Il presidente della Repubblica non ha accompagnato la promulgazione con un breve messaggio, al modo in cui qualche volta aveva fatto Giorgio Napolitano, così smentendo quanti avevano previsto qualche parola dal Colle sul necessario collegamento dell’Italicum alla riforma costituzionale. La legge che il parlamento ha mandato al presidente si sarebbe prestata a qualche osservazione, visto che è previsto che resti sospesa per oltre un anno (fino al luglio 2016). La Corte costituzionale (con il voto dello stesso Mattarella) anche nella sentenza del 2014 che ha abbattuto il Porcellum aveva ricordato come il paese non può restare un solo giorno senza una legge elettorale applicabile. Eppure il parlamento scrivendone una nuova ha deciso di lasciarla tra parentesi. E non si è preoccupato nemmeno di fare gli interventi necessari a rendere applicabile da subito il Consultellum, cioè il sistema residuato dalla sentenza della Corte (e dalla Corte stessa previsti). La sospensione, infine, è addirittura senza limite per il senato, posto che l’Italicum vale per la sola camera e il sistema è destinato a restare incompleto fino a che non sarà abolito il senato elettivo. Su tutto questo Mattarella non ha ritenuto di precisare nulla.
Il presidente non ha avuto alcuna osservazione da fare neanche sulle più volte sollevate questioni di incostituzionalità della legge, ma in questo secondo caso si tratta di una scelta assai più prevedibile e comprensibile alla luce delle prerogative del capo dello stato. È invece proprio su questo, cioè sul non aver rifiutato del tutto la firma, chiedendo alle camere una nuova deliberazione, che il Movimento 5 Stelle ha preso immediatamente — e pesantemente — ad attaccare il presidente della Repubblica, al quale pure si era rivolto con grandi speranze nell’ultimo intervento alla camera prima del voto finale. Mentre dal predecessore di Mattarella, Giorgio Napolitano, è arrivato un prevedibile messaggio di consenso: «È un raggiungimento importante, era inevitabile approvare l’Italicum che del resto non è arrivato in un mese ma in oltre un anno».
Sono passati in realtà tre mesi scarsi da quando il testo della legge elettorale è stato cristallizzato in senato, immediatamente prima dell’elezione di Mattarella. Nulla è cambiato da allora, il presidente lo conosce bene e dunque non ha senso giudicare «rapida» la sua firma, arrivata il giorno stesso in cui la legge è ufficialmente approdata sulla sua scrivania. Dieci anni fa Carlo Azeglio Ciampi lasciò trascorrere otto giorni prima di promulgare il Porcellum, ci pensò bene, ma la legge fu ugualmente giudicata incostituzionale dalla Consulta, molti anni più tardi.
In attesa dei giudici della Corte Costituzionale davanti ai quali sarà certamente portata (prima o poi) anche questa legge elettorale, si sono fatte sentire le agenzie internazionali di rating. Fitch ha scritto che l’approvazione dell’Italicum «nel medio termine rafforzerà il profilo di credito del paese riducendo i rischi politici che gravano sulle politiche economiche e di bilancio». Mentre secondo il Financial Times con la nuova legge elettorale si mette fine all’«ossessivo sistema di pesi e contrappesi che ha regolarmente prodotto coalizioni di governo instabili» e si «accresce la forza dell’esecutivo». Forse persino troppo: One worry is that it may place too much power in the hands of the executive
di Alfio Mastropaolo
L’esecutivo decide, il parlamento finge di controllare, ma registra, la popolazione si adegua. Non tutta: quella piccola parte che paga, detta le sue condizioni
Non tutta la popolazione si adegua. In realtà c’è una piccola parte che detta all’esecutivo le sue condizioni. Le detta, forte del fatto che è lei a sostenere i mostruosi costi delle campagne di persuasione elettorale. Con l’abolizione del finanziamento pubblico della politica li sosterrà ancor di più. E quindi detterà condizioni ancor più stringenti. Possiamo senza fatica fare ipotesi su quali politiche attuerà l’esecutivo. Di destra o di sinistra che sia, o che si dica, le differenze staranno nei particolari, non irrilevanti, ma sempre particolari. L’essenziale delle scelte politiche lo deciderà chi paga. E poiché, dato lo stato del nostro sistema imprenditoriale, a pagare saranno soprattutto imprese straniere, la pressione internazionale si accentuerà ulteriormente. Si adeguerà il grosso della popolazione, ma si adeguerà l’intero paese. Destinato a diventare sempre più marginale e sottomesso nella divisione del lavoro planetaria.
Abbiamo già avuto qualche avvisaglia del destino che ci aspetta. Ma finora servivano le perentorie imposizioni di Bruxelles e Francoforte. D’ora il poi basterà loro sollevare un sopracciglio. La cupidigia di servilismo è ipertrofica nelle classi dirigenti italiane. Ciò lascia pensare che riusciranno perfino a prevenirle. Resterà qualche piccolo ostacolo, come la Corte costituzionale. Ma non durerà troppo a lungo. I giudici passano, d’ora in poi li sceglierà l’esecutivo, in combutta con un’opposizione che sarà il suo doppio, e i giuristi pronti a mettersi a servizio sono una folla. Le sentenze capricciose e imbarazzanti come l’ultima sulle pensioni potremo scordarcele.
Sarebbe ingenuo attribuire la responsabilità — o il merito — di questa infausta normalizzazione a Renzi. Renzi e la sua leadership sono figlie delle circostanze, lui ha profittato delle circostanze favorevoli e ha operato coerentemente con la sua cultura, ma la normalizzazione arriva da lontano. È dai primi anni 80 che politici e intellettuali perseguono questo disegno con grande determinazione. Con le parole e coi fatti. Qualcuno si dichiara al momento insoddisfatto. In effetti c’è ragione per discutere sulla totale rimozione di ogni garanzia che si verificherà una volta conclusa la parabola delle riforme renziane. Ma si tratta di dettagli. La smania di decisionismo sovrasta questi dettagli ed è molto antica.
Qualcuno di coloro che smaniano da quasi mezzo secolo dirà che la democrazia dei partiti era alla paralisi. Ma a questo argomento si può replicare che quel modello democratico si poteva adeguarlo senza stravolgerlo. E che le dosi massicce di decisionismo già iniettate nel nostro regime democratico hanno prodotto solo effetti disastrosi. Così come non brillanti sono i risultati conseguiti dalle democrazie normali che stanno intorno a noi. Così poco brillanti da metter in dubbio l’idea stessa di normalizzazione. La quale sicuramente conviene ad alcuni — i potentati economico-finanziari — ma non alla maggioranza della popolazione.
Il significato della parola democrazia è incerto. O controverso. Dacché i regimi democratici hanno sostituito quelli liberali è cominciata una guerra per circoscriverlo è che ha avuto successo. Democrazia, si dice, è il suffragio universale, le libere elezioni, la concorrenza tra i partiti. Il resto avanza. Nessun dubbio che queste cose ci stiano. Ma la democrazia e il suffragio universale li si era voluti proprio per cancellare il privilegio delle oligarchie liberali e per finalizzare in maniera più egualitaria l’azione di governo. Ebbene, le democrazie sono state svuotate e siamo tornati indietro di oltre un secolo. In nome della democrazia normale.
Che farà il grosso della popolazione, che è a ben vedere grossissimo, come la crisi ha dimostrato? Un esito certo è la crescita dell’astensione. La frustrazione aumenterà la sfiducia. Gli imbecilli diranno che capita ovunque ed è quindi normale. Cresceranno anche i sentimenti di rivalsa, la cui manifestazione più evidente è il razzismo. Con questo sistema elettorale - la Francia insegna - il rischio che un partito razzista, quantunque minoritario, vinca le elezioni, è piuttosto alto.
Vedremo. C’è però una terza possibilità. Che il grosso della popolazione si ribelli. Che intenda che la democrazia normale serve a fregare ulteriormente i giovani, gli operai, gli impiegati, gli insegnati, se l’è già presa coi proprietari di case e presto se la prenderà con gli avvocati, i professionisti e quant’altri. Il capitalismo finanziario se ne infischia di tutti. Punta a pellegrinare informaticamente per il pianeta, per speculare dove meglio conviene. Bassi consumi per i più, cibo di qualità scadente e consumi di lusso per le vedette dello spettacolo.
Di contro, se questa porzione larghissima di società non cadesse nella trappola della guerra tra poveri e si mettesse insieme, sarebbe un modo di difendersi. Bisogna ridursi come la Grecia per capirlo? È vero che la Grecia non riesce a sottrarsi ai suoi spietati aguzzini. Ma è vero anche che se la Grecia non fosse sola, se la lotta contro la democrazia normale e il capitalismo di rapina si allargasse, la partita si riaprirebbe
Apartheid nella "civilissima" Europa. Una cronaca di Vladimiro Polchi e un commento di Michele Serra sul gravissimo episodio avvenuto ieri ai confini italiani, con la complicità dei nostri.
La Repubblica, 1° maggio 2015
di Vladimiro Polchi
«I controlli su base etnica sono inaccettabili: fermate la caccia al nero». Negli uffici della Caritas e delle organizzazioni internazionali esplode il caso “apartheid sui treni”. Col Pd che chiede immediati chiarimenti al Viminale: «È una gravissima discriminazione, intollerabile in un Paese civile».
Il fatto: in questi mesi, come ha raccontato ieri Repubblica , i treni in partenza da Bolzano e diretti oltre confine vengono controllati da pattuglie miste di poliziotti italiani, tedeschi e austriaci che bloccano chi non è bianco e impediscono ai migranti di salire sulle carrozze. «La polizia di frontiera sta facendo qualcosa di inaccettabile — attacca Oliviero Forti, responsabile immigrazione della Caritas — i controlli legati al colore della pelle fanno tornare in mente vicende terribili che non vorremmo più vedere in Europa. Anche la Caritas di Bolzano ci ha confermato queste ispezioni. Lo stesso avveniva nel 2011 coi tunisini alla frontiera francese.
Una vicenda quasi incomprensibile per quanto anacronistico e detestabile è il criterio applicato dalle pattuglie italo-austro-tedesche che hanno l’incarico (tra l’altro del tutto velleitario) di frenare l’approdo nel Nord Europa dei profughi africani che cercano di raggiungere i parenti in Germania, Svezia, Norvegia.
Il presidente del Consiglio ha dichiarato nei giorni scorsi che, finito il travaglio spossante della riforma elettorale, il governo si occuperà di diritti. Viene da dire: si occuperà della sostanza della politica e non più solamente della sua forma, con tutto il rispetto per la forma e per la faticosissima, contrastatissima ri-forma. Ecco una eccellente occasione per farlo. Chiedersi come sia potuto accadere, per quale assurdo accidente procedurale o per quale dolosa rozzezza, che in territorio italiano uomini in uniforme siano costretti, umiliando anche se stessi e il proprio ruolo, a dire “tu no” e “tu sì” ai passeggeri di un treno a seconda della loro razza, abbiano o non abbiano un biglietto in tasca.
Di questi rifiutati, compresi i bambini, esistono bivacchi che vivono ai margini delle stazioni affidandosi al soccorso di volontari e di associazioni umanitarie. Sono la testimonianza vivente dell’inesistente visione europea sulla questione, enorme, dell’esodo africano, malamente avviato alle coste italiane e poi rimpallato dai nostri partner europei. Una risacca che trova lungo le Alpi un secondo vaglio, dopo il mare le montagne, replicando anche su terra ferma quella negazione del diritto di viaggiare (non di risiedere: di viaggiare) che a ogni europeo sembra il più naturale dei diritti, almeno dalla caduta del Muro in poi. E per molti africani è diventato un azzardo, una scommessa, un rischio assurdo. Per quanto enorme sia il problema, per quanto delicato affrontarlo, lo spettacolo di un treno sgomberato dai neri e riservato ai bianchi non è ammissibile, rimanda a discriminazioni la cui fine è giustamente celebrata come una liberazione in ogni parte del mondo dove vigevano forme di segregazione. La liberazione da un incubo. Il ministro degli Interni e le altre figure istituzionali interessate riaprano i loro cassetti (pare che quelle pattuglie “trilaterali” siano un portato degli accordi di Schengen), cerchino di capire come rimediare a un così maldestro obbrobrio, non costringano uomini dello Stato a individuare la pelle nera come un pericolo e la pelle bianca come un lasciapassare.
Per quanto difficile sia capire, sulla questione dei migranti e dei profughi, che cosa bisogna fare, è facilissimo capire che cosa non bisogna fare. Non bisogna che il criterio razziale trovi una benché minima forma di leggibilità, di dicibilità. “Tu non puoi perché sei nero” è indicibile, e basta. Che il governo Renzi si occupi di diritti non è, in questo caso, un buon proposito o un punto della futura agenda politica. È qualcosa da fare e da risolvere oggi, stamattina. Adesso.
La rilettura. Stralcio di un libro che dopo 20 anni è ancora di bruciante attualità. Almeno per chi vuole uscire dalla crisi: "L’età dello spreco. Disoccupazione e bisogni sociali".
Il manifesto, 30 aprile 2015, con postilla
Giorgio Lunghini, i. Bollati Boringhieri, 1995
In una conferenza sulle “Prospettive economiche per i nostri nipoti”, tenuta a Madrid nel 1930, negli anni dell’ansia, John Maynard Keynes affermava che (…) nell’arco di cent’anni l’umanità avrebbe risolto il suo problema economico (…). Nei sessantacinque anni passati da allora l’umanità non si è mossa nella direzione della libertà dal bisogno, della liberazione dalla necessità di vendersi in cambio dei mezzi di vita. Dall’età dell’ansia che Keynes ha cercato di sciogliere siamo passati all’età dello spreco, non a quella della libertà e della sobrietà. L’atroce anomalia della disoccupazione in un mondo pieno di bisogni è oggi ancora più grave di allora (…). Alla proliferazione immane delle merci e alla crescita della disoccupazione si accompagnano vecchie e nuove povertà, guerre fra poveri e un generale imbarbarimento dei rapporti materiali dell’esistenza. La teoria economica e l’arte del governo non sanno spiegare né vogliono risolvere il problema economico-politico più grave: troppe merci, poco lavoro (…). La mia tesi è che la disoccupazione ha oggi carattere strutturale, ha origine nelle forme attuali del cambiamento tecnologico e organizzativo, ed è tendenzialmente irreversibile. Nel ragionamento seguente sostengo che la famacopea ortodossa non ha medicamenti che possano risolvere o almeno lenire la nuova forma della malattia cronica del capitale, la contraddizione tra spreco e penuria. Occorre cercare anche altrove, fuori da una logica esclusivamente mercantile. Occorre mettere in moto lavori concreti, essenzialmente lavori di cura delle persone, delle città e delle campagne. (stralci dalle pagine 7-9)
postilla
Lunghini pone il tema della finalizzazione del lavoro. Il lavoro è uno strumento per la produzione di merci destinate a loro volta a essere vendute a un prezzo superiore al loro costo di produzione, oppure un'attività mediante la quale l'uomo (e l'umanità) raggiunge i fini che volta a volta si pone in relazione ai suoi obiettivi? Nel primo caso il lavoro (anzi la "forza lavoro", cioè la capacità degli uomini di lavorare) è anch'esso una merce, che al proprietario e gestore dei mezzi di produzione conviene pagare il meno possibile; il reddito del lavoratore sarà il prezzo che egli riuscirà ad ottenere da compra la sua forza-lavoro. Tutt'altro è invece è il ruolo e il destino sociale del lavoro se, come Claudio Napoleoni, lo si concepisca come «lo strumento, peculiarmente umano, col quale l’uomo consegue i suoi fini; ed è strumento universale, nel senso che esso è a disposizione dell’uomo per ogni possibile suo fine» (vedi in proposito alcuni dei testi di Marx, di Robbins e di Napoleoni indicati nella nota Il lavoro su eddyburg . Se si sviluppasse il ragionamento a partire da queste premesse la questione del New Deal per l'Europa, posto da Guido Viale e da altri autori in occasione della vicenda della lista "l'Altra Europa con Tsipras" e il dibattito sul "reddito di cittadinanza" acquisterebbero un carattere più concreto, perché più solidamente fondato in una visione dell'uomo e dello sviluppo.
La dura critica al progetto Renzi da un costituzionalista d'ispirazione liberale. «La governabilità dipende dalla politica, non dalla matematica. Non basta trasformare i deputati in soldatini, e non basta un deputato in più per conseguirla».
Corriere della Sera, 30 aprile 2015
«I mutamenti dell’organizzazione democratica e i cambiamenti del sistema istituzionale proposti nei disegni di legge rimettono in discussione il rapporto che esiste tra governo, parlamento e cittadini. Si pone dunque l’esigenza di rivedere gli strumenti di partecipazione attiva della popolazione.
Il manifesto, 28 aprile 2015 (m.p.r.)
L’isteria con cui il governo avanza nella discussione sulla riforma della Costituzione e sulla legge elettorale è un fatto del tutto nuovo nel nostro paese, e per questo deve farci riflettere. La necessità di attuare le riforme, da noi condivisa, non può prescindere da un percorso di confronto e di ascolto sul merito delle questioni, e invece il governo si limita all’affermazione, più volte ripetuta dal ministro Boschi, «abbiamo già discusso». Le riforme istituzionali per la loro specifica natura devono essere approvate con il più ampio consenso e non a colpi di maggioranza.
La Cgil da tempo sostiene il superamento del bicameralismo perfetto, l’istituzione di una Camera rappresentativa delle Regioni e delle autonomie locali e la modifica del Titolo V della Costituzione. La stessa modifica del Titolo V apportata nel 2001 sulla quale è unanime il giudizio negativo per aver prodotto un confuso federalismo con una forte sovrapposizione tra le prerogative dello Stato e quelle delle Regioni, ci dimostra che non basta volere il cambiamento, bisogna anche saperlo promuovere e soprattutto qualificare.
Nel merito della discussione, ciò che ci preoccupa maggiormente è il combinato disposto della modifica costituzionale con la nuova legge elettorale.
La riforma costituzionale proposta dal governo introduce un procedimento legislativo farraginoso e non fa della seconda camera un luogo di rappresentanza delle istituzioni locali adeguato a definire un nuovo equilibrio istituzionale, reso ancor più necessario dall’accentramento di competenze legislative previsto dalle modifiche proposte nel Titolo V.
Per noi il problema non è l’elezione diretta dei senatori, ma quali saranno i poteri della seconda camera del Parlamento. Se il Senato deve rappresentare le Regioni e le Autonomie, in una logica di equilibrio tra Stato, Regioni e Comuni e con l’obiettivo di esercitare la necessaria cooperazione istituzionale tra i differenti livelli di governo, deve poter votare le leggi che hanno una ricaduta territoriale, a cominciare dalle risorse. Nell’attuale testo di riforma, invece, si attribuisce a Palazzo Madama la potestà legislativa piena sulla Costituzione, ma non sui principali provvedimenti che interessano Regioni e autonomie.
Questa situazione, unitamente ad una legge elettorale come l’Italicum, che prevede un ballottaggio con regole sbagliate e determina una grave incertezza su chi sceglie realmente i deputati che siederanno a Montecitorio, potrebbe portare ad una pericolosa contrazione democratica.
Nella legge elettorale, noi non contestiamo che il premio di maggioranza venga dato al secondo turno, ma riteniamo che per quest’ultimo debbano valere regole diverse da quelle contenute nel testo governativo. L’Italicum non prevede né la possibilità dell’apparentamento, né una soglia che permetta il ballottaggio unicamente tra partiti con una rappresentanza pari, almeno, al 50% degli elettori del primo turno, come avviene in Francia per l’elezione dell’assemblea nazionale, dove in caso di mancato superamento di tale soglia il ballottaggio è allargato ai primi tre candidati.
Senza queste previsioni si rischia di dare la maggioranza assoluta dei seggi a una forza politica che ha conquistato solo il 20% dei voti al primo turno. Al contrario, l’auspicata semplificazione istituzionale che si avrebbe con il superamento del bicameralismo perfetto, richiede necessariamente un sistema elettorale in grado di garantire un forte mandato ai deputati, che renda l’aula di Montecitorio la sede della rappresentanza politica del paese in tutta la sua complessità, senza mortificare, in nome del principio di governabilità che deve essere comunque tutelato, il pluralismo politico.
I mutamenti dell’organizzazione democratica posti dalla modernità e i cambiamenti del sistema istituzionale proposti nei disegni di legge rimettono in discussione il rapporto che esiste tra governo, parlamento e cittadini. Si pone dunque l’esigenza di rivedere, in modo adeguato, gli strumenti di partecipazione attiva della popolazione. Su questo fronte pensiamo che con la riforma costituzionale si sia persa un’occasione: il governo ha apportato delle piccole e insufficienti modifiche al referendum abrogativo e alla proposta di legge di iniziativa popolare, e nel prevedere l’istituzione del referendum propositivo e di indirizzo lo ha rimandato ad una successiva legge costituzionale, senza fissarne criteri e parametri, rinviandone di fatto la reale introduzione.
Poiché siamo nell’epoca delle istituzioni sovranazionali e della velocità, c’è bisogno di riequilibrare il rapporto tra governo, parlamento e popolo attraverso un’idea della democrazia che preveda l’espressione del popolo nel merito delle grandi scelte. Questa, secondo noi, deve essere la nuova frontiera degli stati democratici moderni e deve diventare il principio di governo anche nei grandi stati, non solo nei piccoli, altrimenti si rischia una democrazia rovesciata in cui i governi decidono e i popoli si devono adeguare.
«Al di là dei rituali celebrativi, se oggi torniamo a riflettere sul senso e sull’attualità del 25 aprile non è solo per la soddisfazione di ciò che abbiamo conseguito ma soprattutto per l’insoddisfazione di ciò che non è stato realizzato».
Il manifesto, 26 aprile 2015
In questo processo c’è qualcosa che va al di là dell’esito naturale del trascorrere del tempo. Che ogni generazione e al limite ogni individuo interpretino il 25 aprile a modo loro, muovendo dall’unico dato certo comune della conclusione della lotta di liberazione dal nazifascismo, è un fatto ovvio e difficilmente contestabile. Ciò che non era prevedibile e che rappresenta il fatto nuovo con il quale ci troviamo a fare i conti è la presenza in questo settantesimo anniversario di quelli che siamo tentati di chiamare strappi della storia. Chi ha vissuto questi settant’anni non può certo avere interiorizzato una visione idilliaca ma quanto meno lineare del percorso di questi decenni.
Al di là dei rituali celebrativi, se oggi torniamo a riflettere sul senso e sull’attualità del 25 aprile non è solo per la soddisfazione di ciò che abbiamo conseguito ma soprattutto per l’insoddisfazione di ciò che non è stato realizzato. Il 25 aprile del 1945 la riconquista della libertà sottolineando lo scampato pericolo dal rischio che l’umanità aveva corso di soccombere alla barbarie del nazifascismo, sembrò aprire la prospettiva di una uscita dalla crisi relativamente indolore. La capacità della ricostruzione in Italia fu un esempio di quanto una popolazione aperta alla speranza è in grado di realizzare. Riprendersi la vita dopo le sofferenze e le umiliazioni della dittatura e della guerra era una parola d’ordine e una ragione sufficiente per rialzare la schiena e segnalare la volontà di tornare a contare.
Allora, settant’anni fa la quiete dopo la tempesta alimentò l’impressione che le grandi cesure dei decenni precedenti si stessero chiudendo. Un diffuso ma generico europeismo sembrò annunciare la pacificazione e rimarginare le ferite di un continente che era stato dilaniato da una lunga guerra che aveva dato sfogo a lotte intestine di nazionalismi contrapposti e di sistemi politici incompatibili.
Ma il mondo non poteva tornare ad essere quello di prima del 1939. Troppi equilibri erano saltati e la ricerca di nuovi punti di riferimento dentro e fuori dell’Europa mise in evidenza il ridimensionamento della vecchia Europa, incominciato già con la prima guerra mondiale, l’ascesa degli Stati uniti d’America, il nuovo ruolo nella stessa Europa e a livello mondiale dell’Unione Sovietica, l’accelerazione della decolonizzazione destinata a dare il colpo di grazia al primato mondiale dell’Europa. Non era soltanto un equilibrio geopolitico, ma gli stessi popoli liberati dal nazifascismo si trovavano a dovere ricostruire le basi della convivenza civile.
Pochi tra i paesi liberati poterono ripristinare le istituzioni e lo statuto politico sospesi dall’occupazione delle potenze dell’Asse. La maggior parte dei paesi liberati si trovò ad elaborare nuovi statuti politici; la crisi dell’Europa sfociata nella guerra non era stata soltanto crisi di egemonia e delle relazioni fra i popoli, era stata anche crisi di un modello politico, tra i guasti di una democrazia in disfacimento e le tentazioni autoritarie e corporative di compagini statuali più o meno improvvisate che cercavano di supplire al deficit di tradizioni democratiche con la scorciatoia della demagogia corporativa.
La guerra seppellì sotto le sue macerie questa Europa invertebrata (rammentata, piena di contraddizioni e priva di fiducia in se stessa). Nelle diverse parti dell’Europa i movimenti di Resistenza rappresentarono la protesta e la risposta ai dilemmi in cui la guerra e le occupazioni precipitarono i rispettivi paesi.
I settant’anni trascorsi ci hanno insegnato che gli elementi di pacificazione intravisti, o forse solo auspicati, nel 1945 erano più instabili e più provvisori di quanto si sarebbe potuto sperare. Breve è stata la memoria degli individui per realizzare i benefici e le potenzialità nella tregua dei conflitti. Lo scenario che oggi si presenta in Europa e nel mondo ci induce a pensare che il ricordo del 25 aprile non si può esaurire in un richiamo celebrativo o tanto meno nostalgico; esso è piuttosto un permanente campanello d’allarme, un appello a stare all’erta perché le insidie contro la pace e contro i valori per i quali si è combattuto nella Resistenza tornano a frapporsi sul cammino dell’umanità.
Se ci eravamo illusi che il fascismo fosse stato debellato per sempre, il riaffiorare a più livelli e in diverse parti d’Europa di movimenti di estrema destra sollecita una nuova “chiamata alle armi”; il fatto che esso si presenti in forme diverse dal fascismo storico non esime dal riconoscerne le ascendenze e la pericolosità, anche se non ha alle spalle il riferimento di una istituzione statuale perché la sua pericolosità risiede proprio nella sua diffusione come fascismo quotidiano.
Si è affievolita la sensibilità al razzismo che la crisi economico-sociale ha rivitalizzato spesso mascherando latenti conflitti di classe con fattori più facilmente percepibili anche ad una sensibilità popolare. Negli scontri tra popoli le rivendicazioni identitarie hanno riesumato forme di intolleranza religiosa al limite di un nuovo assolutismo. Nuovi conflitti di egemonie che spesso ricalcano le orme di una vecchia geopolitica tendono a riprodurre tra gli stati gerarchie che sembrano superate: alcuni stati tornano ad essere più sovrani di altri.
In questo contesto il 25 aprile non può essere solo la festa della liberazione. Deve essere l’occasione di una vigile riflessione sul suo significato storico di tappa di un cammino che non è terminato ma che dal giorno della liberazione trae la spinta per affrontare gli ostacoli che ancora si frappongono al consolidamento di una società democratica sempre più compiuta.
Il manifesto, 26 aprile 2015
Il rapporto tra discorso pubblico e Liberazione ha conosciuto fasi molto diverse, a volte contrastanti. Si possono certamente individuare delle costanti, ma è ancora più utile riflettere sui mutamenti di fase e sulle loro implicazioni. Del resto è un fenomeno che si sviluppa in forma sostanzialmente autonoma rispetto alla storiografia, che procede in parallelo: non è certo ininfluente, ma viene recepita, quando accade, molto tempo dopo.
È significativo che una retorica ufficiale prenda forma prima ancora del completamento degli eventi. Nasce infatti nel 1944, quando viene già istituita una «giornata del partigiano», fissata, per sottile e inconsapevole ironia delle date, al 18 aprile. C’è una grande enfasi attorno ai combattenti italiani, in divisa e per bande, che deve servire a facilitare quelle che vengono immaginate normali trattative di pace. Non servirà a molto su questo terreno, ma per altri versi non sarà affatto inutile: la nuova immagine degli italiani si costruisce anche attraverso il riconoscimento internazionale dell’esistenza di combattenti italiani per la libertà.
Ma notiamo subito alcune caratteristiche che resteranno a lungo impresse nel discorso pubblico attorno a quella che poi, a cose fatte, verrà definita, sull’esempio francese, Resistenza. Il carattere pressoché esclusivamente patriottico, da subito collegato – come probabilmente era «naturale» che fosse – all’esperienza risorgimentale. E il carattere largamente assolutorio del richiamo ad essa: Resistenza utilizzata come lavacro delle colpe collettive, delle complicità, dei ritardi e dell’acquiescenza della società italiana nei confronti del regime fascista. L’illusione di far parte del novero dei vincitori («anche l’Italia ha vinto» titolava una rivista già alla liberazione della Capitale). Infine, come era inevitabile in quel contesto, il rilievo preponderante se non esclusivo attribuito all’elemento della guerra in armi, sacrificando moltissime componenti dell’esperienza resistenziale che emergeranno lentamente e con fatica nei decenni successivi.
Ma su tutto questo irrompe una brusca cesura a partire dal 1947, con la rottura dell’unità antifascista e con l’ingresso a pieno titolo dell’Italia nel mondo che ci abitueremo a definire della «guerra fredda». Improvvisamente la Resistenza cessa di essere una risorsa e diviene una complicazione, talora un fardello per i governanti. Si inaugura quello che potremmo definire il falso problema della «guerra civile», che contrariamente a quanto si dirà in seguito incombe nel discorso pubblico (verrà dismesso solo a partire dagli anni Sessanta) e in termini ancor più deprecativi («guerra fratricida» sarà la formula ufficiale).
In gran parte falso problema perché già ampiamente risolto in termini giuridici dall’amnistia del 1946, perché le sue dimensioni erano state circoscritte in termini minimi rispetto a «vere» guerre civili come quella spagnola o ad altri fenomeni, diffusissimi, di collaborazionismo nel corso del conflitto. Infine perché il paese aveva già conosciuto un’autentica guerra fra italiani nel corso di quello stesso Risorgimento cui la memoria pubblica si richiamava con accostamento pressoché obbligato nelle celebrazioni del 25 aprile.
Dietro lo schermo della «guerra civile» si celavano però fratture destinate a rimanere irrisolte nella coscienza nazionale. In primo luogo il problema che potremmo definire della lenta e difficile metabolizzazione del fascismo da parte della società italiana: un lascito di mentalità, culture e consuetudini che agiva sottotraccia ben al di là dell’apparente unanimità del ripudio che aveva segnato i mesi della caduta di Mussolini. In secondo luogo, difficile da cogliere oltre l’ufficialità delle narrazioni, operava la sovrapposizione tra Costituzione scritta sulla base dei valori dell’antifascismo e «costituzione materiale» anticomunista su cui si modellava il nuovo potere delle classi dirigenti. Una tensione conflittuale che riemergerà in moltissimi momenti della vita repubblicana, e che oltrepasserà anche i confini di quella che verrà definita «Prima Repubblica».
Questo clima comincia a incrinarsi in occasione del primo Decennale, malgrado la divisione perdurante tra le stesse organizzazioni partigiane. L’elezione di Giovanni Gronchi, con un richiamo diretto alla Resistenza, guerra di popolo, e soprattutto con la constatazione che una Costituzione esisteva e andava attuata al più presto (si partirà a breve con la Corte costituzionale) era un segnale di mutamento. Nella lunghissima incubazione del centrosinistra giocherà un ruolo anche il reciproco riconoscimento nei valori riaffermati della tradizione antifascista.
La vera svolta si avrà nel luglio 1960, con la prova di forza vinta da un antifascismo vecchio e nuovo, fatto anche di giovanissimi, contro il tentativo di tornare indietro da parte del blocco clericofascista che si era riconosciuto nell’avventura di Tambroni. Da questo momento in poi Resistenza e antifascismo diverranno a lungo centrali nel nuovo discorso pubblico.
Con qualche ambiguità perdurante, che replica i vizi di origine, a volte perfino ingigantendoli. La formula canonica del «popolo unito contro la tirannide» che diviene ricorrente nell’oratoria ufficiale nel tempo della presidenza di Saragat è ancor più assolutoria e ingannatrice di quanto non fosse stata la retorica delle origini repubblicane. Mentre una nuova Germania farà riemergere proprio a partire dalla fine degli anni Sessanta la grande rimozione del passato nazista, metterà sotto accusa la «generazione dei padri» e introdurrà il tema decisivo delle «responsabilità collettive», in Italia questo appuntamento verrà mancato e la problematica del «consenso» al fascismo sarà destinata ad affiorare sotto un segno completamente diverso, non produrrà sensi di colpa ma invece il sollievo della conferma di un giudizio bonario e minimizzante nei confronti dell’esperienza fascista divenuto ormai vox populi.
Le ambiguità saranno presenti anche nel discorso di una «nuova sinistra» che in gran parte anima le manifestazioni e che nel rapporto con la storia si muoverà in termini molto diversi rispetto ai coetanei tedeschi. A lungo la Resistenza verrà sottovalutata e quasi messa sotto accusa per non aver dato luogo a un esito «rivoluzionario». Alla svolta degli anni Settanta sarà improvvisamente reinventata in forma favolistica, scambiando una parte per il tutto e attribuendo al popolo italiano una propensione rivoluzionaria in gran parte illusoria. Tra le opposte retoriche di Resistenza «rossa» e «tricolore» corre spesso il rischio di venire stritolata la Resistenza popolare e civile, delle donne e degli uomini comuni, nella sua pluralità di pratiche e di motivazioni, che con grande fatica e con un lungo e imponente lavoro di scavo e di riflessione gli storici faranno emergere con chiarezza negli anni successivi. E che comprendeva inevitabilmente memorie diverse, anche «divise» e conflittuali come si scoprirà tardivamente in seguito, che potevano riconoscersi e riconciliarsi, ma non avrebbero mai potuto convergere in una «memoria unica», stravaganza concettuale degna di un regime totalitario.
A partire dagli anni Ottanta l’antifascismo e — per la prima volta — anche la Costituzione saranno visti come ostacoli sulla strada della «modernizzazione» del paese. L’Italia prenderà, di fatto, una strada diversa rispetto all’evoluzione della coscienza occidentale, che proprio in quegli anni, anche attraverso una nuova consapevolezza della portata della Shoah, rifletterà sull’enormità del problema storico del fascismo europeo, del suo radicamento, del consenso ottenuto e della catastrofe innescata. Si apriranno, anche su questo terreno, i termini di una nuova «anomalia italiana», che segneranno una lunga fase della storia italiana.
Gli anni della «Seconda Repubblica» sembreranno per quasi un ventennio dominati dall’ansia di offrire una legittimazione storica alla nuova destra, in larga misura estranea oppure ostile alla Liberazione, e che emerge con ampio consenso dopo il dissolvimento del vecchio equilibrio. Ascolteremo nei discorsi ufficiali di presidenti e ministri il richiamo ricorrente alla «buona fede» dei fascisti sconfitti, attribuendo rilievo e centralità a una constatazione di banalità disarmante, perché la buona fede in genere sul piano storico non si nega a nessuno, ed era attribuibile a giusto titolo anche alle SS. Negli stessi discorsi di insediamento dei Presidenti della Repubblica il richiamo alle «ragioni» della parte sconfitta nel 1945 apparirà improvvisamente problema attuale di cui farsi carico, fino all’eccezione rappresentata da Sergio Mattarella che con un limpido e dettagliato richiamo alla Costituzione antifascista porrà fine a quella pratica discorsiva.
L’antifascismo apparirà inevitabilmente sulla difensiva, costretto a battaglie talora di retroguardia, nelle lunghe polemiche sul cosiddetto «revisionismo», ma in grado ancora di mobilitazioni imponenti, come nella grande manifestazione promossa da questo giornale a Milano nel 1994 subito dopo lo sfondamento elettorale della destra. E riuscirà anche a respingere nel referendum del 2006 (con uno schieramento animato dall’ex-presidente Oscar Luigi Scalfaro) l’imposizione di una nuova Costituzione sbilanciata sul terreno del «decisionismo» e del primato dell’esecutivo, e che prefigurava anche il venir meno della coesione nazionale attraverso i meccanismi della cosiddetta «devoluzione» a favore dei particolarismi regionali.
Si era trattato, come oggi comprendiamo bene, di una vittoria apparente. La fase che viviamo appare dominata, a ben vedere, dalla tensione tra l’affermazione, non più messa in discussione, dei valori storici della Liberazione e il disgregarsi in parallelo del mondo di idee e di princìpi che avevano prodotto, dal venir meno delle conquiste di una civiltà repubblicana progressivamente svuotata dei suoi caratteri originari e qualificanti.
Ben oltre la chiassosa destra italiana, la civiltà costituzionale del nostro paese (e non solo del nostro) è entrata nel mirino delle nuove entità impersonali che governano il mondo e trascinano l’Europa al suicidio. Nel maggio 2013 un gigante della finanza globale dirà esplicitamente che le Costituzioni antifasciste nate dopo la seconda guerra mondiale vanno ritenute un ostacolo per la «modernizzazione» e l’«integrazione» dei sistemi economici in Europa. Politici divenuti zelanti sudditi di quella volontà mettono in atto un meccanismo inesorabile che conduce in quella direzione.
Per questo negli ultimi anni la ricorrenza del 25 aprile appare sempre di più una mesta cerimonia degli addii. Un prendere congedo dal mondo in cui avevamo vissuto, dalle nostre speranze e dalle nostre conquiste.
L’ossequio esteriore alla Liberazione non è più messo in discussione, ed essa viene celebrata da cortei di popolo, da donne e uomini che difficilmente possono rendersi conto di vivere la stessa situazione descritta in una famosa poesia di Brecht, inconsapevoli del fatto che «alla loro testa marcia il nemico».
Con ogni probabilità la nostra democrazia parlamentare verrà abolita canticchiando Bella ciao. La Liberazione tornerà a essere, come è stata a lungo nella storia italiana, fuoco che cova sotto la cenere, in attesa di venire rivitalizzato da nuovi eredi
Ezio Mauro intervista il Presidente della Repubblica. «La nostra Costituzione è il frutto della lotta antifascista contro la dittatura e la guerra. La qualifica di resistenti va estesa non solo ai partigiani ma ai militari che rifiutarono di arruolarsi nelle brigate nere». La Repubblica, 24 aprile 2015
«Il Paese è fortemente cambiato, come il contesto internazionale. Non c’è più, fortunatamente, la necessità di riconquistare i valori di libertà, di democrazia, di giustizia sociale, di pace che animarono, nel suo complesso, la Resistenza. Oggi c’è la necessità di difendere quei valori, come è stato fatto contro l’assalto del terrorismo, come vien fatto e va fatto sempre di più contro quello della mafia. La democrazia va sempre, giorno dopo giorno, affermata e realizzata nella vita quotidiana. Il 25 aprile fu lo sbocco di un vero e proprio moto di popolo: la qualifica di “resistenti” va estesa non solo ai partigiani, ma ai militari che rifiutarono di arruolarsi nelle brigate nere e a tutte le donne e gli uomini che, per le ragioni più diverse, rischiarono la vita per nascondere un ebreo, per aiutare un militare alleato o sostenere chi combatteva in montagna o nelle città».
Ha ragione Calvino: pietà per i morti ma è impossibile equiparare i giovani di Salò e i partigiani. Io penso che questo moto di rifiuto e di ribellione organizzata al fascismo e al nazismo, con la lotta armata, rappresenti un elemento fondamentale nella storia morale dell’Italia. Quell’esperienza parziale ma decisiva di ribellione nazionale, italiana, alla dittatura fascista è infatti il nucleo autonomo e sufficiente per rendere la nostra democrazia e la nostra libertà non interamente «octroyé» dagli Alleati che hanno liberato gran parte del Paese, ma riconquistate. Non crede che proprio qui nasca il fondamento morale della democrazia repubblicana?
Lei aveva quattro anni nel 1945. Ha dei ricordi familiari nei racconti di quei giorni?
È per queste ragioni che subito dopo la sua elezione al Quirinale ha voluto rendere omaggio alle Fosse Ardeatine?
«Mi è parso naturale, e doveroso, ricordare sia a me stesso, nel momento in cui venivo eletto presidente della Repubblica, sia ai nostri concittadini quanto dolore, quanto impegno difficile e sofferto hanno permesso di ritrovare libertà e democrazia. L’abitudine a queste, talvolta, rischia di inaridire il modo di guardare alle istituzioni democratiche, pur con tutti i difetti che se ne possono evidenziare, rifiutando di impegnarvisi o anche soltanto di seguirne seriamente la vita. Questo mi fa ricordare la lettera di un giovanissimo condannato a morte della Resistenza che, la sera prima di essere ucciso, scriveva ai genitori che il dramma di quei giorni avveniva perché la loro generazione non aveva più voluto saperne della politica. Inoltre, oggi, assistiamo al riemergere dell’odio razziale e del fanatismo religioso: i morti delle Ardeatine è come se ci ammonissero continuamente, ricordandoci che mai si può abbassare la guardia sulla difesa strenua dei diritti dell’uomo, del sistema democratico».
Lei è stato anche giudice della Corte costituzionale: dove sente la nostra Carta fondamentale più fedele ai valori della Resistenza? Condivide il giudizio di Norberto Bobbio secondo il quale il grande risultato della Resistenza è stata la Costituzione, perché portò la democrazia italiana «molto più avanti di quella che era stata prima del fascismo»?
Cosa pensa della polemica dei decenni passati sulla «Resistenza tradita», che ancora riemerge?
«Le risponderò con una citazione del presidente Napolitano. Parlando a Genova il 25 aprile del 2008, disse con estrema chiarezza: “Vorrei dire che in realtà c’è stato solo un mito privo di fondamento storico reale e usato in modo fuorviante e nefasto: quello della cosiddetta «Resistenza tradita», che è servito ad avvalorare posizioni ideologiche e strategie pseudo-rivoluzionarie di rifiuto e rottura dell’ordine democratico-costituzionale scaturito proprio dai valori e dall’impulso della Resistenza”. Condivido dalla prima all’ultima parola».
C’era in quella formula un sentimento che potremmo definire di «delusione rivoluzionaria», da parte di chi nel mondo comunista vedeva nella guerra di Liberazione una rivoluzione sociale: ma in realtà non crede che il vero tradimento della Costituzione sia avvenuto negli anni delle stragi di Stato, dei depistaggi, delle verità negate, delle infiltrazioni piduiste nei vertici degli apparati di Stato?
«Stiamo parlando di una guerra che ha avuto anche aspetti fratricidi. Credo che sia molto difficile, quando si hanno avuto familiari caduti, come si dice adesso, “dalla parte sbagliata” o si è stati vittime di soprusi o di vendette da parte dei nuovi vincitori, costruire su questi fatti una memoria condivisa. Pietro Scoppola, nell’infuriare della polemica storico-politica sul revisionismo, invitava a fare un passo avanti e a considerare la Costituzione italiana, nata dalla Resistenza, come il momento fondante di una storia e di una memoria condivisa. Una Costituzione, vale la pena rimarcarlo, che ha consentito libertà di parola, di voto e addirittura di veder presenti in Parlamento esponenti che contestavano quella stessa Costituzione nei suoi fondamenti. Tranne poche frange estremiste e nostalgiche, non credo che ci siano italiani che oggi si sentano di rinunciare alle conquiste di democrazia, di libertà, di giustizia sociale che hanno trovato nella Costituzione il punto di inizio, consentendo al nostro Paese un periodo di pace, di sviluppo e di benessere senza precedenti. Proprio per questo va affermato che il 25 aprile è patrimonio di tutta l’Italia, la ricorrenza in cui si celebrano valori condivisi dall’intero Paese».
Cosa pensa delle violenze e delle vendette che insanguinarono il «triangolo rosso» e le Foibe in quegli anni? Non c’è stato troppo silenzio e per troppo tempo, in un Paese che non ha avuto un processo di Norimberga ma che oggi, settant’anni dopo, non dovrebbe avere paura della verità? E come rivive le immagini di Mussolini e Claretta Petacci esposti cadaveri a Piazzale Loreto?
«È stato merito di esponenti provenienti dalla sinistra, penso a Luciano Violante e allo stesso presidente Napolitano, contribuire alla riappropriazione, nella storia e nella memoria, di episodi drammatici ingiustamente rimossi, come quelli legati alle Foibe e all’esodo degli Italiani dall’Istria e dalla Dalmazia. Sono stati molti i libri e le inchieste che si sono dedicati a riportare alla luce le vendette, gli eccidi, le sopraffazioni che si compirono, anche abusando del nome della Resistenza, dopo la fine della guerra. Si tratta di casi gravi, inaccettabili e che non vanno nascosti. L’esposizione del corpo di Mussolini, di Claretta Petacci e degli altri gerarchi fucilati, per quanto legata al martirio che numerosi partigiani subirono per mano dei tedeschi nello stesso Piazzale Loreto pochi giorni prima, la considero un episodio barbaro e disumano. Va comunque svolta una considerazione di fondo: gli atti di violenza ingiustificata, di vendetta, gli eccidi compiuti da parte di uomini legati alla Resistenza rappresentano, nella maggior parte dei casi, una deviazione grave e inaccettabile dagli ideali originari della Resistenza stessa. Nel caso del nazifascismo, invece, i campi di sterminio, la caccia agli ebrei, le stragi di civili, le torture sono lo sbocco naturale di un’ideologia totalitaria e razzista».
Il tema della riconciliazione, a mio parere, va affrontato tenendo conto che la pietà per i morti dell’una e dell’altra parte non significa che le ragioni per cui sono morti siano equivalenti. «Tutti uguali davanti alla morte — scrive Calvino — non davanti alla storia». Qual è la sua opinione?
Vorrei chiudere con Bobbio. «Il rifiuto dell’antifascismo in nome dell’anticomunismo — ha scritto — ha finito spesso per condurre ad un’altra forma di equidistanza abominevole, quella tra fascismo e antifascismo». E infatti da parte della destra è emerso pochi anni fa il tentativo di superare il 25 aprile, sostituendolo con un giorno di festa civile nel rifiuto di tutte le dittature. Come se non ci fossero altri 365 giorni sul calendario per scegliere una celebrazione contro ogni regime dittatoriale. A patto però di ricordare il 25 aprile, tutti, come il giorno in cui è finita la dittatura del fascismo, nato proprio in Italia. Cosa ne pensa? Il 25 aprile, ha detto Bobbio, ha determinato un nuovo corso nella nostra storia. Perché, semplicemente, «se la Resistenza non fosse avvenuta, la storia d’Italia sarebbe stata diversa, non sarebbe la storia di un popolo libero».
«Credo che quella dell’abolizione della festa della Liberazione sia una polemica ormai datata e senza senso. Sarebbe come dire: invece di celebrare il nostro Risorgimento, festeggiamo la Rivoluzione americana e francese... È vero che nel mondo ci sono stati diversi regimi totalitari e sanguinari, frutto di ideologie disumanizzanti. Ma la storia italiana è passata attraverso la dittatura fascista, la guerra, la lotta di Liberazione. E un popolo vive e si nutre della sua storia e dei suoi ricordi ».
Alla vigilia del 25 aprile, ricordiamo. «Nuovi studi approfondiscono il sostegno che i soldati sovietici, alcuni scampati alla prigionia dei tedeschi, diedero alla lotta di liberazione dei partigiani».
La Repubblica, 21 aprile 2015
Ma ora qualcosa si muove, e negli ultimi mesi – in vista del settantesimo anniversario del 25 aprile – abbiamo visto uscire testi che esplorano in modo innovativo questo pezzo della nostra storia. Tra essi possiamo annoverare il lavoro di Anna Roberti, Dal recupero dei corpi al recupero della memoria, che illumina il contributo dei partigiani sovietici nella liberazione del Piemonte, e il libro di Marina Rossi, Soldati dell’Armata Rossa orientale, che indaga il ruolo degli uomini “venuti dal freddo” in uno spazio difficile, segnato da tante ferite ancora aperte, come le Foibe o l’ignobile massacro dei cosacchi consegnati a Tito dagli Alleati, per non dire da una Guerra Fredda che ha diviso italiani e slavi già prima della fine del conflitto. Lavori pubblicati da case editrici minori, Visual Grafika di Torino e Leg di Gorizia, ma che indicano una tendenza e aprono una strada su un terreno d’indagine ancora quasi vergine.
Già dei partigiani jugoslavi in Italia si sa poco o niente – essi restano terreno di indagine di pochi autori di nicchia – anche se furono molte migliaia. Deportati politici o prigionieri di guerra cui l’8 settembre ‘43 offrì una generale occasione di fuga, essi entrarono in massa nella Resistenza italiana, specie nel Centro Italia, non potendo raggiungere i compagni per via dell’occupazione nazista del Nord del Paese. Ebbene, dei sovietici – russi, caucasici, ucraini, mongoli, kazaki ecc. – si sa ancora meno, e non solo per gli infiniti processi cui è stata sottoposta la guerra di Liberazione negli ultimi anni, ma anche perché – osserva Franco Sprega di Fiorenzuola d’Arda, agguerrito indagatore della Resistenza tra il Po e la via Emilia – tutto, con loro, “diventa più complicato”.
Già i numeri lo dicono. I prigionieri dell’Armata Rossa caduti nella mani dei tedeschi furono cinque milioni, una cifra che non ha eguali in nessun’altra guerra europea. Di questi, almeno la metà – gli irriducibili – furono lasciati morire di fame e di freddo. Gli altri furono assorbiti come ausiliari o inquadrati nell’esercito nazista, come la famigerata 162ma divisione turkestana che sull’Appennino lasciò una scia incomparabile di violenza, specie sulle donne. Una parte di questi prigionieri – in Italia dai cinque ai settemila – saltarono il fosso per mettersi in contatto coi partigiani, ma essi chi furono davvero? Quanti si mossero per opportunismo, quanti per fede, e quanti perché rinnegati da Mosca? Dopo che Stalin aveva ordinato loro di suicidarsi in caso di cattura, la loro resa era diventata un reato punibile con la fucilazione (cosa che per molti effettivamente avvenne) e dunque nella scelta partigiana c’era anche la ricerca di una riabilitazione agli occhi della madrepatria.
Terreno difficile, per uno studioso che vuole evitare la retorica celebrativa. Ma ora in aiuto ci viene la nuova accessibilità di archivi statunitensi, britannici e soprattutto russi, finora non consultabili, che consentono di leggere meglio l’apporto degli stranieri alla Liberazione. Nel libro di Marina Rossi compare integralmente, per esempio, il diario di guerra del moscovita Grigorij Iljaev Aleksandrovic, catturato dai tedeschi prima dell’età di leva e poi fuggito rocambolescamente, dal quale emergono dettagli inediti sulla resistenza tra Tolmino e l’Istria montana e soprattutto sugli ultimi giorni di combattimenti attorno a Trieste, ai primi di maggio del ‘45, quando il resto d’Italia è già stato liberato.
Sia la Rossi che la Roberti osservano come le unità partigiani trovassero nei sovietici combattenti agguerriti, grazie al doppio addestramento avuto nell’Armata Rossa e nella Wehrmacht. Nella sua intervista prima di morire con Franco Sprega, Mario Milza, primo a entrare a Genova con la 59 brigata “Caio”, dice dei sovietici che “sapevano fare la guerra”, erano “disponibili al rischio” e sapevano esprimere “un volume di fuoco” che ti metteva al sicuro. Un partigiano, chiamato genericamente “il Russo” e poi svelatosi post mortem come Vilajat Abul’fatogli Gusejnov di nascita azera, ebbe l’onore di una sepoltura monumentale nel Piacentino e fu ricordato al punto che, dopo il trasferimento del corpo in Urss, il partigiano Maurizio Carra di Borgo Taro trasferì marmi e lapidi nel giardino di casa sua.
Solo ora sappiamo chi furono Dimitri Makarovic Nikiforenko, nome di battaglia “Willy”, Mehdi Huseynzade “Mihajlo” o Vasilji Zacharovic Pivovarov “Grozni”. Per il resto riemergono dalle nebbie solo visi sfocati, nomi storpiati, o cimiteri – come quello di Costermano fra il Garda e la Val d’Adige – dove settant’anni fa vennero ammassati senza distinzione tagliagole collaborazionisti e comandanti di unità partigiane, accomunati dal solo denominatore di essere, genericamente, “russi”. In questo ginepraio, quanto ha dovuto faticare – racconta Anna Roberti nel suo libro – Nicola Grosa, mitico partigiano piemontese, per dare a guerra finita un nome a questi stranieri caduti nella lotta subalpina, specie nel Canavese, e portarne i corpi a Torino al “Sacrario della Resistenza”.
Ma la loro memoria è specialmente viva sul confine orientale, dove essi si batterono con i garibaldini italiani e più spesso con la Resistenza slovena, in un rapporto di cameratismo facilitato dalla parentela linguistica. Il “Ruski Bataljon” fece saltare ponti, bloccò intere colonne di tedeschi in ripiegamento, conquistò bunker perdendo decine di uomini. Molti di loro, come il famoso “Mihajlo”, morto in combattimento, sono diventati eroi in patria, e la loro leggenda vive ancora.
Altra Europa. Assemblea a Roma, obiettivo la casa comune ma oggi la priorità è 'mobilitazione totale'. La grande scommessa le elezioni regionali: Liguria, Emilia-Romagna, Veneto, Calabria, Umbria.
Il manifesto, 19 aprile 2015
Prima giornata di lavoro, e prima effettiva assemblea decisionale ieri a Roma per L’Altra Europa con Tsipras nella Sala Roma Eventi (in via Alibert 5), soprattutto primo evento nazionale dalla nascita della ’Coalizione sociale’ lanciata da Maurizio Landini, il ’fatto nuovo’ con cui fare i conti. Da vicino: fra i relatori della mattinata di ieri c’è infatti anche Michele De Palma, braccio destro di Landini e qui a nome della neonata Coalizione. Ma nel menù del dibattito c’è molto: dai 100 anni di Pietro Ingrao raccontati da Maria Luisa Boccia, ad Arnaldo Cestaro, l’uomo torturato alla Diaz, nei giorni di Genova 2001, grazie al cui ricorso la Corte europea ha condannato l’Italia fino alle elezioni spagnole e, neanche a dirlo, alla situazione greca.
350 i presenti, stavolta nel ruolo di delegati da 72 assemblee in giro per i nodi territoriali di tutta Italia. Non per «partitizzarsi», spiegano gli organizzatori, ma per avere un assemblea che possa legittimamente decidere e lanciare una proposta «per un processo costituente unico alternativo alle politiche di austerità». Tema delicato, come sempre, al centro della relazione del sociologo Marco Revelli che ha illustrato il cambio di fase, e di marcia, della (ex) lista elettorale dalle europee di un anno fa.
Il manifesto, 15 aprile 2015, con postilla
Lo ius existentiae si pone alla base del contratto sociale. Sin dal ‘600 la coppia obbedienza-protezione s’è imposta come la fonte ultima di legittimazione del potere costituito. Spetta al “sovrano” difendere la vita dei consociati (Hobbes), ma anche i beni essenziali ad essa collegati (Locke). Se il potere costituito non è in grado di garantire le condizioni di “esistenza”, il popolo non è più tenuto a rispettare il pactum consociationis: il diritto di resistenza può essere esercitato.
Nella storia della modernità si è ritenuto che allo Stato dovesse spettare il compito di assicurare la pace (interna ed esterna), mentre il lavoro dovesse costituire il mezzo attraverso cui assicurare la “sopravvivenza” degli individui. La fine della civiltà del lavoro ha cambiato le carte in tavola. Oggi non basta più la volontà di lavorare, né quella di emigrare per poter sopravvivere. Come può lo Stato preservare il diritto all’esistenza?
In via di principio due sono le strade percorribili (tra loro non necessariamente alternative): lo Stato potrebbe assicurare comunque un diritto al lavoro, ampliando artificialmente l’offerta, incentivando – ad esempio – i lavori socialmente utili, anche se economicamente non necessari. L’altra via è quella di assicurare comunque un reddito di cittadinanza anche a chi — in assenza delle condizioni sociali che lo rendono possibile — non può lavorare.
In particolare, la prospettiva del reddito di cittadinanza ha un solido fondamento costituzionale. Essa ruota attorno a quattro principi che valgono a caratterizzare il nostro “patto sociale”: il principio di dignità, con il collegato dovere di solidarietà; il principio d’eguaglianza, inteso come modalità di realizzazione di una società di liberi ed eguali; il principio di cittadinanza, nella sua dimensione partecipativa e di garanzia di appartenenza ad una comunità; il principio del lavoro, assunto nella sua reale dimensione di vita, comprensivo del dramma del non lavoro.
È nel collegamento tra questi principi che si rinviene il diritto costituzionale ad un reddito di cittadinanza. L’errore cui si è spesso incorsi è stato quello di tenerli invece separati. Eppure nella nostra costituzione – più avanzata dei suoi interpreti – appare evidente l’intreccio. Si pensi al rapporto complesso che sussiste tra dignità e lavoro. Al lavoro è legata la dignità (il lavoratore ha, infatti, diritto ad una retribuzione «in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa»), ma è anche evidente come la “dignità” rappresenta un valore da assicurare in ogni caso, ponendosi (la “dignità umana”) come limite alla libertà di iniziativa economica privata, conformandosi come “dignità sociale” nel rapporto tra tutti i cittadini eguali davanti alla legge (nel combinato disposto tra gli articoli 36, 41 e 3).
Vero è che i nostri costituenti perseguivano l’obiettivo della piena occupazione, tant’è che alla Repubblica veniva assegnato il compito di «promuovere le condizioni» per rendere effettivo il diritto al lavoro. Dunque era questa la via maestra per dare dignità sociale ai cittadini. Se oggi però consideriamo non più perseguibile la prospettiva della piena occupazione l’unica alternativa per rimanere entro i confini tracciati dal costituente è quella di assicurare la dignità anche a chi non può lavorare. Non possiamo rassegnarci alle diseguaglianze di una società in cui sempre più ampie parti della popolazione vivono in grave disagio, non possiamo evitare di occuparci dei gruppi sociali in stato di emarginazione, non possiamo lasciare il mondo sempre più esteso dei non occupati senza speranza, privandoli di ogni dignità e opportunità di riscatto.
La lettura sistematica del testo costituzionale evidenzia anche un secondo dato, che a me sembra decisivo, ma che è invece assai sottovalutato nel dibattito attuale sul reddito di cittadinanza.
Detto in breve: nella nostra costituzione il diritto fondamentale alla sopravvivenza, i diritti alla vita dignitosa e all’assistenza come obbligo dello Stato, la lotta all’emarginazione sociale, non vengono assunti in sé, ma sono sempre collegati al necessario svolgimento della personalità, nonché definiti al fine di concorrere al «progresso spirituale e materiale della società» (come si esprime l’art. 4 in rapporto con il diritto al lavoro). Esplicito e diretto è poi il legame tra diritti fondamentali e doveri inderogabili (art. 2). Così come l’obbligazione generale di rimozione degli ostacoli d’ordine economico e sociale nei confronti dei cittadini è associato alla partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del paese (art. 3).
È in questo complesso intreccio che deve trovare una sua specifica qualificazione anche il reddito di cittadinanza, che dovrebbe essere inteso come reddito di partecipazione. Se si vuole cioè evitare che la sovvenzione ai non occupati si trasformi in un mero sussidio di povertà, caritatevolmente concesso ad un soggetto isolato, lasciato nel suo isolamento, e senza possibilità di riscatto, v’è una sola strada da perseguire: legare il reddito alla cittadinanza attiva. La vera sfida, al tempo della disoccupazione strutturale, ma anche del lavoro precario, flessibile, instabile, delocalizzato, immateriale, è quella di conservare quell’orizzonte emancipatorio, tanto individuale quanto sociale, che sin qui – nello schema fordista — era stato assicurato principalmente dal lavoro stabile entro una comunità solidale.
Ma come può legarsi il reddito alle attività sociali? E poi cosa si intende per cittadinanza attiva? Anche in questo caso si può cominciare a riflettere partendo dalla costituzione, la quale imputa a tutti i cittadini il dovere di svolgere un’attività o una funzioni che concorra «al progresso materiale o spirituale della società». Il riferimento è al lavoro tradizionalmente inteso, ma deve ricomprendere anche tutte quelle attività o funzioni che si svolgono “oltre il lavoro formale”. Il volontariato, l’assistenza ai figli o ai genitori, le attività culturali, quelle di natura immateriale, la cura dei beni comuni. Tutto ciò che – oltre la dimensione economica e immediatamente produttiva — permette agli individui di sviluppare la propria personalità e concorrere al progresso sociale.
Tutto ciò come si può realizzare in concreto? Se si guarda alle diverse forme di reddito proposte (universale, minimo, di disoccupazione) mi sembra che il più conforme al modello definito sia quello che assegna a tutti i bisognosi un reddito minimo, non tanto condizionato dalle logiche di workfare (che impone al titolare del reddito di accettare qualunque lavoro, anche il più degradante o incoerente con la propria formazione a pena della perdita di ogni contributo), quando costituito da due diverse fonti “reddituali”: una in denaro, l’altra definita da forme di sostegno indirette. In questo secondo caso il reddito consiste in garanzie di accesso gratuito ai servizi (scuole, università, consumi culturali, trasporti), ovvero al supporto al volontariato o all’associazionismo, ovvero ancora all’affidamento ai cittadini di strutture inutilizzate (dai teatri, alle fabbriche, ai centri sociali) per la gestione dei beni comuni. In questo caso il reddito di cittadinanza (inteso come servizi, agevolazioni e gestione degli spazi pubblici) potrebbe persino favorire la produzione di reddito da lavoro o configurare un’altra economia.
È questa una prospettiva che stenta a farsi strada e che pure non è assente in alcuni tra i progetti sul reddito (la proposta elaborata dal Basic Income Network, ripresa in sede parlamentare, alcune leggi regionali), persino in una risoluzione del Parlamento europeo del 2010. Per una volta possiamo dire: «ce lo chiede l’Europa».
postilla
L'autore scrive: «Due sono le strade percorribili: lo Stato potrebbe assicurare comunque un diritto al lavoro, ampliando artificialmente l’offerta, incentivando - ad esempio - i lavori socialmente utili, anche se economicamente non necessari. L’altra via è quella di assicurare comunque un reddito di cittadinanza anche a chi -e in assenza delle condizioni sociali che lo rendono possibile - non può lavorare». Esiste anche un'altra via: quella cui allude Azzariti quando scrive che pe misure che propone possono addirittura servire a «configurare un’altra economia».
In sostanza, si tratta a mio parere di modificare alle radici l'attuale concezione (e pratica) dell'economia e rendere anche "economicamente" rilevante ciò che lo è "socialmente".
Bisognerebbe "cercare ancora" sulla strada indicata da Claudio Napoleoni. Chi voglia approfondire l'argomento può leggere in eddyburg il testo di Napoleoni, Scienza economica e lavoro dell’uomo nella definizione di Lionel Robbins, e la sintetica ricostruzione del suo pensiero in proposito che ho steso in un capitolo del mio Memorie di un urbanista e ripreso nella relazione introduttiva alla sesta edizione (2009) della Scuola di eddyburg. (e.s.)
«Pierre Bourdieu. Tradotta "La miseria del mondo", l’opera del sociologo francese sugli smottamenti che hanno investito la società negli ultimi decenni. E che vede nella precarietà il principio regolatore del dominio esercitato dal capitalismo».
Il manifesto, 16 aprile 2015
La miseria al centro del libro di Pierre Bourdieu non è la povertà assoluta (una condizione materiale documentabile e certificabile), bensì la «miseria di posizione», cioè la miseria che nasce e si riproduce in uno spazio fisico e sociale degradato, precario, instabile, cui si appartiene e in cui si è coinvolti senza possibilità reale di uscirne: insomma, la miseria contemporanea è innanzitutto un sistema di relazioni sociali che influenza negativamente il modo in cui le persone pensano se stesse e gli altri, e le chance di vita che hanno a disposizione. In questo senso, l’apparentemente improbabile parallelismo tra Tacito e il sociologo francese va al di là della suggestione retorica: la miseria che emerge dalle analisi di Bourdieu e collaboratori è frutto di una desertificazione sociale, vale a dire dell’impoverimento materiale e della contemporanea pauperizzazione sociale.
Un universo fantasmatico
Il declino di un vecchio mondo (quello della società del benessere) e il sorgere di un nuovo universo, più spietato, meno civico e solidale. All’interno di questo ordine che possiamo chiamare neo-liberista lo Stato si è ritirato e ha perso (per scelta politica) autorevolezza e capacità d’intervento così come sono entrati in crisi e si sono frantumate le istituzioni sociali intermedie che assicuravano sostegno agli individui (la famiglia) ma anche mediazione dei conflitti (le associazioni), sintesi e organizzazione delle diversità culturali e delle aspirazioni individuali (i partiti, i sindacati). Bourdieu e la sua equipe analizzano le manifestazioni di questa miseria contemporanea (che è anche diffusione della violenza e dell’intolleranza) mettendola in collegamento con le sue radici sociali e politiche occulte (perché rimosse dal dibattito pubblico e politico) intervistando una vasta e variegata platea di soggetti: dall’anziano che vive nella banlieue al lavoratore immigrato; dalla giovane disoccupata all’assistente sociale e al piccolo commerciante. Tutte queste figure, i cui vissuti e percorsi sono ricostruiti attraverso un approccio che unisce sempre all’avvincente narrazione d’inchiesta una serrata riflessione teorica in grado di restituire i collegamenti tra le biografie individuali e le più vaste dinamiche sociali e economiche, sono accomunate dalla condivisione di un comune orizzonte e spazio sociale: quello dei ceti popolari, depotenziati nella propria dignità, nel proprio rispetto di sé e nella propria autonomia. Questo immiserimento nasce dalla precarizzazione del mercato del lavoro, dalla contrazione del welfare state, dall’esclusione sociale, dai meccanismi classisti della scuola e dall’abbandono delle periferie da parte delle istituzioni pubbliche.
In questo caleidoscopio sociale «dal basso», nel quale biografia individuale e trasformazioni collettive si intrecciano costantemente, ritroviamo da una parte i «vinti» e dall’altra quelle figure professionali che rappresentano ciò che resta della rete di protezione sociale statuale, che vanno a fondo assieme ai primi. Vi è il piccolo commerciante che non ce la fa più a reggere la concorrenza della grande distribuzione e che vive, ormai anziano, le sue difficoltà reagendo in modo rabbioso, facendo appello ad un nuovo nazionalismo che lo possa proteggere dalle conseguenze della globalizzazione. Un’ampia galleria di giovani, dall’operaio precario che guarda come inutile residuo del passato il sindacato pur vivendo una situazione di forte precarietà lavorativa, al giovane studente marginalizzato e taciturno che poi decide di lasciare tutto per andare ad arruolarsi come volontario nelle milizie croate. E i continui conflitti, ormai diffusi ovunque nel tessuto della vita quotidiana delle banlieue, tra francesi di nascita e francesi naturalizzati (cioè migranti), praticamente per ogni cosa: dagli odori provenienti dalle cucine, ai rumori legati alle visite di amici, sino ai giochi nei cortili. Indicatore di una lotta per il controllo del territorio (ormai in fasce di declassamento) tra gruppi che condividono poco, ma anche risultato del deciso indebolimento dell’autorità nelle famiglie naturalizzate, che conduce i giovani ad assumere comportamenti sempre più fuori controllo.
La prateria della politica
Su questo variegato fronte di guerra – nel quale sindacati e partiti di sinistra sono oramai assenti anche come terreno di incontro e di mediazione tra vari tipi di ceti popolari – ritroviamo anche gli assistenti sociali e i giudici minorili, che non vivono semplicemente le pur tante difficoltà connaturate al loro lavoro ma la sempre più ampia sensazione di essere svalutati socialmente e professionalmente, proprio da quello Stato per cui lavorano ma che non vede più di buon occhio la spesa sociale. La miseria del mondo di Bourdieu fa emergere così tre aspetti molto interessanti: la differenziazione e frammentazione soprattutto per linee etniche e generazionali dei ceti popolari contemporanei; l’abbandono sistematico dei più deboli da parte della politica e delle classi dirigenti, che apre la strada ad una visione sempre più darwiniana della vita sociale; l’apertura di una prateria politica (che all’inizio degli anni Novanta era ancora ampiamente sottovalutata) sia per il nazionalismo populista che per la radicalizzazione islamista, in conseguenza del dissolvimento della sinistra e del suo radicamento popolare.
La miseria è stato uno dei temi dominanti nella vita delle masse popolari nel corso della storia fino ad emergere come un attributo fondamentale di quella questione sociale (e non più semplicemente religiosa) che, a partire dall’ascesa della società industriale, ha dominato la scena politica e il dibattito pubblico della modernità. La miseria è una categoria e uno stato diverso dalla «semplice» povertà: la miseria è penuria di risorse ma anche meschinità morale, condizione materiale deprivata ma anche sofferenza e bassezza spirituale, in termini sociologici quella fine della coesione sociale retta da valori non solo condivisi ma anche capaci di dare una meta e un orizzonte di miglioramento alla vita individuale e collettiva. Così, la miseria non è mai il contrario dell’opulenza ma della «vita buona» e della possibilità di realizzarla in qualche luogo. Come tale la possiamo ritrovare tanto nei ghetti e nelle favelas quanto nei grattaceli scintillanti di Manhattan, ogniqualvolta la deprivazione materiale si accompagna ad un eterno presente senza speranze di riscatto morale, civile e materiale.
L’utopia del socialismo – e poi la stessa ideologia dello Stato sociale, compreso quello di marca liberaldemocratica – è consistita nel ritenere che la società industriale fosse la dimensione all’interno della quale offrire una soluzione a questo problema, una volta eliminato o messo sotto controllo il capitalismo; e, per questa via, in questo mondo, riscattare dalla miseria l’umanità intera, tanto il proletariato quanto gli stessi borghesi. La miseria contemporanea è negazione di questa utopia ed estraneazione della sinistra dai ceti popolari; ed è stata occultata, anche durante e nonostante la grande crisi del 2007. Rileggere l’attualissima ricerca di Pierre Bourdieu ce ne fa capire il perché: non si tratta solo di mera convenienza politica.
Eclisse della sinistra
Ci troviamo di fronte alla scomparsa dal dibattito pubblico della società stessa e dei ceti popolari ora che, dopo la fine del fordismo e della società del benessere, si fanno più differenziati, estesi e precari: fine della società perché la miseria quando è raccontata e messa a tema lo è sempre come questione individuale, disturbo psicosomatico, male esistenziale senza radici sociali, che invece persistono e sono resistentissime, radicate nei meccanismi di funzionamento economico e nei poteri sociali. Abbandono dei ceti popolari perché questi non sono più coinvolti in un progetto di riscatto e progresso sociale ma lasciati in balia dei meccanismi più selvaggi del mercato e di una narrazione mediatica e politica che ne esalta le reazioni di pancia, funzionali al mantenimento di quell’ordine sociale che li priva, contemporaneamente, della prospettiva della «vita buona» (populismo e radicalismo a sfondo religioso). Si pensi a questo proposito al racconto pietistico che in Italia si fa a volte dei disoccupati o dei pensionati rovinati da videopoker o videolottery: in tutti questi casi si cede alla commiserazione, si parla di psicopatologia ma si occulta il fatto che quelle miserie sono funzionali a precisi interessi economici (anche di stampo mafioso), possibili e promossi dalle leggi dello Stato. La miseria del mondo di Bourdieu mostra la possibilità di rendere reversibile (perché prodotto degli uomini) ciò che troppo spesso è scambiato per un destino senza scampo: la miseria dei tempi presenti in tutte le sue complesse ed articolate forme.
«Il conflitto. Riunione informale ieri a Roma con associazioni, centri sociali, partite Iva e precari della Coalizione 27 febbraio. Nella Cgil lo scontro sul futuro del sindacato è duro. La segretaria Camusso definisce la coalizione "una scorciatoia": "Non andrà da nessuna parte. Restiamo della nostra idea"».
Il manifesto, 12 aprile 2015
La prossima settimana il manifesto della coalizione sociale sarà diffuso in vista di un’assemblea di due giorni programmata a metà maggio. Nelle intenzioni del segretario della Fiom Maurizio Landini dovrebbe chiarire che la «coalizione sociale» non è un partito ma «un processo aperto e in divenire». Nella bozza distribuita ieri nel corso di un’assemblea all’Arci di Tor De Schiavi nel cuore del quartiere Centocelle di Roma, poi diffusa dall’Ansa, si legge che la coalizione vuole «dimostrare che si può fare politica attraverso un agire condiviso, al di fuori e non in competizione rispetto a partiti, organizzazioni politiche o cartelli elettorali».
La coalizione sociale sarebbe dunque il risultato di un «agire condiviso», «fuori e non in competizione» con i partiti. Probabilmente la precisazione serve a raffreddare le reazioni della «sinistra Pd» o dei Cinque Stelle, che vedono con insofferenza l’esperimento di Landini. Si punta a fare coalizione con tutti i lavoratori, precari e «nuovi poveri» con la partita Iva, sul «territorio» e «nei luoghi di lavoro», non tra gli schieramenti.
All’incontro hanno partecipato associazioni come Act, movimenti come il Forum dell’acqua e centri sociali dell’Emilia Romagna. È intervenuto anche Stefano Rodotà che ha ribadito il giudizio contro la «zavorra» dei partiti. Una posizione, ha ammesso, che ha innervosito molti nei partiti. A suo avviso la «coalizione sociale» ha «una carica polemica positiva»: registra la crisi della rappresentanza della politica e intende restituire rappresentanza sociale e politica al lavoro. Per Rodotà questa è la base di un’altra cultura e agenda politica da sottoporre anche a chi, nei partiti, è sensibile ai beni comuni o alla proposta di legge d’iniziativa popolare per eliminare il pareggio di bilancio in Costituzione.
L’assemblea è stata chiusa alla stampa, ma nel pomeriggio le agenzie hanno riportato le dichiarazioni di Landini e dei partecipanti. Dopo le 13,30 sugli smartphone sono apparse le dure parole della segretaria Cgil Susanna Camusso. La coalizione sociale è una «scorciatoia – ha detto — non mi pare che vada da nessuna parte». Per la segretaria la strada è diversa: primato del sindacato e autonomia dai soggetti sociali e politici. Obiettivo: ritrovare «l’unità tra i lavoratori e le organizzazioni sindacali».
Su questo scontro tra Landini e Camusso si sta giocando il futuro del sindacato. La sua proposta di coalizione sociale vuole costruirne uno diverso, mettendo in comune «saperi e esperienze» con la società, anche attraverso il «mutualismo», altra parola chiave. Ai soggetti che la compongono sono state proposte «campagne per obiettivi comuni» contro il Jobs Act, «il diritto alla salute, all’istruzione, alla casa, alla pensione o all’assistenza» si legge nella bozza. Non si chiede di rinunciare a ciò che sono, ma di partecipare a quelle su cui sono d’accordo.
Gli avvocati di Mga, i farmacisti di Fnpi, gli attivisti dello sciopero sociale che fanno parte della «Coalizione 27 febbraio» hanno sostenuto le ragioni di una campagna contro il «business» della Garanzia giovani, fisco e previdenza equi per i precari e le partite Iva, il reddito di base. Su questo manifesteranno il 24 aprile alla sede centrale dell’Inps-Eur a Roma. «Ci sono diverse coalizioni in formazione – sostengono – Bisogna determinare le combinazioni che aumentano la forza di tutti ed evitare di definire subito il perimetro di una sola».
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Leggi di Roberto Ciccarelli: Di cosa parliamo quando parliamo di coalizione sociale?
«Coalizione sociale. Il "cercare ancora" deve essere anche una nuova topologia politica, fondata su distinzioni come "alto" e "basso", "uno" e "99 per cento", popolo ed élite, poveri e ricchi, più che destra e sinistra».
il manifesto, 11 aprile 2015, con postilla
Quando parliamo di sociale, ci riferiamo alle relazioni tra le persone — e, da qualche tempo, anche quelle con il vivente in genere — nella vita di tutti i giorni. Ma nel linguaggio politico, sociale si riferisce alle modificazioni di quei rapporti con l’azione collettiva: iniziative condivise da una pluralità di attori che indichiamo con il termine generico di movimenti.
Con il termine politico ci riferiamo invece in modo esplicito ai rapporti di potere, cioè alla gerarchia che contraddistingue l’assetto sociale: sia che l’azione politica sia diretta alla sua conservazione, sia che sia diretta alla sua modificazione.
Quella tra sociale e politico è una distinzione che nel corso del tempo ha subito molte modificazioni in relazione al contesto e oggi tende a sfumare: è venuta meno “l’autonomia del politico”, nel senso che la politica non viene più percepita come una sfera disincarnata, dotata di una sua logica interna, dove si confrontano visioni del mondo, obiettivi, strategie e tattiche differenti; viene invece considerata sempre più un aggregato sociale, dotato di una propria dinamica — a cui ci si riferisce spesso con il termine “casta” — da analizzare e spiegare in termini sociali: un ceto che ha il ruolo — e i connessi privilegi — di mediare il rapporto tra i centri del potere finanziario mondiale che dominano sull’economia globale e chi ne subisce il comando. Viceversa al “sociale”, inteso nel senso di insieme di movimenti per trasformare la realtà, viene da tempo riconosciuta una dimensione intrinsecamente politica, perché non si ritiene più possibile modificare quei rapporti, anche nei suoi aspetti più parziali, senza mettere in discussione il potere, la struttura gerarchica da cui dipendono.
Ma è comunque un salto logico identificare sociale con sindacale e politico con partitico (Marco Revelli, il manifesto 4 aprile), per poi dedurne che tra quelle due realtà possono solo intercorrere rapporti analoghi a quelli configuratisi nel corso del Novecento: il modello socialdemocratico, quello laburista e quello “francese”. Se questi “tipi ideali” sono accettabili in riferimento al secolo scorso, ora il sociale non è più riconducibile al solo sindacale; né il politico al solo partitico. Questa era peraltro la ragione che aveva indotto Revelli a teorizzare l’impasse del suo “Finale di partito”. Per questo il dibattito, se utile per capire da che cosa ci siamo per sempre allontanati, non può essere usato, come suggeriscono Favilli e Revelli, per definire le opzioni che abbiamo di fronte, né per raccomandare — troppo facile dirlo senza praticarlo — di “cercare ancora”.
La situazione odierna non è più quella in cui si era andato costituendo il movimento operaio dell’Occidente; né quella in cui aveva imposto alla controparte capitalistica e statuale le innovazioni dello Stato sociale: contrattazione collettiva con valenza normativa e gestione statuale dei servizi sociali: sanità, istruzione, pensioni e, in parte, abitazione.
La prima era caratterizzata da una contiguità fisica delle abitazioni dei lavoratori tra di loro e con il luogo di lavoro, sicché la vita sociale che si svolgeva nelle une faceva da retroterra anche alle lotte nelle fabbriche. Di qui la reciproca integrazione tra lotte rivendicative e sforzi per costruire, con il mutualismo e il movimento cooperativo, una alternativa sociale autonoma e autogestita alla miseria indotta dall’industrializzazione.
La seconda, che ha avuto il suo apogeo quando ormai le principali misure di autotutela promosse con il mutualismo erano state sussunte dallo Stato e gestite da entità pubbliche in forme universalistiche, aveva comunque trovato la sua base sociale nell’omogeneità della condizione lavorativa di una manodopera ammassata nei grandi impianti della produzione fordista.
Entrambi questi retroterra sono venuti meno, anche se nessuno dei due è scomparso del tutto. La condizione con cui deve misurarsi il “sociale” oggi è una elevatissima dispersione e differenziazione dei poveri e delle classi lavoratrici sia sul territorio che nei luoghi di lavoro. Ma non è solo l’isolamento, sia fisico che psichico ed esistenziale, a contrassegnare i rapporti sociali del giorno d’oggi; ancora più importante è il predominio culturale del pensiero unico; della competizione universale di tutti contro tutti e della “meritocrazia”, intesa come legittimazione del diritto del più forte a lasciare indietro e schiacciare il più debole.
Certo questa ideologia e la sua egemonia hanno una base materiale nella dispersione imposta dallo sviluppo capitalistico e dalla sua globalizzazione. Ma proprio per questo l’impegno della politica nel contesto odierno deve essere un lavoro di ricostruzione di relazioni sociali solidali e paritarie, mettendo al primo posto i diritti e la dignità delle persone: una pratica che riguarda soprattutto la costruzione di movimenti, le relazioni sociali dentro i movimenti e i rapporti tra movimenti di orientamento o ispirazione diversi.
Per far sì che quei movimenti, intesi nel senso più ampio, si diano una rappresentazione, e una rappresentanza, più ampia possibile della propria collocazione sociale e politica, e con ciò stesso dei propri obiettivi e delle proprie finalità — è questo il senso della coalizione sociale — e non perché si riconoscano in una rappresentanza politica precostituita.
Vano è limitarsi a guardare a un presunto “spazio a sinistra” del Pd che — affidandosi a una “topologia politica” che non ha riscontro sociale — si sarebbe aperto in seguito alla evoluzione dei partiti socialdemocratici europei, di cui il Pd è solo un caso estremo, anche se sintomatico. Quello spazio è in gran parte immaginario, o non “a disposizione” del primo arrivato per costruire qualcosa di solido; e meno che mai a disposizione di organizzazioni già in fila da anni, senza risultati, per riempirlo.
Quel “cercare ancora” deve essere un nuovo modo di fare politica; ma anche una nuova topologia politica, fondata su distinzioni come “alto” e “basso”, “uno” e “99 per cento”, popolo ed élite, poveri e ricchi, più che destra e sinistra. Le classi non esistono più? Sì, esistono, ma bisogna farle emergere alle luce del sole percorrendo strade nuove e non la riproduzione dell’ennesima riaggregazione dei resti della “sinistra radicale”.
P.S. A beneficio di Luciana Castellina e di chi ha letto il suo articolo (il manifesto, 7 aprile), preciso che non ho mai scritto che «i partiti sarebbero tutti ceto politico» (lo sono in gran parte i loro dirigenti più o meno permanenti e molti loro rappresentanti nei corpi elettivi e nelle società partecipate; non certo, dove c’è, la loro “base”), né che «le organizzazioni che operano nella società civile sarebbero tutte illibate» (ho scritto che hanno anche loro le loro piccole burocrazie). Sono inoltre radicalmente critico nei confronti «dell’idea negriana della moltitudine», come emerge da molti miei scritti (vedi per esempio: “Virtù che cambiano il mondo”, 2013). Sono peraltro convinto sostenitore della necessità e dell’urgenza dell’azione politica, come dimostra la mia partecipazione alla fondazione di Alba, di Cambiare si può (ma non di Rivoluzione civile) e de L’Altra Europa (ma non della sua attuale deriva burocratica e autoritaria).
postilla
C'è peraltro da domandarsi se non si debba cominciare a pensare che i dirigenti dei partiti, o almeno molti di essi, abbiano assunto un ruolo tale nel sistema del finanzcapitalismo da non costituire più solo un "ceto sociale", ma una "classe", con un suo preciso ruolo in quel sistema.
Una sentenza che pesa come un macigno per un Paese le cui istituzioni hanno minimizzato fino all’ultimo quanto accadde in quella che, grazie alle parole di uno dei poliziotti intervenuti, è nota come la «macelleria messicana».
La sentenza, decisa all’unanimità, per la prima volta condanna l’Italia per violenze qualificabili come tortura, escludendo che i fatti possano essere considerati solo come «trattamenti inumani e degradanti» e sottolineando la gravità delle sofferenze inflitte e la volontarietà deliberata di infliggerle. La Corte respinge anche la difesa del governo italiano secondo cui gli agenti intervenuti quella notte erano sottoposti a una particolare tensione: «La tensione – scrivono i giudici – non dipese tanto da ragioni oggettive quanto dalla decisione di procedere ad arresti con finalità mediatiche utilizzando modalità operative che non garantivano la tutela dei diritti umani».
La Cedu entra poi nel cuore del problema: la reazione (o non reazione) dello Stato italiano a ciò che avvenne.
«Gli esecutori materiali dell’aggressione non sono mai stati identificati e sono rimasti, molto semplicemente, impuniti» e la principale responsabilità di ciò è addebitabile alla «mancata collaborazione della polizia alle indagini». Ma la Corte va anche oltre e lamenta che «alla polizia italiana è stato consentito di rifiutare impunemente di collaborare con le autorità competenti nell’identificazione degli agenti implicati negli atti di tortura». I giudici ricordano che gli agenti devono portare un «numero di matricola che ne consenta l’identificazione». Per quanto riguarda le condanne «nessuno è stato sanzionato per le lesioni personali» a causa della prescrizione mentre sono stati condannati solo alcuni funzionari per i «tentativi di giustificare i maltrattamenti». Ma anche costoro hanno beneficiato di tre anni di indulto su una pena totale non superiore ai 4 anni.
La responsabilità di tutto ciò non è stata né della Procura né dei giudici ai quali il Governo italiano secondo la Corte ha provato ad attribuire la «colpa» della prescrizione. Anzi, al contrario, i magistrati hanno operato «diligentemente, superando ostacoli non indifferenti nel corso dell’inchiesta».
Il problema, secondo la Corte, è «strutturale»: «La legislazione penale italiana si è rivelata inadeguata all’esigenza di sanzionare atti di tortura in modo da prevenire altre violazioni simili».
Infatti «la prescrizione in questi casi è inammissibile», come inammissibili sono amnistia e indulto.
La Corte ritiene necessario che «i responsabili di atti di tortura siano sospesi durante le indagini e il processo e, destituiti dopo la condanna». Esattamente il contrario di quanto accaduto. Forse anche per questo «il Governo italiano non ha mai risposto alla specifica richiesta di chiarimenti avanzata dai giudici di Strasburgo».
Dall’ex capo dell’Ucigos Giovanni Luperi al direttore dello Sco Francesco Gratteri al suo vice Gilberto Caldarozzi, al capo del reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini, i massimi vertici della polizia hanno proseguito le loro brillanti carriere fino alla condanna definitiva. Per molti di loro è arrivata nel frattempo l’agognata pensione, per gli altri nessuna destituzione da parte del Viminale ma solo l’interdizione per 5 anni dai pubblici uffici disposta dai giudici, terminata la quale potranno rientrare in servizio. Per i capisquadra dei picchiatori del nucleo sperimentale antisommossa di Roma, condannati ma prescritti prima della Cassazione (ritenuti però responsabili agli affetti civili) non risultano sanzioni disciplinari, tantomeno per i loro sottoposti mai identificati.
«I vertici delle forze di polizia hanno ricevuto in questi anni soltanto attestazioni di stima e solidarietà» commenta il procuratore generale di Genova Enrico Zucca, che ha sostenuto l’accusa contro i poliziotti in primo e secondo grado — e mi rifiuto di credere che lo stato non abbia funzionari migliori di quelli che sono stati condannati». «Quando nel corso dei processi insieme al collega Cardona parlavamo di tortura citando proprio casi della Cedu ci guardavano come fossimo pazzi», ricorda con un pizzico di amarezza mista alla soddisfazione per una sentenza che considera però «scontata». Per il magistrato, che spesso si trovò isolato anche all’interno della stessa Procura nell’inchiesta più scomoda «bisogna prevenire fatti di questo genere e in Italia non abbiamo antidoti all’interno del corpo di appartenenza. Le dichiarazioni dopo la sentenza definitiva dell’allora capo della polizia Manganelli non sono solo insufficienti ma dimostrano la mancata presa di coscienza di quello che è successo. Fece delle scuse, sì, ma parlando di pochi errori di singoli, senza riflettere sulla vastità del fenomeno».
La sentenza che ha condannato l’Italia a un risarcimento di 45 mila euro ad Arnaldo Cestaro arriva a quattro anni dal ricorso. I legali di Cestaro, gli avvocati Niccolò e Natalia Paoletti, che non hanno neppure atteso la sentenza di Cassazione per rivolgersi alla Cedu, esprimono soddisfazione: «Siamo molto contenti, soprattutto per il fatto che la corte ha rilevato l’enorme mancanza dell’ordinamento interno italiano, vale a dire la non previsione del reato di tortura e lo invita quindi a porre dei rimedi». Per il loro cliente anche un risarcimento superiore a quanto normalmente disposto dalla Corte per casi simili «anche se – dice l’avvocato — parlare di cifre rispetto alla violazione di determinati diritti, è svilente».
«La sentenza della Corte di Strasburgo – commenta il sindaco di Genova Marco Doria — riconosce la tragica realtà delle violenze perpetrate alla Diaz e mette a nudo la responsabilità di una legislazione che non prevede il reato di tortura e, per questa ragione, lascia sostanzialmente impuniti i colpevoli. È una sentenza di grande valore, non solo da rispettare, ma da condividere pienamente». «Uno stato democratico – aggiunge il sindaco — non deve mai tollerare che uomini che agiscono in suo nome compiano atti di brutale violenza contro le persone e i diritti dell’uomo. È, questa, una condizione essenziale anche per difendere la dignità di quanti operano invece negli apparati dello Stato secondo i principi della Costituzione».
L’Italia, che potrebbe fare ricorso contro la sentenza, sarà costretta a ottemperare con una legge ad hoc.
«Il modello – spiega l’avvocato Paoletti – potrebbe essere per esempio quello francese, che prevede per la tortura una pena base di 15 anni, aumentata a 20 in caso sia un pubblico ufficiale a commetterla e a 30 in caso di infermità permanente per la vittima, ma si sa che il nostro Paese è molto ’bravo’ a ottemperare con molta lentezza alle sentenze della Cedu».
Nell’attesa, comunque lo Stato italiano potrebbe essere costretto a sborsare molto per risarcire le altre circa 60 parti civili della Diaz che hanno fatto ricorso in blocco dopo la sentenza definitiva. Se quella di Cestaro può essere considerata una sentenza-pilota, si può ipotizzare un risarcimento di quasi 3 milioni di euro. Senza contare i processi civili per le vittime non solo della Diaz ma anche di Bolzaneto, che sono appena cominciati.
Il video del Tg3 Liguria la mattina dopo la mattanza alla Diaz.
L'iniziativa di Landini e la furia crescente di Rodotà. Il dibattito sul che fare prosegue. «L’eterno problema del rapporto tra Sociale e Politico. O, per dare volti ai concetti, tra Sindacato e Partito. Non è inedito, come in molti oggi sembrano pensare, ma ricorrente da quando la sfera sociale si è massificata e quella politica democratizzata».
Il manifesto, 4 aprile 2015
«Oggi la metà dei cittadini non va nemmeno più a votare», perché non si sente rappresentata da nessun partito. E «più della metà dei lavoratori non è rappresentata da nessun sindacato». Credo che quando si discute di «coalizione sociale», come si è fatto in questi giorni sul manifesto, si debba partire da queste due frasi del discorso di Maurizio Landini, a conclusione della bella manifestazione della Fiom a Roma, che ci richiamano, tutti, alla drammatica crisi di rappresentanza che caratterizza la nostra ormai conclamata «post-democrazia».
E leggerle in sincronia con la vera e propria lezione pubblica di Stefano Rodotà, rivolta ai cinquantamila di piazza del Popolo, là dove ha detto (cito a senso) che c’è l’ assoluta necessità di una coalizione orizzontale, di una «coalizione sociale», appunto, che non solo articoli la domanda dei soggetti sociali nei confronti della politica, ma ne strutturi l’agenda (mi pare che abbia detto proprio così: l’«agenda»). Sta qui, esattamente, il punto su cui ci laceriamo tutti, e in parte anche ci dilaniamo come se fossimo avversari anziché naufraghi. Sta nel vuoto aperto dalla crisi dei due principali pilastri della vicenda sociale e politica novecentesca: il Sindacato e il Partito. Entrambi cresciuti fino ad assumere una centralità costituente ed entrambi caduti. O comunque svuotati: ridotti spesso a involucri incapaci di trattenere le energie sociali che li avevano fatti grandi.
Intervistato da Enrico Franceschini l'inventore della "terza via" sperimentata da Tony Blair, Gerhard Schröder e Bill Clinton, clamorosamete fallita, ripropone mutatis mutandis la sua ricetta, Quanti equivoci dietro la parola "sinistra"!
La Repubblica, 3 aprile 2015
Professor Anthony Giddens, lei è stato il teorico della Terza via, ma cosa significa essere di sinistra oggi?
«Significa avere determinati valori. Promuovere l’eguaglianza, o almeno limitare la diseguaglianza; attivarsi per la solidarietà, non solo dallo Stato verso i cittadini ma anche tra privati, all’interno della propria comunità; proteggere i più vulnerabili, garantendo in particolare un sistema sanitario e altri servizi pubblici essenziali ai bisognosi».
Qualcuno potrebbe obiettare che sono i valori di sempre della sinistra: cos’è cambiato rispetto al passato?
«È cambiato il contesto. La globalizzazione e la rivoluzione digitale hanno frantumato le vecchie certezze. Battersi per quei valori resta l’obiettivo, ma difenderli richiede strategie differenti. Il socialismo vecchia maniera non può più funzionare come modello. Ma non funziona, l’abbiamo visto con la grande crisi del 2008, nemmeno il modello proposto dalla destra, quello di un liberalismo in cui praticamente il mercato governa il mondo. Serve allora una via di mezzo, un modello che io chiamo di capitalismo responsabile ».
La Terza via, di nuovo?
«No, perché quando formulai il modello della Terza via, poi applicato in diversa maniera da Clinton, Blair, Schroeder e altri, internet quasi non esisteva, muoveva appena i primi passi. L’accelerazione data ai cambiamenti sociali ed economici dalle innovazioni tecnologiche ha scardinato anche la Terza via, l’idea di un riformismo di sinistra che preservasse il welfare in condizioni di mercato e demografiche mutate. Oggi i supercomputer e la robotica stanno trasformando il mondo del lavoro. Non sono sicuro che i leader politici si rendano conto del livello di rivoluzione tecnologica che abbiamo imboccato».
Ce ne dia un esempio.
«Un recente studio dell’università di Oxford nota che, quando fu inventato il telefono, ci vollero 75 anni per portarlo in 50 milioni di case. Oggi, neanche dieci anni dopo l’invenzione dello smartphone, ce ne sono 2 miliardi e mezzo di esemplari in tutto il pianeta. La rivoluzione tecnologica corre più in fretta di qualsiasi altra rivoluzione politica, economica e sociale nella storia dell’umanità ».
Il Jobs Act varato dal governo Renzi in Italia è una riforma di sinistra?
«Sì. E io appoggio quello che Renzi sta facendo. Sono riforme importanti, ma da sole non bastano. Il modello del blairismo è diventato obsoleto per le ragioni che le ho appena detto».
Cos’altro potrebbe fare, Renzi?
«L’azione nazionale non è più sufficiente. Il mondo è troppo globalizzato. Occorrono riforme a livello europeo. E mi pare che il premier italiano potrebbe avere un ruolo di rilievo per cambiare l’Europa».
Come si lotta contro la diseguaglianza, da sinistra, in questo mondo globalizzato?
«Non è possibile che una ristretta élite si arricchisca sempre di più. Questa è una bolla di sperequazione pericolosa, destabilizzante. Parte di quei soldi devono essere tassati e andare verso la spesa sociale. E questo è un aspetto. L’altro è la re-industrializzazione. Non è più vero che le fabbriche debbano andare in Cina, dove del resto il costo del lavoro è in aumento. In America è cominciato un ritorno all’industrializzazione, deve cominciare anche in Europa: la deindustrializzazione europea ha colpito troppo la classe operaia».
Le sinistre radicali, in Europa, dalla Grecia alla Spagna, vedono nel saggio di Thomas Piketty sul capitale un possibile modello per un governo di sinistra.
«Piketty ha evidenziato un problema, il crescente gap ricchi-poveri, l’ingiustizia di fondo di un sistema, ma non mi pare che abbia indicato una soluzione concreta. Quando le sinistre populiste vanno al potere, non riescono a mantenere i loro obiettivi».
Blair scrive nelle sue memorie che sinistra e destra sono concetti superati, che oggi conta essere “aperti”, a immigrazione e libero mercato, o “chiusi”, cioè anti-immigrati e protezionisti.
«Io la penso come Bobbio. Sinistra e destra esistono ancora. Anche se chi è di sinistra, oggi, non può essere per la chiusura di frontiere e mercati. Il mondo è stato aperto da globalizzazione e internet. Nessuno può più chiuderlo»
Nel dibattito sulla sinistra ieri, oggi e domani un interessante intervento da un punto di vista di destra. Peccato che guardi solo nella sinistra di governo, e consideri (anche lui) il Pd un partito della sinistra socialdemocratica.
La Repubblica, 3 aprile 2015
NEL riflettere su ciò che costituisce il nucleo vitale della sinistra — insieme il suo valore fondante e il fine che essa non può non perseguire salvo negare se stessa — occorre tenere per punto fermo che esso è l’egualitarismo. Tutte le correnti della sinistra sono sempre state concordi nell’alzare come propria bandiera l’egualitarismo. Sennonché una tale concordia è costantemente venuta meno in relazione sia al tipo e al grado di egualitarismo sia ai mezzi per conseguirlo. A mio giudizio per chi voglia chiarirsi le idee resta prezioso il saggio di Norberto Bobbio Destra e sinistra, ripubblicato dalla Donzelli nel 2014.
Qui parte essenziale dell’analisi è dedicata a mostrare come la sinistra unita intorno all’egualitarismo si è aspramente divisa al proprio interno circa il “quanto” di egualitarismo da conseguire e come ottenerlo; tanto che la storia della sinistra è nelle sue linee dominanti storia di due assai diverse sinistre: da un lato la rivoluzionaria, la radicale, dall’altro la moderata, la riformista; da un lato i comunisti Winstanley, Babeuf, Marx, Lenin, Mao; dall’altro i riformisti Owen, Blanc, Bernstein, il “rinnegato” Kautsky, arrivando a Palme. La prima corrente aspirava all’egualitarismo integrale da assicurarsi mediante la collettivizzazione dei mezzi di produzione e la dittatura dei proletari, la seconda a un egualitarismo — cito Bobbio — «inteso non come l’utopia di una società in cui tutti sono eguali in tutto ma come tendenza (…) a favorire le politiche che mirano a rendere più eguali i diseguali» in forza dell’affermazione dei diritti sociali e nel quadro del rispetto della democrazia e dei diritti di libertà di tutti.
Questa la tavola dei valori e degli obiettivi delle due sinistre. La storia è stata implacabilmente impietosa con la sinistra comunista: prima l’ha portata ai massimi trionfi in termini di potere e poi l’ha fatta precipitare nella negazione pratica di tutti i suoi ideali culminata in un degradante totalitarismo. La sinistra socialista riformista ha avuto un migliore destino, raggiungendo nel Novecento con il “compromesso socialdemocratico” da cui sono venute le istituzioni del welfare , risultati importanti, che hanno contribuito in maniera determinante a ridurre le diseguaglianze, a dare maggiore dignità al mondo del lavoro, ad assicurare protezione agli strati sociali più deboli.
Difficile e inconcludente perché incapace di elaborare una cultura politica all’altezza di sfide che non era ed è preparata ad affrontare. Essa sopravvive come può, leva una “grande lamentazione” contro l’inesorabile avanzare delle diseguaglianze abissali in crescita esponenziale tra i pochi grandi ricchi, coloro che stentano a campare e i tanti poveri e poverissimi, ma non riesce a coordinare le proprie forze a livello internazionale, si affanna a difendere i resti di quel welfare la cui conquista era stata la sua gloria.
Marx una cosa davvero giusta l’aveva detta: che gli ideali si misurano dalla capacità di metterli in pratica. Orbene, la sinistra odierna è corrosa da questo contrasto: mentre è indotta dalle mostruose diseguaglianze alla grande lamentazione in nome di un umano egualitarismo, non riesce più ad incidere, se non debolmente, sui meccanismi di potere che lo contrastano. L’inevitabile domanda è se essa sarà in grado di risalire la china che sta trascinandola verso una crisi profonda.
Di fronte alle enormi ingiustizie contro i diritti degli strati più deboli, una serie di eminenti filosofi politici e intellettuali — mi limito a citare, oltre a Bobbio, Michael Walzer, Tony Judt, Colin Crouch — hanno insistito a ricordare le conquiste della socialdemocrazia nel Novecento e ad affermare di non vedere altro soggetto che possa invertire la rotta segnata dal neoliberismo trionfante. Così si carica la socialdemocrazia di un compito tanto pesante quanto nobile. Resta il fatto che la critica al mondo che genera le diseguaglianze è una premessa di per sé incapace di produrre il fare.
Questo appare, dunque, lo stato delle cose: la sinistra è gravemente malata e non può illudersi di vivere di protesta ideale. Cercare di vedere la situazione costituisce la necessaria premessa per qualsiasi passo in controtendenza. Vedremo se essa saprà ridarsi una cultura, un programma, una nuova organizzazione. Per ora, purtroppo, non se ne intravedono i segni.
Un’ultima considerazione. In Italia dove sta la sinistra? In casa di Renzi, di Landini, di Vendola? Per ora nessuno lo ha spiegato in maniera comprensibile. Cerchino di farlo se ne sono all’altezza, così i cittadini potranno capire e regolarsi di conseguenza. Tutta la storia italiana è piena di sinistra, sempre boriosa, che nei momenti cruciali ha perduto la partita. Provino i Renzi, i Landini, i Vendola a mettere insieme le loro idee, i loro programmi in paginette ben scritte. È una questione di responsabilità politica. Vederli un giorno sì e un giorno no gridare dagli schermi televisivi: sinistra, sinistra, la mia è la sola vera sinistra stanca, delude e allontana.
«Un forte richiamo a non dimenticare il senso della parola "politica" e a comprendere qual'è il focus di una nuova sinistra: a uperare le contraddizioni che dividono le sinistre non può che essere la lotta contro l’incarnazione attuale del capitalismo, il neoliberismo
». Il manifesto, 2 aprile 2015
Dalla polemica aperta su che cosa dovesse essere la “coalizione sociale” e che cosa non dovesse essere o diventare è emersa una questione che è di fondo. Nientemeno che quella di … che cosa sia la politica, fin dove si estenda, chi debba farla e chi no. Ed è sconfortante che sul significato, la portata, il denotato del termine la sinistra si possa dividere.
Sconfortante perché rivela che si è lasciata pervadere da una grossa mistificazione Quella che ritaglia la politica, la spezza, ne recinge l’estensione, il campo, ne limita l’oggetto per ridefinire il soggetto. E, conseguentemente, ne sceglie i contenuti definendoli leciti e li separa da quelli che condanna come illeciti, per poi dettare le forme attraverso cui solo la politica può dispiegarsi, selezionando in tal modo gli attori. Li divide, li separa, e, separandoli, fraziona insieme l’oggetto e il soggetto della politica. Soggetto ed oggetto che da Aristotele a Gramsci cento volte è mutato nei modi di configurarsi, mai nella sua essenza di pluralità umana accomunata da una storia e da un destino. La cui composizione ed il modo come si configura è l’oggetto della politica così come il suo soggetto. È chi, con chi e per chi e come gestisce, riproduce o modifica la configurazione di tale oggetto.
Sminuzzata, neutralizzata, liquidata e dissolta è oggi la soggettività popolare in Italia. Le leggi elettorali vigenti da venti anni (e con esse quella che Renzi sta imponendo all’Italia) non soltanto hanno distorto la rappresentanza, hanno dissolto il “rappresentato”. La trasformazione è stata duplice. Da strumento di espressione dei bisogni, delle aspettative, dei progetti di vita delle donne e degli uomini, la rappresentanza è stata convertita in dispositivo di appropriazione del potere di governo per uno uomo solo. Ne è derivata irrimediabilmente la dispersione del rappresentato e la sua condanna alla solitudine nel subire o il ricatto nelle fabbriche, o la degradazione nel precariato, o la disperazione nella disoccupazione permanente.
La solitudine ha prodotto la rottura del legame sociale. Il ricatto ha neutralizzato l’istanza a rivendicare nel luogo di lavoro condizioni di dignità. La degradazione e la disperazione hanno generato o rassegnazione e rinunzia a lottare per una prospettiva di uscita dallo stadio di depressione o concorrenza tra i degradati e i disperati nell’offrire forza-lavoro al prezzo più basso.
È questo lo stadio di regressione della condizione umana in Italia. Si sa che a determinarla contribuisce enormemente l’Europa della sovranità dei mercati. Ma è dal soggetto della politica e perciò della democrazia che bisogna partire ricostruendolo nella sua autenticità plurale e rifondandolo alla base della società come titolare di una rappresentanza che si imponga nel quotidiano della politica, rappresentandosi dove si decide. Ad unire, a superare le contraddizioni che dividono le sinistre non può che essere la lotta contro l’incarnazione attuale del capitalismo, il neoliberismo, dominante in Europa ed attuato in Italia. Il compito, la ragion d’essere della coalizione sociale dovrebbe essere proprio questo, la rifondazione nella società del soggetto che si oppone al capitalismo neoliberista e lo sfida
«». Il manifesto
Il progetto di coalizione sociale promosso dalla Fiom e consolidato dall’imponente manifestazione del 28 marzo offre a tutte le persone di buona volontà un’opportunità che non va lasciata cadere.
La proposta circolava da tempo: era già stata avanzata da Rodotà in un’assemblea dell’Altra Europa lo scorso giugno e raccolta in diversi documenti di questa organizzazione, rimasti però senza seguito, avendo L’Altra Europa imboccato invece la strada di un accordo tra partiti e correnti della sinistra esterna e interna al Pd.
Ora, sotto l’ombrello della Fiom, la coalizione sociale sarà per sua natura una realtà policentrica, la cui trama può cominciare a esser tessuta dai punti più diversi del territorio e della struttura sociale, senza che tra le diverse iniziative si vengano a creare per forza competizioni o sovrapposizioni.
L’obiettivo comune è quello di aggregare formazioni, comitati, associazioni, movimenti, sindacati – ma anche singoli non organizzati - non solo differenti tra loro per storia, composizione sociale, obiettivi e pratiche, ma tra i quali sussistono spesso, latenti o espliciti, fattori di incompatibilità o di conflitto. Ma il lavoro di ricomposizione di queste differenze - che una volta affrontate si rivelano un fattore di ricchezza sia per tutti che per il progetto comune - è proprio ciò che rende anche politica la coalizione sociale. Una formazione composta da movimenti e iniziative che per natura o per la loro storia hanno obiettivi monotematici, o operano in campi limitati, o sono confinati in ambiti locali.
Perché la politica «buona» - quella orientata alla promozione, al rafforzamento e al collegamento di lotte e iniziative contro le strutture consolidate del potere o le misure che colpiscono la maggioranza della popolazione - non è altro che questo: unire ciò che il capitalismo (e in particolare, la sua configurazione globalizzata e finanziarizzata di oggi) divide.
Per questo una coalizione sociale ben praticata è anche sempre «politica».
Ma non è vero il contrario: una aggregazione di organizzazioni politiche oggi tende a rivelarsi fattore di divisione tra le componenti sociali che dovrebbero esserne il riferimento. Perché qui entrano in gioco diverse rivalità: nel migliore dei casi tra visioni (a volte anche solo linguaggi) differenti e ciascuna aspira ad affermare la propria egemonia sulle altre; nel caso peggiore, e più frequente, tra esigenze rivali di sopravvivenza delle strutture o di riproduzione della porzione di ceto politico presente in ciascuna organizzazione. Un rischio da cui non sono esenti nemmeno le grandi associazioni, che hanno anch’esse una propria piccola burocrazia interna; ma in misura infinitamente minore, perché la loro missione e le loro radici nella società le inchiodano in qualche modo a comportamenti meno ondivaghi.
E’ quello che a mio avviso non hanno capito i molti – tra cui Paolo Favilli in un articolo sul manifesto del 28 marzo scorso – che giocano sulla reversibilità tra i due concetti: se una coalizione sociale è necessariamente politica, una coalizione politica non può che essere anche sociale. Le cose non stanno così e molte vicende, anche recenti, ce lo hanno dimostrato. Per questo una coalizione sociale, a differenza di un accordo tra partiti, non può che essere «né di destra né di sinistra», nonostante che gran parte dei valori che fa propri siano quelli della sinistra tradizionale (ma anche su questo il femminismo ha certamente molto da dire; e da ridire).
Ovviamente metter d’accordo organizzazioni sociali differenti e tra loro in gran parte estranee è più complicato e richiede più tempo, ma è anche più solido, che stringere un patto tra i vertici di partiti o di correnti diverse. Ma può aiutare, in questo compito, ciò che già era stato prospettato, e mai attuato, all’interno de L’Altra Europa dopo le elezioni europee: la formazione di gruppi di lavoro in cui le diverse componenti della coalizione possono confrontare le loro posizioni su alcuni temi specifici; ma anche le loro pratiche, che sono spesso, assai più delle dichiarazioni programmatiche, ciò che divide.
E’ in sedi come queste che si possono individuare i punti di convergenza e promuovere iniziative comuni: non necessariamente tra tutte le componenti della coalizione in fieri, ma solo tra coloro che su quei punti già si trovano d’accordo. Poi si può mettere a confronto le posizioni di coloro tra i quali l’accordo non è stato trovato e verificare, con uno scavo sulle ragioni delle divergenze, ma anche attraverso il confronto con le tante posizioni diverse che vi partecipano, se è possibile arrivare a una mediazione.
Ed è nel corso di questo lavoro che, tra alcune - non necessariamente tutte - componenti della coalizione può emergere e consolidarsi la proposta di una lista elettorale, senza che una scelta del genere impegni tutti.
Per questo il problema dei due tempi posto da Rodotà – prima la coalizione sociale; poi, magari, anche la lista elettorale – non si pone. Le due cose possono marciare separatamente in un unico progetto; a condizione che si tengano a bada, escludendole dalla coalizione, le aspirazioni egemoniche dei partiti.
Presto il progetto della coalizione sociale, promosso a livello nazionale, si riproporrà a livello locale: qui le combinazioni, come i punti di partenza e le prime esperienze di un’iniziativa che mira all’unità, ma non parte da essa, potranno essere le più varie; ed è bene che ciascuno cominci a lavorare nei modi e con gli interlocutori che gli sono più consoni. Si tratterà di aggregazioni che, come indica il nome - Unions! - della mobilitazione del 28, si richiamano allo spirito mutualistico e solidale degli albori del movimento operaio. Ma che riprodurranno anche, per il loro legame con territori e comunità, quel community unionism che ha innescato la ripresa del movimento sindacale negli Stati Uniti, soprattutto tra i lavoratori immigrati e meno qualificati; e che non si ferma - anche se ovviamente non la trascura - alla contrattazione salariale e delle condizioni di lavoro, ma si fa carico di tutta la condizione sociale, e anche esistenziale, dei suoi adepti.
Per questo la coalizione sociale è anche un ritorno alle origini: rinnovato per misurarsi con la complessità degli assetti sociali odierni. Alle origini, le istituzioni del movimento operaio avevano una base sociale anche nel territorio: la fabbrica non distava dalle abitazioni degli addetti e i quartieri operai erano contigui alle unità produttive.
Le prime lotte operaie traevano gran parte della loro forza dal loro retroterra. La disgregazione di quel tessuto sociale ad opera di un’urbanistica che aveva come obiettivo la separazione tra lavoro e residenza - e dispersione di questa in un pulviscolo abitato da lavoratori di fabbriche e uffici tra loro lontani – ha cambiato i connotati della condizione operaia: ben prima che la frammentazione dell’impresa fordista in una molteplicità di unità produttive separate, sottoposte a differenti regimi contrattuali in paesi e continenti diversi cominciasse ad aggredire l’unità della classe operaia anche sui luoghi di lavoro.
Il sindacalismo «operaista» che ha avuto la sua epopea in Italia e in Europa negli anni ’60 e ’70 e negli Stati Uniti negli anni ’30 e ’40 – ma il cui modello permane, pur in un contesto completamente cambiato – non è che il residuo di questo «intermezzo» storico: tra la disgregazione dell’unità di classe sul territorio del tardo ottocento e del primo novecento e quella sui luoghi di lavoro della fine del novecento e dell’inizio di questo secolo. Oggi, in un contesto globalizzato, la dimensione territoriale delle alleanze (dove il lavoro di cura, domestico e no, l’altra economia e la conversione ecologica possono trovare il loro spazio più proprio) torna ad avere un ruolo di primo piano. E’da lì che possono ricrearsi processi stabili di confronto e di unità tra diversi
Intervistato da Anais Ginoi il sociologo interviene nella discussione aperta ieri da Nadia Urbinati. In Francia considerano di sinistra il partito di Hollande; nessuno al mondo potrebbe considerare tale il partito di Renza. La Repubblica, 1. aprile 2015
«LA sinistra può morire. Come qualsiasi essere vivente, non è eterna». La profezia di Alain Touraine, dall’alto dei suoi quasi novant’anni e dei numerosi saggi sulle società post-industriali, non lascia molta scelta: prepariamoci a scrivere un epitaffio oppure a pubblicare un nuovo certificato di nascita. «La gauche è in agonia, fuori tempo e fuori dal mondo. Non potrà resistere a lungo» spiega il sociologo francese all’indomani dell’ennesima sconfitta del partito socialista al potere.
«La sinistra – spiega Touraine – non riesce a reinventarsi in un’epoca post-sociale, in cui i rapporti di forza non sono più basati, come un secolo fa, sulla produzione. Non ha più una classe sociale di riferimento, alla quale corrispondono valori, ideali, rapporti di forza. Non è più portatrice di un orizzonte, di una speranza».
Già nel 1979 lei pubblicava un saggio dal titolo Mort d’une gauche . Quante sinistre sono morte da allora?
«Nel ventunesimo secolo tutti i partiti politici faticano a riposizionarsi all’interno di un’architettura della società che è crollata. È una situazione simile a quella che si è verificata alla fine dell’Ottocento, quando le formazioni politiche uscite dalla Rivoluzione faticavano a dare una risposta davanti alle nuove realtà industriali dell’epoca. Per il partito socialista la perdita di identità è più forte perché non ha saputo rinnovare la concezione dello Stato. Nonostante tutte le presunte svolte, da François Mitterrand in poi, non c’è stata una ridefinizione di quale debba essere il ruolo dello Stato e dunque della nazione in un mondo globale».
Gli elettori ormai votano più per rabbia che per convinzione?
«C’è una radicalizzazione de- gli estremi, sia a sinistra che a destra. Il Front de Gauche di Mélenchon non è poi tanto diverso dal Front National di Marine Le Pen. Entrambi sono il sintomo di una rottura del popolo con l’élite politica che sembra impotente. Sono quasi tre anni che François Hollande è al potere e ancora non ho sentito una proposta concreta per rispondere alla crisi. L’unica strategia è aspettare la ripresa. Negli ultimi mesi, ci siamo trovati a discutere di cose grottesche come l’apertura domenicale dei negozi o i privilegi dei notai. Non è così che si creano 500mila posti di lavoro. Hollande ha proposto un patto con le imprese, alle quali ha regalato oltre 40 miliardi di euro in sconti fiscali, ma loro non hanno creato posti di lavoro. Anche gli imprenditori continuano a perdere tempo, probabilmente aspettano che torni al potere la destra, dalla quale si sentono più garantiti».
La gauche al potere ha tradito il suo elettorato?
«Il capitalismo finanziario ha sostituito il capitalismo industriale. È un dato di fatto. Non possiamo chiedere alla sinistra di governare come nel 1936 quando c’era il Front Populaire. Mélenchon è un velleitario, ha una linea del “né né”, né con Hollande né con Sarkozy. Con chi allora? Dietro ai suoi proclami, c’è solo il vuoto. E intanto gli operai votano per il Front National, mentre Mélenchon seduce solo qualche professore. Il partito socialista si è sottoposto, come tutte le forze di governo della nostra epoca, al dogma finanziario e materialista, ma ha un problema in più: deve conciliare un individualismo al plurale, facendo per esempio convivere i diritti economici strettamente personali, con valori e diritti universali, in una visione collettivista che è nel suo Dna».
Hollande ha sbagliato a seguire la dottrina europea dell’austerità?
«Ma di quale austerità parliamo? Il bilancio dello Stato francese è in deficit da trent’anni. Oggi c’è una sola parola che dovrebbe contare: competitività. La sinistra ha rinunciato a fare una vera politica di risanamento. Ha scelto di non scegliere. Tutti i paesi europei attraversano le stesse difficoltà, l’unica differenza è su chi far ricadere il peso della crisi. La Terza Via di Tony Blair è stato un progetto reazionario, ha portato a compimento la deindustrializzazione del paese, sviluppando un’economia solo finanziaria, e riducendo i salari. Gerhard Schröder ha invece puntato sull’industria ma ha creato dei minijob che sono pagati meno del salario minimo francese. In Francia, come in Italia, abbiamo scelto di far pagare il prezzo della crisi alle classi popolari con la disoccupazione. Sono entrambi strategie perdenti».
Quindi ci troviamo in un’impasse?
«Sarò brutale, ma nella situazione attuale l’unico modo di ri- lanciare l’occupazione è avere un bilancio dello Stato in equilibrio. Oggi non ci sono margini. Lo Stato non può contribuire alla crescita con investimenti pubblici. È costretto a chiedere aiuto al patronato, che ovviamente resta nel vago. Da anni la Francia non progredisce perché non può agire sull’economia prima di aver risanato i conti pubblici. La spesa dello Stato pesa per oltre metà del Pil, abbiamo il record mondiale. Per fortuna c’è l’Europa che ci costringe a mantenere un minimo di realismo».
Il partito socialista è sull’orlo dell’implosione?
«Siamo in un momento cruciale. Mi ha impressionato in negativo il discorso di Manuel Valls dopo la sconfitta. In sostanza ha detto: va tutto male, la disoccupazione non scende, le tasse sono troppe, ma continuiamo così. È un messaggio piuttosto scoraggiante per un francese medio. Forse da parte del premier è una prova di sincerità. Forse è davvero convinto che bisogna solo aspettare che il vento della ripresa soffi anche sulla Francia. Ma tra due mesi ci sarà il congresso del partito socialista e la resa dei conti tra le varie correnti è già cominciata. I dissidenti si preparano a un attacco mortale contro un governo che sembra già esausto, senza nulla da offrire. Hollande e Valls devono vincere l’apatia. Se non ci sarà un vero chiarimento, allora serviremo su un piatto d’argento la vittoria a Nicolas Sarkozy nel 2017».
I francesi sono appena andati al voto per il rinnovo dei Dipartimenti e tutti l'abbiamo considerato non solo un importante test politico, ma anche una prova di democrazia di quel Paese. Peccato che nessuno abbia fatto notare che da noi l'equivalente istituzione delle Province si è vista sottrarre questa possibilità.
Ma loro non hanno le Regioni, mi sono detto: non è vero. La Francia ha 22 Regioni elette a suffragio universale ogni 6 anni. Ma almeno non avranno il Senato: sbagliato. Anche se eletto da 150.000 grandi elettori e non vota la fiducia al governo, perché una legge sia promulgata, essa deve essere approvata da entrambe le camere.
Il manifesto, 31 marzo 2015
«CERCARE di sfondare il tetto di cristallo non ci salverà». Parola della femminista americana Nancy Fraser, nei giorni in cui persino dalla terra dell’innovazione, la Silicon Valley, arriva l’allarme sessismo. «Lo abbiamo tradito — ci siamo tradite — e non ce ne siamo neppure accorte. Il femminismo è stato rinnegato con campagne social, è diventato mainstream e si è trasformato in brand, come la campagna Lean in di Sheryl Sandberg, direttrice di Facebook. La lotta delle donne si è concentrata sul corpo, l’identità, la conquista dei vertici della società: lavorare per emergere».
Ma acosa serve che poche sfondino il vetro mentre la maggior parte delle donne lavora in condizioni precarie e l’austerity sferra gli ultimi colpi al sistema di welfare? Il femminismo come ancella del neoliberismo è centro d’attrazione dell’indagine di Nancy Fraser. Professoressa di scienze politiche e sociali alla New School, è nota in Italia per le sue riflessioni sul tema della giustizia sociale: quella politica della rappresentanza in un contesto globale, quella economica della redistribuzione e quella culturale del riconoscimento. Su questa giustizia che abbiamo smesso di inseguire Fraser ha scritto Fortune del femminismo: dal capitalismo regolato dallo Stato alla crisi neoliberista , pubblicato in Italia da Ombrecorte. Temi su cui torna in questa intervista, oltre ad affrontare argomenti legati all’attualità di queste settimane. Come la questione del sessismo nella Silicon Valley, dove una donna manager, Ellen Pao, ha intentato una causa contro la sua ex azienda, il fondo Kpcb: il tribunale le ha dato torto, ma il dibattito è apertissimo.
A proposito di Silicon Valley: per fare carriera e scegliere quando mettere su famiglia, il “benefit aziendale” proposto da Facebook e Apple è congelare gli ovuli. Che cosa ne pensa?
«Quel benefit potrebbe sembrare positivo per le singole donne in un contesto tecnologico che segue ritmi velocissimi e in cui se vieni lasciato indietro per mesi o un anno sei finito. Consente di posticipare la cura dei figli. Ma l’idea “noi adattiamo la famiglia e la riproduzione all’agenda aziendale” in realtà è folle. Le donne possono individualisticamente esserne sollevate, sembrerà che possano avere tutto. Ma di fatto è la biologia che viene sottomessa e piegata al capitalismo delle corporation».
Di recente la direttrice del Fondo Monetario Christine Lagarde ha puntato il dito sulla «cospirazione contro le donne perché non siano economicamente attive». È d’accordo?
«Lagarde è un esempio calzante delle contraddizioni del femminismo. Il fatto è che la seconda ondata femminista, a cavallo tra fine anni Sessanta e fine Settanta, si focalizzava sul tema della redistribuzione: un approccio solidaristico vicino alla tradizione socialdemocratica. Quando lo Zeitgeist è cambiato a favore del neoliberismo, anche il femminismo ha preso un’altra direzione: l’emancipazione legata all’equità è stata soppiantata dall’emancipazione in senso individualistico. Prendiamo proprio la Lagarde: una donna potente, ai vertici, ma che allo stesso tempo ha supportato politiche di austerity di fatto molto dannose per le condizioni delle donne. Il suo femminismo neolib rivendica un ruolo più attivo delle donne nel lavoro, ma quali precondizioni garantisce loro? Oggi il lavoro è mal pagato, le donne ricevono salari più bassi, i governi tagliano la spesa sociale».
Nell’era del welfare state si lottava per l’inclusione delle donne. Ora che il welfare è in crisi, possono essere proprio le donne a salvarlo?
«Nel modello fordista o keynesiano, nel sistema capitalistico organizzato dallo Stato, le donne – almeno nei Paesi ricchi occidentali – erano incluse anzitutto come madri. La famiglia si reggeva sul salario del marito. Ora che il lavoro è precario, per le donne è necessario lavorare. La nuova forma di capitalismo neoliberista non vuole le donne a casa come madri full time, anzi: le vuole lavoratrici, ma con stipendi bassi. Insomma, il passaggio è stato da un modello di svantaggio a un altro modello di svantaggio. Questo mentre il welfare viene tagliato».
Un processo irreversibile?
«Credo che il genio della globalizzazione sia uscito troppo dalla sua lampada per poterlo riportare dentro. Lo Stato di una volta alimentava il sistema di welfare attraverso la redistribuzione fiscale, ora non governa neppure più la propria valuta: guardate la Grecia e l’euro. Ma se in qualche modo democrazia sociale deve esserci oggi, allora deve essere organizzata in un quadro transnazionale o persino globale: le femministe dovrebbero essere in prima linea per imboccare questa strada. Alcuni hanno creduto che proprio l’Ue potesse realizzare una democrazia sociale transnazionale, ma l’Europa sta seguendo la sirena neoliberista. Gli sforzi antiausterity di Syriza e Podemos rappresentano una speranza anche per il femminismo, nel senso che si oppongono al degrado delle condizioni di vita».
Luc Boltanski ieri, Slavoj Zizek oggi, sostengono che fenomeni come il Sessantotto e l’ambientalismo sono stati fagocitati dal capitalismo liberista. Concorda?
«Il capitalismo ha da dato un nuovo significato a questi temi, li ha “corrotti”: lo hanno spiegato in modo esemplare Luc Boltanski ed Ève Chiapello ne Il nuovo spirito del capitalismo , ed è lo stesso argomento che io declino da anni nell’ambito del femminismo. È stato usato per legittimare pratiche “market friendly” che non risolvono i divari. Stessa cosa per il capitalismo “green”. I movimenti sono stati indirizzati su queste chiavi: privatizzare, consumare, individualizzare».
La crisi globale di questi ultimi anni ha cambiato qualcosa?
«C’è stato un frangente in cui è sembrato che l’ordine finanziario e la sua legittimità dovessero collassare, ma oggi non è chiaro se il neoliberismo sia uscito danneggiato dalla crisi oppure no: scoraggia come il capitalismo riesca paradossalmente a trasformare la crisi in opportunità di profitto. La stabilità del neoliberismo come regime è tutta da vedere, i problemi e il peggioramento delle condizioni di vita emergeranno con sempre più prepotenza. Ma anche nell’opporsi al neoliberismo, bisogna emanciparsi dall’approccio neolib. Ad eccezione di Podemos, i movimenti come Occupy che si erano coagulati in un blocco antiegemonico qualche anno fa si sono rivelati effimeri. Questo perché non erano strutturati, erano dominati da una sensibilità neoanarchica».
E allora qual è la ricetta giusta per il futuro?
«Di femminismo e di un’alleanza per la democrazia c’è bisogno più che mai: ma perché siano i popoli e non i mercati a dettare la linea ai governi, dobbiamo abbandonare l’ossessione individualista. E recuperare la solidarietà».