia, che pro­cede in paral­lelo: non è certo inin­fluente, ma viene rece­pita, quando accade, molto tempo dopo.

È signi­fi­ca­tivo che una reto­rica uffi­ciale prenda forma prima ancora del com­ple­ta­mento degli eventi. Nasce infatti nel 1944, quando viene già isti­tuita una «gior­nata del par­ti­giano», fis­sata, per sot­tile e incon­sa­pe­vole iro­nia delle date, al 18 aprile. C’è una grande enfasi attorno ai com­bat­tenti ita­liani, in divisa e per bande, che deve ser­vire a faci­li­tare quelle che ven­gono imma­gi­nate nor­mali trat­ta­tive di pace. Non ser­virà a molto su que­sto ter­reno, ma per altri versi non sarà affatto inu­tile: la nuova imma­gine degli ita­liani si costrui­sce anche attra­verso il rico­no­sci­mento inter­na­zio­nale dell’esistenza di com­bat­tenti ita­liani per la libertà.

Ma notiamo subito alcune carat­te­ri­sti­che che reste­ranno a lungo impresse nel discorso pub­blico attorno a quella che poi, a cose fatte, verrà defi­nita, sull’esempio fran­cese, Resi­stenza. Il carat­tere pres­so­ché esclu­si­va­mente patriot­tico, da subito col­le­gato – come pro­ba­bil­mente era «natu­rale» che fosse – all’esperienza risor­gi­men­tale. E il carat­tere lar­ga­mente asso­lu­to­rio del richiamo ad essa: Resi­stenza uti­liz­zata come lava­cro delle colpe col­let­tive, delle com­pli­cità, dei ritardi e dell’acquiescenza della società ita­liana nei con­fronti del regime fasci­sta. L’illusione di far parte del novero dei vin­ci­tori («anche l’Italia ha vinto» tito­lava una rivi­sta già alla libe­ra­zione della Capi­tale). Infine, come era ine­vi­ta­bile in quel con­te­sto, il rilievo pre­pon­de­rante se non esclu­sivo attri­buito all’elemento della guerra in armi, sacri­fi­cando mol­tis­sime com­po­nenti dell’esperienza resi­sten­ziale che emer­ge­ranno len­ta­mente e con fatica nei decenni successivi.

Ma su tutto que­sto irrompe una bru­sca cesura a par­tire dal 1947, con la rot­tura dell’unità anti­fa­sci­sta e con l’ingresso a pieno titolo dell’Italia nel mondo che ci abi­tue­remo a defi­nire della «guerra fredda». Improv­vi­sa­mente la Resi­stenza cessa di essere una risorsa e diviene una com­pli­ca­zione, talora un far­dello per i gover­nanti. Si inau­gura quello che potremmo defi­nire il falso pro­blema della «guerra civile», che con­tra­ria­mente a quanto si dirà in seguito incombe nel discorso pub­blico (verrà dismesso solo a par­tire dagli anni Ses­santa) e in ter­mini ancor più depre­ca­tivi («guerra fra­tri­cida» sarà la for­mula ufficiale).

In gran parte falso pro­blema per­ché già ampia­mente risolto in ter­mini giu­ri­dici dall’amnistia del 1946, per­ché le sue dimen­sioni erano state cir­co­scritte in ter­mini minimi rispetto a «vere» guerre civili come quella spa­gnola o ad altri feno­meni, dif­fu­sis­simi, di col­la­bo­ra­zio­ni­smo nel corso del con­flitto. Infine per­ché il paese aveva già cono­sciuto un’autentica guerra fra ita­liani nel corso di quello stesso Risor­gi­mento cui la memo­ria pub­blica si richia­mava con acco­sta­mento pres­so­ché obbli­gato nelle cele­bra­zioni del 25 aprile.

Die­tro lo schermo della «guerra civile» si cela­vano però frat­ture desti­nate a rima­nere irri­solte nella coscienza nazio­nale. In primo luogo il pro­blema che potremmo defi­nire della lenta e dif­fi­cile meta­bo­liz­za­zione del fasci­smo da parte della società ita­liana: un lascito di men­ta­lità, cul­ture e con­sue­tu­dini che agiva sot­to­trac­cia ben al di là dell’apparente una­ni­mità del ripu­dio che aveva segnato i mesi della caduta di Mus­so­lini. In secondo luogo, dif­fi­cile da cogliere oltre l’ufficialità delle nar­ra­zioni, ope­rava la sovrap­po­si­zione tra Costi­tu­zione scritta sulla base dei valori dell’antifascismo e «costi­tu­zione mate­riale» anti­co­mu­ni­sta su cui si model­lava il nuovo potere delle classi diri­genti. Una ten­sione con­flit­tuale che rie­mer­gerà in mol­tis­simi momenti della vita repub­bli­cana, e che oltre­pas­serà anche i con­fini di quella che verrà defi­nita «Prima Repubblica».

Que­sto clima comin­cia a incri­narsi in occa­sione del primo Decen­nale, mal­grado la divi­sione per­du­rante tra le stesse orga­niz­za­zioni par­ti­giane. L’elezione di Gio­vanni Gron­chi, con un richiamo diretto alla Resi­stenza, guerra di popolo, e soprat­tutto con la con­sta­ta­zione che una Costi­tu­zione esi­steva e andava attuata al più pre­sto (si par­tirà a breve con la Corte costi­tu­zio­nale) era un segnale di muta­mento. Nella lun­ghis­sima incu­ba­zione del cen­tro­si­ni­stra gio­cherà un ruolo anche il reci­proco rico­no­sci­mento nei valori riaf­fer­mati della tra­di­zione antifascista.

La vera svolta si avrà nel luglio 1960, con la prova di forza vinta da un anti­fa­sci­smo vec­chio e nuovo, fatto anche di gio­va­nis­simi, con­tro il ten­ta­tivo di tor­nare indie­tro da parte del blocco cle­ri­co­fa­sci­sta che si era rico­no­sciuto nell’avventura di Tam­broni. Da que­sto momento in poi Resi­stenza e anti­fa­sci­smo diver­ranno a lungo cen­trali nel nuovo discorso pubblico.

Con qual­che ambi­guità per­du­rante, che replica i vizi di ori­gine, a volte per­fino ingi­gan­ten­doli. La for­mula cano­nica del «popolo unito con­tro la tiran­nide» che diviene ricor­rente nell’oratoria uffi­ciale nel tempo della pre­si­denza di Sara­gat è ancor più asso­lu­to­ria e ingan­na­trice di quanto non fosse stata la reto­rica delle ori­gini repub­bli­cane. Men­tre una nuova Ger­ma­nia farà rie­mer­gere pro­prio a par­tire dalla fine degli anni Ses­santa la grande rimo­zione del pas­sato nazi­sta, met­terà sotto accusa la «gene­ra­zione dei padri» e intro­durrà il tema deci­sivo delle «respon­sa­bi­lità col­let­tive», in Ita­lia que­sto appun­ta­mento verrà man­cato e la pro­ble­ma­tica del «con­senso» al fasci­smo sarà desti­nata ad affio­rare sotto un segno com­ple­ta­mente diverso, non pro­durrà sensi di colpa ma invece il sol­lievo della con­ferma di un giu­di­zio bona­rio e mini­miz­zante nei con­fronti dell’esperienza fasci­sta dive­nuto ormai vox populi.

Le ambi­guità saranno pre­senti anche nel discorso di una «nuova sini­stra» che in gran parte anima le mani­fe­sta­zioni e che nel rap­porto con la sto­ria si muo­verà in ter­mini molto diversi rispetto ai coe­ta­nei tede­schi. A lungo la Resi­stenza verrà sot­to­va­lu­tata e quasi messa sotto accusa per non aver dato luogo a un esito «rivo­lu­zio­na­rio». Alla svolta degli anni Set­tanta sarà improv­vi­sa­mente rein­ven­tata in forma favo­li­stica, scam­biando una parte per il tutto e attri­buendo al popolo ita­liano una pro­pen­sione rivo­lu­zio­na­ria in gran parte illu­so­ria. Tra le oppo­ste reto­ri­che di Resi­stenza «rossa» e «tri­co­lore» corre spesso il rischio di venire stri­to­lata la Resi­stenza popo­lare e civile, delle donne e degli uomini comuni, nella sua plu­ra­lità di pra­ti­che e di moti­va­zioni, che con grande fatica e con un lungo e impo­nente lavoro di scavo e di rifles­sione gli sto­rici faranno emer­gere con chia­rezza negli anni suc­ces­sivi. E che com­pren­deva ine­vi­ta­bil­mente memo­rie diverse, anche «divise» e con­flit­tuali come si sco­prirà tar­di­va­mente in seguito, che pote­vano rico­no­scersi e ricon­ci­liarsi, ma non avreb­bero mai potuto con­ver­gere in una «memo­ria unica», stra­va­ganza con­cet­tuale degna di un regime totalitario.

A par­tire dagli anni Ottanta l’antifascismo e — per la prima volta — anche la Costi­tu­zione saranno visti come osta­coli sulla strada della «moder­niz­za­zione» del paese. L’Italia pren­derà, di fatto, una strada diversa rispetto all’evoluzione della coscienza occi­den­tale, che pro­prio in que­gli anni, anche attra­verso una nuova con­sa­pe­vo­lezza della por­tata della Shoah, riflet­terà sull’enormità del pro­blema sto­rico del fasci­smo euro­peo, del suo radi­ca­mento, del con­senso otte­nuto e della cata­strofe inne­scata. Si apri­ranno, anche su que­sto ter­reno, i ter­mini di una nuova «ano­ma­lia ita­liana», che segne­ranno una lunga fase della sto­ria italiana.

Gli anni della «Seconda Repub­blica» sem­bre­ranno per quasi un ven­ten­nio domi­nati dall’ansia di offrire una legit­ti­ma­zione sto­rica alla nuova destra, in larga misura estra­nea oppure ostile alla Libe­ra­zione, e che emerge con ampio con­senso dopo il dis­sol­vi­mento del vec­chio equi­li­brio. Ascol­te­remo nei discorsi uffi­ciali di pre­si­denti e mini­stri il richiamo ricor­rente alla «buona fede» dei fasci­sti scon­fitti, attri­buendo rilievo e cen­tra­lità a una con­sta­ta­zione di bana­lità disar­mante, per­ché la buona fede in genere sul piano sto­rico non si nega a nes­suno, ed era attri­bui­bile a giu­sto titolo anche alle SS. Negli stessi discorsi di inse­dia­mento dei Pre­si­denti della Repub­blica il richiamo alle «ragioni» della parte scon­fitta nel 1945 appa­rirà improv­vi­sa­mente pro­blema attuale di cui farsi carico, fino all’eccezione rap­pre­sen­tata da Ser­gio Mat­ta­rella che con un lim­pido e det­ta­gliato richiamo alla Costi­tu­zione anti­fa­sci­sta porrà fine a quella pra­tica discorsiva.

L’antifascismo appa­rirà ine­vi­ta­bil­mente sulla difen­siva, costretto a bat­ta­glie talora di retro­guar­dia, nelle lun­ghe pole­mi­che sul cosid­detto «revi­sio­ni­smo», ma in grado ancora di mobi­li­ta­zioni impo­nenti, come nella grande mani­fe­sta­zione pro­mossa da que­sto gior­nale a Milano nel 1994 subito dopo lo sfon­da­mento elet­to­rale della destra. E riu­scirà anche a respin­gere nel refe­ren­dum del 2006 (con uno schie­ra­mento ani­mato dall’ex-presidente Oscar Luigi Scal­faro) l’imposizione di una nuova Costi­tu­zione sbi­lan­ciata sul ter­reno del «deci­sio­ni­smo» e del pri­mato dell’esecutivo, e che pre­fi­gu­rava anche il venir meno della coe­sione nazio­nale attra­verso i mec­ca­ni­smi della cosid­detta «devo­lu­zione» a favore dei par­ti­co­la­ri­smi regionali.

Si era trat­tato, come oggi com­pren­diamo bene, di una vit­to­ria appa­rente. La fase che viviamo appare domi­nata, a ben vedere, dalla ten­sione tra l’affermazione, non più messa in discus­sione, dei valori sto­rici della Libe­ra­zione e il disgre­garsi in paral­lelo del mondo di idee e di prin­cìpi che ave­vano pro­dotto, dal venir meno delle con­qui­ste di una civiltà repub­bli­cana pro­gres­si­va­mente svuo­tata dei suoi carat­teri ori­gi­nari e qualificanti.

Ben oltre la chias­sosa destra ita­liana, la civiltà costi­tu­zio­nale del nostro paese (e non solo del nostro) è entrata nel mirino delle nuove entità imper­so­nali che gover­nano il mondo e tra­sci­nano l’Europa al sui­ci­dio. Nel mag­gio 2013 un gigante della finanza glo­bale dirà espli­ci­ta­mente che le Costi­tu­zioni anti­fa­sci­ste nate dopo la seconda guerra mon­diale vanno rite­nute un osta­colo per la «moder­niz­za­zione» e l’«integrazione» dei sistemi eco­no­mici in Europa. Poli­tici dive­nuti zelanti sud­diti di quella volontà met­tono in atto un mec­ca­ni­smo ine­so­ra­bile che con­duce in quella direzione.

Per que­sto negli ultimi anni la ricor­renza del 25 aprile appare sem­pre di più una mesta ceri­mo­nia degli addii. Un pren­dere con­gedo dal mondo in cui ave­vamo vis­suto, dalle nostre spe­ranze e dalle nostre conquiste.

L’ossequio este­riore alla Libe­ra­zione non è più messo in discus­sione, ed essa viene cele­brata da cor­tei di popolo, da donne e uomini che dif­fi­cil­mente pos­sono ren­dersi conto di vivere la stessa situa­zione descritta in una famosa poe­sia di Bre­cht, incon­sa­pe­voli del fatto che «alla loro testa mar­cia il nemico».

Con ogni pro­ba­bi­lità la nostra demo­cra­zia par­la­men­tare verrà abo­lita can­tic­chiando Bella ciao. La Libe­ra­zione tor­nerà a essere, come è stata a lungo nella sto­ria ita­liana, fuoco che cova sotto la cenere, in attesa di venire rivi­ta­liz­zato da nuovi eredi

Ezio Mauro intervista il Presidente della Repubblica. «La nostra Costituzione è il frutto della lotta antifascista contro la dittatura e la guerra. La qualifica di resistenti va estesa non solo ai partigiani ma ai militari che rifiutarono di arruolarsi nelle brigate nere». La Repubblica, 24 aprile 2015


Signor Presidente, lei ha attraversato la vita politica e istituzionale di questo Paese, ha vissuto la sfida delle Brigate Rosse alla democrazia, ha fronteggiato anche l’emergenza criminale più acuta. Che cosa legge nella data del 25 aprile, settant’anni dopo la Liberazione?

«Il Paese è fortemente cambiato, come il contesto internazionale. Non c’è più, fortunatamente, la necessità di riconquistare i valori di libertà, di democrazia, di giustizia sociale, di pace che animarono, nel suo complesso, la Resistenza. Oggi c’è la necessità di difendere quei valori, come è stato fatto contro l’assalto del terrorismo, come vien fatto e va fatto sempre di più contro quello della mafia. La democrazia va sempre, giorno dopo giorno, affermata e realizzata nella vita quotidiana. Il 25 aprile fu lo sbocco di un vero e proprio moto di popolo: la qualifica di “resistenti” va estesa non solo ai partigiani, ma ai militari che rifiutarono di arruolarsi nelle brigate nere e a tutte le donne e gli uomini che, per le ragioni più diverse, rischiarono la vita per nascondere un ebreo, per aiutare un militare alleato o sostenere chi combatteva in montagna o nelle città».

Ha ragione Calvino: pietà per i morti ma è impossibile equiparare i giovani di Salò e i partigiani. Io penso che questo moto di rifiuto e di ribellione organizzata al fascismo e al nazismo, con la lotta armata, rappresenti un elemento fondamentale nella storia morale dell’Italia. Quell’esperienza parziale ma decisiva di ribellione nazionale, italiana, alla dittatura fascista è infatti il nucleo autonomo e sufficiente per rendere la nostra democrazia e la nostra libertà non interamente «octroyé» dagli Alleati che hanno liberato gran parte del Paese, ma riconquistate. Non crede che proprio qui nasca il fondamento morale della democrazia repubblicana?

«Ricordo che Aldo Moro definiva il suo partito, oltre che popolare e democratico, come «antifascista»: per lui si trattava di un elemento caratterizzante, appunto identitario, della politica italiana. Naturalmente nella nostra democrazia confluiscono anche altri elementi storici nazionali, ma quello dell’antifascismo ne costituisce elemento fondante. La Resistenza italiana mostrò al mondo la volontà di riscatto degli italiani, dopo anni di dittatura e di guerra di conquista. Non si può dimenticare il contributo che molte operazioni dei partigiani diedero all’accelerazione dell’avanzata alleata. Basti citare l’esempio di Genova, dove il comando tedesco trattò la resa direttamente con i partigiani. Il presidente Ciampi ha il merito di aver riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il ruolo fondamentale che le forze armate italiane ebbero nella Liberazione. Cosa sarebbe successo se questi militari italiani avessero deciso in massa di arruolarsi nell’esercito della Repubblica Sociale? Quanto sarebbe stata più faticosa per gli Alleati l’avanzata sul territorio italiano e con quante perdite? La Resistenza, la cobelligeranza, pesarono sul tavolo delle trattative di pace».

Lei aveva quattro anni nel 1945. Ha dei ricordi familiari nei racconti di quei giorni?

«Mio padre era antifascista. Diciannovenne, nell’anno del delitto Matteotti, aveva fondato nel suo comune la sezione del Partito popolare di Sturzo; e aveva subito percosse e olio di ricino. Il giornale che dirigeva come presidente dell’Azione Cattolica di Palermo prese una posizione molto dura contro le leggi razziali e fu sequestrato più volte. Lanciò, via radio, dalla Sicilia già libera, un appello agli italiani delle regioni ancora sotto l’occupazione nazista e di Salò: partecipava, così, idealmente alla lotta della Resistenza e faceva parte dei primi governi del Cln mentre il Nord Italia veniva via via liberato dagli alleati e dai partigiani. Sono cresciuto nel culto delle figure di don Minzoni, Giacomo Matteotti, don Morosini, Teresio Olivelli».

È per queste ragioni che subito dopo la sua elezione al Quirinale ha voluto rendere omaggio alle Fosse Ardeatine?

«Mi è parso naturale, e doveroso, ricordare sia a me stesso, nel momento in cui venivo eletto presidente della Repubblica, sia ai nostri concittadini quanto dolore, quanto impegno difficile e sofferto hanno permesso di ritrovare libertà e democrazia. L’abitudine a queste, talvolta, rischia di inaridire il modo di guardare alle istituzioni democratiche, pur con tutti i difetti che se ne possono evidenziare, rifiutando di impegnarvisi o anche soltanto di seguirne seriamente la vita. Questo mi fa ricordare la lettera di un giovanissimo condannato a morte della Resistenza che, la sera prima di essere ucciso, scriveva ai genitori che il dramma di quei giorni avveniva perché la loro generazione non aveva più voluto saperne della politica. Inoltre, oggi, assistiamo al riemergere dell’odio razziale e del fanatismo religioso: i morti delle Ardeatine è come se ci ammonissero continuamente, ricordandoci che mai si può abbassare la guardia sulla difesa strenua dei diritti dell’uomo, del sistema democratico».

Lei è stato anche giudice della Corte costituzionale: dove sente la nostra Carta fondamentale più fedele ai valori della Resistenza? Condivide il giudizio di Norberto Bobbio secondo il quale il grande risultato della Resistenza è stata la Costituzione, perché portò la democrazia italiana «molto più avanti di quella che era stata prima del fascismo»?

«Della Costituzione vanno sempre richiamati, anzitutto, l’affermazione dei diritti delle persone, che preesistono allo Stato, e il dovere della Repubblica di realizzare condizioni effettive di uguaglianza fra i cittadini. Si tratta di punti centrali con cui i Costituenti hanno caratterizzato la nostra convivenza e che hanno dato risposta al desiderio di libertà e di giustizia di chi si batteva per liberare l’Italia. Bobbio diceva bene: non vi è dubbio che la Costituzione, dopo la dittatura, la ribellione e la resistenza non poteva che essere molto diversa da quella prefascista, disegnando una democrazia molto più avanzata, una Repubblica con finalità più ambiziose e doveri più grandi verso la società, del resto in linea con gli apporti culturali della gran parte della forze politiche dell’Assemblea Costituente».

Cosa pensa della polemica dei decenni passati sulla «Resistenza tradita», che ancora riemerge?

«Le risponderò con una citazione del presidente Napolitano. Parlando a Genova il 25 aprile del 2008, disse con estrema chiarezza: “Vorrei dire che in realtà c’è stato solo un mito privo di fondamento storico reale e usato in modo fuorviante e nefasto: quello della cosiddetta «Resistenza tradita», che è servito ad avvalorare posizioni ideologiche e strategie pseudo-rivoluzionarie di rifiuto e rottura dell’ordine democratico-costituzionale scaturito proprio dai valori e dall’impulso della Resistenza”. Condivido dalla prima all’ultima parola».

C’era in quella formula un sentimento che potremmo definire di «delusione rivoluzionaria», da parte di chi nel mondo comunista vedeva nella guerra di Liberazione una rivoluzione sociale: ma in realtà non crede che il vero tradimento della Costituzione sia avvenuto negli anni delle stragi di Stato, dei depistaggi, delle verità negate, delle infiltrazioni piduiste nei vertici degli apparati di Stato?

«Ogni movimento di liberazione porta con sé l’orizzonte e la ricerca di un ordine pienamente giusto e risolutivo dei temi della convivenza. Ma io credo che nessuno, oggi, guardando indietro possa ignorare che in Italia si è sviluppata una profonda e pacifica rivoluzione sociale: territori e fasce sociali, un tempo povere e del tutto escluse, hanno visto una radicale crescita. Il rammarico è che questo non sia avvenuto in maniera ben distribuita e ovunque e che il divario con il Mezzola giorno abbia ripreso ad aumentare. Ma chi ricorda le condizioni economiche e sociali dell’Italia negli anni Quaranta e Cinquanta può valutarne le trasformazioni intervenute nei decenni successivi. Va anche sottolineato che quel processo di crescita, difettoso per diversi profili, si è realizzato salvaguardando la democrazia, malgrado quel che è stato tentato per travolgerla, con insidie, come la loggia P2, aggressioni violente e stragi. Quelle trame a cui lei fa riferimento avevano un disegno e un obbiettivo comune. Quello di abbattere lo Stato democratico, di cancellare la Costituzione del 1948, di aprire la strada a un regime tendenzialmente autoritario. In questo senso, i terrorismi di qualsiasi colore — fatte salve tutte le diversità ideologiche, politiche e culturali — avevano un nemico in comune. Vi sono stati tradimenti della Costituzione ma va anche detto che le istituzioni e le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, hanno resistito. Il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro ne costituiscono prova evidente».

Il terrorismo rosso che ha insanguinato l’Italia si è richiamato alla guerra partigiana: la sinistra operaia ha respinto quel progetto, e lo Stato democratico lo ha sconfitto. È stata questa la minaccia più forte per la democrazia repubblicana nata dalla Liberazione? Lei ha vissuto quegli anni, la tragedia Moro in particolare. Sente oggi come altrettanto grave la sfida del terrorismo jihadista? Non crede che oggi come allora, con tutte le differenze necessarie, lo Stato abbia il diritto di difendersi e di difendere i suoi cittadini che gli hanno concesso il monopolio della forza, ma insieme abbia anche il dovere di farlo rimanendo fedele alle regole democratiche e di legalità che la democrazia impone a se stessa?
«La lotta al terrorismo fu condotta dallo Stato senza sospendere le libertà civili e democratiche. Fondamentale, per battere il terrorismo, è stata l’unità di po- polo. I brigatisti rossi capirono ben presto che la loro sconfitta era avvenuta prima sul piano politico — nel rifiuto, cioè, delle masse operaie, di seguirli nella lotta armata — che sul piano militare o di polizia. Basti pensare al sacrificio di Guido Rossa. Nel caso del terrorismo degli anni Settanta e Ottanta la minaccia proveniva dall’interno. Oggi abbiamo una o più entità esterne, presenti in Paesi diversi, che incitano su Internet alla guerra santa contro l’Occidente e che confidano in una rivolta spontanea dei musulmani presenti all’interno di quei Paesi che si vorrebbero sottomettere al Califfato. Non c’è dubbio che si tratti di una minaccia nuova e insidiosa. La risposta alla globalizzazione del terrore non può essere cercata che nella solidarietà internazionale (la stessa per cui molti cooperanti mettono a rischio la vita, come è successo a Giovanni Lo Porto) e nella collaborazione sempre più stretta tra i Paesi che condividono gli stessi ideali di democrazia, di convivenza e di tolleranza. La sfida è, oggi come ieri, molto impegnativa. Non c’è dubbio che la società aperta e accogliente abbia dei rischi in più in termini di sicurezza rispetto a uno Stato di polizia. Ma possiamo chiedere ai cittadini europei di sobbarcarsi qualche fastidio o controllo in più, non certo di vedersi limitare diritti e prerogative che ormai sono patrimonio comune e irrinunciabile. Tradiremmo la nostra storia e i nostri valori».
Ma la Resistenza negli ultimi vent’anni è stata anche oggetto di una lettura revisionista che ha criticato la «mitologia» resistenziale e il suo uso politico da parte comunista, che pure c’è stato, attaccando il legame tra la ribellione partigiana al fascismo e la nascita delle istituzioni democratiche e repubblicane. Qual è il suo giudizio? Perché non c’è una memoria condivisa su una vicenda che dovrebbe rappresentare il valore fondante dell’Italia repubblicana?

«Stiamo parlando di una guerra che ha avuto anche aspetti fratricidi. Credo che sia molto difficile, quando si hanno avuto familiari caduti, come si dice adesso, “dalla parte sbagliata” o si è stati vittime di soprusi o di vendette da parte dei nuovi vincitori, costruire su questi fatti una memoria condivisa. Pietro Scoppola, nell’infuriare della polemica storico-politica sul revisionismo, invitava a fare un passo avanti e a considerare la Costituzione italiana, nata dalla Resistenza, come il momento fondante di una storia e di una memoria condivisa. Una Costituzione, vale la pena rimarcarlo, che ha consentito libertà di parola, di voto e addirittura di veder presenti in Parlamento esponenti che contestavano quella stessa Costituzione nei suoi fondamenti. Tranne poche frange estremiste e nostalgiche, non credo che ci siano italiani che oggi si sentano di rinunciare alle conquiste di democrazia, di libertà, di giustizia sociale che hanno trovato nella Costituzione il punto di inizio, consentendo al nostro Paese un periodo di pace, di sviluppo e di benessere senza precedenti. Proprio per questo va affermato che il 25 aprile è patrimonio di tutta l’Italia, la ricorrenza in cui si celebrano valori condivisi dall’intero Paese».

Cosa pensa delle violenze e delle vendette che insanguinarono il «triangolo rosso» e le Foibe in quegli anni? Non c’è stato troppo silenzio e per troppo tempo, in un Paese che non ha avuto un processo di Norimberga ma che oggi, settant’anni dopo, non dovrebbe avere paura della verità? E come rivive le immagini di Mussolini e Claretta Petacci esposti cadaveri a Piazzale Loreto?

«È stato merito di esponenti provenienti dalla sinistra, penso a Luciano Violante e allo stesso presidente Napolitano, contribuire alla riappropriazione, nella storia e nella memoria, di episodi drammatici ingiustamente rimossi, come quelli legati alle Foibe e all’esodo degli Italiani dall’Istria e dalla Dalmazia. Sono stati molti i libri e le inchieste che si sono dedicati a riportare alla luce le vendette, gli eccidi, le sopraffazioni che si compirono, anche abusando del nome della Resistenza, dopo la fine della guerra. Si tratta di casi gravi, inaccettabili e che non vanno nascosti. L’esposizione del corpo di Mussolini, di Claretta Petacci e degli altri gerarchi fucilati, per quanto legata al martirio che numerosi partigiani subirono per mano dei tedeschi nello stesso Piazzale Loreto pochi giorni prima, la considero un episodio barbaro e disumano. Va comunque svolta una considerazione di fondo: gli atti di violenza ingiustificata, di vendetta, gli eccidi compiuti da parte di uomini legati alla Resistenza rappresentano, nella maggior parte dei casi, una deviazione grave e inaccettabile dagli ideali originari della Resistenza stessa. Nel caso del nazifascismo, invece, i campi di sterminio, la caccia agli ebrei, le stragi di civili, le torture sono lo sbocco naturale di un’ideologia totalitaria e razzista».

Il tema della riconciliazione, a mio parere, va affrontato tenendo conto che la pietà per i morti dell’una e dell’altra parte non significa che le ragioni per cui sono morti siano equivalenti. «Tutti uguali davanti alla morte — scrive Calvino — non davanti alla storia». Qual è la sua opinione?

«Calvino mi sembra abbia centrato il tema. Non c’è dubbio che la pietà e il rispetto siano sentimenti condivisibili di fronte a giovani caduti nelle file di Salò che combattevano in buona fede. Questo non ci consente, però, di equiparare i due campi: da una parte si combatteva per la libertà, dall’altra per la sopraffazione. La domanda di Bobbio ai revisionisti è rimasta senza risposta: che cosa sarebbe successo se, invece degli alleati, avessero vinto i nazisti?».

Vorrei chiudere con Bobbio. «Il rifiuto dell’antifascismo in nome dell’anticomunismo — ha scritto — ha finito spesso per condurre ad un’altra forma di equidistanza abominevole, quella tra fascismo e antifascismo». E infatti da parte della destra è emerso pochi anni fa il tentativo di superare il 25 aprile, sostituendolo con un giorno di festa civile nel rifiuto di tutte le dittature. Come se non ci fossero altri 365 giorni sul calendario per scegliere una celebrazione contro ogni regime dittatoriale. A patto però di ricordare il 25 aprile, tutti, come il giorno in cui è finita la dittatura del fascismo, nato proprio in Italia. Cosa ne pensa? Il 25 aprile, ha detto Bobbio, ha determinato un nuovo corso nella nostra storia. Perché, semplicemente, «se la Resistenza non fosse avvenuta, la storia d’Italia sarebbe stata diversa, non sarebbe la storia di un popolo libero».
«Credo che quella dell’abolizione della festa della Liberazione sia una polemica ormai datata e senza senso. Sarebbe come dire: invece di celebrare il nostro Risorgimento, festeggiamo la Rivoluzione americana e francese... È vero che nel mondo ci sono stati diversi regimi totalitari e sanguinari, frutto di ideologie disumanizzanti. Ma la storia italiana è passata attraverso la dittatura fascista, la guerra, la lotta di Liberazione. E un popolo vive e si nutre della sua storia e dei suoi ricordi ».

Alla vigilia del 25 aprile, ricordiamo. «Nuovi studi approfondiscono il sostegno che i soldati sovietici, alcuni scampati alla prigionia dei tedeschi, diedero alla lotta di liberazione dei partigiani».

La Repubblica, 21 aprile 2015

GIÀ si era fatto poco, e tremendamente tardi. Poi, con il crollo dell’Urss e dei partiti comunisti dell’Ue, il tema era addirittura sparito, non solo dalla ricerca storica ma anche dalle celebrazioni della Resistenza. La parte avuta dai soldati sovietici – prigionieri o collaborazionisti del nazifascismo passati ai partigiani – nella guerra di liberazione in Europa era diventato un tema fuori moda, persino ingombrante per quei Paesi che erano stati liberati dall’Armata Rossa solo per finire nella mani di Stalin, e per i quali persino il Giorno della Memoria (27 gennaio, data dell’ingresso ad Auschwitz delle truppe russe) costituiva, e costituisce tuttora, fonte d’imbarazzo.

Ma ora qualcosa si muove, e negli ultimi mesi – in vista del settantesimo anniversario del 25 aprile – abbiamo visto uscire testi che esplorano in modo innovativo questo pezzo della nostra storia. Tra essi possiamo annoverare il lavoro di Anna Roberti, Dal recupero dei corpi al recupero della memoria, che illumina il contributo dei partigiani sovietici nella liberazione del Piemonte, e il libro di Marina Rossi, Soldati dell’Armata Rossa orientale, che indaga il ruolo degli uomini “venuti dal freddo” in uno spazio difficile, segnato da tante ferite ancora aperte, come le Foibe o l’ignobile massacro dei cosacchi consegnati a Tito dagli Alleati, per non dire da una Guerra Fredda che ha diviso italiani e slavi già prima della fine del conflitto. Lavori pubblicati da case editrici minori, Visual Grafika di Torino e Leg di Gorizia, ma che indicano una tendenza e aprono una strada su un terreno d’indagine ancora quasi vergine.

Già dei partigiani jugoslavi in Italia si sa poco o niente – essi restano terreno di indagine di pochi autori di nicchia – anche se furono molte migliaia. Deportati politici o prigionieri di guerra cui l’8 settembre ‘43 offrì una generale occasione di fuga, essi entrarono in massa nella Resistenza italiana, specie nel Centro Italia, non potendo raggiungere i compagni per via dell’occupazione nazista del Nord del Paese. Ebbene, dei sovietici – russi, caucasici, ucraini, mongoli, kazaki ecc. – si sa ancora meno, e non solo per gli infiniti processi cui è stata sottoposta la guerra di Liberazione negli ultimi anni, ma anche perché – osserva Franco Sprega di Fiorenzuola d’Arda, agguerrito indagatore della Resistenza tra il Po e la via Emilia – tutto, con loro, “diventa più complicato”.

Già i numeri lo dicono. I prigionieri dell’Armata Rossa caduti nella mani dei tedeschi furono cinque milioni, una cifra che non ha eguali in nessun’altra guerra europea. Di questi, almeno la metà – gli irriducibili – furono lasciati morire di fame e di freddo. Gli altri furono assorbiti come ausiliari o inquadrati nell’esercito nazista, come la famigerata 162ma divisione turkestana che sull’Appennino lasciò una scia incomparabile di violenza, specie sulle donne. Una parte di questi prigionieri – in Italia dai cinque ai settemila – saltarono il fosso per mettersi in contatto coi partigiani, ma essi chi furono davvero? Quanti si mossero per opportunismo, quanti per fede, e quanti perché rinnegati da Mosca? Dopo che Stalin aveva ordinato loro di suicidarsi in caso di cattura, la loro resa era diventata un reato punibile con la fucilazione (cosa che per molti effettivamente avvenne) e dunque nella scelta partigiana c’era anche la ricerca di una riabilitazione agli occhi della madrepatria.

Terreno difficile, per uno studioso che vuole evitare la retorica celebrativa. Ma ora in aiuto ci viene la nuova accessibilità di archivi statunitensi, britannici e soprattutto russi, finora non consultabili, che consentono di leggere meglio l’apporto degli stranieri alla Liberazione. Nel libro di Marina Rossi compare integralmente, per esempio, il diario di guerra del moscovita Grigorij Iljaev Aleksandrovic, catturato dai tedeschi prima dell’età di leva e poi fuggito rocambolescamente, dal quale emergono dettagli inediti sulla resistenza tra Tolmino e l’Istria montana e soprattutto sugli ultimi giorni di combattimenti attorno a Trieste, ai primi di maggio del ‘45, quando il resto d’Italia è già stato liberato.

Sia la Rossi che la Roberti osservano come le unità partigiani trovassero nei sovietici combattenti agguerriti, grazie al doppio addestramento avuto nell’Armata Rossa e nella Wehrmacht. Nella sua intervista prima di morire con Franco Sprega, Mario Milza, primo a entrare a Genova con la 59 brigata “Caio”, dice dei sovietici che “sapevano fare la guerra”, erano “disponibili al rischio” e sapevano esprimere “un volume di fuoco” che ti metteva al sicuro. Un partigiano, chiamato genericamente “il Russo” e poi svelatosi post mortem come Vilajat Abul’fatogli Gusejnov di nascita azera, ebbe l’onore di una sepoltura monumentale nel Piacentino e fu ricordato al punto che, dopo il trasferimento del corpo in Urss, il partigiano Maurizio Carra di Borgo Taro trasferì marmi e lapidi nel giardino di casa sua.

Solo ora sappiamo chi furono Dimitri Makarovic Nikiforenko, nome di battaglia “Willy”, Mehdi Huseynzade “Mihajlo” o Vasilji Zacharovic Pivovarov “Grozni”. Per il resto riemergono dalle nebbie solo visi sfocati, nomi storpiati, o cimiteri – come quello di Costermano fra il Garda e la Val d’Adige – dove settant’anni fa vennero ammassati senza distinzione tagliagole collaborazionisti e comandanti di unità partigiane, accomunati dal solo denominatore di essere, genericamente, “russi”. In questo ginepraio, quanto ha dovuto faticare – racconta Anna Roberti nel suo libro – Nicola Grosa, mitico partigiano piemontese, per dare a guerra finita un nome a questi stranieri caduti nella lotta subalpina, specie nel Canavese, e portarne i corpi a Torino al “Sacrario della Resistenza”.

Ma la loro memoria è specialmente viva sul confine orientale, dove essi si batterono con i garibaldini italiani e più spesso con la Resistenza slovena, in un rapporto di cameratismo facilitato dalla parentela linguistica. Il “Ruski Bataljon” fece saltare ponti, bloccò intere colonne di tedeschi in ripiegamento, conquistò bunker perdendo decine di uomini. Molti di loro, come il famoso “Mihajlo”, morto in combattimento, sono diventati eroi in patria, e la loro leggenda vive ancora.

Altra Europa. Assemblea a Roma, obiettivo la casa comune ma oggi la priorità è 'mobilitazione totale'. La grande scommessa le elezioni regionali: Liguria, Emilia-Romagna, Veneto, Calabria, Umbria.

Il manifesto, 19 aprile 2015

Prima gior­nata di lavoro, e prima effet­tiva assem­blea deci­sio­nale ieri a Roma per L’Altra Europa con Tsi­pras nella Sala Roma Eventi (in via Ali­bert 5), soprat­tutto primo evento nazio­nale dalla nascita della ’Coa­li­zione sociale’ lan­ciata da Mau­ri­zio Lan­dini, il ’fatto nuovo’ con cui fare i conti. Da vicino: fra i rela­tori della mat­ti­nata di ieri c’è infatti anche Michele De Palma, brac­cio destro di Lan­dini e qui a nome della neo­nata Coa­li­zione. Ma nel menù del dibat­tito c’è molto: dai 100 anni di Pie­tro Ingrao rac­con­tati da Maria Luisa Boc­cia, ad Arnaldo Cestaro, l’uomo tor­tu­rato alla Diaz, nei giorni di Genova 2001, gra­zie al cui ricorso la Corte euro­pea ha con­dan­nato l’Italia fino alle ele­zioni spa­gnole e, nean­che a dirlo, alla situa­zione greca.

350 i pre­senti, sta­volta nel ruolo di dele­gati da 72 assem­blee in giro per i nodi ter­ri­to­riali di tutta Ita­lia. Non per «par­ti­tiz­zarsi», spie­gano gli orga­niz­za­tori, ma per avere un assem­blea che possa legit­ti­ma­mente deci­dere e lan­ciare una pro­po­sta «per un pro­cesso costi­tuente unico alter­na­tivo alle poli­ti­che di auste­rità». Tema deli­cato, come sem­pre, al cen­tro della rela­zione del socio­logo Marco Revelli che ha illu­strato il cam­bio di fase, e di mar­cia, della (ex) lista elet­to­rale dalle euro­pee di un anno fa.

«Siamo qui per com­piere un passo diverso da quello di allora. Per molti aspetti più dif­fi­cile. E comun­que più impe­gna­tivo», ha spie­gato, «allora si trat­tava di met­tere in com­pe­ti­zione una lista elet­to­rale, sulla base di un appello volto a evi­tare il para­dosso, mor­tale, che in Europa non fosse pre­sente nes­sun vero rap­pre­sen­tante della sini­stra ita­liana. Oggi, qui, com­piamo un atto molto più dif­fi­cile, e impe­gna­tivo». Non è ancora la costru­zione della “casa comune” «che rimane il nostro obiet­tivo di medio ter­mine rispetto a cui ci siamo fino ad oggi “messi al ser­vi­zio” e al cui pro­cesso di costru­zione con­di­viso da una rete di sog­getti molto più ampia ci met­te­remo a mag­gior ragione al ser­vi­zio da oggi in poi».
Per ora però l’obiettivo è «met­tere in campo una forza» e cioè «una mobi­li­ta­zione totale di ener­gie sociali e intel­let­tuali. Met­tere in discus­sione quel dogma pre­sup­pone un’accumulazione di forza incom­pa­ra­bile con quella con cui si sono finora misu­rate le nostre sini­stre di oppo­si­zione. Non più una testi­mo­nianza, l’affermazione di un’identità par­ziale e oppo­si­tiva, ma la costru­zione di un rap­porto di forza capace di pro­durre uno spo­sta­mento al livello del governo delle nostre società».
Cru­ciale, e non potrebbe essere diverso, il test delle regio­nali e fra gli altri l’esperimento ligure, dove lo smot­ta­mento del Pd ha pro­dotto una lista di sini­stra ampia sotto un’unica inse­gna. Pre­senti le forze della sini­stra orga­niz­zata e le tante asso­cia­zioni che via via si sono avvi­ci­nate all’Altra europa. Oggi ancora inter­venti fino alle 12, poi voto dell’ordine del giorno finale e degli organismi

«Reddito di base. La vera sfida al tempo della disoccupazione strutturale, del lavoro precario, flessibile, delocalizzato, immateriale è conservare il legame tra occupazione ed emancipazione».

Il manifesto, 15 aprile 2015, con postilla

Lo ius exi­sten­tiae si pone alla base del con­tratto sociale. Sin dal ‘600 la cop­pia obbedienza-protezione s’è impo­sta come la fonte ultima di legit­ti­ma­zione del potere costi­tuito. Spetta al “sovrano” difen­dere la vita dei con­so­ciati (Hob­bes), ma anche i beni essen­ziali ad essa col­le­gati (Locke). Se il potere costi­tuito non è in grado di garan­tire le con­di­zioni di “esi­stenza”, il popolo non è più tenuto a rispet­tare il pac­tum con­so­cia­tio­nis: il diritto di resi­stenza può essere esercitato.

Nella sto­ria della moder­nità si è rite­nuto che allo Stato dovesse spet­tare il com­pito di assi­cu­rare la pace (interna ed esterna), men­tre il lavoro dovesse costi­tuire il mezzo attra­verso cui assi­cu­rare la “soprav­vi­venza” degli indi­vi­dui. La fine della civiltà del lavoro ha cam­biato le carte in tavola. Oggi non basta più la volontà di lavo­rare, né quella di emi­grare per poter soprav­vi­vere. Come può lo Stato pre­ser­vare il diritto all’esistenza?

In via di prin­ci­pio due sono le strade per­cor­ri­bili (tra loro non neces­sa­ria­mente alter­na­tive): lo Stato potrebbe assi­cu­rare comun­que un diritto al lavoro, ampliando arti­fi­cial­mente l’offerta, incen­ti­vando – ad esem­pio – i lavori social­mente utili, anche se eco­no­mi­ca­mente non neces­sari. L’altra via è quella di assi­cu­rare comun­que un red­dito di cit­ta­di­nanza anche a chi — in assenza delle con­di­zioni sociali che lo ren­dono pos­si­bile — non può lavorare.

In par­ti­co­lare, la pro­spet­tiva del red­dito di cit­ta­di­nanza ha un solido fon­da­mento costi­tu­zio­nale. Essa ruota attorno a quat­tro prin­cipi che val­gono a carat­te­riz­zare il nostro “patto sociale”: il prin­ci­pio di dignità, con il col­le­gato dovere di soli­da­rietà; il prin­ci­pio d’eguaglianza, inteso come moda­lità di rea­liz­za­zione di una società di liberi ed eguali; il prin­ci­pio di cit­ta­di­nanza, nella sua dimen­sione par­te­ci­pa­tiva e di garan­zia di appar­te­nenza ad una comu­nità; il prin­ci­pio del lavoro, assunto nella sua reale dimen­sione di vita, com­pren­sivo del dramma del non lavoro.

È nel col­le­ga­mento tra que­sti prin­cipi che si rin­viene il diritto costi­tu­zio­nale ad un red­dito di cit­ta­di­nanza. L’errore cui si è spesso incorsi è stato quello di tenerli invece sepa­rati. Eppure nella nostra costi­tu­zione – più avan­zata dei suoi inter­preti – appare evi­dente l’intreccio. Si pensi al rap­porto com­plesso che sus­si­ste tra dignità e lavoro. Al lavoro è legata la dignità (il lavo­ra­tore ha, infatti, diritto ad una retri­bu­zione «in ogni caso suf­fi­ciente ad assi­cu­rare a sé e alla fami­glia un’esistenza libera e digni­tosa»), ma è anche evi­dente come la “dignità” rap­pre­senta un valore da assi­cu­rare in ogni caso, ponen­dosi (la “dignità umana”) come limite alla libertà di ini­zia­tiva eco­no­mica pri­vata, con­for­man­dosi come “dignità sociale” nel rap­porto tra tutti i cit­ta­dini eguali davanti alla legge (nel com­bi­nato dispo­sto tra gli arti­coli 36, 41 e 3).

Vero è che i nostri costi­tuenti per­se­gui­vano l’obiettivo della piena occu­pa­zione, tant’è che alla Repub­blica veniva asse­gnato il com­pito di «pro­muo­vere le con­di­zioni» per ren­dere effet­tivo il diritto al lavoro. Dun­que era que­sta la via mae­stra per dare dignità sociale ai cit­ta­dini. Se oggi però con­si­de­riamo non più per­se­gui­bile la pro­spet­tiva della piena occu­pa­zione l’unica alter­na­tiva per rima­nere entro i con­fini trac­ciati dal costi­tuente è quella di assi­cu­rare la dignità anche a chi non può lavo­rare. Non pos­siamo ras­se­gnarci alle dise­gua­glianze di una società in cui sem­pre più ampie parti della popo­la­zione vivono in grave disa­gio, non pos­siamo evi­tare di occu­parci dei gruppi sociali in stato di emar­gi­na­zione, non pos­siamo lasciare il mondo sem­pre più esteso dei non occu­pati senza spe­ranza, pri­van­doli di ogni dignità e oppor­tu­nità di riscatto.

La let­tura siste­ma­tica del testo costi­tu­zio­nale evi­den­zia anche un secondo dato, che a me sem­bra deci­sivo, ma che è invece assai sot­to­va­lu­tato nel dibat­tito attuale sul red­dito di cittadinanza.

Detto in breve: nella nostra costi­tu­zione il diritto fon­da­men­tale alla soprav­vi­venza, i diritti alla vita digni­tosa e all’assistenza come obbligo dello Stato, la lotta all’emarginazione sociale, non ven­gono assunti in sé, ma sono sem­pre col­le­gati al neces­sa­rio svol­gi­mento della per­so­na­lità, non­ché defi­niti al fine di con­cor­rere al «pro­gresso spi­ri­tuale e mate­riale della società» (come si esprime l’art. 4 in rap­porto con il diritto al lavoro). Espli­cito e diretto è poi il legame tra diritti fon­da­men­tali e doveri inde­ro­ga­bili (art. 2). Così come l’obbligazione gene­rale di rimo­zione degli osta­coli d’ordine eco­no­mico e sociale nei con­fronti dei cit­ta­dini è asso­ciato alla par­te­ci­pa­zione all’organizzazione poli­tica, eco­no­mica e sociale del paese (art. 3).

È in que­sto com­plesso intrec­cio che deve tro­vare una sua spe­ci­fica qua­li­fi­ca­zione anche il red­dito di cit­ta­di­nanza, che dovrebbe essere inteso come red­dito di par­te­ci­pa­zione. Se si vuole cioè evi­tare che la sov­ven­zione ai non occu­pati si tra­sformi in un mero sus­si­dio di povertà, cari­ta­te­vol­mente con­cesso ad un sog­getto iso­lato, lasciato nel suo iso­la­mento, e senza pos­si­bi­lità di riscatto, v’è una sola strada da per­se­guire: legare il red­dito alla cit­ta­di­nanza attiva. La vera sfida, al tempo della disoc­cu­pa­zione strut­tu­rale, ma anche del lavoro pre­ca­rio, fles­si­bile, insta­bile, delo­ca­liz­zato, imma­te­riale, è quella di con­ser­vare quell’orizzonte eman­ci­pa­to­rio, tanto indi­vi­duale quanto sociale, che sin qui – nello schema for­di­sta — era stato assi­cu­rato prin­ci­pal­mente dal lavoro sta­bile entro una comu­nità solidale.

Ma come può legarsi il red­dito alle atti­vità sociali? E poi cosa si intende per cit­ta­di­nanza attiva? Anche in que­sto caso si può comin­ciare a riflet­tere par­tendo dalla costi­tu­zione, la quale imputa a tutti i cit­ta­dini il dovere di svol­gere un’attività o una fun­zioni che con­corra «al pro­gresso mate­riale o spi­ri­tuale della società». Il rife­ri­mento è al lavoro tra­di­zio­nal­mente inteso, ma deve ricom­pren­dere anche tutte quelle atti­vità o fun­zioni che si svol­gono “oltre il lavoro for­male”. Il volon­ta­riato, l’assistenza ai figli o ai geni­tori, le atti­vità cul­tu­rali, quelle di natura imma­te­riale, la cura dei beni comuni. Tutto ciò che – oltre la dimen­sione eco­no­mica e imme­dia­ta­mente pro­dut­tiva — per­mette agli indi­vi­dui di svi­lup­pare la pro­pria per­so­na­lità e con­cor­rere al pro­gresso sociale.

Tutto ciò come si può rea­liz­zare in con­creto? Se si guarda alle diverse forme di red­dito pro­po­ste (uni­ver­sale, minimo, di disoc­cu­pa­zione) mi sem­bra che il più con­forme al modello defi­nito sia quello che asse­gna a tutti i biso­gnosi un red­dito minimo, non tanto con­di­zio­nato dalle logi­che di work­fare (che impone al tito­lare del red­dito di accet­tare qua­lun­que lavoro, anche il più degra­dante o incoe­rente con la pro­pria for­ma­zione a pena della per­dita di ogni con­tri­buto), quando costi­tuito da due diverse fonti “red­di­tuali”: una in denaro, l’altra defi­nita da forme di soste­gno indi­rette. In que­sto secondo caso il red­dito con­si­ste in garan­zie di accesso gra­tuito ai ser­vizi (scuole, uni­ver­sità, con­sumi cul­tu­rali, tra­sporti), ovvero al sup­porto al volon­ta­riato o all’associazionismo, ovvero ancora all’affidamento ai cit­ta­dini di strut­ture inu­ti­liz­zate (dai tea­tri, alle fab­bri­che, ai cen­tri sociali) per la gestione dei beni comuni. In que­sto caso il red­dito di cit­ta­di­nanza (inteso come ser­vizi, age­vo­la­zioni e gestione degli spazi pub­blici) potrebbe per­sino favo­rire la pro­du­zione di red­dito da lavoro o con­fi­gu­rare un’altra economia.

È que­sta una pro­spet­tiva che stenta a farsi strada e che pure non è assente in alcuni tra i pro­getti sul red­dito (la pro­po­sta ela­bo­rata dal Basic Income Net­work, ripresa in sede par­la­men­tare, alcune leggi regio­nali), per­sino in una riso­lu­zione del Par­la­mento euro­peo del 2010. Per una volta pos­siamo dire: «ce lo chiede l’Europa».

postilla

L'autore scrive: «Due sono le strade per­cor­ri­bili: lo Stato potrebbe assi­cu­rare comun­que un diritto al lavoro, ampliando arti­fi­cial­mente l’offerta, incen­ti­vando - ad esem­pio - i lavori social­mente utili, anche se eco­no­mi­ca­mente non neces­sari. L’altra via è quella di assi­cu­rare comun­que un red­dito di cit­ta­di­nanza anche a chi -e in assenza delle con­di­zioni sociali che lo ren­dono pos­si­bile - non può lavorare». Esiste anche un'altra via: quella cui allude Azzariti quando scrive che pe misure che propone possono addirittura servire a «con­fi­gu­rare un’altra economi
a».
In sostanza, si tratta a mio parere di modificare alle radici l'attuale concezione (e pratica) dell'economia e rendere anche "economicamente" rilevante ciò che lo è "socialmente".
Bisognerebbe "cercare ancora" sulla strada indicata da Claudio Napoleoni. Chi voglia approfondire l'argomento può leggere in eddyburg il testo di Napoleoni, Scienza economica e lavoro dell’uomo nella definizione di Lionel Robbins, e la sintetica ricostruzione del suo pensiero in proposito che ho steso in un capitolo del mio Memorie di un urbanista e ripreso nella relazione introduttiva alla sesta edizione (2009) della Scuola di eddyburg. (e.s.)

«Pierre Bourdieu. Tradotta "La miseria del mondo", l’opera del sociologo francese sugli smottamenti che hanno investito la società negli ultimi decenni. E che vede nella precarietà il principio regolatore del dominio esercitato dal capitalismo».

Il manifesto, 16 aprile 2015

«Dove hanno fatto il deserto, quello chia­mano pace». Con que­ste parole si con­clu­deva il discorso di Cal­gaco, re dei Cale­doni, nel De Agri­cola di Tacito, dove il grande sto­rico romano, rac­con­tando la vita del suo­cero Giu­lio Agri­cola gover­na­tore della Bri­tan­nia, espri­meva una delle più feroci cri­ti­che di sem­pre a quell’imperialismo e quella cor­ru­zione dei romani che li aveva con­dotti ad assog­get­tare il mondo, chia­mando ordine e civiltà ciò che era domi­nio e sot­to­mis­sione. Nel mondo moderno e con­tem­po­ra­neo qual è il nostro «deserto chia­mato pace»? Attra­verso un’inchiesta corale (sia per la plu­ra­lità dei sog­getti presi in con­si­de­ra­zione che per il grande numero di stu­diosi coin­volti) sulla scia ma anche al di là dei grandi roman­zieri e intel­let­tuali impe­gnati del XIX secolo, una rispo­sta pos­si­bile l’ha offerta Pierre Bour­dieu con il suo ormai clas­sico La mise­ria del mondo; frutto di tre anni di lavoro, pub­bli­cato per la prima volta in Fran­cia nel 1993 e da allora al cen­tro di vivaci discus­sioni e per­sino ispi­ra­zione per innu­me­re­voli spet­ta­coli tea­trali, esce oggi in Ita­lia per i tipi di Mime­sis, in una bella edi­zione tra­dotta e curata da Anto­nello Petrillo e Ciro Tarantino.

La mise­ria al cen­tro del libro di Pierre Bour­dieu non è la povertà asso­luta (una con­di­zione mate­riale docu­men­ta­bile e cer­ti­fi­ca­bile), bensì la «mise­ria di posi­zione», cioè la mise­ria che nasce e si ripro­duce in uno spa­zio fisico e sociale degra­dato, pre­ca­rio, insta­bile, cui si appar­tiene e in cui si è coin­volti senza pos­si­bi­lità reale di uscirne: insomma, la mise­ria con­tem­po­ra­nea è innan­zi­tutto un sistema di rela­zioni sociali che influenza nega­ti­va­mente il modo in cui le per­sone pen­sano se stesse e gli altri, e le chance di vita che hanno a dispo­si­zione. In que­sto senso, l’apparentemente impro­ba­bile paral­le­li­smo tra Tacito e il socio­logo fran­cese va al di là della sug­ge­stione reto­rica: la mise­ria che emerge dalle ana­lisi di Bour­dieu e col­la­bo­ra­tori è frutto di una deser­ti­fi­ca­zione sociale, vale a dire dell’impoverimento mate­riale e della con­tem­po­ra­nea pau­pe­riz­za­zione sociale.

Un uni­verso fantasmatico

Il declino di un vec­chio mondo (quello della società del benes­sere) e il sor­gere di un nuovo uni­verso, più spie­tato, meno civico e soli­dale. All’interno di que­sto ordine che pos­siamo chia­mare neo-liberista lo Stato si è riti­rato e ha perso (per scelta poli­tica) auto­re­vo­lezza e capa­cità d’intervento così come sono entrati in crisi e si sono fran­tu­mate le isti­tu­zioni sociali inter­me­die che assi­cu­ra­vano soste­gno agli indi­vi­dui (la fami­glia) ma anche media­zione dei con­flitti (le asso­cia­zioni), sin­tesi e orga­niz­za­zione delle diver­sità cul­tu­rali e delle aspi­ra­zioni indi­vi­duali (i par­titi, i sin­da­cati). Bour­dieu e la sua equipe ana­liz­zano le mani­fe­sta­zioni di que­sta mise­ria con­tem­po­ra­nea (che è anche dif­fu­sione della vio­lenza e dell’intolleranza) met­ten­dola in col­le­ga­mento con le sue radici sociali e poli­ti­che occulte (per­ché rimosse dal dibat­tito pub­blico e poli­tico) inter­vi­stando una vasta e varie­gata pla­tea di sog­getti: dall’anziano che vive nella ban­lieue al lavo­ra­tore immi­grato; dalla gio­vane disoc­cu­pata all’assistente sociale e al pic­colo com­mer­ciante. Tutte que­ste figure, i cui vis­suti e per­corsi sono rico­struiti attra­verso un approc­cio che uni­sce sem­pre all’avvincente nar­ra­zione d’inchiesta una ser­rata rifles­sione teo­rica in grado di resti­tuire i col­le­ga­menti tra le bio­gra­fie indi­vi­duali e le più vaste dina­mi­che sociali e eco­no­mi­che, sono acco­mu­nate dalla con­di­vi­sione di un comune oriz­zonte e spa­zio sociale: quello dei ceti popo­lari, depo­ten­ziati nella pro­pria dignità, nel pro­prio rispetto di sé e nella pro­pria auto­no­mia. Que­sto immi­se­ri­mento nasce dalla pre­ca­riz­za­zione del mer­cato del lavoro, dalla con­tra­zione del wel­fare state, dall’esclusione sociale, dai mec­ca­ni­smi clas­si­sti della scuola e dall’abbandono delle peri­fe­rie da parte delle isti­tu­zioni pubbliche.

In que­sto calei­do­sco­pio sociale «dal basso», nel quale bio­gra­fia indi­vi­duale e tra­sfor­ma­zioni col­let­tive si intrec­ciano costan­te­mente, ritro­viamo da una parte i «vinti» e dall’altra quelle figure pro­fes­sio­nali che rap­pre­sen­tano ciò che resta della rete di pro­te­zione sociale sta­tuale, che vanno a fondo assieme ai primi. Vi è il pic­colo com­mer­ciante che non ce la fa più a reg­gere la con­cor­renza della grande distri­bu­zione e che vive, ormai anziano, le sue dif­fi­coltà rea­gendo in modo rab­bioso, facendo appello ad un nuovo nazio­na­li­smo che lo possa pro­teg­gere dalle con­se­guenze della glo­ba­liz­za­zione. Un’ampia gal­le­ria di gio­vani, dall’operaio pre­ca­rio che guarda come inu­tile resi­duo del pas­sato il sin­da­cato pur vivendo una situa­zione di forte pre­ca­rietà lavo­ra­tiva, al gio­vane stu­dente mar­gi­na­liz­zato e taci­turno che poi decide di lasciare tutto per andare ad arruo­larsi come volon­ta­rio nelle mili­zie croate. E i con­ti­nui con­flitti, ormai dif­fusi ovun­que nel tes­suto della vita quo­ti­diana delle ban­lieue, tra fran­cesi di nascita e fran­cesi natu­ra­liz­zati (cioè migranti), pra­ti­ca­mente per ogni cosa: dagli odori pro­ve­nienti dalle cucine, ai rumori legati alle visite di amici, sino ai gio­chi nei cor­tili. Indi­ca­tore di una lotta per il con­trollo del ter­ri­to­rio (ormai in fasce di declas­sa­mento) tra gruppi che con­di­vi­dono poco, ma anche risul­tato del deciso inde­bo­li­mento dell’autorità nelle fami­glie natu­ra­liz­zate, che con­duce i gio­vani ad assu­mere com­por­ta­menti sem­pre più fuori controllo.

La pra­te­ria della politica

Su que­sto varie­gato fronte di guerra – nel quale sin­da­cati e par­titi di sini­stra sono oramai assenti anche come ter­reno di incon­tro e di media­zione tra vari tipi di ceti popo­lari – ritro­viamo anche gli assi­stenti sociali e i giu­dici mino­rili, che non vivono sem­pli­ce­mente le pur tante dif­fi­coltà con­na­tu­rate al loro lavoro ma la sem­pre più ampia sen­sa­zione di essere sva­lu­tati social­mente e pro­fes­sio­nal­mente, pro­prio da quello Stato per cui lavo­rano ma che non vede più di buon occhio la spesa sociale. La mise­ria del mondo di Bour­dieu fa emer­gere così tre aspetti molto inte­res­santi: la dif­fe­ren­zia­zione e fram­men­ta­zione soprat­tutto per linee etni­che e gene­ra­zio­nali dei ceti popo­lari con­tem­po­ra­nei; l’abbandono siste­ma­tico dei più deboli da parte della poli­tica e delle classi diri­genti, che apre la strada ad una visione sem­pre più dar­wi­niana della vita sociale; l’apertura di una pra­te­ria poli­tica (che all’inizio degli anni Novanta era ancora ampia­mente sot­to­va­lu­tata) sia per il nazio­na­li­smo popu­li­sta che per la radi­ca­liz­za­zione isla­mi­sta, in con­se­guenza del dis­sol­vi­mento della sini­stra e del suo radi­ca­mento popolare.

La mise­ria è stato uno dei temi domi­nanti nella vita delle masse popo­lari nel corso della sto­ria fino ad emer­gere come un attri­buto fon­da­men­tale di quella que­stione sociale (e non più sem­pli­ce­mente reli­giosa) che, a par­tire dall’ascesa della società indu­striale, ha domi­nato la scena poli­tica e il dibat­tito pub­blico della moder­nità. La mise­ria è una cate­go­ria e uno stato diverso dalla «sem­plice» povertà: la mise­ria è penu­ria di risorse ma anche meschi­nità morale, con­di­zione mate­riale depri­vata ma anche sof­fe­renza e bas­sezza spi­ri­tuale, in ter­mini socio­lo­gici quella fine della coe­sione sociale retta da valori non solo con­di­visi ma anche capaci di dare una meta e un oriz­zonte di miglio­ra­mento alla vita indi­vi­duale e col­let­tiva. Così, la mise­ria non è mai il con­tra­rio dell’opulenza ma della «vita buona» e della pos­si­bi­lità di rea­liz­zarla in qual­che luogo. Come tale la pos­siamo ritro­vare tanto nei ghetti e nelle fave­las quanto nei grat­ta­celi scin­til­lanti di Man­hat­tan, ogni­qual­volta la depri­va­zione mate­riale si accom­pa­gna ad un eterno pre­sente senza spe­ranze di riscatto morale, civile e materiale.

L’utopia del socia­li­smo – e poi la stessa ideo­lo­gia dello Stato sociale, com­preso quello di marca libe­ral­de­mo­cra­tica – è con­si­stita nel rite­nere che la società indu­striale fosse la dimen­sione all’interno della quale offrire una solu­zione a que­sto pro­blema, una volta eli­mi­nato o messo sotto con­trollo il capi­ta­li­smo; e, per que­sta via, in que­sto mondo, riscat­tare dalla mise­ria l’umanità intera, tanto il pro­le­ta­riato quanto gli stessi bor­ghesi. La mise­ria con­tem­po­ra­nea è nega­zione di que­sta uto­pia ed estra­nea­zione della sini­stra dai ceti popo­lari; ed è stata occul­tata, anche durante e nono­stante la grande crisi del 2007. Rileg­gere l’attualissima ricerca di Pierre Bour­dieu ce ne fa capire il per­ché: non si tratta solo di mera con­ve­nienza politica.

Eclisse della sinistra

Ci tro­viamo di fronte alla scom­parsa dal dibat­tito pub­blico della società stessa e dei ceti popo­lari ora che, dopo la fine del for­di­smo e della società del benes­sere, si fanno più dif­fe­ren­ziati, estesi e pre­cari: fine della società per­ché la mise­ria quando è rac­con­tata e messa a tema lo è sem­pre come que­stione indi­vi­duale, disturbo psi­co­so­ma­tico, male esi­sten­ziale senza radici sociali, che invece per­si­stono e sono resi­sten­tis­sime, radi­cate nei mec­ca­ni­smi di fun­zio­na­mento eco­no­mico e nei poteri sociali. Abban­dono dei ceti popo­lari per­ché que­sti non sono più coin­volti in un pro­getto di riscatto e pro­gresso sociale ma lasciati in balia dei mec­ca­ni­smi più sel­vaggi del mer­cato e di una nar­ra­zione media­tica e poli­tica che ne esalta le rea­zioni di pan­cia, fun­zio­nali al man­te­ni­mento di quell’ordine sociale che li priva, con­tem­po­ra­nea­mente, della pro­spet­tiva della «vita buona» (popu­li­smo e radi­ca­li­smo a sfondo reli­gioso). Si pensi a que­sto pro­po­sito al rac­conto pie­ti­stico che in Ita­lia si fa a volte dei disoc­cu­pati o dei pen­sio­nati rovi­nati da video­po­ker o video­lot­tery: in tutti que­sti casi si cede alla com­mi­se­ra­zione, si parla di psi­co­pa­to­lo­gia ma si occulta il fatto che quelle mise­rie sono fun­zio­nali a pre­cisi inte­ressi eco­no­mici (anche di stampo mafioso), pos­si­bili e pro­mossi dalle leggi dello Stato. La mise­ria del mondo di Bour­dieu mostra la pos­si­bi­lità di ren­dere rever­si­bile (per­ché pro­dotto degli uomini) ciò che troppo spesso è scam­biato per un destino senza scampo: la mise­ria dei tempi pre­senti in tutte le sue com­plesse ed arti­co­late forme.

Riferimenti
Vedi anche, sul medesimo argomento, l'articolo di Benedetto Vecchi.
Nell'icona, e qui sotto, un murale di Ernest Pignon dipinto in una prigione di Lione

«Il conflitto. Riunione informale ieri a Roma con associazioni, centri sociali, partite Iva e precari della Coalizione 27 febbraio. Nella Cgil lo scontro sul futuro del sindacato è duro. La segretaria Camusso definisce la coalizione "una scorciatoia": "Non andrà da nessuna parte. Restiamo della nostra idea"».

Il manifesto, 12 aprile 2015

La pros­sima set­ti­mana il mani­fe­sto della coa­li­zione sociale sarà dif­fuso in vista di un’assemblea di due giorni pro­gram­mata a metà mag­gio. Nelle inten­zioni del segre­ta­rio della Fiom Mau­ri­zio Lan­dini dovrebbe chia­rire che la «coa­li­zione sociale» non è un par­tito ma «un pro­cesso aperto e in dive­nire». Nella bozza distri­buita ieri nel corso di un’assemblea all’Arci di Tor De Schiavi nel cuore del quar­tiere Cen­to­celle di Roma, poi dif­fusa dall’Ansa, si legge che la coa­li­zione vuole «dimo­strare che si può fare poli­tica attra­verso un agire con­di­viso, al di fuori e non in com­pe­ti­zione rispetto a par­titi, orga­niz­za­zioni poli­ti­che o car­telli elettorali».

La coa­li­zione sociale sarebbe dun­que il risul­tato di un «agire con­di­viso», «fuori e non in com­pe­ti­zione» con i par­titi. Pro­ba­bil­mente la pre­ci­sa­zione serve a raf­fred­dare le rea­zioni della «sini­stra Pd» o dei Cin­que Stelle, che vedono con insof­fe­renza l’esperimento di Lan­dini. Si punta a fare coa­li­zione con tutti i lavo­ra­tori, pre­cari e «nuovi poveri» con la par­tita Iva, sul «ter­ri­to­rio» e «nei luo­ghi di lavoro», non tra gli schieramenti.

All’incontro hanno par­te­ci­pato asso­cia­zioni come Act, movi­menti come il Forum dell’acqua e cen­tri sociali dell’Emilia Roma­gna. È inter­ve­nuto anche Ste­fano Rodotà che ha riba­dito il giu­di­zio con­tro la «zavorra» dei par­titi. Una posi­zione, ha ammesso, che ha inner­vo­sito molti nei par­titi. A suo avviso la «coa­li­zione sociale» ha «una carica pole­mica posi­tiva»: regi­stra la crisi della rap­pre­sen­tanza della poli­tica e intende resti­tuire rap­pre­sen­tanza sociale e poli­tica al lavoro. Per Rodotà que­sta è la base di un’altra cul­tura e agenda poli­tica da sot­to­porre anche a chi, nei par­titi, è sen­si­bile ai beni comuni o alla pro­po­sta di legge d’iniziativa popo­lare per eli­mi­nare il pareg­gio di bilan­cio in Costituzione.

L’assemblea è stata chiusa alla stampa, ma nel pome­rig­gio le agen­zie hanno ripor­tato le dichia­ra­zioni di Lan­dini e dei par­te­ci­panti. Dopo le 13,30 sugli smart­phone sono apparse le dure parole della segre­ta­ria Cgil Susanna Camusso. La coa­li­zione sociale è una «scor­cia­toia – ha detto — non mi pare che vada da nes­suna parte». Per la segre­ta­ria la strada è diversa: pri­mato del sin­da­cato e auto­no­mia dai sog­getti sociali e poli­tici. Obiet­tivo: ritro­vare «l’unità tra i lavo­ra­tori e le orga­niz­za­zioni sin­da­cali».

Per Lan­dini, invece, il sin­da­cato da solo non basta nel momento in cui Renzi è deter­mi­nato a can­cel­lare tutti i corpi inter­medi, age­vo­lando così il pro­cesso di rivo­lu­zione dall’alto in corso nell’Europa dell’austerità. Il suo è un defi­cit di rap­pre­sen­tanza, e di potere sociale, che va recu­pe­rato facendo coa­li­zione con i mondi del lavoro non dipen­dente e pre­ca­rio, oltre che nella società. Dif­fe­renze che tor­ne­ranno a farsi sen­tire in vista della con­fe­renza di orga­niz­za­zione della Cgil.

Su que­sto scon­tro tra Lan­dini e Camusso si sta gio­cando il futuro del sin­da­cato. La sua pro­po­sta di coa­li­zione sociale vuole costruirne uno diverso, met­tendo in comune «saperi e espe­rienze» con la società, anche attra­verso il «mutua­li­smo», altra parola chiave. Ai sog­getti che la com­pon­gono sono state pro­po­ste «cam­pa­gne per obiet­tivi comuni» con­tro il Jobs Act, «il diritto alla salute, all’istruzione, alla casa, alla pen­sione o all’assistenza» si legge nella bozza. Non si chiede di rinun­ciare a ciò che sono, ma di par­te­ci­pare a quelle su cui sono d’accordo.

Gli avvo­cati di Mga, i far­ma­ci­sti di Fnpi, gli atti­vi­sti dello scio­pero sociale che fanno parte della «Coa­li­zione 27 feb­braio» hanno soste­nuto le ragioni di una cam­pa­gna con­tro il «busi­ness» della Garan­zia gio­vani, fisco e pre­vi­denza equi per i pre­cari e le par­tite Iva, il red­dito di base. Su que­sto mani­fe­ste­ranno il 24 aprile alla sede cen­trale dell’Inps-Eur a Roma. «Ci sono diverse coa­li­zioni in for­ma­zione – sosten­gono – Biso­gna deter­mi­nare le com­bi­na­zioni che aumen­tano la forza di tutti ed evi­tare di defi­nire subito il peri­me­tro di una sola».

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Leggi di Roberto Ciccarelli: Di cosa par­liamo quando par­liamo di coa­li­zione sociale?

Leggi anche, di Guido Viale: L'immaginario spazio a sinistra del PD
«Coalizione sociale. Il "cercare ancora" deve essere anche una nuova topologia politica, fondata su distinzioni come "alto" e "basso", "uno" e "99 per cento", popolo ed élite, poveri e ricchi, più che destra e sinistra».

il manifesto, 11 aprile 2015, con postilla

Quando par­liamo di sociale, ci rife­riamo alle rela­zioni tra le per­sone — e, da qual­che tempo, anche quelle con il vivente in genere — nella vita di tutti i giorni. Ma nel lin­guag­gio poli­tico, sociale si rife­ri­sce alle modi­fi­ca­zioni di quei rap­porti con l’azione col­let­tiva: ini­zia­tive con­di­vise da una plu­ra­lità di attori che indi­chiamo con il ter­mine gene­rico di movi­menti.

Con il ter­mine poli­tico ci rife­riamo invece in modo espli­cito ai rap­porti di potere, cioè alla gerar­chia che con­trad­di­stin­gue l’assetto sociale: sia che l’azione poli­tica sia diretta alla sua con­ser­va­zione, sia che sia diretta alla sua modificazione.

Quella tra sociale e poli­tico è una distin­zione che nel corso del tempo ha subito molte modi­fi­ca­zioni in rela­zione al con­te­sto e oggi tende a sfu­mare: è venuta meno “l’autonomia del poli­tico”, nel senso che la poli­tica non viene più per­ce­pita come una sfera disin­car­nata, dotata di una sua logica interna, dove si con­fron­tano visioni del mondo, obiet­tivi, stra­te­gie e tat­ti­che dif­fe­renti; viene invece con­si­de­rata sem­pre più un aggre­gato sociale, dotato di una pro­pria dina­mica — a cui ci si rife­ri­sce spesso con il ter­mine “casta” — da ana­liz­zare e spie­gare in ter­mini sociali: un ceto che ha il ruolo — e i con­nessi pri­vi­legi — di mediare il rap­porto tra i cen­tri del potere finan­zia­rio mon­diale che domi­nano sull’economia glo­bale e chi ne subi­sce il comando. Vice­versa al “sociale”, inteso nel senso di insieme di movi­menti per tra­sfor­mare la realtà, viene da tempo rico­no­sciuta una dimen­sione intrin­se­ca­mente poli­tica, per­ché non si ritiene più pos­si­bile modi­fi­care quei rap­porti, anche nei suoi aspetti più par­ziali, senza met­tere in discus­sione il potere, la strut­tura gerar­chica da cui dipendono.

Ma è comun­que un salto logico iden­ti­fi­care sociale con sin­da­cale e poli­tico con par­ti­tico (Marco Revelli, il mani­fe­sto 4 aprile), per poi dedurne che tra quelle due realtà pos­sono solo inter­cor­rere rap­porti ana­lo­ghi a quelli con­fi­gu­ra­tisi nel corso del Nove­cento: il modello social­de­mo­cra­tico, quello labu­ri­sta e quello “fran­cese”. Se que­sti “tipi ideali” sono accet­ta­bili in rife­ri­mento al secolo scorso, ora il sociale non è più ricon­du­ci­bile al solo sin­da­cale; né il poli­tico al solo par­ti­tico. Que­sta era peral­tro la ragione che aveva indotto Revelli a teo­riz­zare l’impasse del suo “Finale di par­tito”. Per que­sto il dibat­tito, se utile per capire da che cosa ci siamo per sem­pre allon­ta­nati, non può essere usato, come sug­ge­ri­scono Favilli e Revelli, per defi­nire le opzioni che abbiamo di fronte, né per rac­co­man­dare — troppo facile dirlo senza pra­ti­carlo — di “cer­care ancora”.

La situa­zione odierna non è più quella in cui si era andato costi­tuendo il movi­mento ope­raio dell’Occidente; né quella in cui aveva impo­sto alla con­tro­parte capi­ta­li­stica e sta­tuale le inno­va­zioni dello Stato sociale: con­trat­ta­zione col­let­tiva con valenza nor­ma­tiva e gestione sta­tuale dei ser­vizi sociali: sanità, istru­zione, pen­sioni e, in parte, abitazione.

La prima era carat­te­riz­zata da una con­ti­guità fisica delle abi­ta­zioni dei lavo­ra­tori tra di loro e con il luogo di lavoro, sic­ché la vita sociale che si svol­geva nelle une faceva da retro­terra anche alle lotte nelle fab­bri­che. Di qui la reci­proca inte­gra­zione tra lotte riven­di­ca­tive e sforzi per costruire, con il mutua­li­smo e il movi­mento coo­pe­ra­tivo, una alter­na­tiva sociale auto­noma e auto­ge­stita alla mise­ria indotta dall’industrializzazione.

La seconda, che ha avuto il suo apo­geo quando ormai le prin­ci­pali misure di auto­tu­tela pro­mosse con il mutua­li­smo erano state sus­sunte dallo Stato e gestite da entità pub­bli­che in forme uni­ver­sa­li­sti­che, aveva comun­que tro­vato la sua base sociale nell’omogeneità della con­di­zione lavo­ra­tiva di una mano­do­pera ammas­sata nei grandi impianti della pro­du­zione fordista.

Entrambi que­sti retro­terra sono venuti meno, anche se nes­suno dei due è scom­parso del tutto. La con­di­zione con cui deve misu­rarsi il “sociale” oggi è una ele­va­tis­sima disper­sione e dif­fe­ren­zia­zione dei poveri e delle classi lavo­ra­trici sia sul ter­ri­to­rio che nei luo­ghi di lavoro. Ma non è solo l’isolamento, sia fisico che psi­chico ed esi­sten­ziale, a con­tras­se­gnare i rap­porti sociali del giorno d’oggi; ancora più impor­tante è il pre­do­mi­nio cul­tu­rale del pen­siero unico; della com­pe­ti­zione uni­ver­sale di tutti con­tro tutti e della “meri­to­cra­zia”, intesa come legit­ti­ma­zione del diritto del più forte a lasciare indie­tro e schiac­ciare il più debole.

Certo que­sta ideo­lo­gia e la sua ege­mo­nia hanno una base mate­riale nella disper­sione impo­sta dallo svi­luppo capi­ta­li­stico e dalla sua glo­ba­liz­za­zione. Ma pro­prio per que­sto l’impegno della poli­tica nel con­te­sto odierno deve essere un lavoro di rico­stru­zione di rela­zioni sociali soli­dali e pari­ta­rie, met­tendo al primo posto i diritti e la dignità delle per­sone: una pra­tica che riguarda soprat­tutto la costru­zione di movi­menti, le rela­zioni sociali den­tro i movi­menti e i rap­porti tra movi­menti di orien­ta­mento o ispi­ra­zione diversi.

Per far sì che quei movi­menti, intesi nel senso più ampio, si diano una rap­pre­sen­ta­zione, e una rap­pre­sen­tanza, più ampia pos­si­bile della pro­pria col­lo­ca­zione sociale e poli­tica, e con ciò stesso dei pro­pri obiet­tivi e delle pro­prie fina­lità — è que­sto il senso della coa­li­zione sociale — e non per­ché si rico­no­scano in una rap­pre­sen­tanza poli­tica pre­co­sti­tuita.

Vano è limi­tarsi a guar­dare a un pre­sunto “spa­zio a sini­stra” del Pd che — affi­dan­dosi a una “topo­lo­gia poli­tica” che non ha riscon­tro sociale — si sarebbe aperto in seguito alla evo­lu­zione dei par­titi social­de­mo­cra­tici euro­pei, di cui il Pd è solo un caso estremo, anche se sin­to­ma­tico. Quello spa­zio è in gran parte imma­gi­na­rio, o non “a dispo­si­zione” del primo arri­vato per costruire qual­cosa di solido; e meno che mai a dispo­si­zione di orga­niz­za­zioni già in fila da anni, senza risul­tati, per riempirlo.

Quel “cer­care ancora” deve essere un nuovo modo di fare poli­tica; ma anche una nuova topo­lo­gia poli­tica, fon­data su distin­zioni come “alto” e “basso”, “uno” e “99 per cento”, popolo ed élite, poveri e ric­chi, più che destra e sini­stra. Le classi non esi­stono più? Sì, esi­stono, ma biso­gna farle emer­gere alle luce del sole per­cor­rendo strade nuove e non la ripro­du­zione dell’ennesima riag­gre­ga­zione dei resti della “sini­stra radicale”.

P.S. A bene­fi­cio di Luciana Castel­lina e di chi ha letto il suo arti­colo (il mani­fe­sto, 7 aprile), pre­ciso che non ho mai scritto che «i par­titi sareb­bero tutti ceto poli­tico» (lo sono in gran parte i loro diri­genti più o meno per­ma­nenti e molti loro rap­pre­sen­tanti nei corpi elet­tivi e nelle società par­te­ci­pate; non certo, dove c’è, la loro “base”), né che «le orga­niz­za­zioni che ope­rano nella società civile sareb­bero tutte illi­bate» (ho scritto che hanno anche loro le loro pic­cole buro­cra­zie). Sono inol­tre radi­cal­mente cri­tico nei con­fronti «dell’idea negriana della mol­ti­tu­dine», come emerge da molti miei scritti (vedi per esem­pio: “Virtù che cam­biano il mondo”, 2013). Sono peral­tro con­vinto soste­ni­tore della neces­sità e dell’urgenza dell’azione poli­tica, come dimo­stra la mia par­te­ci­pa­zione alla fon­da­zione di Alba, di Cam­biare si può (ma non di Rivo­lu­zione civile) e de L’Altra Europa (ma non della sua attuale deriva buro­cra­tica e autoritaria).

postilla

C'è peraltro da domandarsi se non si debba cominciare a pensare che i dirigenti dei partiti, o almeno molti di essi, abbiano assunto un ruolo tale nel sistema del finanzcapitalismo da non costituire più solo un "ceto sociale", ma una "classe", con un suo preciso ruolo in quel sistema.

Diritti umani. La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per le violenze della Diaz. Censure pesanti contro stato e polizia: manca il reato specifico e l’identificativo degli agenti, le istituzioni coprirono i violenti. Il manifesto, 8 aprile 2015

Il blitz alla Diaz durante il G8 di Genova deve essere qua­li­fi­cato come «tor­tura», alla poli­zia è stato con­sen­tito di non col­la­bo­rare alle inda­gini e la rea­zione dello Stato ita­liano non è stata effi­cace vio­lando l’articolo 3 della Con­ven­zione euro­pea dei diritti dell’uomo. Lo ha sta­bi­lito la Corte euro­pea di Stra­sburgo (Cedu) che ha accolto il ricorso di Arnaldo Cestaro, uno dei 92 mani­fe­stanti, pic­chiati e ingiu­sta­mente arre­stati la notte del 21 luglio 2001. Cestaro, all’epoca 62 enne, uscì dalla scuola con frat­ture a brac­cia, gambe e costole che hanno richie­sto nume­rosi inter­venti negli anni successivi.

Una sen­tenza che pesa come un maci­gno per un Paese le cui isti­tu­zioni hanno mini­miz­zato fino all’ultimo quanto accadde in quella che, gra­zie alle parole di uno dei poli­ziotti inter­ve­nuti, è nota come la «macel­le­ria messicana».

La sen­tenza, decisa all’unanimità, per la prima volta con­danna l’Italia per vio­lenze qua­li­fi­ca­bili come tor­tura, esclu­dendo che i fatti pos­sano essere con­si­de­rati solo come «trat­ta­menti inu­mani e degra­danti» e sot­to­li­neando la gra­vità delle sof­fe­renze inflitte e la volon­ta­rietà deli­be­rata di inflig­gerle. La Corte respinge anche la difesa del governo ita­liano secondo cui gli agenti inter­ve­nuti quella notte erano sot­to­po­sti a una par­ti­co­lare ten­sione: «La ten­sione – scri­vono i giu­dici – non dipese tanto da ragioni ogget­tive quanto dalla deci­sione di pro­ce­dere ad arre­sti con fina­lità media­ti­che uti­liz­zando moda­lità ope­ra­tive che non garan­ti­vano la tutela dei diritti umani».

La Cedu entra poi nel cuore del pro­blema: la rea­zione (o non rea­zione) dello Stato ita­liano a ciò che avvenne.

«Gli ese­cu­tori mate­riali dell’aggressione non sono mai stati iden­ti­fi­cati e sono rima­sti, molto sem­pli­ce­mente, impu­niti» e la prin­ci­pale respon­sa­bi­lità di ciò è adde­bi­ta­bile alla «man­cata col­la­bo­ra­zione della poli­zia alle inda­gini». Ma la Corte va anche oltre e lamenta che «alla poli­zia ita­liana è stato con­sen­tito di rifiu­tare impu­ne­mente di col­la­bo­rare con le auto­rità com­pe­tenti nell’identificazione degli agenti impli­cati negli atti di tor­tura». I giu­dici ricor­dano che gli agenti devono por­tare un «numero di matri­cola che ne con­senta l’identificazione». Per quanto riguarda le con­danne «nes­suno è stato san­zio­nato per le lesioni per­so­nali» a causa della pre­scri­zione men­tre sono stati con­dan­nati solo alcuni fun­zio­nari per i «ten­ta­tivi di giu­sti­fi­care i mal­trat­ta­menti». Ma anche costoro hanno bene­fi­ciato di tre anni di indulto su una pena totale non supe­riore ai 4 anni.

La respon­sa­bi­lità di tutto ciò non è stata né della Pro­cura né dei giu­dici ai quali il Governo ita­liano secondo la Corte ha pro­vato ad attri­buire la «colpa» della pre­scri­zione. Anzi, al con­tra­rio, i magi­strati hanno ope­rato «dili­gen­te­mente, supe­rando osta­coli non indif­fe­renti nel corso dell’inchiesta».

Il pro­blema, secondo la Corte, è «strut­tu­rale»: «La legi­sla­zione penale ita­liana si è rive­lata ina­de­guata all’esigenza di san­zio­nare atti di tor­tura in modo da pre­ve­nire altre vio­la­zioni simili».

Infatti «la pre­scri­zione in que­sti casi è inam­mis­si­bile», come inam­mis­si­bili sono amni­stia e indulto.

La Corte ritiene neces­sa­rio che «i respon­sa­bili di atti di tor­tura siano sospesi durante le inda­gini e il pro­cesso e, desti­tuiti dopo la con­danna». Esat­ta­mente il con­tra­rio di quanto acca­duto. Forse anche per que­sto «il Governo ita­liano non ha mai rispo­sto alla spe­ci­fica richie­sta di chia­ri­menti avan­zata dai giu­dici di Strasburgo».

Dall’ex capo dell’Ucigos Gio­vanni Luperi al diret­tore dello Sco Fran­ce­sco Grat­teri al suo vice Gil­berto Cal­da­rozzi, al capo del reparto mobile di Roma Vin­cenzo Can­te­rini, i mas­simi ver­tici della poli­zia hanno pro­se­guito le loro bril­lanti car­riere fino alla con­danna defi­ni­tiva. Per molti di loro è arri­vata nel frat­tempo l’agognata pen­sione, per gli altri nes­suna desti­tu­zione da parte del Vimi­nale ma solo l’interdizione per 5 anni dai pub­blici uffici dispo­sta dai giu­dici, ter­mi­nata la quale potranno rien­trare in ser­vi­zio. Per i capi­squa­dra dei pic­chia­tori del nucleo spe­ri­men­tale anti­som­mossa di Roma, con­dan­nati ma pre­scritti prima della Cas­sa­zione (rite­nuti però respon­sa­bili agli affetti civili) non risul­tano san­zioni disci­pli­nari, tan­to­meno per i loro sot­to­po­sti mai identificati.

«I ver­tici delle forze di poli­zia hanno rice­vuto in que­sti anni sol­tanto atte­sta­zioni di stima e soli­da­rietà» com­menta il pro­cu­ra­tore gene­rale di Genova Enrico Zucca, che ha soste­nuto l’accusa con­tro i poli­ziotti in primo e secondo grado — e mi rifiuto di cre­dere che lo stato non abbia fun­zio­nari migliori di quelli che sono stati con­dan­nati». «Quando nel corso dei pro­cessi insieme al col­lega Car­dona par­la­vamo di tor­tura citando pro­prio casi della Cedu ci guar­da­vano come fos­simo pazzi», ricorda con un piz­zico di ama­rezza mista alla sod­di­sfa­zione per una sen­tenza che con­si­dera però «scon­tata». Per il magi­strato, che spesso si trovò iso­lato anche all’interno della stessa Pro­cura nell’inchiesta più sco­moda «biso­gna pre­ve­nire fatti di que­sto genere e in Ita­lia non abbiamo anti­doti all’interno del corpo di appar­te­nenza. Le dichia­ra­zioni dopo la sen­tenza defi­ni­tiva dell’allora capo della poli­zia Man­ga­nelli non sono solo insuf­fi­cienti ma dimo­strano la man­cata presa di coscienza di quello che è suc­cesso. Fece delle scuse, sì, ma par­lando di pochi errori di sin­goli, senza riflet­tere sulla vastità del fenomeno».

La sen­tenza che ha con­dan­nato l’Italia a un risar­ci­mento di 45 mila euro ad Arnaldo Cestaro arriva a quat­tro anni dal ricorso. I legali di Cestaro, gli avvo­cati Nic­colò e Nata­lia Pao­letti, che non hanno nep­pure atteso la sen­tenza di Cas­sa­zione per rivol­gersi alla Cedu, espri­mono sod­di­sfa­zione: «Siamo molto con­tenti, soprat­tutto per il fatto che la corte ha rile­vato l’enorme man­canza dell’ordinamento interno ita­liano, vale a dire la non pre­vi­sione del reato di tor­tura e lo invita quindi a porre dei rimedi». Per il loro cliente anche un risar­ci­mento supe­riore a quanto nor­mal­mente dispo­sto dalla Corte per casi simili «anche se – dice l’avvocato — par­lare di cifre rispetto alla vio­la­zione di deter­mi­nati diritti, è svilente».

«La sen­tenza della Corte di Stra­sburgo – com­menta il sin­daco di Genova Marco Doria — rico­no­sce la tra­gica realtà delle vio­lenze per­pe­trate alla Diaz e mette a nudo la respon­sa­bi­lità di una legi­sla­zione che non pre­vede il reato di tor­tura e, per que­sta ragione, lascia sostan­zial­mente impu­niti i col­pe­voli. È una sen­tenza di grande valore, non solo da rispet­tare, ma da con­di­vi­dere pie­na­mente». «Uno stato demo­cra­tico – aggiunge il sin­daco — non deve mai tol­le­rare che uomini che agi­scono in suo nome com­piano atti di bru­tale vio­lenza con­tro le per­sone e i diritti dell’uomo. È, que­sta, una con­di­zione essen­ziale anche per difen­dere la dignità di quanti ope­rano invece negli appa­rati dello Stato secondo i prin­cipi della Costituzione».

L’Italia, che potrebbe fare ricorso con­tro la sen­tenza, sarà costretta a ottem­pe­rare con una legge ad hoc.

«Il modello – spiega l’avvocato Pao­letti – potrebbe essere per esem­pio quello fran­cese, che pre­vede per la tor­tura una pena base di 15 anni, aumen­tata a 20 in caso sia un pub­blico uffi­ciale a com­met­terla e a 30 in caso di infer­mità per­ma­nente per la vit­tima, ma si sa che il nostro Paese è molto ’bravo’ a ottem­pe­rare con molta len­tezza alle sen­tenze della Cedu».

Nell’attesa, comun­que lo Stato ita­liano potrebbe essere costretto a sbor­sare molto per risar­cire le altre circa 60 parti civili della Diaz che hanno fatto ricorso in blocco dopo la sen­tenza defi­ni­tiva. Se quella di Cestaro può essere con­si­de­rata una sentenza-pilota, si può ipo­tiz­zare un risar­ci­mento di quasi 3 milioni di euro. Senza con­tare i pro­cessi civili per le vit­time non solo della Diaz ma anche di Bol­za­neto, che sono appena cominciati.

Il video del Tg3 Ligu­ria la mat­tina dopo la mat­tanza alla Diaz.

L'iniziativa di Landini e la furia crescente di Rodotà. Il dibattito sul che fare prosegue. «L’eterno problema del rapporto tra Sociale e Politico. O, per dare volti ai concetti, tra Sindacato e Partito. Non è inedito, come in molti oggi sembrano pensare, ma ricorrente da quando la sfera sociale si è massificata e quella politica democratizzata».

Il manifesto, 4 aprile 2015

«Oggi la metà dei cittadini non va nemmeno più a votare», perché non si sente rappresentata da nessun partito. E «più della metà dei lavoratori non è rappresentata da nessun sindacato». Credo che quando si discute di «coalizione sociale», come si è fatto in questi giorni sul manifesto, si debba partire da queste due frasi del discorso di Maurizio Landini, a conclusione della bella manifestazione della Fiom a Roma, che ci richiamano, tutti, alla drammatica crisi di rappresentanza che caratterizza la nostra ormai conclamata «post-democrazia».

E leggerle in sincronia con la vera e propria lezione pubblica di Stefano Rodotà, rivolta ai cinquantamila di piazza del Popolo, là dove ha detto (cito a senso) che c’è l’ assoluta necessità di una coalizione orizzontale, di una «coalizione sociale», appunto, che non solo articoli la domanda dei soggetti sociali nei confronti della politica, ma ne strutturi l’agenda (mi pare che abbia detto proprio così: l’«agenda»). Sta qui, esattamente, il punto su cui ci laceriamo tutti, e in parte anche ci dilaniamo come se fossimo avversari anziché naufraghi. Sta nel vuoto aperto dalla crisi dei due principali pilastri della vicenda sociale e politica novecentesca: il Sindacato e il Partito. Entrambi cresciuti fino ad assumere una centralità costituente ed entrambi caduti. O comunque svuotati: ridotti spesso a involucri incapaci di trattenere le energie sociali che li avevano fatti grandi.

Crisi della Rappresentanza, appunto, sociale e politica insieme. Forse sbaglio, ma stento a vedere nell’azione di Landini un chiaro progetto, sociale o politico, né tantomeno personale (come vorrebbe il brusio pettegolo su «scalate alla Cgil» o «discese in politica»). E mi pare invece d’intuire un’umanissima, fondatissima angoscia di chi sa di stare dentro una struttura a rischio di estinzione. Una «macchina» (non solo la Fiom, ma il Sindacato nel suo complesso) che fu straordinaria per potenza e creatività, ma che andrà irrimediabilmente a sbattere o a esaurirsi (in buona parte lo è già) se non saprà cambiare radicalmente se stessa allargando il proprio campo sociale. Così come mi sembra di vedere nella furia (crescente) di Rodotà nei confronti dei partiti (in cui peraltro ha militato a lungo, in posizioni apicali), compresi quelli piccoli, e a lui vicini, più una disperazione per il vuoto che lasciano che il rancoroso disprezzo per quel che sono.
Se questo è vero, allora, quello che sia Landini che Rodotà ci indicano è un punto di partenza, non certo di arrivo. Perché se è evidente che un processo di aggregazione orizzontale, al livello dei frammentati soggetti sociali, è indispensabile per ricomporre una qualche capacità di articolare una «voce» capace di farsi sentire e di produrre un’«agenda» alternativa, rimane, grande come una casa il problema di chi - o che cosa - quell’agenda la agisca. In qualche modo il problema intorno a cui si sono arrovellati, e sono finiti in secca, tutti i movimenti di protesta emersi dagli anni Sessanta in poi, e che ora ha finito per risucchiare nel suo gorgo anche il vecchio «movimento operaio», costretto, come quelli, a ricercare, brancolando nel buio, la propria via verso una capacità d’impatto sui meccanismi fondamentali della decisione politica, in chiave non solo difensiva (o oppositiva) ma anche «offensiva». In grado cioè di imporre decisioni radicalmente diverse da quelle amministrate al livello di Governo.
Problema drammatico, perché, come ci dice la Grecia, quelle politiche sono oggi mortali per la Società (distruggono, letteralmente, il Sociale). E se non vengono rovesciate anche nelle sedi stesse in cui nascono e sono «decise», non c’è scampo per chi, in basso, è costretto a subirle. È l’eterno problema del rapporto tra Sociale e Politico. O, per dare volti ai concetti, tra Sindacato e Partito. Che non è inedito, come in molti oggi sembrano pensare, ma tema ricorrente da quando la sfera sociale si è massificata e quella politica democratizzata. Ed ha tre volte ragione Paolo Favilli a ricordarci che quel rapporto ha una sua storia: esempi concreti di multiformi soluzioni che non possiamo noi, oggi, ignorare.
Almeno tre «modelli», tutti giocati nel passaggio - così simile al nostro per radicalità dei processi di trasformazione - tra Ottocento e Novecento. Il modello cosiddetto tedesco, incentrato sul primato del Partito (e della lotta politica) sul Sindacato (e l’azione rivendicativa) teorizzato da Kautsky e dalla Seconda internazionale: schema prevalso anche in Italia nel corso dell’età giolittiana e stabilizzatosi in chiave riformista nel secondo dopoguerra. Il modello inglese, quello delle Unions (!), in cui il partito - il Labour, appunto - è, almeno all’origine, diretta espressione del sindacato: sua «protesi» all’interno delle istituzioni, «associazione di associazioni» di cui le organizzazioni dei lavoratori, con struttura prevalentemente orizzontale, sono i «committenti». Infine il modello francese, quello che è stato definito «sindacalismo di azione diretta», in cui il Sindacato non solo delega ma assorbe in sé gli stessi compiti del Partito rifiutando la separazione tra lotta economica e lotta politica e costituendosi in una sorta di «Partito sociale»: modello a sua volta oscillante tra l’impostazione soreliana culminante nel mito dello sciopero generale insurrezionale e quella proudhoniana, articolata con forme di cooperativismo e di mutualismo come espressione di autogoverno dei produttori.
È ipotizzabile che, saltato definitivamente il primo modello (non c’è più un «partito di riferimento» per nessuno), torni in gioco qualcuno degli altri due? Che si possa immaginare una «coalizione sociale» committente nei confronti di un «soggetto politico» delegato a ripristinarne una rappresentanza? E con quale forma organizzativa, che non sia più quella del tradizionale partito di massa? Oppure che si riapra la strada a ipotesi di «sindacalismo di azione diretta», che però dovrebbe rivoluzionare alle radici il proprio modello organizzativo, farsi integralmente territoriale com’era il sindacato delle Camere del Lavoro e non quello delle Federazioni d’industria? Oppure - e le ipotesi possono moltiplicarsi - non sarebbe meglio continuare a «cercare ancora»? Tutti insieme. Ponendoci seriamente il problema - irrisolto - di dove, e come, possa coagularsi oggi, in Italia, quella «massa critica» in grado di tradurre nei luoghi del Governo la forza di un sociale riscattato dalla propria impotenza, prima di correre a mettere, ognuno, i propri cappelli.

Intervistato da Enrico Franceschini l'inventore della "terza via" sperimentata da Tony Blair, Gerhard Schröder e Bill Clinton, clamorosamete fallita, ripropone mutatis mutandis la sua ricetta, Quanti equivoci dietro la parola "sinistra"!

La Repubblica, 3 aprile 2015

Professor Anthony Giddens, lei è stato il teorico della Terza via, ma cosa significa essere di sinistra oggi?
«Significa avere determinati valori. Promuovere l’eguaglianza, o almeno limitare la diseguaglianza; attivarsi per la solidarietà, non solo dallo Stato verso i cittadini ma anche tra privati, all’interno della propria comunità; proteggere i più vulnerabili, garantendo in particolare un sistema sanitario e altri servizi pubblici essenziali ai bisognosi».

Qualcuno potrebbe obiettare che sono i valori di sempre della sinistra: cos’è cambiato rispetto al passato?
«È cambiato il contesto. La globalizzazione e la rivoluzione digitale hanno frantumato le vecchie certezze. Battersi per quei valori resta l’obiettivo, ma difenderli richiede strategie differenti. Il socialismo vecchia maniera non può più funzionare come modello. Ma non funziona, l’abbiamo visto con la grande crisi del 2008, nemmeno il modello proposto dalla destra, quello di un liberalismo in cui praticamente il mercato governa il mondo. Serve allora una via di mezzo, un modello che io chiamo di capitalismo responsabile ».

La Terza via, di nuovo?
«No, perché quando formulai il modello della Terza via, poi applicato in diversa maniera da Clinton, Blair, Schroeder e altri, internet quasi non esisteva, muoveva appena i primi passi. L’accelerazione data ai cambiamenti sociali ed economici dalle innovazioni tecnologiche ha scardinato anche la Terza via, l’idea di un riformismo di sinistra che preservasse il welfare in condizioni di mercato e demografiche mutate. Oggi i supercomputer e la robotica stanno trasformando il mondo del lavoro. Non sono sicuro che i leader politici si rendano conto del livello di rivoluzione tecnologica che abbiamo imboccato».

Ce ne dia un esempio.
«Un recente studio dell’università di Oxford nota che, quando fu inventato il telefono, ci vollero 75 anni per portarlo in 50 milioni di case. Oggi, neanche dieci anni dopo l’invenzione dello smartphone, ce ne sono 2 miliardi e mezzo di esemplari in tutto il pianeta. La rivoluzione tecnologica corre più in fretta di qualsiasi altra rivoluzione politica, economica e sociale nella storia dell’umanità ».

Il Jobs Act varato dal governo Renzi in Italia è una riforma di sinistra?
«Sì. E io appoggio quello che Renzi sta facendo. Sono riforme importanti, ma da sole non bastano. Il modello del blairismo è diventato obsoleto per le ragioni che le ho appena detto».

Cos’altro potrebbe fare, Renzi?
«L’azione nazionale non è più sufficiente. Il mondo è troppo globalizzato. Occorrono riforme a livello europeo. E mi pare che il premier italiano potrebbe avere un ruolo di rilievo per cambiare l’Europa».

Come si lotta contro la diseguaglianza, da sinistra, in questo mondo globalizzato?
«Non è possibile che una ristretta élite si arricchisca sempre di più. Questa è una bolla di sperequazione pericolosa, destabilizzante. Parte di quei soldi devono essere tassati e andare verso la spesa sociale. E questo è un aspetto. L’altro è la re-industrializzazione. Non è più vero che le fabbriche debbano andare in Cina, dove del resto il costo del lavoro è in aumento. In America è cominciato un ritorno all’industrializzazione, deve cominciare anche in Europa: la deindustrializzazione europea ha colpito troppo la classe operaia».

Le sinistre radicali, in Europa, dalla Grecia alla Spagna, vedono nel saggio di Thomas Piketty sul capitale un possibile modello per un governo di sinistra.
«Piketty ha evidenziato un problema, il crescente gap ricchi-poveri, l’ingiustizia di fondo di un sistema, ma non mi pare che abbia indicato una soluzione concreta. Quando le sinistre populiste vanno al potere, non riescono a mantenere i loro obiettivi».

Blair scrive nelle sue memorie che sinistra e destra sono concetti superati, che oggi conta essere “aperti”, a immigrazione e libero mercato, o “chiusi”, cioè anti-immigrati e protezionisti.
«Io la penso come Bobbio. Sinistra e destra esistono ancora. Anche se chi è di sinistra, oggi, non può essere per la chiusura di frontiere e mercati. Il mondo è stato aperto da globalizzazione e internet. Nessuno può più chiuderlo»

Nel dibattito sulla sinistra ieri, oggi e domani un interessante intervento da un punto di vista di destra. Peccato che guardi solo nella sinistra di governo, e consideri (anche lui) il Pd un partito della sinistra socialdemocratica.

La Repubblica, 3 aprile 2015

NEL riflettere su ciò che costituisce il nucleo vitale della sinistra — insieme il suo valore fondante e il fine che essa non può non perseguire salvo negare se stessa — occorre tenere per punto fermo che esso è l’egualitarismo. Tutte le correnti della sinistra sono sempre state concordi nell’alzare come propria bandiera l’egualitarismo. Sennonché una tale concordia è costantemente venuta meno in relazione sia al tipo e al grado di egualitarismo sia ai mezzi per conseguirlo. A mio giudizio per chi voglia chiarirsi le idee resta prezioso il saggio di Norberto Bobbio Destra e sinistra, ripubblicato dalla Donzelli nel 2014.

Qui parte essenziale dell’analisi è dedicata a mostrare come la sinistra unita intorno all’egualitarismo si è aspramente divisa al proprio interno circa il “quanto” di egualitarismo da conseguire e come ottenerlo; tanto che la storia della sinistra è nelle sue linee dominanti storia di due assai diverse sinistre: da un lato la rivoluzionaria, la radicale, dall’altro la moderata, la riformista; da un lato i comunisti Winstanley, Babeuf, Marx, Lenin, Mao; dall’altro i riformisti Owen, Blanc, Bernstein, il “rinnegato” Kautsky, arrivando a Palme. La prima corrente aspirava all’egualitarismo integrale da assicurarsi mediante la collettivizzazione dei mezzi di produzione e la dittatura dei proletari, la seconda a un egualitarismo — cito Bobbio — «inteso non come l’utopia di una società in cui tutti sono eguali in tutto ma come tendenza (…) a favorire le politiche che mirano a rendere più eguali i diseguali» in forza dell’affermazione dei diritti sociali e nel quadro del rispetto della democrazia e dei diritti di libertà di tutti.

Questa la tavola dei valori e degli obiettivi delle due sinistre. La storia è stata implacabilmente impietosa con la sinistra comunista: prima l’ha portata ai massimi trionfi in termini di potere e poi l’ha fatta precipitare nella negazione pratica di tutti i suoi ideali culminata in un degradante totalitarismo. La sinistra socialista riformista ha avuto un migliore destino, raggiungendo nel Novecento con il “compromesso socialdemocratico” da cui sono venute le istituzioni del welfare , risultati importanti, che hanno contribuito in maniera determinante a ridurre le diseguaglianze, a dare maggiore dignità al mondo del lavoro, ad assicurare protezione agli strati sociali più deboli.

Questa è l’unica sinistra che rimane, ma non versa affatto in buona salute. L’offensiva neoliberista l’ha svuotata, al punto che appare ridotta a un’esistenza residuale. Certo, è ancor sempre in Europa una forza elettorale tutt’altro che trascurabile. Ma, come sta dimostrando la Francia, non morde, si limita a resistere in una condizione di crescente affanno. A indebolire la socialdemocrazia sono fattori come il cedimento dei modi di produzione basati sulle grandi fabbriche e sulla concentrazione in queste ultime delle masse dei lavoratori metalmeccanici e siderurgici, l’avvento delle tecniche produttive legate all’automazione e all’informatica, l’indebolimento dei sindacati; il che ha privato i partiti socialdemocratici di quelli che erano i suoi tradizionali ancoraggi. Aggiungasi che questi partiti operavano in Stati in cui le decisioni politiche ed economiche erano nelle mani di Parlamenti e governi nazionali che poggiavano su sistemi di “economia nazionale”. La globalizzazione economica ha spostato tali leve a favore delle oligarchie sovranazionali, capaci di dettare legge in campo economico, orientare politica ed economia, di influenzare l’opinione pubblica e il corpo elettorale. Qui sta la radice dello svuotamento della sinistra socialdemocratica, costretta a una difensiva difficile e inconcludente.

Difficile e inconcludente perché incapace di elaborare una cultura politica all’altezza di sfide che non era ed è preparata ad affrontare. Essa sopravvive come può, leva una “grande lamentazione” contro l’inesorabile avanzare delle diseguaglianze abissali in crescita esponenziale tra i pochi grandi ricchi, coloro che stentano a campare e i tanti poveri e poverissimi, ma non riesce a coordinare le proprie forze a livello internazionale, si affanna a difendere i resti di quel welfare la cui conquista era stata la sua gloria.

Marx una cosa davvero giusta l’aveva detta: che gli ideali si misurano dalla capacità di metterli in pratica. Orbene, la sinistra odierna è corrosa da questo contrasto: mentre è indotta dalle mostruose diseguaglianze alla grande lamentazione in nome di un umano egualitarismo, non riesce più ad incidere, se non debolmente, sui meccanismi di potere che lo contrastano. L’inevitabile domanda è se essa sarà in grado di risalire la china che sta trascinandola verso una crisi profonda.

Di fronte alle enormi ingiustizie contro i diritti degli strati più deboli, una serie di eminenti filosofi politici e intellettuali — mi limito a citare, oltre a Bobbio, Michael Walzer, Tony Judt, Colin Crouch — hanno insistito a ricordare le conquiste della socialdemocrazia nel Novecento e ad affermare di non vedere altro soggetto che possa invertire la rotta segnata dal neoliberismo trionfante. Così si carica la socialdemocrazia di un compito tanto pesante quanto nobile. Resta il fatto che la critica al mondo che genera le diseguaglianze è una premessa di per sé incapace di produrre il fare.

Questo appare, dunque, lo stato delle cose: la sinistra è gravemente malata e non può illudersi di vivere di protesta ideale. Cercare di vedere la situazione costituisce la necessaria premessa per qualsiasi passo in controtendenza. Vedremo se essa saprà ridarsi una cultura, un programma, una nuova organizzazione. Per ora, purtroppo, non se ne intravedono i segni.

Un’ultima considerazione. In Italia dove sta la sinistra? In casa di Renzi, di Landini, di Vendola? Per ora nessuno lo ha spiegato in maniera comprensibile. Cerchino di farlo se ne sono all’altezza, così i cittadini potranno capire e regolarsi di conseguenza. Tutta la storia italiana è piena di sinistra, sempre boriosa, che nei momenti cruciali ha perduto la partita. Provino i Renzi, i Landini, i Vendola a mettere insieme le loro idee, i loro programmi in paginette ben scritte. È una questione di responsabilità politica. Vederli un giorno sì e un giorno no gridare dagli schermi televisivi: sinistra, sinistra, la mia è la sola vera sinistra stanca, delude e allontana.

«Un forte richiamo a non dimenticare il senso della parola "politica" e a comprendere qual'è il focus di una nuova sinistra: a upe­rare le con­trad­di­zioni che divi­dono le sini­stre non può che essere la lotta con­tro l’incarnazione attuale del capi­ta­li­smo, il neo­li­be­ri­smo

». Il manifesto, 2 aprile 2015
Dalla pole­mica aperta su che cosa dovesse essere la “coa­li­zione sociale” e che cosa non dovesse essere o diven­tare è emersa una que­stione che è di fondo. Nien­te­meno che quella di … che cosa sia la poli­tica, fin dove si estenda, chi debba farla e chi no. Ed è scon­for­tante che sul signi­fi­cato, la por­tata, il deno­tato del ter­mine la sini­stra si possa dividere.

Scon­for­tante per­ché rivela che si è lasciata per­va­dere da una grossa misti­fi­ca­zione Quella che rita­glia la poli­tica, la spezza, ne recinge l’estensione, il campo, ne limita l’oggetto per ride­fi­nire il sog­getto. E, con­se­guen­te­mente, ne sce­glie i con­te­nuti defi­nen­doli leciti e li separa da quelli che con­danna come ille­citi, per poi det­tare le forme attra­verso cui solo la poli­tica può dispie­garsi, sele­zio­nando in tal modo gli attori. Li divide, li separa, e, sepa­ran­doli, fra­ziona insieme l’oggetto e il sog­getto della poli­tica. Sog­getto ed oggetto che da Ari­sto­tele a Gram­sci cento volte è mutato nei modi di con­fi­gu­rarsi, mai nella sua essenza di plu­ra­lità umana acco­mu­nata da una sto­ria e da un destino. La cui com­po­si­zione ed il modo come si con­fi­gura è l’oggetto della poli­tica così come il suo sog­getto. È chi, con chi e per chi e come gesti­sce, ripro­duce o modi­fica la con­fi­gu­ra­zione di tale oggetto.

Sap­piamo che dire sog­getto e oggetto della poli­tica è lo stesso che dire forma di stato e di governo. Sap­piamo anche che da due secoli almeno la sog­get­ti­vità della poli­tica ha var­cato le soglie che la rin­chiu­de­vano negli ambienti pros­simi ai troni e non è più pre­ro­ga­tiva esclu­siva dei re, dei loro mini­stri e cor­ti­giani, dei “con­si­gli delle corone”. La bor­ghe­sia se ne impa­dronì ma fu poi costretta ad accet­tare che que­sta sog­get­ti­vità si esten­desse, in modo più o meno ampio, fino a com­pren­dere tutti i desti­na­tari delle scelte che la poli­tica avrebbe potuto compiere.
Esten­sione che poteva però essere vir­tuosa o truf­fal­dina, quanto a forma, quanto cioè a sua reale e leale cor­ri­spon­denza all’universo dei sog­getti. Quell’universo che, nel defi­nire il suf­fra­gio, ne com­prende la com­po­si­zione. Com­po­si­zione che è plu­rale sì, ma di una plu­ra­lità arti­co­lata, se reale, effet­tiva, auten­tica, e per­ciò rive­la­trice delle dif­fe­renze, le tante dif­fe­renze, da quella di classe, a tutte le altre rile­vanti in una società com­plessa. Meno una sola, quella indi­vi­duale. Per­ché è quella che disar­ti­cola la sog­get­ti­vità, la smi­nuzza, per neu­tra­liz­zarla, liqui­darla, dissolverla.

Smi­nuz­zata, neu­tra­liz­zata, liqui­data e dis­solta è oggi la sog­get­ti­vità popo­lare in Ita­lia. Le leggi elet­to­rali vigenti da venti anni (e con esse quella che Renzi sta impo­nendo all’Italia) non sol­tanto hanno distorto la rap­pre­sen­tanza, hanno dis­solto il “rap­pre­sen­tato”. La tra­sfor­ma­zione è stata duplice. Da stru­mento di espres­sione dei biso­gni, delle aspet­ta­tive, dei pro­getti di vita delle donne e degli uomini, la rap­pre­sen­tanza è stata con­ver­tita in dispo­si­tivo di appro­pria­zione del potere di governo per uno uomo solo. Ne è deri­vata irri­me­dia­bil­mente la disper­sione del rap­pre­sen­tato e la sua con­danna alla soli­tu­dine nel subire o il ricatto nelle fab­bri­che, o la degra­da­zione nel pre­ca­riato, o la dispe­ra­zione nella disoc­cu­pa­zione permanente.

La soli­tu­dine ha pro­dotto la rot­tura del legame sociale. Il ricatto ha neu­tra­liz­zato l’istanza a riven­di­care nel luogo di lavoro con­di­zioni di dignità. La degra­da­zione e la dispe­ra­zione hanno gene­rato o ras­se­gna­zione e rinun­zia a lot­tare per una pro­spet­tiva di uscita dallo sta­dio di depres­sione o con­cor­renza tra i degra­dati e i dispe­rati nell’offrire forza-lavoro al prezzo più basso.

È que­sto lo sta­dio di regres­sione della con­di­zione umana in Ita­lia. Si sa che a deter­mi­narla con­tri­bui­sce enor­me­mente l’Europa della sovra­nità dei mer­cati. Ma è dal sog­getto della poli­tica e per­ciò della demo­cra­zia che biso­gna par­tire rico­struen­dolo nella sua auten­ti­cità plu­rale e rifon­dan­dolo alla base della società come tito­lare di una rap­pre­sen­tanza che si imponga nel quo­ti­diano della poli­tica, rap­pre­sen­tan­dosi dove si decide. Ad unire, a supe­rare le con­trad­di­zioni che divi­dono le sini­stre non può che essere la lotta con­tro l’incarnazione attuale del capi­ta­li­smo, il neo­li­be­ri­smo, domi­nante in Europa ed attuato in Ita­lia. Il com­pito, la ragion d’essere della coa­li­zione sociale dovrebbe essere pro­prio que­sto, la rifon­da­zione nella società del sog­getto che si oppone al capi­ta­li­smo neo­li­be­ri­sta e lo sfida

«». Il manifesto

Il pro­getto di coa­li­zione sociale pro­mosso dalla Fiom e con­so­li­dato dall’imponente mani­fe­sta­zione del 28 marzo offre a tutte le per­sone di buona volontà un’opportunità che non va lasciata cadere.

La pro­po­sta cir­co­lava da tempo: era già stata avan­zata da Rodotà in un’assemblea dell’Altra Europa lo scorso giu­gno e rac­colta in diversi docu­menti di que­sta orga­niz­za­zione, rima­sti però senza seguito, avendo L’Altra Europa imboc­cato invece la strada di un accordo tra par­titi e cor­renti della sini­stra esterna e interna al Pd.

Ora, sotto l’ombrello della Fiom, la coa­li­zione sociale sarà per sua natura una realtà poli­cen­trica, la cui trama può comin­ciare a esser tes­suta dai punti più diversi del ter­ri­to­rio e della strut­tura sociale, senza che tra le diverse ini­zia­tive si ven­gano a creare per forza com­pe­ti­zioni o sovrapposizioni.

L’obiettivo comune è quello di aggre­gare for­ma­zioni, comi­tati, asso­cia­zioni, movi­menti, sin­da­cati – ma anche sin­goli non orga­niz­zati - non solo dif­fe­renti tra loro per sto­ria, com­po­si­zione sociale, obiet­tivi e pra­ti­che, ma tra i quali sus­si­stono spesso, latenti o espli­citi, fat­tori di incom­pa­ti­bi­lità o di con­flitto. Ma il lavoro di ricom­po­si­zione di que­ste dif­fe­renze - che una volta affron­tate si rive­lano un fat­tore di ric­chezza sia per tutti che per il pro­getto comune - è pro­prio ciò che rende anche poli­tica la coa­li­zione sociale. Una for­ma­zione com­po­sta da movi­menti e ini­zia­tive che per natura o per la loro sto­ria hanno obiet­tivi mono­te­ma­tici, o ope­rano in campi limi­tati, o sono con­fi­nati in ambiti locali.

Per­ché la poli­tica «buona» - quella orien­tata alla pro­mo­zione, al raf­for­za­mento e al col­le­ga­mento di lotte e ini­zia­tive con­tro le strut­ture con­so­li­date del potere o le misure che col­pi­scono la mag­gio­ranza della popo­la­zione - non è altro che que­sto: unire ciò che il capi­ta­li­smo (e in par­ti­co­lare, la sua con­fi­gu­ra­zione glo­ba­liz­zata e finan­zia­riz­zata di oggi) divide.

Per que­sto una coa­li­zione sociale ben pra­ti­cata è anche sem­pre «politica».

Ma non è vero il con­tra­rio: una aggre­ga­zione di orga­niz­za­zioni poli­ti­che oggi tende a rive­larsi fat­tore di divi­sione tra le com­po­nenti sociali che dovreb­bero esserne il rife­ri­mento. Per­ché qui entrano in gioco diverse riva­lità: nel migliore dei casi tra visioni (a volte anche solo lin­guaggi) dif­fe­renti e cia­scuna aspira ad affer­mare la pro­pria ege­mo­nia sulle altre; nel caso peg­giore, e più fre­quente, tra esi­genze rivali di soprav­vi­venza delle strut­ture o di ripro­du­zione della por­zione di ceto poli­tico pre­sente in cia­scuna orga­niz­za­zione. Un rischio da cui non sono esenti nem­meno le grandi asso­cia­zioni, che hanno anch’esse una pro­pria pic­cola buro­cra­zia interna; ma in misura infi­ni­ta­mente minore, per­ché la loro mis­sione e le loro radici nella società le inchio­dano in qual­che modo a com­por­ta­menti meno ondivaghi.

E’ quello che a mio avviso non hanno capito i molti – tra cui Paolo Favilli in un arti­colo sul mani­fe­sto del 28 marzo scorso – che gio­cano sulla rever­si­bi­lità tra i due con­cetti: se una coa­li­zione sociale è neces­sa­ria­mente poli­tica, una coa­li­zione poli­tica non può che essere anche sociale. Le cose non stanno così e molte vicende, anche recenti, ce lo hanno dimo­strato. Per que­sto una coa­li­zione sociale, a dif­fe­renza di un accordo tra par­titi, non può che essere «né di destra né di sini­stra», nono­stante che gran parte dei valori che fa pro­pri siano quelli della sini­stra tra­di­zio­nale (ma anche su que­sto il fem­mi­ni­smo ha cer­ta­mente molto da dire; e da ridire).

Ovvia­mente met­ter d’accordo orga­niz­za­zioni sociali dif­fe­renti e tra loro in gran parte estra­nee è più com­pli­cato e richiede più tempo, ma è anche più solido, che strin­gere un patto tra i ver­tici di par­titi o di cor­renti diverse. Ma può aiu­tare, in que­sto com­pito, ciò che già era stato pro­spet­tato, e mai attuato, all’interno de L’Altra Europa dopo le ele­zioni euro­pee: la for­ma­zione di gruppi di lavoro in cui le diverse com­po­nenti della coa­li­zione pos­sono con­fron­tare le loro posi­zioni su alcuni temi spe­ci­fici; ma anche le loro pra­ti­che, che sono spesso, assai più delle dichia­ra­zioni pro­gram­ma­ti­che, ciò che divide.

E’ in sedi come que­ste che si pos­sono indi­vi­duare i punti di con­ver­genza e pro­muo­vere ini­zia­tive comuni: non neces­sa­ria­mente tra tutte le com­po­nenti della coa­li­zione in fieri, ma solo tra coloro che su quei punti già si tro­vano d’accordo. Poi si può met­tere a con­fronto le posi­zioni di coloro tra i quali l’accordo non è stato tro­vato e veri­fi­care, con uno scavo sulle ragioni delle diver­genze, ma anche attra­verso il con­fronto con le tante posi­zioni diverse che vi par­te­ci­pano, se è pos­si­bile arri­vare a una mediazione.

Ed è nel corso di que­sto lavoro che, tra alcune - non neces­sa­ria­mente tutte - com­po­nenti della coa­li­zione può emer­gere e con­so­li­darsi la pro­po­sta di una lista elet­to­rale, senza che una scelta del genere impe­gni tutti.

Per que­sto il pro­blema dei due tempi posto da Rodotà – prima la coa­li­zione sociale; poi, magari, anche la lista elet­to­rale – non si pone. Le due cose pos­sono mar­ciare sepa­ra­ta­mente in un unico pro­getto; a con­di­zione che si ten­gano a bada, esclu­den­dole dalla coa­li­zione, le aspi­ra­zioni ege­mo­ni­che dei partiti.

Pre­sto il pro­getto della coa­li­zione sociale, pro­mosso a livello nazio­nale, si ripro­porrà a livello locale: qui le com­bi­na­zioni, come i punti di par­tenza e le prime espe­rienze di un’iniziativa che mira all’unità, ma non parte da essa, potranno essere le più varie; ed è bene che cia­scuno cominci a lavo­rare nei modi e con gli inter­lo­cu­tori che gli sono più con­soni. Si trat­terà di aggre­ga­zioni che, come indica il nome - Unions! - della mobi­li­ta­zione del 28, si richia­mano allo spi­rito mutua­li­stico e soli­dale degli albori del movi­mento ope­raio. Ma che ripro­dur­ranno anche, per il loro legame con ter­ri­tori e comu­nità, quel com­mu­nity unio­nism che ha inne­scato la ripresa del movi­mento sin­da­cale negli Stati Uniti, soprat­tutto tra i lavo­ra­tori immi­grati e meno qua­li­fi­cati; e che non si ferma - anche se ovvia­mente non la tra­scura - alla con­trat­ta­zione sala­riale e delle con­di­zioni di lavoro, ma si fa carico di tutta la con­di­zione sociale, e anche esi­sten­ziale, dei suoi adepti.

Per que­sto la coa­li­zione sociale è anche un ritorno alle ori­gini: rin­no­vato per misu­rarsi con la com­ples­sità degli assetti sociali odierni. Alle ori­gini, le isti­tu­zioni del movi­mento ope­raio ave­vano una base sociale anche nel ter­ri­to­rio: la fab­brica non distava dalle abi­ta­zioni degli addetti e i quar­tieri ope­rai erano con­ti­gui alle unità produttive.

Le prime lotte ope­raie trae­vano gran parte della loro forza dal loro retro­terra. La disgre­ga­zione di quel tes­suto sociale ad opera di un’urbanistica che aveva come obiet­tivo la sepa­ra­zione tra lavoro e resi­denza - e disper­sione di que­sta in un pul­vi­scolo abi­tato da lavo­ra­tori di fab­bri­che e uffici tra loro lon­tani – ha cam­biato i con­no­tati della con­di­zione ope­raia: ben prima che la fram­men­ta­zione dell’impresa for­di­sta in una mol­te­pli­cità di unità pro­dut­tive sepa­rate, sot­to­po­ste a dif­fe­renti regimi con­trat­tuali in paesi e con­ti­nenti diversi comin­ciasse ad aggre­dire l’unità della classe ope­raia anche sui luo­ghi di lavoro.

Il sin­da­ca­li­smo «ope­rai­sta» che ha avuto la sua epo­pea in Ita­lia e in Europa negli anni ’60 e ’70 e negli Stati Uniti negli anni ’30 e ’40 – ma il cui modello per­mane, pur in un con­te­sto com­ple­ta­mente cam­biato – non è che il resi­duo di que­sto «inter­mezzo» sto­rico: tra la disgre­ga­zione dell’unità di classe sul ter­ri­to­rio del tardo otto­cento e del primo nove­cento e quella sui luo­ghi di lavoro della fine del nove­cento e dell’inizio di que­sto secolo. Oggi, in un con­te­sto glo­ba­liz­zato, la dimen­sione ter­ri­to­riale delle alleanze (dove il lavoro di cura, dome­stico e no, l’altra eco­no­mia e la con­ver­sione eco­lo­gica pos­sono tro­vare il loro spa­zio più pro­prio) torna ad avere un ruolo di primo piano. E’da lì che pos­sono ricrearsi pro­cessi sta­bili di con­fronto e di unità tra diversi

Intervistato da Anais Ginoi il sociologo interviene nella discussione aperta ieri da Nadia Urbinati. In Francia considerano di sinistra il partito di Hollande; nessuno al mondo potrebbe considerare tale il partito di Renza. La Repubblica, 1. aprile 2015

«LA sinistra può morire. Come qualsiasi essere vivente, non è eterna». La profezia di Alain Touraine, dall’alto dei suoi quasi novant’anni e dei numerosi saggi sulle società post-industriali, non lascia molta scelta: prepariamoci a scrivere un epitaffio oppure a pubblicare un nuovo certificato di nascita. «La gauche è in agonia, fuori tempo e fuori dal mondo. Non potrà resistere a lungo» spiega il sociologo francese all’indomani dell’ennesima sconfitta del partito socialista al potere.

«La sinistra – spiega Touraine – non riesce a reinventarsi in un’epoca post-sociale, in cui i rapporti di forza non sono più basati, come un secolo fa, sulla produzione. Non ha più una classe sociale di riferimento, alla quale corrispondono valori, ideali, rapporti di forza. Non è più portatrice di un orizzonte, di una speranza».

Già nel 1979 lei pubblicava un saggio dal titolo Mort d’une gauche . Quante sinistre sono morte da allora?
«Nel ventunesimo secolo tutti i partiti politici faticano a riposizionarsi all’interno di un’architettura della società che è crollata. È una situazione simile a quella che si è verificata alla fine dell’Ottocento, quando le formazioni politiche uscite dalla Rivoluzione faticavano a dare una risposta davanti alle nuove realtà industriali dell’epoca. Per il partito socialista la perdita di identità è più forte perché non ha saputo rinnovare la concezione dello Stato. Nonostante tutte le presunte svolte, da François Mitterrand in poi, non c’è stata una ridefinizione di quale debba essere il ruolo dello Stato e dunque della nazione in un mondo globale».

Gli elettori ormai votano più per rabbia che per convinzione?
«C’è una radicalizzazione de- gli estremi, sia a sinistra che a destra. Il Front de Gauche di Mélenchon non è poi tanto diverso dal Front National di Marine Le Pen. Entrambi sono il sintomo di una rottura del popolo con l’élite politica che sembra impotente. Sono quasi tre anni che François Hollande è al potere e ancora non ho sentito una proposta concreta per rispondere alla crisi. L’unica strategia è aspettare la ripresa. Negli ultimi mesi, ci siamo trovati a discutere di cose grottesche come l’apertura domenicale dei negozi o i privilegi dei notai. Non è così che si creano 500mila posti di lavoro. Hollande ha proposto un patto con le imprese, alle quali ha regalato oltre 40 miliardi di euro in sconti fiscali, ma loro non hanno creato posti di lavoro. Anche gli imprenditori continuano a perdere tempo, probabilmente aspettano che torni al potere la destra, dalla quale si sentono più garantiti».

La gauche al potere ha tradito il suo elettorato?
«Il capitalismo finanziario ha sostituito il capitalismo industriale. È un dato di fatto. Non possiamo chiedere alla sinistra di governare come nel 1936 quando c’era il Front Populaire. Mélenchon è un velleitario, ha una linea del “né né”, né con Hollande né con Sarkozy. Con chi allora? Dietro ai suoi proclami, c’è solo il vuoto. E intanto gli operai votano per il Front National, mentre Mélenchon seduce solo qualche professore. Il partito socialista si è sottoposto, come tutte le forze di governo della nostra epoca, al dogma finanziario e materialista, ma ha un problema in più: deve conciliare un individualismo al plurale, facendo per esempio convivere i diritti economici strettamente personali, con valori e diritti universali, in una visione collettivista che è nel suo Dna».

Hollande ha sbagliato a seguire la dottrina europea dell’austerità?
«Ma di quale austerità parliamo? Il bilancio dello Stato francese è in deficit da trent’anni. Oggi c’è una sola parola che dovrebbe contare: competitività. La sinistra ha rinunciato a fare una vera politica di risanamento. Ha scelto di non scegliere. Tutti i paesi europei attraversano le stesse difficoltà, l’unica differenza è su chi far ricadere il peso della crisi. La Terza Via di Tony Blair è stato un progetto reazionario, ha portato a compimento la deindustrializzazione del paese, sviluppando un’economia solo finanziaria, e riducendo i salari. Gerhard Schröder ha invece puntato sull’industria ma ha creato dei minijob che sono pagati meno del salario minimo francese. In Francia, come in Italia, abbiamo scelto di far pagare il prezzo della crisi alle classi popolari con la disoccupazione. Sono entrambi strategie perdenti».

Quindi ci troviamo in un’impasse?

«Sarò brutale, ma nella situazione attuale l’unico modo di ri- lanciare l’occupazione è avere un bilancio dello Stato in equilibrio. Oggi non ci sono margini. Lo Stato non può contribuire alla crescita con investimenti pubblici. È costretto a chiedere aiuto al patronato, che ovviamente resta nel vago. Da anni la Francia non progredisce perché non può agire sull’economia prima di aver risanato i conti pubblici. La spesa dello Stato pesa per oltre metà del Pil, abbiamo il record mondiale. Per fortuna c’è l’Europa che ci costringe a mantenere un minimo di realismo».

Il partito socialista è sull’orlo dell’implosione?
«Siamo in un momento cruciale. Mi ha impressionato in negativo il discorso di Manuel Valls dopo la sconfitta. In sostanza ha detto: va tutto male, la disoccupazione non scende, le tasse sono troppe, ma continuiamo così. È un messaggio piuttosto scoraggiante per un francese medio. Forse da parte del premier è una prova di sincerità. Forse è davvero convinto che bisogna solo aspettare che il vento della ripresa soffi anche sulla Francia. Ma tra due mesi ci sarà il congresso del partito socialista e la resa dei conti tra le varie correnti è già cominciata. I dissidenti si preparano a un attacco mortale contro un governo che sembra già esausto, senza nulla da offrire. Hollande e Valls devono vincere l’apatia. Se non ci sarà un vero chiarimento, allora serviremo su un piatto d’argento la vittoria a Nicolas Sarkozy nel 2017».

In Francia considerano che

I francesi sono appena andati al voto per il rinnovo dei Dipartimenti e tutti l'abbiamo considerato non solo un importante test politico, ma anche una prova di democrazia di quel Paese. Peccato che nessuno abbia fatto notare che da noi l'equivalente istituzione delle Province si è vista sottrarre questa possibilità.
Ma loro non hanno le Regioni, mi sono detto: non è vero. La Francia ha 22 Regioni elette a suffragio universale ogni 6 anni. Ma almeno non avranno il Senato: sbagliato. Anche se eletto da 150.000 grandi elettori e non vota la fiducia al governo, perché una legge sia promulgata, essa deve essere approvata da entrambe le camere.

E negli Stati Uniti, modello di democrazia occidentale? Il Senato condivide con la Camera dei Rappresentanti il potere legislativo i senatori possono presentare proposte di legge; non possono però proporre leggi tributarie (questa funzione spetta in esclusiva ai rappresentanti), anche se possono modificarle senza limitazioni. Ciascuna proposta, per divenire legge, deve essere esaminata e approvata da entrambe le camere e il Senato possiede anche alcuni poteri esclusivi, tra cui la ratifica dei trattati internazionali e l'approvazione delle nomine di molti funzionari e dei giudici federali.
Non mi pare che il problema principale su cui si misura l'efficienza e la democrazia di questi due Paesi sia il cambiamento di questi sistemi istituzionali ed elettorali: Renzi crede davvero che quello da lui delineato costituirà un loro modello di orientamento?

«Stato di crisi» di Carlo Bordoni e Zygmunt Bauman, per Einaudi. L’impoverimento e le disuguaglianze sociali hanno evidenziato l’implosione di un modello economico. L'Ue è il laboratorio dove sperimentare, in più occasioni, le varie politiche legate all’austerity».

Il manifesto, 31 marzo 2015

Un dia­logo dove uno dei par­te­ci­panti incalza l’altro, il quale si sot­trae e spinge la discus­sione su altri binari. E quando la parola torna al primo, quest’ultimo non può che ripren­dere il ban­dolo della matassa e cer­care di rites­sere le fila di una discus­sione che corre il rischio annul­larsi in una serie di mono­lo­ghi. La forma del dia­logo per affron­tare un tema è antica, la si trova nella filo­so­fia greca, ma anche in testi sacri, com­preso il vec­chio testa­mento. La sua effi­ca­cia dipende dal tema pre­scelto e dalla volontà dei pro­ta­go­ni­sti del dia­logo di misu­rarsi con punti di vista che non sem­pre coin­ci­dono. Nel caso di Stato di crisi (Einaudi, pp. 198, euro 18) è però evi­dente che Zyg­munt Bau­man e Carlo Bor­doni sono più che dispo­ni­bili a misu­rarsi con le tesi che ven­gono espresse.

Carlo Bor­doni è un socio­logo che stu­dia da tempo la «demas­si­fi­ca­zione» delle società con­tem­po­ra­nee. Ha deli­neato la deriva cul­tu­rale verso un indi­vi­dua­li­smo pro­prie­ta­rio, sot­to­li­neando i tratti di nichi­li­smo, nar­ci­si­smo che emer­gono quando una mol­ti­tu­dine – una som­ma­to­ria gene­rica di sin­goli di sin­goli, per Bor­doni — prende il posto delle classi sociali. Zyg­munt Bau­man è invece il teo­rico della moder­nità liquida.

In que­sto libro svolge il ruolo del sag­gio stu­dioso che, alla luce della sua espe­rienza, è poco incline a fare pro­prie sug­ge­stioni teo­ri­che che il sistema dei media porta alla ribalta. Misura le parole, quasi volesse sug­ge­rire al suo inter­lo­cu­tore che la crisi, il tema attorno al quale ruota il loro dia­logo, costringa a misu­rarsi pro­prio con la moder­nità, i suoi punti di forza, ma anche i vicoli cie­chi che l’hanno carat­te­riz­zata. Segnala, infatti, che in nome delle pro­messe degli esordi — libertà, benes­sere per tutti — sono state erette pri­gioni e costruiti campi di lavoro. E che per ren­dere ope­ra­tiva almeno una di quelle pro­messe, il benes­sere della nazione, sono stati indi­vi­duati dei nemici e pia­ni­fi­cato il loro ster­mi­nio. Per que­sto invita più volte a dotarsi di bus­sole che orien­tino con chia­rezza la mar­cia da intra­pren­dere nell’interregno che separa il pre­sente e un futuro che in molti vedono negato dalle poli­ti­che del neo­li­be­ra­li­smo e che altri temono come la peste, per­ché con­vinti che non potrà che peg­gio­rare le loro con­di­zioni di vita. A tale richie­sta di cau­tela pro­gram­ma­tica Bor­doni ade­ri­sce, ma più volte mette nero su bianco che — rispetto le sfide poste dalla situa­zione di crisi eco­no­mica — vanno imma­gi­nate anche rispo­ste politiche.

Legit­ti­mità perduta

Il titolo del libro in que­stione chia­ri­sce tut­ta­via quale sia il timore di Carlo Bor­doni. Lo Stato di crisi attorno al quale discu­tono i due stu­diosi non si rife­ri­sce solo alla crisi che dal 2007 in poi ha get­tato nel panico e nel lastrico milioni di per­sone. L’impoverimento, la disoc­cu­pa­zione di massa, l’aumento espo­nen­ziale delle disu­gua­glianze sociali hanno reso evi­dente l’implosione di un modello eco­no­mico e sociale che era stato impo­sto per­ché il pre­ce­dente mostrava evi­denti segni di logo­ra­mento; per que­sto si è impo­sta la con­vin­zione che ha avuto la capa­cità di costruire un forte e niente affatto effi­mero con­senso, di rimuo­vere, con le buone ma anche con le cat­tive, i vin­coli posti dal cosid­detto regime di accu­mu­la­zione capi­ta­li­stica fordista.

Sono ormai pas­sati trent’anni da quando alcuni lea­der poli­tici (Mar­ga­ret That­cher e Ronald Rea­gan) e un nutrito gruppo di eco­no­mi­sti invi­ta­vano con voce sua­dente a lasciare liberi gli spi­riti ani­mali del mer­cato per­ché — così facendo — tutto sarebbe andato per il meglio. Le cose non sono andate per niente bene, ma l’idea che il libero mer­cato fosse il miglior modo di pen­sare e di far fun­zio­nare l’economia è stata egemone.

Non è sem­pre con­vin­cente la gene­ra­liz­za­zione che i due autori fanno, spe­cial­mente quando met­tono in secondo piano il fatto che il neo­li­be­ri­smo ha modi­fi­cato a favore delle imprese, e del capi­tale, i rap­porti di forza. Le posi­zioni di Bau­man e Bor­doni col­gono però il segno quando sot­to­li­neano che, con la crisi, il neo­li­be­ri­smo, ha perso con­senso e legit­ti­mità, anche se non si capi­sce con chia­rezza quale sia il modo di pro­durre che possa far ripar­tire la loco­mo­tiva dell’economia mondiale.

Il neo­li­be­ri­smo, infatti, ha costi­tuito una discon­ti­nuità rispetto al pas­sato. Dif­fi­cile ripro­porre un ritorno al wel­fare state su base nazio­nale, viste le inter­di­pen­denze che carat­te­riz­zano l’economia mon­diale. Un modo per sbro­gliare la matassa potrebbe par­tire però dall’analisi di come ha col­pito la crisi. Sono cre­sciute le disu­gua­glianze nel capi­ta­li­smo euro­peo e sta­tu­ni­tense; i diritti di cit­ta­di­nanza sono diven­tati merci da acqui­stare sul mer­cato dei ser­vizi sociali; la pre­ca­rietà è diven­tata l’alfa e l’omega nei rap­porti di lavoro.

Cose note, meno evi­dente è invece il fatto che sono state defi­nite vie d’uscita dalla crisi del neo­li­be­ri­smo all’interno dello stessa regime di accu­mu­la­zione. L’Unione euro­pea è, da que­sto punto di vista, un labo­ra­to­rio sociale e poli­tico di uscita dalla crisi attra­verso le poli­ti­che di auste­rity.
Ad altre lati­tu­dini, sono ope­ra­tive solu­zioni che, sem­pre in nome del libero mer­cato, vedono lo stato svol­gere, attra­verso un governo gestito con mano ferma di un par­tito comu­ni­sta, una dut­tile e comun­que evi­dente fun­zione pia­ni­fi­ca­trice. Non è tut­ta­via que­sto che i due autori vogliono indagare.

Un futuro da ricreare

Il libro oscilla dalla volontà di offrire una foto­gra­fia non sfo­cata della realtà con­tem­po­ra­nea e l’ambizione di costruire una vera e pro­pria capa­cità inter­pre­ta­tiva dello stato di crisi, appunto, che nelle pagine di que­sto libro ha molto a che fare con la crisi della modernità.
E se Bau­man pre­fe­ri­sce, come è noto, par­lare di moder­nità liquida, Bor­doni avanza il sospetto che più di fine della moder­nità si debba par­lare di una sorta di venir meno di un intera costel­la­zione cul­tu­rale, poli­tica e eco­no­mica basata sul l’idea di pro­gresso, dove il futuro non poteva essere che migliore del pas­sato.

Ele­mento cen­trale della sua rifles­sione è appunto la «demas­si­fi­ca­zione» delle società con­tem­po­ra­nee: pro­spet­tiva ana­li­tica che il socio­logo polacco inqua­dra però come un ele­mento pro­prio della moder­nità, che al sem­pre messo al cen­tro il sin­golo, che poteva certo atten­dere per con­se­guire i suoi obiet­tivi, ma era con­sa­pe­vole che tutti gli sforzi erano fina­liz­zati alla sua feli­cità.

La parola chiave, magica del libro è dun­que inter­re­gno, cioè di una tran­si­zione da un modo di pro­du­zione all’altro. Quel che però è assente dal libro che la crisi, cioè lo stare pro­prio in un inter­re­gno, è una con­di­zione non con­giun­tu­rale, ma sta­bile del capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo. In altri ter­mini, l’interregno sarà la realtà «sta­bile» della vita asso­ciata. E che in que­sto inter­re­gno si defi­ni­ranno poli­ti­che sociali e eco­no­mi­che per gestire una realtà che ha sì messo in qua­ran­tena l’idea di pro­gresso, ma senza rinun­ciare a defi­nire le regole bron­zee del capi­ta­li­smo nella pro­du­zione della ricchezza.

C’è sem­pre un però da met­tere in campo: che la crisi, così come vivere nell’interregno, diventi una pos­si­bi­lità per affer­mare quel ren­dere realtà un bino­mio che ha accom­pa­gnato la moder­nità: cioè quella pos­si­bi­lità di vivere insieme, ma da liberi e eguali.

«CERCARE di sfondare il tetto di cristallo non ci salverà». Parola della femminista americana Nancy Fraser, nei giorni in cui persino dalla terra dell’innovazione, la Silicon Valley, arriva l’allarme sessismo. «Lo abbiamo tradito — ci siamo tradite — e non ce ne siamo neppure accorte. Il femminismo è stato rinnegato con campagne social, è diventato mainstream e si è trasformato in brand, come la campagna Lean in di Sheryl Sandberg, direttrice di Facebook. La lotta delle donne si è concentrata sul corpo, l’identità, la conquista dei vertici della società: lavorare per emergere».

Ma acosa serve che poche sfondino il vetro mentre la maggior parte delle donne lavora in condizioni precarie e l’austerity sferra gli ultimi colpi al sistema di welfare? Il femminismo come ancella del neoliberismo è centro d’attrazione dell’indagine di Nancy Fraser. Professoressa di scienze politiche e sociali alla New School, è nota in Italia per le sue riflessioni sul tema della giustizia sociale: quella politica della rappresentanza in un contesto globale, quella economica della redistribuzione e quella culturale del riconoscimento. Su questa giustizia che abbiamo smesso di inseguire Fraser ha scritto Fortune del femminismo: dal capitalismo regolato dallo Stato alla crisi neoliberista , pubblicato in Italia da Ombrecorte. Temi su cui torna in questa intervista, oltre ad affrontare argomenti legati all’attualità di queste settimane. Come la questione del sessismo nella Silicon Valley, dove una donna manager, Ellen Pao, ha intentato una causa contro la sua ex azienda, il fondo Kpcb: il tribunale le ha dato torto, ma il dibattito è apertissimo.

A proposito di Silicon Valley: per fare carriera e scegliere quando mettere su famiglia, il “benefit aziendale” proposto da Facebook e Apple è congelare gli ovuli. Che cosa ne pensa?

«Quel benefit potrebbe sembrare positivo per le singole donne in un contesto tecnologico che segue ritmi velocissimi e in cui se vieni lasciato indietro per mesi o un anno sei finito. Consente di posticipare la cura dei figli. Ma l’idea “noi adattiamo la famiglia e la riproduzione all’agenda aziendale” in realtà è folle. Le donne possono individualisticamente esserne sollevate, sembrerà che possano avere tutto. Ma di fatto è la biologia che viene sottomessa e piegata al capitalismo delle corporation».

Di recente la direttrice del Fondo Monetario Christine Lagarde ha puntato il dito sulla «cospirazione contro le donne perché non siano economicamente attive». È d’accordo?

«Lagarde è un esempio calzante delle contraddizioni del femminismo. Il fatto è che la seconda ondata femminista, a cavallo tra fine anni Sessanta e fine Settanta, si focalizzava sul tema della redistribuzione: un approccio solidaristico vicino alla tradizione socialdemocratica. Quando lo Zeitgeist è cambiato a favore del neoliberismo, anche il femminismo ha preso un’altra direzione: l’emancipazione legata all’equità è stata soppiantata dall’emancipazione in senso individualistico. Prendiamo proprio la Lagarde: una donna potente, ai vertici, ma che allo stesso tempo ha supportato politiche di austerity di fatto molto dannose per le condizioni delle donne. Il suo femminismo neolib rivendica un ruolo più attivo delle donne nel lavoro, ma quali precondizioni garantisce loro? Oggi il lavoro è mal pagato, le donne ricevono salari più bassi, i governi tagliano la spesa sociale».

Nell’era del welfare state si lottava per l’inclusione delle donne. Ora che il welfare è in crisi, possono essere proprio le donne a salvarlo?

«Nel modello fordista o keynesiano, nel sistema capitalistico organizzato dallo Stato, le donne – almeno nei Paesi ricchi occidentali – erano incluse anzitutto come madri. La famiglia si reggeva sul salario del marito. Ora che il lavoro è precario, per le donne è necessario lavorare. La nuova forma di capitalismo neoliberista non vuole le donne a casa come madri full time, anzi: le vuole lavoratrici, ma con stipendi bassi. Insomma, il passaggio è stato da un modello di svantaggio a un altro modello di svantaggio. Questo mentre il welfare viene tagliato».

Un processo irreversibile?

«Credo che il genio della globalizzazione sia uscito troppo dalla sua lampada per poterlo riportare dentro. Lo Stato di una volta alimentava il sistema di welfare attraverso la redistribuzione fiscale, ora non governa neppure più la propria valuta: guardate la Grecia e l’euro. Ma se in qualche modo democrazia sociale deve esserci oggi, allora deve essere organizzata in un quadro transnazionale o persino globale: le femministe dovrebbero essere in prima linea per imboccare questa strada. Alcuni hanno creduto che proprio l’Ue potesse realizzare una democrazia sociale transnazionale, ma l’Europa sta seguendo la sirena neoliberista. Gli sforzi antiausterity di Syriza e Podemos rappresentano una speranza anche per il femminismo, nel senso che si oppongono al degrado delle condizioni di vita».

Luc Boltanski ieri, Slavoj Zizek oggi, sostengono che fenomeni come il Sessantotto e l’ambientalismo sono stati fagocitati dal capitalismo liberista. Concorda?

«Il capitalismo ha da dato un nuovo significato a questi temi, li ha “corrotti”: lo hanno spiegato in modo esemplare Luc Boltanski ed Ève Chiapello ne Il nuovo spirito del capitalismo , ed è lo stesso argomento che io declino da anni nell’ambito del femminismo. È stato usato per legittimare pratiche “market friendly” che non risolvono i divari. Stessa cosa per il capitalismo “green”. I movimenti sono stati indirizzati su queste chiavi: privatizzare, consumare, individualizzare».

La crisi globale di questi ultimi anni ha cambiato qualcosa?

«C’è stato un frangente in cui è sembrato che l’ordine finanziario e la sua legittimità dovessero collassare, ma oggi non è chiaro se il neoliberismo sia uscito danneggiato dalla crisi oppure no: scoraggia come il capitalismo riesca paradossalmente a trasformare la crisi in opportunità di profitto. La stabilità del neoliberismo come regime è tutta da vedere, i problemi e il peggioramento delle condizioni di vita emergeranno con sempre più prepotenza. Ma anche nell’opporsi al neoliberismo, bisogna emanciparsi dall’approccio neolib. Ad eccezione di Podemos, i movimenti come Occupy che si erano coagulati in un blocco antiegemonico qualche anno fa si sono rivelati effimeri. Questo perché non erano strutturati, erano dominati da una sensibilità neoanarchica».

E allora qual è la ricetta giusta per il futuro?

«Di femminismo e di un’alleanza per la democrazia c’è bisogno più che mai: ma perché siano i popoli e non i mercati a dettare la linea ai governi, dobbiamo abbandonare l’ossessione individualista. E recuperare la solidarietà».

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