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Guido Viale
L’immaginario spazio a sinistra del Pd
11 Aprile 2015
Sinistra
«Coalizione sociale. Il "cercare ancora" deve essere anche una nuova topologia politica, fondata su distinzioni come "alto" e "basso", "uno" e "99 per cento", popolo ed élite, poveri e ricchi, più che destra e sinistra».
«Coalizione sociale. Il "cercare ancora" deve essere anche una nuova topologia politica, fondata su distinzioni come "alto" e "basso", "uno" e "99 per cento", popolo ed élite, poveri e ricchi, più che destra e sinistra».

il manifesto, 11 aprile 2015, con postilla

Quando par­liamo di sociale, ci rife­riamo alle rela­zioni tra le per­sone — e, da qual­che tempo, anche quelle con il vivente in genere — nella vita di tutti i giorni. Ma nel lin­guag­gio poli­tico, sociale si rife­ri­sce alle modi­fi­ca­zioni di quei rap­porti con l’azione col­let­tiva: ini­zia­tive con­di­vise da una plu­ra­lità di attori che indi­chiamo con il ter­mine gene­rico di movi­menti.

Con il ter­mine poli­tico ci rife­riamo invece in modo espli­cito ai rap­porti di potere, cioè alla gerar­chia che con­trad­di­stin­gue l’assetto sociale: sia che l’azione poli­tica sia diretta alla sua con­ser­va­zione, sia che sia diretta alla sua modificazione.

Quella tra sociale e poli­tico è una distin­zione che nel corso del tempo ha subito molte modi­fi­ca­zioni in rela­zione al con­te­sto e oggi tende a sfu­mare: è venuta meno “l’autonomia del poli­tico”, nel senso che la poli­tica non viene più per­ce­pita come una sfera disin­car­nata, dotata di una sua logica interna, dove si con­fron­tano visioni del mondo, obiet­tivi, stra­te­gie e tat­ti­che dif­fe­renti; viene invece con­si­de­rata sem­pre più un aggre­gato sociale, dotato di una pro­pria dina­mica — a cui ci si rife­ri­sce spesso con il ter­mine “casta” — da ana­liz­zare e spie­gare in ter­mini sociali: un ceto che ha il ruolo — e i con­nessi pri­vi­legi — di mediare il rap­porto tra i cen­tri del potere finan­zia­rio mon­diale che domi­nano sull’economia glo­bale e chi ne subi­sce il comando. Vice­versa al “sociale”, inteso nel senso di insieme di movi­menti per tra­sfor­mare la realtà, viene da tempo rico­no­sciuta una dimen­sione intrin­se­ca­mente poli­tica, per­ché non si ritiene più pos­si­bile modi­fi­care quei rap­porti, anche nei suoi aspetti più par­ziali, senza met­tere in discus­sione il potere, la strut­tura gerar­chica da cui dipendono.

Ma è comun­que un salto logico iden­ti­fi­care sociale con sin­da­cale e poli­tico con par­ti­tico (Marco Revelli, il mani­fe­sto 4 aprile), per poi dedurne che tra quelle due realtà pos­sono solo inter­cor­rere rap­porti ana­lo­ghi a quelli con­fi­gu­ra­tisi nel corso del Nove­cento: il modello social­de­mo­cra­tico, quello labu­ri­sta e quello “fran­cese”. Se que­sti “tipi ideali” sono accet­ta­bili in rife­ri­mento al secolo scorso, ora il sociale non è più ricon­du­ci­bile al solo sin­da­cale; né il poli­tico al solo par­ti­tico. Que­sta era peral­tro la ragione che aveva indotto Revelli a teo­riz­zare l’impasse del suo “Finale di par­tito”. Per que­sto il dibat­tito, se utile per capire da che cosa ci siamo per sem­pre allon­ta­nati, non può essere usato, come sug­ge­ri­scono Favilli e Revelli, per defi­nire le opzioni che abbiamo di fronte, né per rac­co­man­dare — troppo facile dirlo senza pra­ti­carlo — di “cer­care ancora”.

La situa­zione odierna non è più quella in cui si era andato costi­tuendo il movi­mento ope­raio dell’Occidente; né quella in cui aveva impo­sto alla con­tro­parte capi­ta­li­stica e sta­tuale le inno­va­zioni dello Stato sociale: con­trat­ta­zione col­let­tiva con valenza nor­ma­tiva e gestione sta­tuale dei ser­vizi sociali: sanità, istru­zione, pen­sioni e, in parte, abitazione.

La prima era carat­te­riz­zata da una con­ti­guità fisica delle abi­ta­zioni dei lavo­ra­tori tra di loro e con il luogo di lavoro, sic­ché la vita sociale che si svol­geva nelle une faceva da retro­terra anche alle lotte nelle fab­bri­che. Di qui la reci­proca inte­gra­zione tra lotte riven­di­ca­tive e sforzi per costruire, con il mutua­li­smo e il movi­mento coo­pe­ra­tivo, una alter­na­tiva sociale auto­noma e auto­ge­stita alla mise­ria indotta dall’industrializzazione.

La seconda, che ha avuto il suo apo­geo quando ormai le prin­ci­pali misure di auto­tu­tela pro­mosse con il mutua­li­smo erano state sus­sunte dallo Stato e gestite da entità pub­bli­che in forme uni­ver­sa­li­sti­che, aveva comun­que tro­vato la sua base sociale nell’omogeneità della con­di­zione lavo­ra­tiva di una mano­do­pera ammas­sata nei grandi impianti della pro­du­zione fordista.

Entrambi que­sti retro­terra sono venuti meno, anche se nes­suno dei due è scom­parso del tutto. La con­di­zione con cui deve misu­rarsi il “sociale” oggi è una ele­va­tis­sima disper­sione e dif­fe­ren­zia­zione dei poveri e delle classi lavo­ra­trici sia sul ter­ri­to­rio che nei luo­ghi di lavoro. Ma non è solo l’isolamento, sia fisico che psi­chico ed esi­sten­ziale, a con­tras­se­gnare i rap­porti sociali del giorno d’oggi; ancora più impor­tante è il pre­do­mi­nio cul­tu­rale del pen­siero unico; della com­pe­ti­zione uni­ver­sale di tutti con­tro tutti e della “meri­to­cra­zia”, intesa come legit­ti­ma­zione del diritto del più forte a lasciare indie­tro e schiac­ciare il più debole.

Certo que­sta ideo­lo­gia e la sua ege­mo­nia hanno una base mate­riale nella disper­sione impo­sta dallo svi­luppo capi­ta­li­stico e dalla sua glo­ba­liz­za­zione. Ma pro­prio per que­sto l’impegno della poli­tica nel con­te­sto odierno deve essere un lavoro di rico­stru­zione di rela­zioni sociali soli­dali e pari­ta­rie, met­tendo al primo posto i diritti e la dignità delle per­sone: una pra­tica che riguarda soprat­tutto la costru­zione di movi­menti, le rela­zioni sociali den­tro i movi­menti e i rap­porti tra movi­menti di orien­ta­mento o ispi­ra­zione diversi.

Per far sì che quei movi­menti, intesi nel senso più ampio, si diano una rap­pre­sen­ta­zione, e una rap­pre­sen­tanza, più ampia pos­si­bile della pro­pria col­lo­ca­zione sociale e poli­tica, e con ciò stesso dei pro­pri obiet­tivi e delle pro­prie fina­lità — è que­sto il senso della coa­li­zione sociale — e non per­ché si rico­no­scano in una rap­pre­sen­tanza poli­tica pre­co­sti­tuita.

Vano è limi­tarsi a guar­dare a un pre­sunto “spa­zio a sini­stra” del Pd che — affi­dan­dosi a una “topo­lo­gia poli­tica” che non ha riscon­tro sociale — si sarebbe aperto in seguito alla evo­lu­zione dei par­titi social­de­mo­cra­tici euro­pei, di cui il Pd è solo un caso estremo, anche se sin­to­ma­tico. Quello spa­zio è in gran parte imma­gi­na­rio, o non “a dispo­si­zione” del primo arri­vato per costruire qual­cosa di solido; e meno che mai a dispo­si­zione di orga­niz­za­zioni già in fila da anni, senza risul­tati, per riempirlo.

Quel “cer­care ancora” deve essere un nuovo modo di fare poli­tica; ma anche una nuova topo­lo­gia poli­tica, fon­data su distin­zioni come “alto” e “basso”, “uno” e “99 per cento”, popolo ed élite, poveri e ric­chi, più che destra e sini­stra. Le classi non esi­stono più? Sì, esi­stono, ma biso­gna farle emer­gere alle luce del sole per­cor­rendo strade nuove e non la ripro­du­zione dell’ennesima riag­gre­ga­zione dei resti della “sini­stra radicale”.

P.S. A bene­fi­cio di Luciana Castel­lina e di chi ha letto il suo arti­colo (il mani­fe­sto, 7 aprile), pre­ciso che non ho mai scritto che «i par­titi sareb­bero tutti ceto poli­tico» (lo sono in gran parte i loro diri­genti più o meno per­ma­nenti e molti loro rap­pre­sen­tanti nei corpi elet­tivi e nelle società par­te­ci­pate; non certo, dove c’è, la loro “base”), né che «le orga­niz­za­zioni che ope­rano nella società civile sareb­bero tutte illi­bate» (ho scritto che hanno anche loro le loro pic­cole buro­cra­zie). Sono inol­tre radi­cal­mente cri­tico nei con­fronti «dell’idea negriana della mol­ti­tu­dine», come emerge da molti miei scritti (vedi per esem­pio: “Virtù che cam­biano il mondo”, 2013). Sono peral­tro con­vinto soste­ni­tore della neces­sità e dell’urgenza dell’azione poli­tica, come dimo­stra la mia par­te­ci­pa­zione alla fon­da­zione di Alba, di Cam­biare si può (ma non di Rivo­lu­zione civile) e de L’Altra Europa (ma non della sua attuale deriva buro­cra­tica e autoritaria).

postilla

C'è peraltro da domandarsi se non si debba cominciare a pensare che i dirigenti dei partiti, o almeno molti di essi, abbiano assunto un ruolo tale nel sistema del finanzcapitalismo da non costituire più solo un "ceto sociale", ma una "classe", con un suo preciso ruolo in quel sistema.

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