Il distintivo di Milano appiccato all’ex capitale morale da Vezio De Lucia ai tempi del sindaco Gabriele Albertini e del successore Letizia Brichetto Moratti significò gettar via l’urbanistica tradizionale della pianificazione comunale, vale a dire operare sulla base di un’idea complessiva di città dimostrando volta a volta l’ineluttabilità dell’intervento classificato primo nell’elenco delle priorità, ancorché provvisorio; e, al contrario, costruire nuove parti di città secondo intese private, talvolta segrete, fra il sindaco e il potente imprenditore proprietario di suoli e/o costruzioni da dismettere. Il primo caso che fece scalpore e suscitò diversi commenti e critiche fu la combine immobiliare fra Albertini e Tronchetti Provera[i]: da cui la distruzione di una grande industria come la Pirelli e la realizzazione alla Bicocca di un’espansione urbana imprevedibile, indimostrabile.
Oggi è il tempo degli Accordi di programma con le Ferrovie dello stato (FS/Sistemi urbani)[ii] per la «trasformazione dei sette scali ferroviari[iii] [che costituiscono una grossa fetta dei 21 ATU - Ambiti di trasformazione urbana] in una visione di trasformazione della città»: così l’assessore Pierfrancesco Maran, che aggiunge altro, più come vaga speranza che come decisivo impegno («mi piacerebbe molto che…»). È in ballo un affare gigantesco che parrebbe spiegare l’unico interesse di FS. Quello di ottenere il massimo di rendita fondiaria, ossia la massima volumetria complessiva, quindi il più alto indice edificatorio. È attorno a quest’ultimo che si gioca una delle partite. Mentre risuona nell’aria qualche parolona circa i mirabolanti benefici che i milanesi riceverebbero da una collana di grandi parchi, ritualistica è la diatriba sull’edificazione.
Intanto Maran mette le mani avanti. Contano poco le volumetrie, dice, cioè gli indici di edificazione, conta invece lo spazio che resta libero: esempio i grattacieli di Garibaldi/Repubblica: si è operato bene lì. Ma quali spazi liberi, osserviamo noi. Quel modello, insensata presenza di figure urbane come in un qualsiasi emirato (Qatar proprietario al 100%) è parte integrante di una speculazione fondiaria ed edilizia smaccata, guai se la si applicasse allo scopo di un accordo che dovrebbe concludersi con la famosa “collana”. Ma l’assessore si contraddice, altro che la nonchalance verso i parametri edificatori.
Mentre la diatriba intorno agli ex scali sembra nascondere qualcosa della effettiva posizione di FS, come avvenne col progetto Grandi stazioni quando la realtà violenta del fatto compiuto (ma chi doveva controllare dal punto di vista degli interessi dei cittadini?) impedì di “tornare indietro”, a Milano potrebbe diventare tempestoso l’orizzonte di tutti gli spazi destinati a parco territoriale e a grandi servizi da Prg poi Pgt, come ex Gasometri, Parco Sud, Parco Vittoria, Parco Naviglio Martesana e altri, il cosiddetto Fiume Verde. Secondo Brenna l’indice di 30 mq/abitante di spazi pubblici vuol dire lasciarlo all’edificazione privata.
Preferiamo esprimerla in metri cubi per ettaro, 400.000!! e piangere sull’urbanistica tradizionale quando criticati colleghi, succubi rigorosi dello zoning, “osavano” indicare per le zone dense, le più centrali o più vicine al centro della città, 60.000 mc/ha (densità eccessiva ma una pinzillacchera al confronto), poi cercavano di interpretarla attraverso i tipi di edificio, i servizi, il verde e così via. Supponiamo ora di ottenere per gli ex scali le migliori condizioni, secondo la nostra visione, nella dinamica (quasi un gioco) degli indici fondiari ed edilizi. Ma non dovrebbero, sindaco e giunta, finalmente proporre cosa sarebbe utile, giusto realizzare concretamente lì?
Quanti sarebbero gli alloggi liberi a Milano? Non possiamo saperlo da ricerche credibili del Comune. Possiamo affidarci a una stima dell’anno 2014 di Scenari Immobiliari. Alloggi privati vuoti 60.000 di cui 40.000 sul mercato tra affitto e vendita e gli altri 20.000 sfitti. “Numeri che stridono se messi a confronto con le 22.000 richieste di alloggi popolari e i 17.000 sfratti esecutivi registrati”. E quanti saranno gli alloggi vuoti nelle “Nuove Milano” dei grattacieli qatariani e contorno? Secondo noi moltissimi. In ogni modo per abitarvi bisogna essere straricchi. Fresche cronache cittadine notate da Brenna segnalano che il noto (ai giovani) rapper Fedez (Federico Leonardo Lucia) abita a City Life (ex Fiera) in un attico di 400 metri quadrati.
Quale conclusione? Negli scali solo grandi parchi, nessuna costruzione salvo le case di edilizia sociale, come detto sopra. Parchi che non devono finire nella fossa delle false presunzioni come quelle riguardanti il terreno dell’Expo. Vantarono un sicuro lascito di metà superficie a verde, una misura irrisoria giacché un tal “verde” interessato da una miriade di “sistemazioni” non approderà mai a un “grande parco”, che in primo luogo dev’essere fortemente arborato, come una foresta. Per realizzare la sognata catena di parchi che avvinghi Milano e contemporaneamente apra il beneficio verso l’hinterland, bisogna che il rapporto fra terreno destinato all’edilizia sociale e quello a verde intensamente arborato e pochissimo intaccato da impianti per lo svago sia almeno di uno a cinque. Così l’assessore Pierfrancesco Maran potrà calcolare se le case, essendo talmente vasto lo spazio libero, potranno raggiungere l’amata altezza di mille metri. Sarebbe sempre meno del grattacielo immaginario di Frank Lloyd Wright (denominato The Illinois) alto un miglio. Guarda caso, il maestro realizzò solo case basse, connaturali alla terra.
[i] Cfr. L. Meneghetti, Le nuove Milano estranee. L’architettura servile, in eddyburg 30 ottobre 2004; poi in Parole in rete. Interventi in eddyburg, giornale e archivio di urbanistica politica e altre cose, Libreria Clup, Milano 2005. Vedi anche, dello stesso autore, Contraffazione dell’architettura e privazione dell’urbanistica, in eddyburg, 11 settembre 2006; poi in L’opinione contraria. Articoli in eddyburg.it, giornale e archivio di urbanistica politica e altre cose, Libreria Clup, Milano 2006.
[ii] Vedi Scali ferroviari a Milano - Storia, progetto, conflitto. Scritto (anonimo) per eddyburg, 10 febbraio 2016.
[iii] 1. ATU Farini-Lugano, 2. ATU Greco Breda, 3. ATU Lambrate, 4. ATU Romana, 5. ATU Rogoredo, 6: ATU Porta Genova, 7. ATU San Cristoforo. Promemoria: il sindaco Albertini, appassionato sostenitore dell’intervento sull’area dell’ex-Fiera campionaria incentrato sui tre grattacieli di Hadid-Lebeskind-Isozaki, parlò di un “nostro” Centra Park nello spazio libero, mero spazio di risulta, sformato, scarso e in parte solettone di garage sottostanti. Oggi è Pierfrancesco Maran che “pensa” alla scalo Farini come Central Park. Non ci libereremo mai a Milano dei governanti provinciali e presuntuosi?
[iv] Al 31.12.2015: Zona 1, 11.900. Zona 2, 44.200. Zona 3, 20.400. Zona 4, 29.800. Zona 5, 21.500. Zona 6, 23.400. Zona 7, 31.000, Zona 8, 33.400, Zona 9, 43.600.
[v] Oggi il prezzo della casa (che è di per sé una rendita) appare logico solo se commisurato a remunerazioni esse stesse come rendite (costruzioni, commercio, finanza, turismo…).
Circa un secolo fa, esattamente nel 1921, l'ambientalista Benton MacKaye pubblicava sul Journal of the American Institute of Architects il suo articolo "An Appalachian Trail: A Project in Regional Planning", in cui si tracciavano le linee generali di un vero e proprio programma di sviluppo montano, disteso su tempi e spazi davvero inusitati. Lo spazio, innanzitutto, che copriva migliaia di chilometri di valli, crinali, altopiani di entroterra, dalla Georgia al Maine, mescolando ambienti e contesti certo di una certa omogeneità, ma anche molto diversificati sia dal punto di vista ecologico, che geologico, che insediativo e politico. E poi il tempo, perché la visione naturalistica ma contemporaneamente molto umana dell'esperto di parchi, sapeva certamente cogliere in una visione non banale né spalmata sulla contingenza. Forse il tratto più caratteristico del gruppo noto come RPAA – Regional Planning Association of America, a cui MacKaye faceva riferimento, era proprio quello di saper riconoscere i propri limiti, ma di collocare entro una visione assai generale quelli che di fatto non potevano essere che particolari progetti e prospettive.
Così si contestualizzavano ad esempio le idee di Clarence Stein per riformulare in senso spaziale seriale l'idea di «unità di vicinato» appena elaborata dal sociologo Clarence Perry (e poi sviluppata autonomamente dallo stesso Perry in vari studi), oppure quella rivoluzionaria e pericolosissima idea di «baccello cul-de-sac» di Henry Wright, che inizialmente pensata per adattare la città giardino all'era dell'automobile, ribaltando il concetto di affaccio stradale, riprodotta acriticamente all'infinito (fuori da qualunque piano, regionale o non regionale) sarebbe diventata il marchio infame dello sprawl ameboide. Anche le stesse visioni umanistiche generali di Lewis Mumford, dentro il filtro di questa cultura induttiva-deduttiva, assumevano quella diversa prospettiva, per nulla utopica e testimoniale, del programma applicabile via via nel tempo e nello spazio, col contributo di moltissimi soggetti. Il valore di un'idea di «semplice» sentiero montano sviluppato su alcune migliaia di chilometri di MacKaye, insomma, era proprio quello di saper proporre un contenitore assai adattabile, il cui successo possiamo verificare ancor oggi, quando il suo Appalachian Trail, vivo e vegeto dopo molti decenni, diventa sfondo naturalistico e identitario nazionale, tra nostalgici di Jack Kerouac alla ricerca di sé stessi nel servizio antincendio su montagne e torrette di avvistamento (la raccontava bene Kerouac quell'esperienza esistenziale nel suo Bums of Dharma), o politici alla ricerca di uno sfondo accattivante per i consensi spontanei, vedi Al Gore con Bill Clinton arrampicati da quelle parti nella loro seconda campagna presidenziale.
La visione del sentiero sui monti, quella in grado di ricomporre in un vero Piano Regionale anche azioni davvero minimali come un campo di esploratori, o il restauro di qualche rifugio d'alta quota o di un ponte, è la prospettiva in grado di leggere qualcosa di più generale, territori, soggetti, bisogni. Solo per fare un esempio di questi aspetti, si pensi che la sensibilità dell'ambientalista già negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale riesce a cogliere la formazione di quanto due generazioni più tardi il geografo Jean Gottmann chiamerà «Megalopoli Bos-Wash», e che sottende sia territorialmente che socialmente quell'arco montano nell'entroterra. Socialmente, perché già nell'auspicio del Journal of the American Institute of Architects, l'ambientalista individua un soggetto chiave: la montagna è il tempio del «tempo libero», ma l'America urbana delle grandi città pullula di gente con tempo libero in abbondanza, e si tratta dei disoccupati o inoccupati, o lavoratori precari con lunghi periodi di inattività. Non a caso si è citato sopra Jack Kerouac, sfaccendato che alterna le sue frequentazioni dell'ambiente poetico-studentesco di San Francisco, con periodi da volontario stipendiato nel presidio dei crinali. Una popolazione urbana che va a «urbanizzare sostenibilmente» un territorio che già di fatto è complementare a quello della megalopoli insediativa sulla costa.
Non possono non tornare in mente, queste esperienze e considerazioni, antiche ma ancora tanto vive, ripensando sia al recente dibattito sul ruolo degli immigrati e profughi nella società europea e italiana in particolare, sia a quello sui nuovi equilibri città-campagna, sulle aree interne più o meno depresse e abbandonate, e infine la contingenza ma non tanto contingente del terremoto (l'ennesimo) sulla dorsale appenninica. Si è giustamente – anche se sinora un po' convulsamente - parlato di edilizia antisismica, di meccanismi di finanziamento e incentivi, di piani urbanistici generali e attuativi, ma forse è sfuggito il senso di un dettaglio, che emerge solo nelle polemiche. Il dettaglio, che è e resta tale di per sé, è la quota di «seconde case per passaggio generazionale» escluse dai benefici fiscali dell'adeguamento antisismico. Un particolare che, osservato nello spazio, nel tempo, nei processi sociali e di sviluppo locale, apre una prospettiva assai diversa su cosa significhi o possa significare «ricostruire com'era dov'era», secondo lo slogan comunemente accettato. E già qualcuno ne parla, pur senza nominarla esplicitamente, di pianificazione regionale spalmata nel tempo, di idee di sviluppo che sappiano andare oltre il puro ripristino di travi tetti scuole ospedali, ponendosi la domanda: perché e per chi, restaurare un immenso territorio? E chi saranno i soggetti attivi di questo piano, esteso come minimo su più di un «passaggio generazionale», edilizio e non edilizio? Sono queste le dinamiche, urbane e territoriali vaste, in cui inserire idee non peregrine o localiste di rilancio o qualsivoglia ripopolamento, posti di lavoro innovativie qualificati dal contesto, vera messa in sicurezza fisica e sociale di areesinora sospese nel tempo, in attesa di ruolo e identità adeguata. In fondo,basta un colpo d'occhio all'analogia del rapporto fra zone montane einsediamento costiero, per capire che un Appalachian Trail italiano potrebbeessere a portata di mano. Basta lasciar spazio adeguato ai suoi protagonisti.
Nature ... (segue)
Nature un articolo sostenendo che i peggioramenti climatici che stiamo conoscendo hanno le loro radici in eventi che risalgono ai primi decenni dell’Ottocento, all’inizio della rivoluzione industriale. D’altra parte il biologo americano Eugene Stoermer (1934-2012) e il chimico olandese Paul Crutzen (premio Nobel) anni fa avevano suggerito il nome “antropocene” per una nuova era geologica caratterizzata dalle più vistose modificazioni della Natura da parte dell’uomo e ne avevano indicato l’inizio nel 1784, l’anno in cui James Watt (1736-1819) ha perfezionato la macchina a vapore.
In quella seconda metà del Settecento si conosceva l’esistenza nel sottosuolo del carbone, un combustibile fossile; i suoi giacimenti erano spesso invasi dalle acque e vari inventori avevano proposto delle pompe azionate da macchine alimentate col calore liberato bruciando il carbone stesso. La vera soluzione del problema si ebbe con l’invenzione, da parte di Watt, di un dispositivo che permetteva di azionare le pompe e qualsiasi altra macchina con minori consumi di carbone. Per gratitudine i posteri hanno chiamato watt l’unità di misura della potenza di una macchina.
Dall’inizio dell’Ottocento in avanti è cominciata una reazione a catena: più carbone richiedeva altre macchine; altre macchine richiedevano altro ferro e acciaio; il ferro poteva essere separato dai minerali usando carbone; con più macchine era possibile meccanizzare la produzione di filati e tessuti; più tessuti richiedevano agenti di lavaggio come la soda, ottenibile trattando il sale marino con acido solforico e poi ancora con carbone.
La costruzione delle locomotive azionate da macchine a vapore a carbone apriva nuove terre alla coltivazione e le ferrovie richiedevano altro ferro anche per le rotaie. L’applicazione della macchina a vapore ai piroscafi transoceanici, nei primi dell’Ottocento, faceva affluire nelle fabbriche nuove materie prime e rendeva accessibili più alimenti.
Più fabbriche avevano bisogno di più operai che arrivavano nelle città industriali abbandonando le campagne alla ricerca di migliori salari; con migliori salari un maggior numero di consumatori poteva acquistare più merci prodotte con più fabbriche, con più macchine, usando più carbone.
Un’altra accelerazione si è avuta con la scoperta, dal 1860 in avanti, dei grandi giacimenti di petrolio negli Stati Uniti; con la raffinazione del petrolio diventavano disponibili carburanti per nuovi motori che, alla fine dell’Ottocento, avrebbero dato vita a mezzi di trasporto che si muovevano da soli, automobili, appunto.
Dagli inizi del Novecento col carbone è stato possibile ottenere per sintesi l’ammoniaca da cui ricavare concimi per aumentare la produzione di alimenti richiesti da una popolazione mondiale crescente e sempre più affamata, e ottenere acido nitrico con cui fabbricare esplosivi che sarebbero stati richiesti in grande quantità nelle due disastrose guerre mondiali del Novecento.
Nel 1960 l’energia ottenuta nel mondo dal petrolio ha superato quella ottenuta dal carbone e tutta la seconda metà del Novecento è stata segnata da crescenti consumi del petrolio da cui era anche possibile ottenere gomma sintetica, materie plastiche, fibre sintetiche, con cui era possibile percorrere strade con le automobili e attraversare i cieli con aerei, gli ingredienti della moderna società.
Gli eventi tecnico scientifici e merceologici di questo “secolo lungo”, come l’ha chiamato lo storico Pier Paolo Poggio, che va dal 1800 ad oggi, hanno avuto come conseguenza l’aumento della popolazione mondiale da 900 milioni agli attuali 7300 milioni di persone, e l’aumento di dieci volte dei consumi mondiali di energia. Energia ricavata, in questi due secoli, per la maggior parte da combustibili fossili, carbone, petrolio e, più recentemente, gas naturale, i quali tutti liberano energia sotto forma del calore di reazione fra l’elemento carbonio, delle rispettive molecole, e l’ossigeno dell’aria; si forma così il gas anidride carbonica che è andato continuamente ad accumularsi nell’atmosfera. La massa di anidride carbonica nell’atmosfera in due secoli è aumentata di 2000 miliardi di tonnellate; la sua concentrazione è passata da 220 a 400 ppm.
E’ proprio l’anidride carbonica, insieme ad alcuni altri gas come il metano e gli ossidi di azoto, anch’essi associati alla produzione e al consumo di energia, che trattiene nell’atmosfera una crescente frazione della radiazione solare e determina il riscaldamento planetario, causa dei continui peggioramenti climatici.
Non ci sono segni di rallentamento dell’uso dei combustibili fossili; l’energia nucleare, nonostante le promesse iniziali, non è stata in grado di sostituirli; l’energia del Sole e del vento possono sostituirli per ora solo parzialmente.
In questo scenario quanto potrà durare l’era della storia terrestre occupata da una specie, quella umana, che modifica e peggiora così aggressivamente la Natura ? Nessuno può dare una risposta; il Papa Francesco in una intervista anni fa ha detto che anche la nostra specie finirà; non finirà la vita sulla Terra, almeno fin quando il Sole continuerà ad irraggiare luce ed energia.
Intanto, per allontanare la fine di questo turbolento antropocene, non sarà male ripensare a come soddisfare i reali bisogni umani consumando meno energia fossile e inquinando di meno.
L'articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno
«Lo spazio delle alternative come luogo dei possibili transiti o della possibile rispondenza fra politica e società democratica. Alternative politiche e sociali, in tensione, in interazione, in equilibrio instabile fra loro. Anche in tempi difficili, incerti e rischiosi. Soprattutto, in tempi difficili». Il Sole 24Ore, 28 agosto 2016
L’idea di spazio pubblico è una delle tessere fondamentali di quel mosaico, che chiamiamo forma di vita democratica. In genere, quando pensiamo a una forma di vita democratica, più o meno decente, pensiamo a un regime politico che ospita istituzioni, norme di livello costituzionale e ordinario, procedure per la scelta di chi ha diritto temporaneo a governare, provvedimenti e scelte collettive, interpretazioni politiche alternative dell’interesse pubblico di lungo termine.
E consideriamo tutti questi elementi come elementi fondamentali di un regime di democrazia pluralistica che, grazie a regole, norme e procedure, si distingue da regimi autocratici o autoritari, di differente tipo e natura. La mia tesi è che questo quadro sia certamente fedele ma sia, al tempo stesso, fondamentalmente incompleto.
Sono convinto che uno dei tratti distintivi cruciali di una democrazia politica sia l’ampiezza e la ricchezza del suo spazio pubblico, in cui si esercita la libertà democratica per eccellenza, quella di condividere con altre cittadine e cittadini modi di valutare e proporre soluzioni di problemi collettivi fra loro alternative e confliggenti. Lo spazio pubblico, in questa prospettiva, è uno spazio sociale, e non già istituzionale.
È lo spazio delle voci di cittadinanza. Lo spazio in cui possono emergere potenzialità altrimenti non espresse, bisogni altrimenti non visibili, incertezze e ansie, speranze altrimenti opache e negate. È uno spazio pieno di dissonanze e piuttosto cacofonico. Ma quando i confini di questo spazio sono vietati o ristretti, quando viene meno l’esercizio della libertà democratica o i costi d’accesso allo spazio pubblico di una democrazia diventano terribilmente alti e ineguali per il demos, allora la qualità di una democrazia mostra un deficit significativo e, a volte, severo. E ciò non è riconoscibile o avvertibile se si resta alla prospettiva, decisiva ma incompleta, della democrazia come sistema di istituzioni, norme e procedure. La questione centrale che emerge è quella dell’allineamento o del disallineamento fra spazio sociale e 1 spazio istituzionale. Molti deficit e buona parte delle crisi entro le democrazie contemporanee emergono nelle circostanze in cui le voci di cittadinanza nello spazio pubblico, come spazio sociale, non trovano alcuna rispondenza o trovano debole rispondenza entro lo spazio istituzionale dell’esercizio del potere temporaneo di governo delle società.
Perché la democrazia si avvale nel tempo della connessione, dell’interazione e dell’equilibrio instabile fra lo spazio delle alternative politiche e quello delle alternative sociali. E la qualità stessa della rappresentanza politica e delle sue istituzioni è coerente con la variabile intensità della connessione fra i due spazi. Ora, per gettar luce sulla natura della libertà democratica, che è alla base dello spazio pubblico, può essere utile considerarla come la libertà per le persone di identificarsi e reidentificarsi collettivamente in cerchie di riconoscimento distinte e alternative fra loro nel tempo. La libertà democratica per eccellenza è la libertà delle persone di costituire e ricostituire cerchie di mutuo riconoscimento, religioso, politico, sociale, culturale, etico, selezionando fra un insieme di identità sociali possibili.
È propriamente questa pluralità delle cerchie di riconoscimento e di valore politico a generare quell’ingrediente essenziale di una democrazia che è il suo spazio pubblico. Il luogo in cui idee, credenze e convinzioni differenti e a volte inconciliabili si confrontano fra loro, mirando a ottenere adesione e consenso. Il luogo paradigmatico del parteggiare, del convertire e dell’associare, che presuppone il fatto del pluralismo e del disaccordo, che ho più volte definito quali caratteristiche essenziali per un processo politico democratico. Alessandro Pizzorno ha avanzato una illuminante proposta di indagine sulle trasformazioni dei regimi democratici e ha suggerito di guardare allo spazio pubblico come al «luogo dell’operare di uno Stato alternativo». Nel senso che lo spazio pubblico include funzioni alternative a quelle dello Stato e delle istituzioni. Ciò che si manifesta nello spazio pubblico sono le potenzialità alternative della società. In esso viene in luce ciò che in una società si rivela come ancora irriducibile, o difficilmente riducibile, all’ordine costituito. Lo spazio pubblico diventa allora qualcosa come il laboratorio della non conformità a norme date e della varietà delle identità sociali.
Lo spazio pubblico, potremmo dire, è il cantiere sempre in corso della diversità, delle alternative, degli esperimenti di vita e delle differenti mobilitazioni cognitive. Si può allora prospettare l’idea che lo spazio pubblico sia il luogo dove emergono e portano alla luce le loro disparità le forze potenziali di una società. In questo senso, possiamo dire, il luogo sociale, e non istituzionale, del pluralismo entro una forma di vita democratica. Uno spazio, sottoposto nel tempo a metamorfosi e cambiamenti, entro il quale si generano domande o pretese o aspettative che aprono, se le cose hanno successo, un varco per prospettive, esperimenti di vita e possibilità alternative.
Come ho sostenuto più volte, si tratta di una diversità intesa come carattere persistente, e non congiunturale della forma di vita democratica. Ma vorrei aggiungere: si tratta anche di una caratteristica che è il promemoria della congruenza fra democrazia e incompletezza, nel senso della rispondenza e della resilienza dei regimi democratici alla metamorfosi del paesaggio sociale. È nello spazio pubblico così inteso che si genera una varietà di versioni condivise entro alcune cerchie di riconoscimento, e non in altre fra loro differenti, dei fini di lungo termine della convivenza. E alla politica, nelle circostanze ordinarie, sarà ascritto il ruolo di rispondere con i suoi mezzi e i suoi provvedimenti al mutamento sociale, che è esemplificato dalle trasformazioni delle aspettative e delle identità collettive vecchie e nuove che rispondono, a loro volta, alla metamorfosi di interessi, ideali, bisogni e pretese confliggenti.
Ora, se il terminus a quo di una democrazia politica deve essere preservato nel tempo, è naturale chiedersi se mutamenti – economici, culturali, tecnologici, religiosi, sociali - non possano finire per distorcerne i fondamentali. Possiamo rispondere così: salvo che nei casi di perdita e regressione, che implicano l’alterazione dei vincoli propri del terminus a quo, regimi democratici mutati nel tempo dovranno soddisfare almeno la clausola della loro reidentificabilità sulla base di alcuni punti fissi. E tra i punti fissi possiamo indicare prioritariamente tanto l’esercizio della libertà democratica quanto lo spazio pubblico della controversia e della diversità. Lo spazio delle alternative come luogo dei possibili transiti o della possibile rispondenza fra politica e società democratica. Alternative politiche e sociali, in tensione, in interazione, in equilibrio instabile fra loro. Anche in tempi difficili, incerti e rischiosi. Soprattutto, in tempi difficili.
A Stoccolma, una delle patrie dell’architettura del Novecento, è aperto il dibattito politico e culturale su un secolo di soluzioni abitative … (segue)
Secondo il recente rapporto McKinsey sullo stato dell’economia europea, tra le ragioni che hanno reso la Svezia uno dei Paesi più resistenti alla lunga crisi degli ultimi anni spiccano l’estraneità alla zona Euro, l’elevata sindacalizzazione dei lavoratori e una serie di interventi statali volti a garantire il salario e l’occupazione attraverso la concertazione con le parti sociali, la riduzione dell’orario di lavoro, e timide misure redistributive. Ora, nessun cenno a quanto avviene in Scandinavia può prescindere da alcuni luoghi comuni che per esser tali non sono meno veri, anzitutto il senso civico degli abitanti (bassa evasione, bassa corruzione), la situazione di bilancio relativamente florida, e una certa fede nel bene comune.
Il ruolo dell’architettura e l’urbanistica
per la società del futuro
Ciò detto, in Svezia per tradizione l’architettura e l’urbanistica svolgono un ruolo di primo piano nella costruzione del modello di una società del futuro. Non è forse un caso che contro il discusso progetto di un nuovo Museo dei Nobel (quello attuale, nel Gamla Stan, è senz’altro insufficiente), un lucente bussolotto in vetro e pietra concepito per il cuore della capitale dall’archistar David Chipperfield, sia intervenuto con voce tonante il re in persona, Carlo XVI Gustavo. Già patria di numerose sperimentazioni, e in certe strade (Oxenstiernsgatan, Borgvägen, ma anche il nodo di Sergelstorg e Klarabergsgatan) vero e proprio museo a cielo aperto delle più varie tendenze architettoniche del XX secolo,
La questione delle abitazioni:
gli elementi del puzzle
Il modello scandinavo, infatti, ha mostrato sotto questo profilo qualche crepa, giacché l’immane sforzo pubblico confluito nel milione di alloggi costruiti per iniziativa statale fra il 1965 e il 1975 (si ricordi che la Svezia ha oggi meno di 10 milioni di abitanti, e non più di 8 ne aveva all'epoca) ha creato nel medio periodo una larga platea di proprietari “inoperosi” seduti sulle loro proprietà, e ha lasciato le generazioni più giovani, escluse da tanta grazia, alla mercé di un mercato degli affitti sempre più caro e quasi inaccessibile alle nuove famiglie. Naturalmente, il massiccio arrivo di migranti negli ultimi anni (nel 2013 il Paese aveva il tasso di naturalizzazione più alto dell’UE, e gli immigrati pesano per il 14% circa della popolazione), e la civile accoglienza loro tributata (ma non a tutti: celebri sono le intemerate degli ultimi governi contro i Rom, come si vede per es. nella mostra Non Grata di Åke Ericson, attualmente in corso al Fotografiska), abbiano vieppiù esacerbato il risentimento dei locali nei confronti di uno Stato che da questo punto di vista sembra non tutelare i propri figli.
La mostra dell'Arkitekturmuseet ha un forte valore didattico, e mette sul tappeto tutti gli elementi del puzzle: la persistente presenza di homeless (31mila in tutta la Svezia, oltre un terzo dei quali fra Stoccolma, Malmö e Göteborg); la notevole estensione del Paese, grande come Germania e Austria messe insieme ma occupato da un decimo degli abitanti; l’insensatezza della visione che individua nei migranti la fonte di tutti i problemi; la lunga storia di soluzioni abitative provvisorie diventate a lungo andare stabili, dalle case per gli operai di Södermalm nel 1917 ai prefabbricati spediti nelle città bretoni semidistrutte nel 1944 al “Better shelter” disegnato l’anno scorso dall’IKEA in cooperazione con l'UNHCR per i profughi siriani; l’impulso fondamentalmente egualitario che ha caratterizzato le varie (ben 16) tipologie di case del sullodato “piano del milione” (fa impressione constatare la modestia delle case di Olof Palme o di Per Albin Hansson, peraltro ben proporzionale a quella delle tombe dei potenti nel cimitero di Skogskyrkogården); il ruolo delle frange di pensiero alternativo come i “disobbedienti anti-IKEA” e il più strutturato “HSB Living Lab” di Göteborg.
Non solo slogan, ma progetti
Le soluzioni qui più in voga - che hanno il pregio di non risolversi, come spesso accade in esposizioni e dibattiti, in meri slogan più o meno intercambiabili, ma si traducono in progetti concreti ben visibili in mostra (alcuni peraltro realizzati o in via di completamento) - passano oggi per due elementi sostanziali: l’uso sempre più ampio del legno, materiale che oltre ad abbondare in loco è anche più economico, rapido e sostenibile del cemento, e garantisce ormai un alto grado di sicurezza (lo studio C.F. Møller ne ha progettato uno di grande impatto proprio per Stoccolma); la crescente condivisione degli ambienti, in un paradigma di co-housing inteso a migliorare ed estendere l’idea abitativa degli studenti universitari in vista di una migliore gestione delle risorse e di un più alto grado di socializzazione negli spazi comuni, nonché di un’apertura dei quartieri stessi oltre le rigide enclosures che ostacolano spesso i rapporti umani (si pensa in particolar modo agli anziani sempre meno autosufficienti) come anche la creatività dei giovani (si cita spesso come esempio positivo il quartiere di Rågsved a Stoccolma, nel quale di fatto nacque durante gli anni ’70 il punk svedese, destinato a un luminoso futuro).
Non si prendono qui dunque in seria considerazione, se non con un curioso spirito antiquario, certe ardite soluzioni architettoniche escogitate nei decenni passati (le case a stella di Backström e Leinius; le case di Järnbrott a Göteborg, con le pareti interne rimovibili al fine di comporre e ricomporre diversamente le stanze; le case a piramide progettate da Sten Ramel). D’altra parte, s’insiste invece sulla drammatica serietà del problema abitativo come scelta politica: il social housing non è stato un fatto scontato nella storia svedese, e dagli anni ’90 in poi è stato sostanzialmente accantonato, con l’esito di quintuplicare gli elenchi d’attesa per un alloggio (attualmente 500mila persone in lista a Stoccolma).
Smantellare sei miti mainstream
A tal proposito, colpisce vedere un’intera parete della mostra dedicata alla demolizione di “sei miti sull’edilizia”, tratti da un bouquet di tredici individuati dal think-tank svedese Critical Urban Sustainability Hub (acronimo: CRUSH): vale la pena di elencare per esteso le 6 proposizioni qui confutate, con dovizia di particolari e di interventi di professori e studiosi.
1) Un’economia più guidata dal mercato è la soluzione alla crisi degli alloggi. 2) Dobbiamo abbassare i nostri standard qualitativi nell’abitare. 3) La segregazione è prodotta dai migranti stessi che vogliono vivere assieme. 4) La gentrification è un processo di evoluzione naturale nelle aree urbane. 5) Economicamente, conviene possedere anziché affittare. 6) Dobbiamo ricreare la cara vecchia democrazia sociale del passato.
Credo che nel nostro spazio pubblico un manifesto che metta in discussione queste premesse - date ormai per acquisite dalla gran parte dei governi europei - potrebbe essere affisso al più in qualche centro sociale. La Svezia non è affatto il Bengodi (loin de là), ma è capace di sviluppare collettivamente - chiamando il pubblico a partecipare in modo attivo - un pensiero critico sui fenomeni sociali che ci coinvolgono, individuando proprio nella gestione dello spazio urbano uno dei fattori principali della società contemporanea.
(segue)
Tutti i progressi per difendere e migliorare le condizioni dell’ambiente e della natura, cioè della salute umana, sono stati ottenuti in seguito alle proteste del “popolo inquinato”, delle persone danneggiate dalle azioni di qualche soggetto economico. Per capirci meglio, immaginiamo che una persona costruisca una fabbrica che “è buona”, perché produce beni utili e perché assicura occupazione e quindi reddito ai lavoratori, ma che, durante la produzione, immette nell’aria dei fumi che arrecano danni agli abitanti delle zone vicine. Alcuni di questi si ammalano e devono spendere dei soldi per curarsi e protestano - ecco l’inizio di un conflitto “ambientale” - e chiedono al proprietario della fabbrica di smettere di inquinare. Il proprietario della fabbrica inquinante replica che sta operando in conformità delle tecniche e delle leggi esistenti; ciò non soddisfa gli ammalati i quali chiedono che la fabbrica trovi qualche sistema per eliminare i fumi.
Il proprietario della fabbrica replica che, se facesse quanto chiesto dagli inquinati, la merce che produce verrebbe a costare troppo e sarebbe costretto a chiudere, licenziando gli operai. A questo punto operai e ammalati insieme ricorrono “allo Stato”, il quale ha il dovere di trovare una qualche soluzione in grado di difendere sia la salute degli inquinati, sia il posto di lavoro degli operai, sia il diritto del fabbricante di produrre le merci utili.
Per risolvere il conflitto lo stato può trarre dalle tasse dei cittadini qualche soldo per indurre il fabbricante a mettere un filtro sul suo camino, oppure per pagare un salario agli operai disoccupati, oppure per risarcire le spese degli ammalati o per qualsiasi altra soluzione. Anche se il riferimento al caso Taranto non è casuale, proprio questo tipo di conflitto ambientale è stato descritto già un secolo fa nel libro L’economia del benessere dell’economista inglese Arthur Cecil Pigou.
Lo studio di simili e di altri conflitti ambientali sarebbe di grande utilità per vedere come sono stati risolti in passato e come se ne possono trarre utili informazioni per il futuro. E’ quanto ha fatto l’Associazione ASud con il suo Centro Documentazione Conflitti Ambientali (CDCA) che raccoglie storici, sociologi, tecnici, ambientalisti, pacifisti (si, anche pacifisti alla ricerca di soluzioni dei conflitti militari, simili a quelli ambientali).
Nelle settimane scorse è stato pubblicato uno dei volumi del Centro, La democrazia alla prova dei conflitti ambientali, 100 pagine a cura di Giovanni Ruocco e Marianna Stori. Si tratta di uno dei preziosi libri “sommersi”, difficili da trovare nelle librerie, sovraffollate di libri commerciali, e che può essere cercato presso il CDCA.
I vari saggi del libro esaminano alcune delle molte forma in cui si presentano i conflitti ambientali in Italia. Talvolta la protesta riguarda l’inquinamento di attività che sono in funzione e di cui si vedono i danni alla salute e all’ambiente; è il caso dell’Ilva di Taranto o della centrale termoelettrica a carbone di Brindisi Sud. In altri casi la protesta della popolazione è rivolta ad impedire che vengano realizzate opere considerate inquinanti, dannose per l’ambiente, inutili o tecnicamente sbagliate; si possono ricordare le proteste contro i progetti di costruzione delle centrali nucleari, o delle fabbriche di proteine dal petrolio (che non sono state realizzate perché sbagliate), o quelli in corso nei confronti delle opere per il “Terzo Valico” fra Liguria e Piemonte, della linea ad alta velocità Torino Lione che attraversa la Valle Susa, della costruzione del ponte sullo stretto di Messina, che, secondo i proponenti, assicurerebbero più veloci trasporti di merci e persone e di cui i contrari contestano non solo l’utilità, ma anche la pericolosità e per le alterazioni che arrecherebbero ai territori attraversati.
In altri casi ancora il conflitto sorge per i danni che persistono dopo che le attività sono cessate. Si pensi ai morti per tumore per l’esposizione all’amianto in cave e fabbriche ormai chiuse (a Casale Monferrato e a Bari) o per essere venuti a contatto con sostanze cancerogene o tossiche di origine industriale presenti in depositi di rifiuti e scorie, come avviene in Campania e altre regioni. In questo terzo caso il conflitto chiede la punizione dei responsabili e un risarcimento per gli ammalati e per le morti.
Esiste poi tutto un vasto capitolo di conflitti che riguardano l’ambiente di lavoro, cioè i danni e pericoli a cui sono esposti i lavoratori all’interno delle fabbriche, delle cave e miniere, dei cantieri, nei confronti dei datori di lavoro che non assicurano adeguate condizioni di sicurezza. Un tema che è stato ben presente nelle organizzazioni sindacali e nella cultura scientifica da oltre mezzo secolo e che ha portato, solo di recente, all’emanazione dei decreti n. 626 del 1994 e 81 del 2008, che stabiliscono maggiori precauzioni, nonostante le quali ogni anno oltre mille persone perdono la vita nell’”ambiente” di lavoro,
Fra i conflitti ambientali vanno inclusi anche quelli che riguardano la difesa degli acquirenti di merci, esposti a frodi e a danni. Di questi si occupano numerose associazioni di difesa “dei consumatori”, talvolta attente anche ai risvolti ecologici dell’acquisto e dell’uso di merci.
Il libro prima citato mostra bene che la conoscenza dei conflitti ambientali può facilitarne la soluzione nel nome di una società capace di soddisfare i bisogni umani con minore violenza e con maggiore democrazia.
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E’ finalmente uscito il molto atteso libro: Rivoluzione e sviluppo in America Latina, a cura dello storico Pier Paolo Poggio, pubblicato dall’editore Jacabook di Milano.
Si tratta di un volume di oltre 750 pagine, il quarto di una serie di monografie ispirate all’”altronovecento”, cioè alle storie meno note del secolo scorso. I tre volumi precedenti sono stati dedicati a “rivoluzione e sviluppo” nel periodo del comunismo sovietico, e poi nel Novecento europeo e in quello degli Stati Uniti e sarà seguito da altri due che esamineranno le stesse contraddizioni in Africa e Asia e, infine, nel XXI secolo.
Questo quarto volume viene pubblicato proprio nei giorni in cui l’Olimpiade in corso a Rio de Janeiro, in Brasile, sta portando davanti agli occhi del mondo alcuni aspetti dell’America Latina, quella specie di vastissimo triangolo attaccato sotto l’America settentrionale. L’America meridionale deve essere sembrata una specie di paradiso terrestre incontaminato, ai “conquistatori” spagnoli e portoghesi che vi sono sbarcati 500 anni fa col preciso obiettivo di rapinarne, per la maggior gloria degli imperi europei, le risorse naturali.
Alla loro avidità si offrivano vegetazioni ricche di specie e materie fino allora sconosciute (si pensi soltanto alla patata, al pomodoro, al mais e alla gomma), minerali, deserti, montagne altissime, pianure erbose, cascate e vulcani, un continente attraversato da fiumi così vasti che i conquistatori pensavano fossero dei mari.
Ricchezze, soprattutto, che non erano “di nessun” e delle quali quindi il primo arrivato poteva impadronirsi tracciando una riga su una carta geografica. Salvo poi scoprire che tali ricchezze erano “di qualcuno”, di popolazioni di nativi, considerati “selvaggi”, anche se alcune avevano una lunga storia di civiltà e di cultura.
Per portare via metalli preziosi e risorse agricole e forestali occorreva della mano d’opera che i conquistatori ottennero portando via dall’Africa i “negri”, e usandoli vergognosamente come schiavi. Gli abitanti dell’America Latina diventarono così una straordinaria miscela di discendenti dei conquistatori europei, dei nativi, degli schiavi africani e dei relativi incroci, a cui si aggiunsero, e siamo ormai nel Novecento, gli immigrati provenienti dai paesi europei, in fuga dalla miseria e dai fascismi.
Nel XX secolo l’America Latina è stata davvero un crogiolo di diversità umane e naturali in cui sono nate, cresciute e scomparse rivoluzioni alla ricerca di strade autonome allo sviluppo, di liberazione da potenti e arroganti ristrette classi dominanti il cui sfruttamento delle risorse del paese ha mostrato presto i frutti avvelenati: inaridimento dei campi creati distruggendo le foreste, erosione del suolo, inquinamento delle acque, impoverimento dei pascoli.
E’ difficile riassumere in poche righe il gran numero di informazioni contenute nel libro Rivoluzione e sviluppo in America Latina; mi soffermerò a considerare alcuni aspetti delle risorse naturali e dell’ambiente relativi a tre dei paesi latinoamericani.
Cuba, la bella isola, pur indipendente dal 1902, è stata appetibile preda degli interessi economici e finanziari nordamericani con le sue ricche piantagioni di canna da zucchero, e la produzione di bevande alcoliche e di sigari, un turismo di lusso attratto dalla presenza di case da gioco. La rivoluzione castrista del 1959 ha liberato il paese dai corrotti personaggi che assicuravano la sudditanza agli Stati Uniti ed ha dato ad una austera Cuba mezzo secolo di sviluppo con migliori servizi sanitari e educativi.
Il Cile, repubblica indipendente dal 1817, ha vissuto periodi di grande prosperità grazie alle esportazioni del nitrato di sodio, materia prima per l’industria chimica, e poi del rame di cui possiede riserve fra le più grandi del mondo, per decenni nelle mani delle multinazionali nordamericane grazie a governi compiacenti. Così le ricchezze minerarie, pur appartenendo “al popolo”, potevano essere portate via lasciando solo spiccioli ai cileni. Nella breve primavera 1970-1972 del suo governo, Salvador Allende decise, con la nazionalizzazione delle miniere di rame, che i benefici della loro utilizzazione dovessero restare al popolo cileno per assicurarne uni sviluppo civile. Allende “fu suicidato” nel 1972, un evento che contribuì alle rivolte dei paesi produttori di materie prime, a cominciare da quelle petrolifere, contro gli sfruttatori stranieri.
Il Brasile ha vissuto la sua più recente primavera rivoluzionaria dal 2002 con l’elezione alla presidenza del socialista Lula che ha assicurato un periodo di grande prosperità e sviluppo economico e sociale e ha portato il Brasile fra le grandi potenze economiche e industriali emergenti, il gruppo BRIC, Brasile-Russia-India-Cina. Il successo di Lula è stato seguito da quello (2010) della presidente Dilma Rousseff (2010), entrambi osteggiati dalla potente destra che sta riportando il grande paese nella crisi economica e nel caos, difficilmente dissimulati dal chiasso e dallo sfarzo delle Olimpiadi.
Infine non è un caso che in questa straordinaria parte meridionale del continente americano sia nata quella primavera del cristianesimo che fu la teologia della liberazione, il movimento che ha riconosciuto la missione della Chiesa nel liberare, appunto, i popoli dalla povertà e dall’oppressione. Alcuni saggi del libro ricordano questa stagione che ebbe il suo più noto martire in mons. Oscar Romero, assassinato nel 1980 per aver testimoniato, “opportune et importune”, come scrive San Paolo a Timoteo, da che parte sta la Chiesa fra oppressori e oppressi. E non è un caso che da tale continente sia venuto l’attuale Papa Francesco, con le sue “nuove”, antichissime per il Vangelo, parole di giustizia e di misericordia.
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Segno dei tempi (storti) Il giornale colloca sul servizio l'occhiello "Allarme terrorismo"«Così le ong legate a governi stranieri donano decine di milioni di euro annui ai musulmani per costruire luoghi di culto nel nostro Paese Tra investimenti sospetti e la richiesta di un’intesa con lo Stato per accedere all’8 per mille». La Repubblica, 4 agosto2016
Un palazzone di quattro piani, nel popoloso quartiere di Centocelle a Roma, si prepara a ospitare oltre 800 fedeli. La struttura, un ex mobilificio di Stefano Gaggioli, è stata comprata per quattro milioni di euro dall’Unione delle comunità islamiche d’Italia (Ucoii), grazie a una donazione della Qatar Charity. «Ora aspettiamo altri finanziamenti per la ristrutturazione interna — spiega Izzedin Elzir, imam di Firenze e presidente dell’Ucoii — poi la più grande moschea della periferia di Roma sarà pronta per l’inaugurazione ». I musulmani di Centocelle non sono però i soli a dover ringraziare i milioni di riyal piovuti dal Qatar: oggi in Italia non si aprono moschee senza il flusso generoso di denaro dall’estero. Ma chi sono i principali finanziatori e a chi arrivano i soldi?
I milioni del Quatar
Quella di Centocelle è solo l’ultima delle moschee che l’Ucoii è pronta ad aprire in Italia, grazie ai soldi del Qatar. «In tre anni — conferma Elzir — abbiamo raccolto 25 milioni di euro di fondi grazie alla Qatar Charity. Sono serviti per costruire 43 moschee, tra cui quelle di Ravenna, Catania, Piacenza, Colle Val d’Elsa, Vicenza, Saronno, Mirandola».
Su quella di Bergamo, per la quale l’ong del Qatar ha staccato un assegno da 4 milioni e 980mila euro, la procura indaga per truffa aggravata in seguito a una denuncia della stessa Ucoii e i lavori sono fermi. Ma cos’è la Qatar Charity? Una ong (in verità connessa al fondo sovrano del Qatar) che raccoglie donazioni per interventi umanitari e, come si legge sul suo sito, per «preservare la cultura islamica, attraverso la costruzione di moschee, centri islamici e insegnando alle persone a recitare il Corano ». Il suo protagonismo è dimostrato da alcuni comunicati ufficiali del 2013: «La Qatar Charity sta realizzando un numero di progetti importanti in Sicilia con un investimento di circa 11 milioni di riyal (circa 2.355.430 euro)». Non solo. «La Qatar Charity si sta attivando per finanziare sette altri centri islamici con circa 17 milioni di riyal in alcune città italiane: Mazara del Vallo, Palermo, Modica, Barcellona, Donnalucata, Scicli e Vittoria».
«La Qatar Charity — sostiene Valentina Colombo, docente di cultura e geopolitica dell’islam all’università Europea di Roma — sembra avere il monopolio dei finanziamenti all’islam europeo ed è stata sospettata in passato di vicinanza con ambienti estremisti. La verità è che finanzia quasi esclusivamente la galassia della Fratellanza musulmana, portatrice di una visione conservatrice della religione ». Una cosa è certa, in Italia principale beneficiaria dei soldi qatarini è l’Ucoii. «Noi accettiamo donazioni da chiunque, solo se trasparenti e senza condizioni — chiarisce Elzir — ma se vogliamo davvero dire no ai finanziamenti stranieri, dobbiamo sottoscrivere un’intesa tra lo Stato e la fede musulmana, come previsto dall’articolo 8 della Costituzione. Per poi poter accedere all’8 per mille».
I petrodollari sauditi
«Altro grande finanziatore dell’Islam italiano è l’Arabia Saudita — racconta Maria Bombardieri, sociologa a Padova — a partire dagli investimenti sulla capitale». Un esempio? La Grande moschea di Roma, retta dal Centro islamico culturale d’Italia, che oggi si qualifica come polo dell’Islam “moderato”. Chi la sostiene? «La moschea — si legge in un rapporto interno del Viminale — ha solide relazioni diplomatiche con tutti i Paesi arabi e si regge su un “patto” che comprende sauditi (grandi finanziatori), marocchini (gestori sul piano amministrativo e politico) ed egiziani (su quello teologico, fornendo gli imam formatisi nell’università di Al Azar)».
Il regno dell’Arabia Saudita investe ufficialmente da anni nelle grandi moschee simbolo delle principali capitali europee. Mentre le ricche famiglie saudite finanziano centri più piccoli, tramite contatti informali con singole associazioni islamiche.
Stessa politica seguita dal Marocco: fornisce imam e finanzia le sue comunità in Italia, tramite la tesoreria di Stato marocchina che ha una voce di spesa dedicata ai luoghi di culto. E la maggior parte dei musulmani d’Italia oggi proviene appunto dal Marocco (quasi 500mila). A rappresentarli c’è la Confederazione islamica italiana, benedetta da re Muhammad VI. Infine il Kuwait: in Italia non risultano grandi investimenti, molte invece le moschee in Germania costruite con i suoi soldi.
Tra collette ed elemosina
«La fonte principale di sostegno delle comunità musulmane restano però l’autofinanziamento e le collette tra i fedeli — precisa Bombardieri — anche perché l’elemosina è uno dei cinque pilastri dell’islam ». Così si finanziano le comunità senegalesi e bangladesi. «Anche la Coreis vive per ora di quote associative — spiega Yahya Pallavicini, vicepresidente della Comunità religiosa islamica italiana — per arrivare all’8 per mille ci vorrà prima un’intesa con lo Stato italiano e per questo è necessario che le associazioni musulmane presentino un bilancio delle proprie attività: solo così si potrà capire chi ha diritto di mettersi al tavolo».
Intanto Pallavicini ha presentato la sua proposta al Viminale: «Sul modello francese, costituiamo una fondazione per le opere di culto dell’Islam italiano, gestita da ministero e associazioni riconosciute, dove far confluire finanziamenti pubblici e stranieri alla luce del sole e senza rischi di condizionamenti ».
Mai dire la verità, specie se è ovvia. Lunedì ho scritto che se Firenze non ha una moschea, non è per colpa del destino cinico e baro, ma a causa di una irresponsabile catena di ‘no’ che non è estinta, ma si è solo ipocritamente travestita da ‘sì’. Un ‘sì’ vanificato da troppe condizioni. Le risposte non si sono fatte attendere. Prima è arrivata quella della Curia, affidata al sito del settimanale diocesano «Toscana Oggi». Vi si legge che «non risulta in nessun modo che Betori abbia espresso preclusioni in questo senso».
L’anno prima Betori aveva emesso un altro altolà: «I modi vanno misurati e verificati su proposte concrete che, a loro volta, devono tener conto anche dei connotati storici della città, piena di simboli cattolici. Dobbiamo essere aperti a altre presenze, ma rispettosi della nostra storia». Nel marzo del 2011, poi, la Nazione sintetizzava così il punto di vista di Betori: «No alla moschea, sì ai luoghi di culto».
Poi qualcosa è cambiato: l’elezione di Francesco (marzo 2013) ha reso impresentabile questa linea palesemente ostile. Ma intanto si erano persi anni cruciali.
E a giudicare dal resto della nota di Toscana Oggi la virata è più di forma che di sostanza. Si continua, infatti, a scrivere che «non mancano spazi nella città dignitosi e adeguati per un centro religioso che non può ridursi a un grande ambiente, ma richiede spazi articolati e che siano integrabili con il resto del territorio » (tradotto: no a una grande moschea). E si aggiunge che donare una chiesa sconsacrata alla comunità islamica «suonerebbe come una rinuncia del cattolicesimo alla propria stessa identità ».
Ebbene, da cristiano trovo questa posizione incomprensibile: perché l’unica identità cristiana è l’amore senza condizioni. Così come trovo inaccettabile che un pastore si nasconda dietro una cortina ipocrita di parole: «Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» (Matteo 5, 37).
Un terzo dei compagni di classe dei miei figli sono italiani musulmani dall’accento fiorentino: e nessuno ha il diritto di chieder loro alcunché. Esattamente come nessuno avrebbe avuto il diritto di chiedere alcunché ai cattolici ai tempi del terrorismo nord irlandese. Senza dire che un fantomatico esame costituzionale boccerebbe senza appello molti prelati cattolici (si pensi alla condizione femminile). Solo uno spaventato provincialismo travestito da difesa identitaria può continuare a confondere Islam e terrorismo. Ma il futuro di Firenze guarda altrove.
Bikini è una piccola isola, un atollo corallino, che fa parte della Repubblica delle Isole Marshall, in mezzo all’Oceano Pacifico. Dopo la seconda guerra mondiale il governo delle isole Marshall era stato affidato agli Stati Uniti i quali le scelsero, proprio così lontane da altre terra abitate, per condurre le prime esplosioni sperimentali (i test) delle bombe atomiche che avevano costruito da poco; le prime due erano state lanciate sulle città giapponesi di Hiroshima il 6 agosto e di Nagasaki il successivo 9 agosto 1945. L’America visse “la bomba” come il successo tecnico-scientifico che aveva costretto il Giappone alla resa, risparmiando migliaia di vite di soldati americani che sarebbero morti se la seconda guerra mondiale fosse continuata. Ma soprattutto era un sussulto di orgoglio per un paese stanco per i sacrifici di guerra, in cui molte famiglie piangevano i soldati morti sui fronti dell’Italia, della Germania, del Giappone.
Un libro di Paul Boyer, Il pensiero e la cultura americani all’alba dell’era atomica, descrive tale atmosfera; una copertina del settimanale Life mostrava una fotografia dell’attrice Linda Christian definita “bomba anatomica. L’era atomica arriva a Hollywood”. Parole come “atomico” e “uranio” entravano nei fumetti, nelle canzoni, nei film, nella pubblicità. L’America appariva come il paese più potente, in grado, con la sua capacità scientifica a industriale, di guidare il mondo e di assicurare la pace.
Il quadro luminoso aveva alcune ombre; da una parte alcuni scienziati cominciavano ad interrogarsi sulla moralità dell’uso della bomba atomica e sulle conseguenze ecologiche della radioattività rilasciata da ogni esplosione atomica. Dall’altra parte si stavano raffreddando i rapporti fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, alleata nella guerra contro la Germania ma così differente, col suo comunismo, dagli ideali capitalistici americani, e che era stata tenuta all’oscuro della fabbricazione della bomba atomica.
In queste condizioni i militari americani accelerarono in gran segreto gli sforzi per perfezionare le bombe atomiche e per costruirne altre; per controllarne l’efficienza e gli effetti distruttivi e ambientali occorreva effettuare delle esplosioni sperimentali e per tali test atomici furono appunto scelte le isole Marshall da cui furono fatti evacuare i pochi abitanti. Nella laguna dell’isola di Bikini furono trasportate molte decine di navi in disarmo fra cui la portaerei Oklahoma, che era stata danneggiata durante l’attacco giapponese a Pearl Harbor e la corazzata Prinz Eugen, orgoglio della marina nazista, catturata dopo la guerra.
Il 1 luglio 1946, settanta anni fa, un aereo sganciò sull’isola una prima bomba atomica; la chiamarono “Gilda” dal nome del film in cui appariva l’esplosiva bellezza di Rita Hayworth. La fotografia del lampo e della nube di polvere che si sollevava, come un fungo, sull’isola fece il giro del mondo; cinque giorni dopo uno stilista francese battezzò col nome di “bikini” un nuovo succinto costume da bagno che avrebbe avuto un successo mondiale.
L’effetto distruttivo dell’esplosione fu modesto: il 25 luglio successivo fu fatta esplodere una seconda bomba atomica, questa volta posta sul fondo della laguna, e l’effetto distruttivo fu un po’ maggiore; alcune navi affondarono, tutte furono contaminate dalla radioattività e rimasero inavvicinabili per molto tempo. La radioattività delle polveri lanciate nell’aria dall’esplosione atomica fu così elevata che il chimico Glenn Seaborg (premio Nobel nel 1951) dichiarò che quello di Bikini era stato "il primo disastro nucleare del mondo".
Le due esplosioni atomiche di Bikini, forse più ancora che quelle delle bombe atomiche precedenti lanciate sul Giappone un anno prima, rappresentarono una svolta storica: segnarono la nascita della consapevolezza dei pericoli nucleari e della contestazione ecologica e anche l’inizio del raffreddamento dell’entusiasmo americano e mondiale per l’atomo e la sua potenza. Si diffuse la paura che il segreto atomico finisse nella mani di altri paesi, e soprattutto dei sovietici, anche se molti in America ritenevano che un così importante segreto avrebbe dovuto essere reso accessibile a tutti, che avrebbe dovuto esserne vietata la costruzione e che mai più una bomba atomica avrebbe dovuto essere usata in guerra.
Intanto i rapporti fra Stati Uniti e Unione Sovietica si erano deteriorati al punto che nel 1948 i russi posero il blocco dei trasporti terrestri fra la Germania occidentale e la parte ovest di Berlino, circondata dalla Germania orientale comunista; la città isolata fu rifornita per un anno di cibo e carbone per via aerea. Era l’inizio della “guerra fredda”.
I militari americani accelerarono i perfezionamenti delle bombe atomiche come mostrarono i test del 1948 nell’atollo di Eniwetok, sempre nelle isole Marshall; ma intanto nel 1949 i sovietici avvertirono il mondo che anche loro avevano la bomba atomica. Si affacciava sulla scena un’arma ancora più potente, quella termonucleare, la bomba H, che gli americani sperimentarono per la prima volta nel 1952, 450 volte più potente di quella che aveva distrutto Hiroshima; tre anni dopo anche i sovietici fecero esplodere la loro bomba H.
E’ stata una corsa senza fine; oggi nel mondo ci sono 15.000 bombe termonucleari fabbricate da nove paesi e distribuite in molti altri paesi fra cui l’Italia. Uno dei film in cui erano immaginate le conseguenze umane e ambientali dell’esplosione su una città anche di una sola di tali bombe finiva con le parole: “Potrebbe succedere”. Per questo ricordiamo Bikini.
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impresso da Ebenezer Howard al suo riformismo sociale ... (segue)
Eppure qualcuno già da tempo provava ad avvertire dei pericoli di asfissia e sopravvivenza, di quei «satelliti» inopinatamente scagliati nell'orbita territoriale e socioeconomica senza averne davvero valutato la resilienza. Fu per primo addirittura l'amministratore di Letchworth, Thomas Adams, a notare a cavallo della Grande Guerra come qualcosa non andasse proprio dentro la comunità artefatta del villaggio remoto monofunzionale per forza: finiva per diventare l'ennesima versione della comunità hippy di stravaganti, eccentrici, toga party itineranti, predicatori assatanati, scienziati pazzi ansiosi di essere presi sul serio, nulla a che vedere col «pacifico sentiero verso il futuro» di tutte le famiglie e gli individui preconizzato dal profeta.
Al satellite mancavano vistosamente parecchie componenti essenziali del pianeta madre, e nondimeno si insisteva nel mandarne in orbita altri e di diverso modello, come notava poco dopo la seconda guerra William H. Whyte nelle sue inchieste per la rivista Fortune dentro i laboratori sociali dei primi sobborghi voluti dalle nascenti multinazionali per i propri manager. Che ci fosse una bella differenza, tra gli schemi a Tre Calamite di Howard e una brutale flowchart organizzativa aziendale, evidentemente sfuggiva ai più, o non interessava capire, ma il sociologo rilevava parecchie anomalie nelle forme di convivenza, negli stili, nei tic apparentemente secondari, nello strapotere dell'Organizzazione nel dettare i ritmi della vita. O della morte violenta dentro il carcere volontario in cui si poteva trasformare la famiglia satellitare per i soggetti più deboli, come la moglie frustrata raccontata da Richard Yates nel suo Revolutionary Road (1961), antenata di tutte le casalinghe più o meno disperate dei decenni futuri disperse nello sprawl.
L'asfissia sociale da satellite difettoso, e insieme l'immediato gioco di parole che lo stesso termine «satellite» ovviamente induce, è certamente alla base del piccolo prezioso lavoro cinematografico di un giovanissimo cineasta, il ventunenne Lucas Monjo di Montpellier, che nel suo recentissimo corto Les Spectateurs mescola a modo proprio fantascienza e storia urbanistico-sociale. Collocando la città satellite esattamente su una versione gigante di quei satelliti che ciclicamente si sparano in orbita per telecomunicazioni o ricerca, e che in effetti potrebbero anche svolgere altri ruoli, per esempio quando si dice che «per mantenere un certo stile di vita avremmo bisogno di altri pianeti abitabili a disposizione». Ed ecco, parrebbe di poter dire, la trovata ingegneristica risolutiva, che pesca tutto il peggio di almeno un secolo di suburbanizzazione, con effetti sociali a loro modo perfettamente prevedibili, a partire dall'alienazione di una paradigmatica signora che lì «si sente proprio fuori luogo». E ne ha ben d'onde.
Gli Spettatori del titolo saremmo praticamente noialtri, che dentro quelle orbite satellitari, territoriali umane relazionali, ci passiamo tutto il tempo o quasi. Perché sarà anche vero come dice soprattutto la letteratura da treno, che «ognuno di noi è un pianeta», ma c'è una bella differenza ad esserlo dentro un consesso umano e urbano, oppure a sprofondare nel vuoto siderale del Satellite, ed è meglio provare a guardarci anche da quella prospettiva, le solitudini dentro un abitacolo di macchina, davanti a uno schermo televisivo in un pomeriggio di «vacanza» dal silenzio surreale, vis-à-vis con quel che si è e al confronto con quello che si sarebbe voluto essere. Insomma stare sul satellite quello vero, che gira nell'orbita terrestre anziché metropolitana, mette in evidenza la casalinga disperata che c'è in tutti noi, chi più chi meno. Lo fa in modo assai più efficace di qualunque sprezzante dissertazione contro la villettopoli (bruttissima e alienante finché non la pubblicano sulla rivista di settore giusta) o l'ecatombe ambientale incipiente se non ci pentiamo per il nostro stile di vita peccaminoso e consumista. Un modo per guardare le cose molto terra terra, e non dalla solita prospettiva «satellitare» tipica di certa critica.
«A Baratti è costruita con sei blocchi in legno secondo una pianta stellare che ricorda un alveare». La Repubblica, 30 luglio 2016 (p.d.)
«Era una notte buia e tempestosa». L’incipit tanto caro a Snoopy (ma anche a Umberto Eco) è perfetto per raccontare come nacque la Casa Esagono: un monumento moderno che sembra il futuro e la gentilezza fatti geometria abitabile nel bosco, a pochi metri dal bagnasciuga di Baratti.
In una sera dei primi anni Cinquanta due ragazzi fiorentini (Alessandro Olsckhi e Vittorio Giorgini) escono in mare, salpando da Marina di Cecina: ma improvvisamente il tempo gira, e una vera e propria tempesta impedisce loro di rientrare. Così, cercando affannosamente un’insenatura per passare la notte in barca, gettano l’ancora nel Golfo di Baratti. All’alba del giorno dopo il sole non svela solo che il pericolo è passato, ma rivela anche la bellezza mozzafiato di quel tratto incantato di Toscana: la linea di costa gentile come quella di un lago di montagna, l’acropoli di Populonia che si staglia contro il cielo, la necropoli etrusca che degrada, in un verde dolcissimo, fino al mare.
Rientrato a Firenze, Vittorio racconta la storia al suo babbo: che è nientemeno che Giovambattista Giorgini, il grande regista del lancio mondiale della moda italiana. Questi si ricorda di aver comprato molto tempo prima - destino! - dei terreni proprio lì, a Baratti. Così Vittorio, nello stesso anno in cui si laurea in architettura, decide di usarli per costruire il suo primo edificio: la casa di vacanza che ogni bambino sognerebbe.
Ed è così che nasce Casa Esagono (1957). Essa è composta da sei esagoni di legno, disposti secondo una pianta stellare che ricorda molto da vicino la geometria di un alveare. Sei pilastri di legno, che poggiano su basi di cemento armato, sorreggono la struttura: che dunque si libra nell’aria, come una palafitta o un capanno da pescatore, mangiando meno suolo possibile e integrandosi perfettamente con il paesaggio. In origine, un perlinato chiaro rendeva la casa ancora più osmotica con i valori tonali del bosco: ma questo senso di comunione organica, di compenetrazione pacifica con la natura è comunque ancora fortissimo.
Sebbene non avesse né corrente elettrica né acqua potabile la casa era il teatro di appassionanti vacanze estive, durante le quali Giorgini e la sua famiglia accoglievano ospiti anche illustri, come Robert Sebastian Matta, Emilio Villa o Isamu Noguchi, Emilio Vedova o Corrado Cagli. Quell’architettura naturale era la cornice perfetta di una vita semplice: una vita che aveva come naturale compagna di strada un’arte intesa come conoscenza pacifica della realtà.
Pochi anni dopo un industriale tessile di Como, Salvatore Saldarini, acquistò il terreno confinante, e incaricò il suo geniale vicino di costruirgli una casa non meno originale. Grazie alla tollerante fiducia di quel committente (che ormai era anche un compagno di vacanze, interlocutore di interminabili serate e generose bevute), Giorgini inventò quella che chiamò una «membrana isoelastica», cioè una rete metallica plasmata con una forma vagamente organica, che veniva poi rivestita di cemento a presa lenta, diventando autoportante. Dopo averla provata in alcune sculture ancora visibili nel giardino di Casa Esagono, Giorgini la utilizzò per creare Casa Saldarini: una architettura-scultura che sembra un incrocio tra una creatura di Gaudì, le fantasie più sperticate di Le Corbusier e la casa dei Barbapapà, fantasia bioarchitettonica cara ai bambini di ogni generazione.
Questa coppia di singolarissimi edifici daranno in qualche modo l’imprinting a tutta la ricerca che l’architetto Giorgini portò poi avanti soprattutto negli Stati Uniti, dove visse e insegnò a lungo. Quella ricerca, infatti, si può interamente ricondurre al desiderio di costruire senza lacerare il perfetto equilibrio del paesaggio: a partire proprio dal paradiso naturale che aveva incantato il giovane architetto in quella famosa alba dopo la tempesta.
Oggi l’eredità culturale di Giorgini (scomparso nel 2010) è esemplarmente custodita dall’associazione B.A.CO (Baratti Architettura e Arte Contemporanea) - Archivio Vittorio Giorgini, nata per «contribuire all’affermazione di una cultura diffusa del nuovo paradigma dello Sviluppo Sostenibile. Progettare sostenibile è il partire e il condividere una logica di sistema, in cui gli elementi fondanti del progetto sono il pensiero scientifico, la cultura del rispetto del territorio, delle sue risorse, del valore delle relazioni sociali, della sua storia».
Grazie al suo vulcanico presidente (l’architetto Marco Del Francia, collaboratore ed erede morale e culturale di Giorgini), l’associazione B.A.CO ha stretto una sinergia con il Parco Archeologico di Baratti e Populonia e con la Società Parchi della Val di Cornia, riuscendo a riscattare Casa Esagono (che appartiene al Comune di Piombino) da un lungo degrado. Così, mentre Casa Saldarini è ancora privata (e abitata), Casa Esagono è dunque oggi finalmente visitabile.
Salire la scaletta che porta nel suo ventre geometrico serve a comprendere che l’architettura può essere ancora, e nonostante tutto, la continuazione della natura con altri mezzi. Una lezione antica, mai tanto urgente quanto oggi: l’inaspettata scoperta di una stagione di bagni in Toscana.
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Al fine di favorire il trasferimento da Londra a Milano dell'Autorità Bancaria Europea (EBA) Ferruccio De Bortoli (Corriere della Sera del 25/7) ha individuato un obiettivo che fa al caso dell'Italia: abolire o per lo meno sospendere «l'inutile e dannosa» Tobin tax, la tassa sulle transizioni finanziarie. L'iniziativa costituirebbe un segnale «molto apprezzato dagli operatori finanziari e dai mercati». E su tale esito non abbiamo dubbi, come non abbiamo dubbi sul fatto che l'ex direttore di uno dei maggiori quotidiani italiani abbia tra i suoi compiti quello di perorare una politica apprezzata dagli operatori finanziari e dai mercati. Qualche dubbio nutriamo invece sulla logica argomentativa con la quale De Bortoli sostiene la necessità di abolire la Tobin Tax.
Di fronte alle indubbie difficoltà di applicazione che la Tobin tax incontra in Europa - dovute soprattutto al sabotaggio dei governi e del ceto politico, nonché alla cattiva stampa di cui De Bortoli ci fornisce un saggio - si potrebbe avere certamente ben altro atteggiamento. Ad es. si potrebbe insistere sulla necessità di una sua equa applicazione universale per mettere tutti gli stati alla pari e garantire così un sicuro flusso di risorse nelle casse pubbliche. Rappresenterebbe, per lo meno, una linea di tendenza favorevole a un minimo di regolamentazione dei mercati finanziari che l'attuale disordine dell'economia mondiale reclama da tempo.
Per la verità, le ovvietà neoliberistiche di De Bortoli - che tuttavia colpiscono per la loro ostinazione di fronte alla vastità dei fallimenti reali - non avrebbero attratto le nostre altrettanto ovvie critiche se non fosse stato per una ragione più precisa. Come tutti i giornali italiani, domenica le pagine del Corriere erano fitte di articoli sui fatti tragici di Monaco e sull'ennesima strage a Kabul. Pagine di dolore e di costernazione. Ebbene, strideva in maniera insopportabile, come un dato tragico della cultura del nostro tempo, la distanza abissale tra le immagini e i racconti di quegli eccidi e l'editoriale che apriva il quotidiano. L'articolo di De Bortoli appariva come il distillato di una rimozione che costituisce un dato non più tollerabile dell'analisi sociale contemporanea.
Tutte queste operazioni hanno alcune caratteristiche in comune: i) sono strettamente collegate l’una con le altre, ma progettate in modo autonomo e con tempi diversi; ii) sono promosse con progetti sbagliati, obsoleti, spesso non rispondenti a quanto prescritto dalla legge, ma con il tratto comune di privilegiare la soluzione più costosa e meno efficiente; iii) sono bloccate o procedono con lentezza, non per le opposizioni di comitati e cittadini (impotenti e tuttavia vituperati dal PD), ma per gli errori progettuali, la mancanza di pianificazione, la diffusa corruzione che le accompagna. Il tutto con uno spreco colossale di denaro pubblico di cui nessuno risponde in un mondo di irresponsabilità politica.
Il caso della Tav fiorentina è esemplare e vale come paradigma di tutto il resto. Progettata alla fine degli anni ’90, con una VIA approvata le cui numerose prescrizioni sono state rimandate al progetto esecutivo; bloccata per due decenni dalla mancata soluzione dello smaltimento delle terre di scavo, con una trentina di politici e tecnici rinviati a giudizio (tra cui Maria Rita Lorenzetti, ex Presidente della Regione Umbria); definita criminogena da Raffaele Cantone in un’audizione al Consiglio regionale (senza che alcun consigliere del PD battesse ciglio); con la stazione sotterranea – che doveva contenere 5 piani di esercizi commerciali - su cui non è stata effettuata la VIA, ma in compenso si è già scavato un buco che con altre opere secondarie è costato 760 milioni (contro i 270 previsti).
Quando finalmente le Ferrovie italiane sembrano ripensarci a favore della soluzione di superficie, da un decennio sostenuta da comitati e Università di Firenze, si scatena un dibattito: non tecnico ma politico: Nardella è a favore del ripensamento voluto da Renzi, suscitando le reazioni risentite di Riccardo Nencini e Enrico Giani, inaffondabili della politica, e di Rossi anch’esso fautore, finora, del tubone sotto la città. I contendenti si vedono a Roma e ne esce un sottoattraversamento dimezzato. Col nuovo tracciato, la stazione Foster non serve più, anche perché qualcuno, dopo decenni, si è accorto che i viaggiatori vogliono arrivare a Santa. Maria Novella, ma che nel frattempo è saltato il collegamento tra le due stazioni inizialmente previsto. A questo punto, entra in crisi per mancanza di utenti la linea 2, pensata per servire oltre l’aeroporto, la stazione alta velocità. Qualcuno riesuma la vecchia ipotesi di Campo di Marte, nel settore est della città, qualcun altro ripropone la lontana e periferica stazione di Castello. Come al solito, chi parlano sono politici senza alcuna cognizione e competenza tecnica. L’argomento più forte è che dopo un ventennio si deve andare avanti, costi quel che costi (e più costa, meglio è). Qualcun altro, inevitabilmente tira in ballo i posti lavoro che andrebbero persi con soluzioni meno impattanti, una sciocchezza buona a tutti gli usi che vede uniti industriali e sindacati.
I protagonisti di tutto questo caotico vociferare non si rendono conto che le opere più impattanti, aeroporto, linea 2, e stadio-outlet vanno tutte a posizionarsi sui confini ovest della città e gravano sul già congestionato nodo di Peretola, dove si dovrebbe realizzare la terza corsia autostradale (sopraelevata per consentirne il sottoattraversamento del nuovo Fosso Reale, a sua volta condizione necessaria per la realizzazione del nuovo aeroporto, onere che Autostrade Italia rifiuta di accollarsi). Una situazione insostenibile, la cui insostenibilità viene mascherata da valutazioni dei singoli progetti e non complessiva. Senza peraltro un piano finanziario, senza risorse assegnate, i privati spingendo per gli aiuti pubblici anche se non consentiti.
Questo è il desolante quadro politico, in cui i protagonisti, oltre a essere uniti nell’insipienza specifica, lo sono anche dall’ignoranza totale di come sta cambiando il mondo. Le città del nord Europa, Rotterdam e Copenaghen in testa, si stanno attrezzando e stanno realizzando importanti progetti per affrontare il cambiamento climatico. Le parole d’ordine sono “rinaturalizzazione” e l’allontanamento del le automobili dalle città. Tutti i progetti fiorentini vanno in direzione opposta, verso un aumento dell’artificialità e quindi della fragilità dei sistemi ambientali. Con le automobili portate fin dentro al centro storico. Un futuro pensato per il turismo, quello ricco negli alberghi e residenze di lusso, quello povero a trascinarsi in uno spazio pubblico ormai ridotto a suk. La ciliegina sarebbe Mac Donald in Piazza del Duomo a sfruttare l’immagine della cupola del Brunelleschi. Operazione contrattata sottobanco dall’amministrazione fiorentina che ora apparentemente fa retromarcia sotto la protesta popolare. Mac Donald: simbolo di qualità e novità. Come la politica fiorentina.
che permettono il ricambio della vegetazione e ristabiliscono equilibri ecologici. Nel corso dei secoli gli esseri umani, col fuoco o con le asce, hanno distrutto le grandi foreste che coprivano l’Europa per trarne terreni da coltivare e legname da costruzione o da usare come combustibile. Nel Medioevo si poteva andare dalla Sicilia a Parigi senza uscire dai boschi e oggi si può fare lo stesso percorso senza entrare mai in un bosco; ottocento anni fa Federico Secondo poteva andare a caccia nei boschi pugliesi oggi scomparsi.
La distruzione dei boschi si è fatta sempre più rapida a mano a mano che è cresciuto il bisogno di terreni coltivabili e di spazi edificabili, a spese della vegetazione spontanea.
Nel nostro paese si sono moltiplicati gli incendi di alberi e di macchia mediterranea a causa di imprudenza ma più spesso intenzionalmente per sgombrare i terreni dalla vegetazione che intralciava progetti di costruzioni e di speculazione edilizia.
Dopo lunghi dibattiti e allarmi delle associazioni ambientaliste, finalmente il 21 novembre 2000 è stata emanata la legge n. 353 sugli incendi boschivi. La legge comincia a definire un incendio boschivo come “un fuoco con suscettività a espandersi su aree boscate, cespugliate o arborate, comprese eventuali strutture e infrastrutture antropizzate poste all'interno delle predette”, e prosegue che si propone di difendere dagli incendi il “patrimonio boschivo nazionale quale bene insostituibile per la qualità della vita”.
Le foreste, dal punto di vista economico e finanziario, sono inutili; servono “soltanto” ad assicurare “la vita” delle attuale e delle future generazioni. Attraverso le loro foglie le piante assorbono l’anidride carbonica dall’atmosfera e la trasformano in biomassa, l’insieme di sostanze chimiche organiche che si formano liberando ossigeno nell’atmosfera; i boschi regolano la diffusione e la distribuzione delle acque superficiali e sotterranee, ospitano innumerevoli esseri viventi vegetali e animali, molti dei quali importanti per l’alimentazione delle popolazioni locali. Alla fine del ciclo vitale degli alberi e delle piante le spoglie cadono al suolo, vengono decomposte da microrganismi e le loro sostanze organiche si trasformano nell’humus, la complessa materia che assicura la continuazione dei cicli ecologici.
“Purtroppo” molte foreste nascondono nel loro sottosuolo preziose risorse di interesse economico, dai minerali alle fonti di energia, intralciano l’avanzata di strade e dighe per centrali idroelettriche. Già nel corso del Novecento è cominciato l’assalto a tali risorse e a nuovi spazi coltivabili e gli incendi sono stati i mezzi più rapidi e meno costosi per sgombrare la superficie dalla “inutile” copertura vegetale.
Nell’Amazonia con gli incendi vengono conquistati spazi da coltivare a cereali e canna da zucchero, anche se la superficie “liberata” rimane esposta alle piogge che dilavano lo strato fertile e rendono, col tempo, le nuove terre inadatte alla coltivazione.
Nelle foreste indonesiane gli incendi sono provocati per liberare terreni da coltivare a palma il cui olio è una merce ricercata per trarne biodiesel, il surrogato del carburante diesel ricavato dal petrolio, e come ingrediente alimentare largamente consumato in Europa nei dolciumi e merendine.
Gli incendi delle foreste fanno aumentare la concentrazione nell’atmosfera dell’anidride carbonica, il principale “gas serra” responsabile del crescente riscaldamento del pianeta; nello stesso tempo proprio il riscaldamento planetario dovuto all’effetto serra altera il ciclo delle acque, fa aumentare la siccità e rende più fragile, rispetto al fuoco, la vegetazione dei boschi. Così l’effetto serra fa aumentare il numero e la durata degli incendi che devastano in numero crescente l’Italia, l’Europa, e tutti i continenti, incendi che fanno notizia soltanto se arrivano a lambire i lussuosi quartieri residenziali della California.
La tecnologia offre strumenti per combattere gli incendi, per esempio spargendo dall’alto sulla superficie a fuoco agenti chimici che fermano in parte la diffusione delle fiamme, ma è una corsa fra i rimedi umani e le cause umane che provocano tali incendi.
Siamo di fronte ad un’altra drammatica conferma di quanto si osserva a proposito della fusione dei ghiacci e dell’innalzamento del livello dei mari, provocati dal riscaldamento globale e a loro volta causa di tale riscaldamento.
Anche qui gli incendi e la distruzione dei boschi sono facilitati dal riscaldamento planetario e contribuiscono al suo aumento, un fenomeno su cui si sta giocando il futuro dell’intera umanità. Molti hanno riso quando il matematico Edward Lorenz (1917-2008) ha scritto, nel 1963, che il battito dell’ala di una farfalla può provocare una tempesta a migliaia di chilometri di distanza. Ma oggi sappiamo che c’è un rapporto diretto fra l’olio di palma, contenuto nelle merendine acquistate a Milano (tanto per citare un nome), e le piogge che allagano periodicamente tale grande città.
L'articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno
Due metri”, questo lo strano titolo di un recente articolo che parla del possibile innalzamento, di due metri, appunto, del livello dei mari in seguito al riscaldamento dell’intero pianeta ...(segue)
Sta di fatto che molti segni indicano chiaramente che esistono alterazioni dei cicli biogeochimici del pianeta interpretabili soltanto con un aumento della temperatura ”media” della Terra; è importante sottolineare che si parla non della temperatura di ieri o di quest’estate a Bari o a Stoccolma, ma della temperatura del pianeta nel suo insieme, un valore che, da millenni, oscilla intorno a circa 15 gradi Celsius. Nel corso della lunga storia della Terra, molti milioni di secoli, tale temperatura è diminuita di qualche grado, nei periodi glaciali, o aumentata un poco, sempre a causa delle alterazioni della composizione chimica dell’atmosfera. Lo si vede dallo studio dei depositi marini e dei fossili terrestri. Cambiamenti però lentissimi, che si manifestavano nel corso di millenni. Oggi siamo preoccupati perché simili mutamenti, verso il caldo, si stanno verificando in tempi brevi, nel corso di decenni; un aumento di velocità dovuto al rapido sviluppo delle industrie, al crescente consumo di fonti di energia, ai mutamenti delle coltivazioni agricole.
Una delle più vistose conseguenze del riscaldamento del pianeta è rappresentato dalla fusione di parte dei ghiacciai, quei giganteschi depositi di acqua solida, 30 milioni di chilometri cubi, immobilizzata nelle zone polari e nelle alte montagne; con la fusione l’acqua passa dallo stato solido allo stato liquido e scorre attraverso le valli e le pianure e torna al mare il cui volume aumenta e di conseguenza aumenta anche il livello dei mari e degli oceani; gli studiosi tengono sotto controllo (oggi si può farlo con i satelliti artificiali) la superficie e il volume dei ghiacci e ne stanno osservando, da alcuni decenni, la lenta graduale diminuzione. Non è facile misurare esattamente il livello dei mari, ma le misure fatte in molte parti del pianeta e con diversi strumenti indicano un aumento del livello dei mari intorno a due o tre millimetri all’anno, quasi impercettibile, ma continuo. Il fenomeno sta già preoccupando le isole che vedono lentamente sommergere le loro spiagge; per le isole turistiche questo significa la perdita di clienti che spesso sono l’unica fonte di reddito; le isole costituite da atolli, con una altezza massima sul mare di pochi metri, rischiano di perdere una parte della loro intera superficie.
Che cosa succederebbe se un giorno il livello dei mari aumentasse davvero di due metri ? Questo, per ora improbabile scenario, è stato studiato nell’articolo di cui parlavo all’inizio. Molte strade di Bari, Napoli, Genova, Ravenna, New York, e di tante altre città costiere sarebbero invase dall’acqua del mare; l’acqua marina salina andrebbe a miscelarsi con le acque dolci sotterranee che non sarebbero più adatte per l’irrigazione. Ma anche il sollevamento del livello del mare di poche decine di centimetri provocherebbe danni economici elevatissimi, evitabili soltanto con drastici e costosissimi provvedimenti di difesa a cui oggi nessuno pensa perché il fenomeno procede inesorabile, ma lentissimo. Nessun governo si preoccupa di quello che potrebbe succedere dopo i cinque anni in cui è in carica, sapendo che in tale periodo l’aumento del livello del mare sarebbe di “appena” uno o due centimetri.
«La Corte Ue boccia la proroga delle concessioni balneari in Italia. Diritto europeo contrario al rinnovo senza gare». Altraeconomia, 17 luglio 2016 (c.m.c)
A fine aprile l’Agenzia nazionale del turismo (ENIT) ha lanciato su Twitter l’hashtag #WilkommeninItalien (Benvenuti in Italia): è una campagna di comunicazione rivolta ai turisti tedeschi (10,8 milioni di presenze nel 2015), con l’obiettivo di portarli -anche nell’estate 2016- sulle spiagge italiane: una distesa lunga oltre 3mila chilometri di sabbia e ghiaia (sui circa 8mila trecento della linea di costa), su cui insistono lidi attrezzati, chioschi, bar, ristoranti.
Sono circa 30mila le concessioni demaniali con finalità turistico-ricreativa: in cambio di un canone versato allo Stato, i titolari hanno l’obbligo di curare la pulizia del litorale, e affittano ombrelloni, sdraio e lettini, offrendo -spesso- servizi aggiuntivi, come cabine o attività di ristorazione, e assicurando un servizio di guardiania, con la presenza di bagnini. Anche se operano sulla terraferma, le norme più importanti che regolano il loro rapporto con lo Stato sono contenute nel Codice della navigazione: è un testo approvato con Regio decreto nel 1942, quasi 75 anni fa, e oggi si scontra con la legislazione europea, in particolare quella della Direttiva CE 123 del dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno.
Secondo la cosiddetta Direttiva Bolkestein (che prende il nome dall’ex commissario europeo olandese, Frederik) fanno parte di questo mercato anche i servizi legati al settore turistico, e quindi anche le modalità di affidamento delle spiagge: le concessioni devono avere una scadenza, ed essere contendibili.
In questi dieci anni l’Italia avrebbe dovuto prevedere meccanismi ad evidenza pubblica per assegnarle, ma non lo ha ancora fatto, creando una situazione che è “nebbiosa”, come racconta Stefano Gazzoli, presidente di Fiba Confesercenti Toscana Nord, uno dei sindacati dei balneari: «Quattro successivi governi non hanno voluto affrontare un problema, e hanno evitato di andare a confrontarsi con l’Europa come invece hanno fatto altri Paesi».
Oggi i balneari italiani tengono aperti i lidi grazie a una proroga delle concessioni al 2020 (che è stata dichiarata illegittima dalla Corte di giustizia dell’Unione europea il 14 luglio 2016). «I media hanno affrontato la questione portando all’attenzione del pubblico un solo tema, quello delle ‘aste’, e sottolineando come i canoni di concessione che paghiamo siano troppo bassi (nel 2015 variavano tra 1,29 euro/m2 all’anno per le aree scoperte a 5,73 euro/m2 per quelle occupate da strutture di difficile rimozione, ndr), ma non che in questi anni abbiamo bussato alle porte del governo chiedendo di adeguare, cioè innalzare, i canoni, senza trovare ascolto».
Al ministero del Turismo c’era Michele Vittoria Brambilla. Tra i gestori di beni pubblici in concessione -categoria cui appartengono i ricchissimi signori delle autostrade, i cavatori, chi imbottiglia acque minerali e chi estrae petrolio «a tempo indeterminato»- nessun altro ha mai chiesto di pagare di più.
Per comprendere la vera posta in gioco, dobbiamo tornare al Codice della navigazione: nel 2009 il governo ha abrogato il secondo comma dell’articolo 37, quello che stabiliva un «diritto di insistenza» in sede di rinnovo della concessioni.
«Quando nel 2000 ho acquistato il ‘Bagno Oliviero’, a Marina di Massa, ho fatto un investimento pensando anche ai miei figli -racconta Matteo Campatelli, segretario dell’Associazione Riviera Apuana-: immaginavo che avrebbero potuto ereditare la concessione e il bagno». Con la fine del «diritto d’insistenza» (così lo definisce Gazzoli), il tacito rinnovo della concessione -oggi avviene ogni 6 anni- è però diventato un miraggio. Che si trasforma in un problema macroscopico leggendo l’articolo 49 del Codice della navigazione: alla fine di una concessione, «le opere non amovibili, costruite sulla zona demaniale, restano acquisite allo Stato, senza alcun compenso o rimborso».
«È una norma fuori dai tempi, e in pratica ci dice che le nostre aziende hanno valore pari a zero» sottolinea Gazzoli, secondo cui il 90 per cento degli operatori del settore è rappresentato da società di persone o srl a carattere familiare. Quanto disposto dal Codice -spiega- «contraddice tra l’altro le valutazioni dell’Agenzia delle entrate, che per calcolare il prezzo di mano uno stabilimento balneare, quando c’è da formare un atto di compravendita valuta tre fattori: la struttura, le attrezzature e l’avviamento, ovvero i clienti e la storia del lido».
Ma i paradossi sono anche altri, e Gazzoli può spiegarli a partire dalla sua storia: «Nel 2006 ho acquistato uno stabilimento balneare (è il Bagno Sara, in località Poveromo, a Massa, ndr) e l’anno successivo ho acceso un mutuo da 600mila euro per la ristrutturazione». Le banche hanno concesso un prestito per 25 anni, «e acceso un’ipoteca sullo stabilimento balneare, ma oggi io non so se sarò ancora qui nel 2032». Tra gli interventi realizzati c’è, tra l’altro, un impianto fotovoltaico da 20 kW, che garantisce al Bagno Sara la totale autonomia energetica: «Il contratto con il GSE (Gestore servizi energetici, ndr) per la fornitura di energia rinnovabile m’impone di restare ‘collegato’ alla rete per almeno 20 anni, e cioè fino al 2028, mentre il Codice della navigazione in caso di mancato rinnovo della concessione mi obbligherebbe a smontarlo, e portarlo via».
380 gestori di stabilimenti balneari toscani hanno avviato un procedimento giudiziario con l’obiettivo di far dichiarare l’incostituzionalità dell’articolo 49 del Codice della navigazione, che «rappresenta di fatto un esproprio» sottolinea Gazzoli. Lo hanno fatto con un Atto di citazione -presso il Tribunale di Firenze-, al quale hanno allegato perizie sul valore aziendale di una ventina di lidi, redatte da tecnici indipendenti: «Il 24 marzo c’è stata una prima udienza, e in novembre dovrebbe essere fissato un confronto con la Corte costituzionale -spiega Stefano Gazzoli-. Le perizie ci dicono che le nostre ‘aziende’ valgono tra i 500mila e i 2 milioni di euro».
Di fronte all’Atto di citazione, la Regione Toscana ha fatto «un passo verso di noi», sottolinea Gazzoli: il Consiglio ha approvato a inizio maggio una nuova legge (la numero 31 del 2016) sulle concessioni demaniali marittime, che riconosce un valore d’indennizzo pari al 90% a favore dell’eventuale gestore uscente.
«È un messaggio al governo» riconosce Gazzoli, che ricorda quale sia la contropartita richiesta dalla Regione Toscana ai balneari, e che il presidente di Confesercenti Toscana Nord condivide: «Viene vietato il subaffitto della concessione: abbiamo l’obbligo di gestirla in proprio. Lo trovo corretto».
In tutta Italia oggi l’affitto è concesso, come spiega l’architetto Corinna Artom, responsabile del settore Demanio marittimo della Regione Liguria, anche se rappresenta una “distorsione”. Fino agli anni Novanta -spiega Artom- «si potevano affittare solo le attività accessorie, come la gestione del bar, mentre il concessionario doveva svolgere l’attività principale». Per dipanare tutti i fili di questa matassa servirebbe, intanto, chiarezza. Il primo passo potrebbe essere un censimento che definisca quante siano le concessioni in essere, quale la superficie media, quanti i subaffitti. «Il sistema informativo delle aree demaniali, gestito dal ministero delle Infrastrutture, non è a regime» racconta Artom. La Regione Liguria coordina il tavolo tecnico della Conferenza delle Regioni sul demanio marittimo, quello che dialoga con il governo in vista dell’approvazione del decreto: «Si è d’accordo sull’esigenza di tutelare i concessionari esistenti», mentre l’esecutivo pare intenzionato a mettere all’asta i rinnovi.
A marzo 2016 la senatrice Manuela Granaiola (eletta a Viareggio) ha presentato un disegno di legge sul demanio marittimo -il cui iter non è nemmeno iniziato in Commissione-, che introdurrebbe nell’ordinamento alcuni elementi “qualitativi” per valutare il comportamento dei balneari, commisurando la durata massima della concessione al rispetto di criteri ambientali e paesaggistici e alla regolarità contributiva e assicurativa del personale. Meccanismi di «premialità ambientale», ragione Sebastiano Venneri, vicepresidente nazionale di Legambiente, che sono «fondamentali nella gestione di un territorio delicatissimo come il litorale italiano: ogni concessione dovrebbe prevedere vincoli ambientali e controlli severi. Eventuali abusi, potrebbero essere puniti con la revoca».
Legambiente Turismo, insieme all’associazione Donnedamare (donnedamare.it), promuove il progetto Lidi sostenibili. «È figlio del nostro manifesto» spiega Beatrice Bolla, una delle 50 Donnedamare, che gestisce i Bagni Mafalda Royal a Varazze (SV). Nel loro decalogo si legge: «I balneari sono le sentinelle del rispetto dell’ambiente delle riviere».
A Castiglion della Pescaia un nuovo giardino che è una molteplice esperienza didattica. Una ricreazione che avvicina alla natura, e insieme ri-crea: conferisce nuova vita agli "scarti" di vite precedenti. La Repubblica, 16 luglio 2016
«Se non tornerete come bambini, non entrerete nel paradiso», cioè nel giardino di Dio. È questa frase del Vangelo di Matteo a martellare la fantasia camminando, in stato di grazia, nel “Viaggio di ritorno”: che è uno spettacolare parco di sculture contemporanee nel sud della Toscana. Il ritorno annunciato dal titolo, infatti, è un ritorno alla comunione infantile con la natura e con l’umanità: e il giardino è capace di infondere una serenità da oasi, appunto, paradisiaca.
Tutto comincia nel 2002, quando Rodolfo Laquaniti — bioarchitetto nato in Calabria, e laureatosi a Firenze, dove si manteneva facendo il modello per le sfilate di Pitti — lascia la città per ristrutturare un casale, nella Maremma di Castiglion della Pescaia. Qui, guardando alla tradizione tosco-romana che porta dal cinquecentesco Parco dei Mostri di Bomarzo al Giardino dei Tarocchi di Niki de Saint Phalle a Capalbio, Laquaniti decide di far nascere un giardino di statue. Ma non lo fa acquistando i materiali nobili della tradizione italiana, ma andando in cerca degli scarti industriali, raccogliendo i rifiuti che ingombrano e lordano il nostro paesaggio: dalle lamiere alle bottiglie di vetro, dai vestiti ai tubi futuribili piovuti dai caccia militari che decollano dalla vicina base di Grosseto.
Seguendo le regole della bio-architettura — e dunque disposti secondo i punti cardinali, in comunione con la luce e con i venti — , i rifiuti si sono trasformati in grandi e piccole installazioni: la monumentale Balena che incanta i bambini, e che promette di restituirci migliori (come Giona, o Pinocchio) al mare della vita; la Sfera luminosa, alta otto metri, i cui vetri di fonderia si illuminano magicamente al tramonto; l’Arca dei migranti, che fa capire che questo paradiso non è una fuga dalla realtà, ma un luogo dove attingere la forza per cambiare il mondo. E poi una vera rivelazione: dentro un capannone sfilano in silenzio cento figure umanoidi, un esercito di mutanti costruiti di immondizia e guidati da un cavaliere solenne e inquietante. Una schiera imprevedibilmente bella: che ricorda quella degli armati medievali del Museo Stibbert a Firenze, se solo si potesse ibridarla con la fauna intergalattica del bar di Guerre Stellari.
Laquaniti non è l’unico artista che trasforma i rifiuti in arte. Il più famoso è forse Vik Muniz, il cui straordinario lavoro nelle discariche brasiliane è stato raccontato al mondo dallo struggente Waste Land (2010). E fa una certa impressione ricordare che al centro di quel film c’è l’enorme, infernale immondezzaio di Jardim Gramacho, nello stato di Rio de Janeiro, poi chiuso nel 2012. Lì un sobborgo che si chiamava Jardim, cioè giardino, e che era dotato di una preziosa zona umida, era stato trasformato in una delle discariche più grandi del mondo: simmetricamente, nel “Viaggio di ritorno” italiano i rifiuti si trasformano in un giardino incantato.
Tuttavia, quando Laquaniti parla delle sue opere non parla mai di rifiuti, ma di «scarti»: e guarda questi materiali con lo sguardo amoroso di chi ha raccolto un trovatello, di chi ha saputo scoprire il genio negli occhi di un incompreso. È lo stesso linguaggio di colui che potrebbe essere il più appassionato visitatore del giardino maremmano: papa Francesco, che ha fatto della riflessione sugli «scarti» e sugli «scartati» dalla società un perno della sua predicazione. Tanto da volere, negli aulici Giardini Vaticani, le sculture di Alejandro Marmo, un artista di Buenos Aires che è stato scartato lui stesso (finendo tra quelli che il papa chiama i giovani «né né», quelli che né studiano né lavorano), e che si è riscattato trasformando in opere d’arte gli scarti industriali che raccoglieva nelle baraccopoli argentine dove incontrò l’allora arcivescovo Jorge Maria Bergoglio, il quale aveva già bene in mente che «la pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra angolare» (secondo la profezia cristologica del Salmo 117).
Per realizzare il suo giardino, Laquaniti ha lasciato Firenze, che è ormai la capitale mondiale di un’arte ridotta a lusso. Un’arte in vendita, che celebra l’onnipotenza del mercato e il culto del denaro. Remotissima da tutto questo è la frase che Bergoglio disse a Marmo: «Tu hai un dono di Dio, abbine cura e non venderti». Perché — e ora è il papa che scrive — «il ruolo dell’artista è contrastare la cultura dello scarto», e denunciare «la sporcizia più brutta: il dio denaro ».
Conoscere il giardino del “Viaggio di ritorno” significa comprendere tutto questo: perché esiste anche un’altra arte, un’arte che serve a tornare. A tornare umani.
, ma soprattutto nelle grandi città... (segue)
E' stato uno dei temi più dibattuti dai commentatori che hanno preso in esame l'andamento territoriale dei flussi elettorali delle ultime amministrative: un po' ovunque, ma soprattutto nelle grandi città, il PD rastrella consensi nei centri storici e soprattutto nei quartieri bene. Perde vistosamente nelle periferie, che diventano il serbatoio del voto di protesta, della destra e dell'astensionismo. Il fenomeno è apparso clamoroso in alcune grandi città come Roma o come Torino, a cui ha dedicato una efficace disamina Marco Revelli (il manifesto, 29/6/16). Sotto il profilo politico questa sorta di inversione storica della tradizionale geografia elettorale italiana non è una grande novità. E' solo la continuazione di un processo in atto da tempo e il segnale di un definitivo disancoraggio di classe della formazione che aveva rappresentato la sinistra nel nostro paese. Il PD di Renzi ha concluso una parabola che discendeva ormai a velocità crescente.
Ma richiamo questi temi, non per l'ennesima recriminazione contro il PD, quanto per il fatto che essi invitano a ragionare, più che delle forze politiche e delle dinamiche elettorali, delle città, delle strutture urbane. Che cosa sono diventati i nostri centri storici, che cosa le periferie? Un rapido sguardo ad alcune loro trasformazioni è non solo utile per spiegare i fenomeni politici presenti, ma soprattutto per intravedere possibili linee alternative. Ci sono pochi dubbi: il fenomeno sociale più rilevante che ha investito le nostre città dalla metà del secolo scorso, è stata la cacciata dei ceti popolari dai centri storici. Nel 1991 Pier Luigi Cervellati – il “restauratore” del nucleo storico di Bologna – osservava che tra il censimento del 1951 e quello del 1971 gli abitanti dei centri storici si erano dimezzati. (La città bella, il Mulino ). Un fenomeno che è continuato nel tempo: «Le undici più grandi città italiane - ha ricordato Paolo Berdini - hanno perduto circa 700 000 abitanti nel decennio compreso tra i censimenti del 1991 e del 2001». (La città in vendita, Donzelli, 2008).
Sotto il profilo sociale e politico tale destrutturazione demografica non ha prodotto grandi scosse fino ad epoca recente. Nelle periferie i vecchi cittadini e i nuovi abitanti hanno trovato spesso standard più moderni di servizi abitativi e potuto compensare i disagi di più lunghi spostamenti grazie a nuovi redditi da lavoro e alle strutture locali, per quanto insufficienti, del welfare. Ma negli ultimi 15 anni le cose sono precipitate. La crescente disoccupazione si è combinata, all'indomani della crisi del 2008, con la politica dettata da Bruxelles, che ha di fatto impedito ai comuni di far fronte ai crescenti bisogni di servizi dei cittadini: dai trasporti agli asili nido, dai rifiuti alla manutenzione del verde pubblico. Alla marginalità territoriale si è aggiunta la disperazione sociale. In alcune realtà urbane come quella di Roma la degradazione della vita civile è ormai un motivo di scandalo e di vergogna a scala europea. Ma come si risponde a tali problemi senza scorgere, nella prospettiva storica, la filigrana classista delle trasformazioni avvenute, senza tener conto del potere fondiario-finanziario che decide il destino delle nostre città? Davvero possiamo affrontare i loro problemi invocando la copertura delle buche, il rafforzamento del trasporto pubblico, la possibilità di ospitare le Olimpiadi, le fumisterie tecnologiche delle smart cities?
C'è una città in Italia, che ci racconta quel che avverrà a tanti nostri centri senza adeguate contromisure, ma che ci suggerisce anche che cosa può essere oggi una politica urbana di sinistra. Questa città è Venezia, diventata ormai una sorta di Disneyland. Come ricorda Franco Mancuso (Venezia è una città, Corte del Fontego, 2016) il centro lagunare si è ridotto a soli 56 mila abitanti, dopo essere stata per secoli una delle più popolose città d'Italia. Eppure Venezia attrae ogni giorno per studio e lavoro circa 50 mila persone, più di quanto non non faccia il Petrolchinico di Marghera. Persone che son costrette a vivere nell'entroterra di Mestre per l'elevato costo delle case e per la morte della città come comunità civile: mancanza di artigiani, di botteghe per i consumi quotidiani, di servizi adeguati, di relazioni stabili e normali tra gli abitanti. Eppure tante coppie di giovani amerebbero risiedere in città se i costi non fossero per loro proibitivi, potrebbero farla rivivere di vita vera e non del frettoloso consumismo del turismo di massa.
In realtà al riscaldamento globale contribuisce per circa un quarto del totale anche la produzione di cibo, quella complessa catena di rapporti che va dai campi coltivati, alle stalle, fino ai negozi e alla nostra tavola.
Apparentemente la produzione alimentare dovrebbe essere “neutrale”, dal punto di vista del bilancio planetario della CO2, perché “porta via” dall’atmosfera la CO2 che utilizza, insieme all’acqua e grazie all’energia solare, per formare i vegetali per fotosintesi; la stessa CO2 ritorna nell’atmosfera in seguito al metabolismo degli animali e degli esseri umani.
In realtà non è affatto così; intanto la natura “fabbrica”, con la fotosintesi, i vegetali senza occuparsi di quello che è utile per i nostri commerci; della biomassa vegetale esistente nei campi soltanto una parte, spesso meno del 40 percento, diventa cibo. Nelle piante di mais, i semi da cui trarre la farina e l’olio sono soltanto circa il 30 percento; delle olive l’olio rappresenta soltanto meno del venti per cento. La biomassa restante, che ammonta ad alcuni miliardi di tonnellate all’anno nel mondo, trova in parte impiego nell’alimentazione del bestiame e in parte viene restituita al terreno dove si decompone liberando CO2, ma anche altri gas serra. Inoltre la lavorazione dei campi comporta una modificazione della struttura del suolo che contribuisce anch’essa al peggioramento del clima.
Ma soprattutto le operazioni agricole richiedono l’impiego di macchinari che usano carburanti che emettono CO2 nell’aria; inoltre le elevate rese dei raccolti sono possibili con l’impiego di crescenti quantità di concimi contenenti azoto, fosforo, potassio, per la cui fabbricazione vengono impiegati combustibili fossili che emettono anche loro CO2 nell’atmosfera. Non solo: i concimi azotati svolgono la loro funzione di nutrizione delle piante attraverso complesse reazioni microbiologiche e chimiche, durante le quali si liberano ossidi di azoto, altri gas che contribuiscono, con la CO2 e il metano, al riscaldamento del pianeta. In una spirale: più rese agricole, più meccanizzazione, più concimi, peggioramento del clima.
Lo studio di Oxfam ha mostrato che i cinque principali raccolti --- riso, mais, soia, palma, grano --- contribuiscono ad immettere ogni anno nell’atmosfera circa quattro miliardi di tonnellate di gas serra, il 10 percento del totale mondiale. Alcune piante, come il riso, producono metano proprio nei processi di coltivazione.
Ma il cammino dai campi alla tavola è ancora molto lungo. Circa un terzo delle sostanze nutritive dei raccolti agricoli viene impiegato per l’alimentazione del bestiame. La vita degli animali da allevamento restituisce in parte la CO2 all’atmosfera, ma la “fabbricazione” di carne, di latte, di uova è accompagnata anche dalla liberazione di altri gas serra che vanno dal metano dei bovini a quello che si forma nella decomposizione microbiologica degli escrementi animali.
Molti prodotti agricoli vengono trasportati a grandi distanze. L’olio di palma, prima di arrivare nei dolciumi, percorre ottomila chilometri via mare. L’Italia importa mais dall’America, grano dal Canada, latte dalla Germania, zucchero dalla Francia, viaggi che richiedono combustibili e immissioni di altra CO2 nell’atmosfera.
I prodotti agricoli a questo punto entrano in processi industriali nei quali vengono macinati, miscelati, sottoposti a processi di conservazione, inscatolati e infine trasportati dalle industrie ai negozi e da questi a casa nostra e ai trattamenti di cucina, tutte operazioni accompagnate da emissioni di gas serra.
L’agricoltura è, quindi, fonte di alterazioni climatiche, ma è anche prima vittima delle stesse: l’aumento della siccità e le piogge eccessive che allagano i campi distruggono i raccolti; l’agricoltura intensiva impoverisce la fertilità dei suoli.
L’analisi dell’Oxfam mostra che le alterazioni climatiche, derivanti dalla produzione di cibi più raffinati e abbondanti per una minoranza della popolazione mondiale, rendono più scarsi e costosi gli alimenti disponibili nei paesi più poveri. Molti di questi sono costretti a cedere le proprie terre alle grandi società che praticano quelle coltivazioni intensive e distruttive che consentono di fornire a basso prezzo le materie prime per gli sprechi dei ricchi.
Sono denunce fatte anche molte volte e in varie sedi internazionali dal papa Francesco. Si tratta non di pensare ad un improbabile ritorno all’agricoltura contadina, ma di passare dalla agricoltura industrializzata intensiva e inquinante ad una agricoltura ”ecologica”, come ha messo in evidenza il bel libro di Pier Paolo Poggio Le tre agricolture, apparso di recente. La soluzione del problema alimentare dei poveri è l’unica condizione per estirpare la violenza che ci sta travolgendo.
Tutto diverso il discorso dei moli fluttuanti, dove già il«contenitore» non è l'opera in sé, ma la sua interazione col paesaggio, prontaa sua volta a interagire con l'utente-contenuto. Chi anche preventivamente (èil caso ad esempio del critico Philippe Daverio) ha stroncato l'iniziativa inquanto opera d'arte ripetitiva e dozzinale, sagra paesana che non valeva lapena giudicare, probabilmente non ha colto proprio la sua natura aperta adaccogliere altro senso. L'invito esplicito a «entrare nel paesaggio modificatomodificandolo ulteriormente» non a caso è stato accolto intuitivamente dalpubblico, e comunicato col passaparola, tra parentesi mettendo in crisi un giàcarente e improvvisato sistema logistico e moltiplicando critiche improprie.Perché non si tratta esattamente di installazione-opera, come poteva apparirein un primo tempo specie leggendo certe raccomandazioni a fruirla in tutto ilsuo splendore contemplandola dall'alto, ma di puro espediente tecnico perprodurre un evento sociale, esattamente come avviene per le migliori piazzemonumentali simboliche luogo di ritrovo pubblico.
Un riassunto
Dai tempi della semplificazione funzionalista-razionalista che ha sancito la crisi già in corso della città di strade e piazze residenziali, l’urbanistica e l’architettura, ognuna per sé sorda ai suoni della storia, non possono creare spazi di vita ed estetici di quella giustezza sociale e di quella bellezza[iii]. Il brulicare di vita collettiva, gli intensi rapporti sociali che li rendevano mirabilmente adatti erano imprescindibile necessità di una specifica formazione economico sociale; oggi non sappiamo o non possiamo praticare rapporti umanizzanti e solidari perché l’attuale società li ricusa (così ne deriva il recepimento di quei luoghi solo come nude opere d’arte…).
Ha avuto successo negli anni recenti la raffigurazione degli ipermercati, dei centri commerciali, degli aeroporti…, essenzialmente i «nonluoghi» nell’accezione di Marc Augè (Non-lieux), quali nuovi spazi di socializzazione, nuove «piazze» dove la gente s’incontra, dialoga vive…la vita. A noi paiono luoghi ultimi di cui le persone assoggettate al consumo devono accontentarsi in mancanza d’altro, impedite d’incontrarsi e di dialogare davvero. Lì all’«uomo della metropoli» manca soprattutto la comunità, la condivisione del desiderio e del ritrovamento del luogo di tutti. Le piazze e piazzette di città, cittadine e paesetti, i campi e campielli veneziani, le strade e stradine d’ogni parte: erano spazio conchiuso o delineato dalle cortine edilizie, abitate e destinate a miriadi di utilità; forma in ogni caso decisamente progettata nel senso di un concerto della popolazione per una comune scelta per così dire urbanistica. In quei nonluoghi vige forse la denaturazione psicologica e biologica dell’uomo come previsto da Willy Hellpach ottant’anni fa[iv].
La critica e la contrapposizione al razionalismo da parte degli architetti nati nel decennio 1925-1935, ispirate alle esperienze pre-razionaliste o espressioniste di olandesi e tedeschi, a F. L. Wright, a movimenti rinnovatori come la Wiener Secession si sono risolte da una parte in ingegnose architetture affatto minoritarie, neoliberty e talvolta storicistiche, dall’altra in urbanistiche pubbliche (Piani per l’edilizia economica popolare e simili) pensate in opposizione alla speculazione o indirizzate alla ricostituzione di demani locali ma, salvo poche eccezioni, respinte in innocue applicazioni troppo lontane dal corpo urbano compatto, inoltre difficilmente rapportabili alle isolate novità architettoniche[v].
Lunghi decenni fluivano attraverso vicende da cui ogni tanto sorgevano deboli speranze di cambiamento dell’urbanistica pubblica grazie all’adozione di singole normative di stampo quasi-illuminista (ma una nuova legge urbanistica generale era continuamente dilazionata fino alla rinuncia odierna!). Nei fatti si susseguivano le vittorie di uno smaccato neoliberismo speculativo e profittatore coerentemente alla progressiva finanziarizzazione dell’economia, d’altronde essa stessa propizia all’ancor più veloce decadimento della produzione industriale fino alla distruzione o riduzione all’insignificanza dei settori tradizionali. Il disinteresse della politica riguardo agli enormi danni reddituali personali, sociali, culturali provocati dal dominio delle rendite di ogni genere, unificate in una sorta di Santo Principio Primo (Spp) come statuto materiale e morale del paese, giungeva a ogni grado del potere, dal capo del governo fino al sindaco del più piccolo Comune di trentasei abitanti valtellinesi, e decretava così l’agonia della sovranità popolare (demo-kratía).
L’iniziativa urbanistica privata negoziata in apparenza col potere politico, in realtà lo surclassava anzi lo assorbiva ostentando essa presunti valori pubblici. Pseudo-concorsi «chiavi in mano» fra coppie di impresa-architetto, accordi al chiuso fra sindaci e padroni spacciati per gestiti all’aria aperta, realizzazioni urbane di enorme portata sostitutive di grandi e buone industrie con disprezzo di piani generali o di note priorità locali e regionali, architettura incapace di proporsi come arte dalla parte dei cittadini invece che subalterna alle imprese: questa, dal punto di vista del destino di città e territorio, era la trama che guidava il paese verso la fine del millennio e l’inizio del nuovo.
Una figura milanese la rappresenta in modo ideale: Gabriele Albertini, il sindaco del decennio 1997-2006, colui che impersonò gli affari urbani definiti da Vezio De Lucia «rito ambrosiano», forse primo fra gli amministratori pubblici, presto seguito da altri di altre città e dai successori di destra e di sinistra (Letizia Moratti e Giuliano Pisapia), a sostenere l’avvento degli architetti internazionalisti al servizio del municipio e dei possessori della rendita urbana. Progettisti che prospettano la costruzione di grattacieli-giganti per contesti a loro sconosciuti e tuttavia non studiati, personaggi a ogni modo propensi ad accettare o addirittura offrire essi straordinarie densità di fabbricazione.
Così valse la diffusione della fandonia, grazie anche alla condivisione di colleghi distratti, che le grandi cubature ottenute mediante inusitate altezze degli edifici applicando indici di densità fondiarie inammissibili nella pianificazione onesta comportassero il guadagno di vaste superfici di terreno da destinare a parco; quando è vero il contrario: eventuali notevoli altezze in regime di basse, molto basse densità spingono lontani l’uno dall’altro i volumi e lasciano ampie zone aperte.
Il tipo edilizio detto grattacielo o gran mole spuntava qua e là nel paese in posti inimmaginabili, Savona con Fuksas quanto mai balzano e Bofill, Sarzana coi funghi velenosi di Botta, Salerno col muraglione di Bofill, Torino la bellissima, famosa per l’elegante perfezione e uniformità delle sue strade porticate, arresa all’arroganza della più potente banca italiana, con Alessandro Antonelli sacrificato all’improvvisa insensibilità di Renzo Piano…
Milano, dopo la fallimentare prova del terzetto Hadid-Isozaky-Lebeskind al servizio della cordata Generali-Ligresti-Lanaro-GLDR nell’area dell’ex Fiera, esibiva a Porta Nuova-Isola il luogo topico della nuova architettura urbana. Già diversi mazzi di grattacieli ligrestiani per uffici, abusivi nei due ultimi piani, si erano distribuiti al di là della cinta ferroviaria quasi per declinare rapidamente verso rugginoso abbandono (intanto la rendita avanza lo stesso). Ora il raggruppamento di alcuni giganti, come in qualunque emirato o qualunque Kuala Lumpur segnato da astruse esteriorità formali e falsità sostanziali, attua in quella parte di città, guarda caso non più milanese giacché comprata interamente dal Qatar, la contestazione dell’architettura urbana laddove fosse persistita dal passato nella sua giustezza e bellezza, mistificando infine l’intera operazione targandola col nome di «piazza»: Gae Aulenti per di più.
Intanto la vendita di terra milanese a potentati stranieri procede. Se da una parte è soddisfatto l’emiro dall’altra lo sarà la dinastia dei reali sauditi: sta sorgendo su terreni utilizzati per l’Expo a Cascina Merlata (destinazione agraria sacrificata per sempre) il più grande centro commerciale della città. Sono solo due esempi fra tanti di una tendenza irreversibile. Tutto si tiene rispetto ai nuovi luoghi di falsa socializzazione. È raggiunta nell’intero paese l’obbedienza alla legge della mondializzazione; così funziona anche in questi casi il capitalismo vòlto, come detto, all’economia dell’arricchimento nell’epoca di impoverimento dei lavoratori.
Grattacieli
1.- Un’architetta intervistata in piazza Gae Aulenti disse che Milano ha il grattacielo nel suo DNA perché ha eretto la guglia del Duomo con la Madonnina. Macché DNA, macché Duomo. L’unico edificio di altezza inusitata (al suo tempo) significativo non per aver fondato una tendenza ma per essere emblema di singolarità, il contrario di possibile molteplicità, è il grattacielo Pirelli (Ponti, Nervi, Rosselli e altri, 1956-60, 32 piani, 127 metri). Quasi un contradditorio architettonico radicale ma non arrogante alla magnifica Stazione Centrale di Ulisse Stacchini (nota: opera di un fantasioso tardo eclettismo, da noi amata e per disgrazia massacrata dai lavori del Progetto Grandi Stazioni senza alcuna opposizione di ordini professionali, istituzioni culturali, politecnici, università…). Altri pochi edifici alti, da non potersi più definire grattacieli stante le spaventose gonfie verticalità raggiunte a Milano Porta Nuova-Isola (se è per questo, nemmeno il Pirelli…) non contano nulla da entrambe le prospettive: danno grave o vantaggio apportati al paesaggio urbano. Un’ammirabile eccezione sarebbe la cosiddetta Torre Rasini, la parte «alta» di un palazzo residenziale all’angolo fra corso Venezia e i Bastioni, con la Porta Venezia da un affaccio e i Giardini Pubblici piermariniani dall’altro (Emilio Lancia e Gio Ponti, 1933-34), se dovessimo accettare l’inganno nominalistico e includerla con i suoi miseri undici piani più un parziale dodicesimo arretrato. Conta invece il disegno urbano e la bellezza di un’architettura tipicamente «milanese» fra razionalismo e Novecento.
2.- Al Palazzo Reale di Milano c’è una mostra di Umberto Boccioni, abbastanza ampia se non esaustiva. Qualche giornalista innamorato dei nuovi grattacieli ha preso «La città che sale», del resto presente solo in bozzetti (uno è nella collezione della Pinacoteca di Brera; l’opera compiuta, 200x300 cm, è al Moma di New York) per una profezia del 1910 alla vocazione dei costruttori milanesi a erigere, appunto, grattacieli. Grossolana deduzione dal puro titolo. Basta osservare con attenzione le immagini di bozzetti e del quadro finito, aggiungendo magari la lettura di qualche passo di critica d’arte moderna, per capire che Boccioni lavora in piena assunzione del «dinamismo» preludente al compimento del Futurismo. Quattro quinti del dipinto sono occupati da cavalli e uomini in contorsione «fusi esasperatamente insieme in uno sforzo dinamico»[vi]. Solo in un piccolo spazio in alto a destra sbuca una forma che potrebbe rappresentare una casa in costruzione di quattro o cinque piani, oppure alludere a un quartiere periferico in corso di realizzazione come tanti all’inizio del Novecento. «La città che sale» significa una Milano che scala la china del progresso, come l’artista la vede nella realtà e la proietta in visione avveniristica.
[i] L. Meneghetti, La sostenibile infelicità della divisione, in eddyburg, 15 marzo 2015.
[ii] Intervista a Luc Boltansky del Collettivo La Boétie, «L’Indice dei libri del mese», a. XXXIII, n. 5, maggio 2016.
[iii] L. Meneghetti, Alla ricerca dello spazio perduto (Discorsi di piazza), in eddyburg, 25 novembre 2006. In «il Grandevetro», a. XXX, n. 184 novembre-dicembre 2006; poi in Libere osservazioni non solo di urbanistica e architettura, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2008. – L. M., La strada, la piazza. Un cuore antico per il futuro, in eddyburg, 7 febbraio 2009; poi in Promemoria di urbanistica architettura, politica e altre cose, Maggioli, 2010. – L. M., Dov’è la bellezza di Milano?, in eddyburg, 11 giugno 2015.
[iv] W. Hellpach, L’uomo della metropoli (Mensch und Volk der Grosstadt, 1935, prima pubbl. 1939), Edizioni di Comunità, Milano 1960.
[v] Cfr. la rassegna di Piani di edilizia economica e popolare in «Urbanistica», a. XXXIII, n. 41, agosto 1964. L’unico progetto, inserito nel contemporaneo Prg, che appare meno marginale è quello di Novara.
[vi] Boccioni a Milano Catalogo della mostra al Palazzo Reale, dicembre 1982-marzo 1983, Mazzotta, Milano 1982.
"Non c'era un posto per loro" nell'affollata e opulenta Betlemme e Giuseppe e Maria col bambino trovarono rifugio solo in una grotta fredda: mi tornano sempre in mente queste parole del Vangelo di Luca quando penso a tutti i poveri e poverissimi per i quali “non c'è un posto” in cui rifugiarsi, a cominciare da casa nostra: basta vedere le persone ammassate nelle “Rosarno” d’Italia, negli scantinati di edifici abbandonati come l’ospedale Forlanini di Roma.
Più di mille milioni di persone abitano nelle “Rosarno” del mondo, dai campi di concentramento di esuli e rifugiati, alle tendopoli di lavoratori immigrati e sfruttati, alle capanne e baracche delle periferie del terzo mondo, spesso vicino a discariche di rifiuti, ai ricoveri provvisori delle persone in fuga dalla fame, dalle guerre, dalla siccità, vittime dei cambiamenti climatici, rifugi circondati da polvere, sporcizia e acqua di fogna, senza acqua potabile e al buio.
Non è possibile avere una vita libera e dignitosa se si è privi di una casa decente e, davanti al grave problema di chi è privo perfino di un rifugio, già nel 1976, quarant’anni fa, le Nazioni Unite hanno sentito il bisogno di indire a Vancouver una conferenza internazionale sull'abitare per capire che cosa si può fare per soddisfare questo fondamentale bisogno umano che viene subito dopo il bisogno di cibo e di acqua e che si fa sempre più pressante a mano a mano che aumenta la popolazione dei miserabili del pianeta.
Dopo Vancouver le Nazioni Unite hanno costituito una speciale agenzia, Habitat, con sede a Nairobi, e hanno organizzato una seconda conferenza “Habitat II” a Istanbul nel 1996. La terza si terrà a Quito nell’Ecuador, nel dicembre di quest’anno. Per cancellare le migliaia di “Rosarno” del Nord e del Sud del mondo occorre un enorme sforzo internazionale: conoscitivo, prima di tutto (dove sono i senza-casa della terra, quanti sono, di che cosa hanno bisogno ?), finanziario, tecnico scientifico, politico.
Diffondere abitazioni decenti, far crescere villaggi e città umane soprattutto nei paesi poveri, è premessa indispensabile per sconfiggere i grandi mali delle società umane: violenza, sfruttamento dei bambini, prostituzione, diffusione della droga, epidemie, AIDS.
Anche nei paesi avanzati e industriali come il nostro esiste un problema di abitazioni, con drammatiche contraddizioni: ci sono abitazioni vuote, terze case abitate per pochi giorni all’anno, ci sono costruzioni belle e confortevoli e anzi di lusso, quelle che ci occhieggiano dalle riviste patinate, ci sono nuovi quartieri di case invendute, ci sono famiglie senza casa o sfrattate a cui i bassi redditi non consentono di affittare né tanto meno comprare una casa, ci sono i senza-casa.
L’industria dell’edilizia fa fatica ad avviarsi perché orientata a costruzioni adatte per un “mercato” a sua volta in crisi. Quelli che erano i grandi progetti di edilizia popolare si scontrano con la mancanza di soldi dello Stato.
E poi c’è quel miliardo di persone dei paesi poveri e poverissimi che non hanno un rifugio decente. La risposta alla loro domanda richiede tecniche completamente differenti da quelle a cui siamo abituati noi. Bisogna inventare soluzioni semplici, case costruibili con materiali esistenti sul posto, resistenti alle tempeste e all'attacco dei parassiti e dell’umidità.
La purificazione delle acque, la distribuzione di acqua di decente qualità per l'alimentazione e per usi igienici, modeste attrezzature, come gabinetti e docce, possono contribuire a fermare la diffusione di epidemie e salvare milioni di vite.
Per tante zone occorre energia; l'energia del sole e del vento, spesso abbondante nei paesi poveri e poverissimi, può essere messa al servizio dei bisogni umani: penso a piccoli generatori di elettricità, a livello di villaggio, per l'illuminazione, per i frigoriferi in cui conservare i medicinali, per sollevare, purificare e dissalare le acque, per semplici sistemi di telecomunicazioni che avvertano gli abitanti dell'avvicinarsi di tempeste e diffondano istruzione per adulti e bambini.
In questa sfida potrebbero trovare utilizzazione materiali riciclati per la costruzione di prefabbricati, e tutto questo potrebbe creare occasioni di lavoro anche per i paesi industriali. Purtroppo le università e i grandi centri di ricerca sono assenti da questa grande gara per lo sviluppo di tecnologie "appropriate", adatte al miglioramento delle condizioni dell'abitare dei poveri.
Esistono alcuni piccoli centri di sviluppo e diffusione di tali tecnologie; molte iniziative sono prese da associazioni religiose cattoliche e protestanti e di volontariato che operano nei paesi poveri e ne conoscono e fanno conoscere le richieste di abitazione e servizi igienici.
Se non si vuole ragionare in termini di solidarietà e di aiuto dei paesi poveri si consideri che il potenziale enorme “mercato” di nuove “tecnologie della solidarietà” potrebbe attrarre l’interesse di tante imprese in cerca di nuovi sbocchi.
Si parla tanto di rallentare il flusso migratorio che sta premendo dai paesi poveri e una soluzione continuamente ripetuta è quella di aiutare i poveri nei loro paesi di origine. Il primo concreto aiuto consisterebbe nell’offrirgli la possibilità di costruire sul posto, con materiali locali e con saperi locali, i beni più indispensabili, come casa, acqua, servizi igienici, energia.
Una rivoluzione della speranza che non è soltanto un'operazione caritativa: se i paesi industriali non ascolteranno la voce dei poveri saranno travolti da violenze, pressioni migratorie e sociali, conflitti, generati dal loro egoismo e che tale egoismo finiranno - giustamente - per travolgere.
L'articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno