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Lodo Meneghetti
Le Nuove Milano estranee. L’architettura servile
31 Ottobre 2004
Come gli architetti, privilegiando se stessi e tradendo città e società, contribuiscono a rendere più brutta e disumana Milano (e il mondo). Il danno provocato da chi, rivesciando Eugenio Montale, ritiene che "la parte (mia) è più importate del tutto". Una lezione magistrale del giovanissimo anziano architetto, urbanista e maestro di generazioni di architetti e urbanisti, scritta per Eddyburg il 30 ottobre 2004

L’operazione immobiliare pirelliana alla Bicocca rappresentò per la prima volta a quella scala e con quelle quantità una scelta di espansione urbana fuori di qualsiasi piano o quantomeno di un’idea di città manifestata dagli amministratori pubblici e discussa, così da comprovare che gli interessi generali degli abitanti e dei frequentatori giornalieri esigessero una vastissima urbanizzazione proprio in quel punto. Valse soltanto l’incontro fra il potere forte dell’industriale, una volta maestro di produzione / profitto capitalistici e ora disceso ben armato nel campo della rendita finanziaria / fondiaria, e il potere debole – verso i forti – di una giunta comunale priva di un sentimento elevato del progetto pubblico, dunque propensa alla subalternità. Ma oggi, di fronte all’esplosione come di shrapnel di altri progetti qua e là nel territorio milanese, l’operazione di Tronchetti Provera che potette sembrare toppo grande sotto ogni riguardo per essere ripetibile a chi non sentisse nemmeno il profumo di quanto d’altro ci fosse nel pentolone milanese messo a sobbollire sull’angolo buono del fornello, sembra appena l’introduzione di un’opera contemporanea in più atti dove molte voci cantano in coro babelico il funerale delle regole dell’urbanistica e, se è per questo e ancor peggio, dell’architettura.

Nuove Milano: estranee non solo a un’idea, a un principio di metropoli organizzata, ma a ogni legame con la città reale, con il retaggio storico, con quanto del suo spirito non è rimasto schiacciato sotto il cinquantennale andirivieni dei caterpillar; con la memoria della durevole modernità che ha contrassegnato strade e spazi: dall’eclettismo al liberty al Novecento al razionalismo, infine al neo-razionalisno degli anziani insieme all’alternativa critica proposta dalla generazione successiva. Niente di tutto questo. Un’estraneità impressionante, internazionalista e altezzosa, per giustificare la quale non basta menzionare la casualità delle occasioni fondiarie. La nozione e la verità reale di contesto, distintivo della scuola milanese, ignorata o trascurata di proposito. Se vogliamo ascoltare Dejan Sudijc sulla Biennale veneziana di architettura, Eiseman, leone d’oro alla carriera e Kurt Forster, curatore della mostra ovunque improntata dal primo, condividono il medesimo disprezzo della gente e la medesima celebrazione del sé: "vogliono proporsi come figure creative autonome avulse dalla funzionalità, dal contenuto o persino dalla costruibilità" (in Il Giornale dell’Architettura, p.6). Non so se gli architetti legati posteriormente al carro delle grandi imprese presentatrici dei progetti e delle offerte sprezzino anch’essi la gente. Certo sono dentro fino al collo, come il personaggio di Samuel Becket nel fango-merda, in quel pozzo di estraneità. Più che disprezzarla, penso, della gente se ne fregano. Come se ne infischiano del rapporto architettura società, della funzione sociale e non solo utilitaristica e/o rappresentativa dell’architettura. Come non gli interessa l’architettura accordata (sì, come uno strumento musicale) ai paesaggi, né la bellezza della campagna "resistente" soggetta al colere ( colere artes et studia, Cicerone) essa stessa fine architettura; né, in progetti urbani di ambiti vasti, la qualità vitale di luoghi dove l’urbanistica assegna all’architettura e a migliaia di alberi il compito di protagonista e deuteragonista, anche scambiando le parti, per costruire lo spazio umano.

Un breve cenno al mai sazio Tronchetti Provera che ora deborda nell’area ex-Ansaldo lungo Viale Sarca impiegando la nuova "macchina da guerra", la Pirelli Real Estate (azienda di "promozione urbanistica ed edilizia", si deve dire, richiesta da più parti. Su "la Repubblica" del 20 ottobre che dedica due pagine a colori alla fregola innalzatoria milanese, si legge solo di un grande edificio dotato del solito centro commerciale, della non meno solita multisala da diciotto schermi e di non precisate sale giochi.

Lascio da canto la Nuova Fiera di Pero-Rho, dove il geniale Fuksas sfogherà la sua sinusoide garzosa, una festa volatile all’architettura caduca, fra gli otto padiglioni piatti e sordi come piattoni e blatte.

Indugerò sulla Vecchia Fiera e su qualche altro progetto di cui si hanno informazioni da giornali , riviste e mostre, approssimative ma sufficienti per lasciar capire o intuire dove e come continuerà a volgere il cammino di Milano dopo lo shok della Bicocca.

Area della Vecchia Fiera: sogno di Albertini che cianciò, dormendo o sonnambulando per casa, di un nostro, anzi un suo personale Central Park come a N.Y. Il "concorso" (virgolette inevitabili) fu del tipo dilagante in tempi di abrogazione del confronto fra progetti autorali veri e di esaltazione del tecnicismo e dell’economicismo insieme alla svalutazione del lavoro puntuale, certosino, anti-generico, raffinato dell’architetto: figura, questa, se nota o famosa, invece utilizzata come pupazzo pubblicitario o indispensabile quinta ruotina dell’impresa d’affari e costruttrice, come è d’obbligo averla di scorta nel baule dell’automobile. È l’impresa a gareggiare, è lei a offrire il prodotto col prezzo magari "chiavi in mano", è lei, se l’affare evolve, a realizzare la costruzione (o affidarla ad altra azienda collegata) coi suoi metodi, le sue tecniche, i suoi esecutivi e particolari costruttivi, assumendo i render dell’architetto – eseguiti dai dipendenti abili al computer – quali informazioni figurative pittoriche (pittoresche). Le immagini del progetto generico, gioco di effetti al computer, visioni in prospettiva quante se ne vuole, talora barbine, un presunto vero che più falso non si può, oppure vedute dall’alto di plastico virtuale, o ancora, nel caso di volume singolo come un grattacielo in tenzone con altri per il primato d’altezza, modellino soprammobilario privo di disegno architettonico: serviranno a épater i membri della giuria o i committenti se abbastanza ingenui e/o ignoranti.

Il concorso relativo al recinto della Fiera ha sbugiardato la presunzione albertiniana confermando subito la contestazione di Sergio Brenna attraverso diverse ipotesi di forme-volumi secondo altezza, tutte dimostrative della grave scarsità di terreno destinabile a parco. Altro che Central .Park. newyorkese! Il Giornale dell’Architettura, solitamente non troppo propenso alla critica, propone nel n. 22 di ottobre una propria shortlist dei cinque progetti selezionati ed esposti alla Triennale. La classifica generale interessa meno della maglia nera assegnata ad Hadid-Isozaki-Lebeskind, i tre al servizio della cordata vincente Generali-Ligresti (nota: ormai entrato al "Corriere")-Lanaro-Grupo Lar Desarrolos Resindentiales. Tre torri di cui due focomeliche sciancate, forme insensate espressione di una specie di comica tragica in digitale detta da tre magatelli ognuno per sé. Nessun ascolto della città, nessun principio urbanistico di organizzazione dello spazio. Sapete che la giuria ha blaterato di "accadimenti architettonici che si compiacciono delle proprie differenze"?. Se fossero stati in quattro invece che in tre, avrebbero proposto altrettanti e diversissimi grattacieli?

Secondo Alain Croset, "più che emblematico di una ‘Nuova Milano’ il progetto è emblematico dell’autoreferenzialità di una parte dell’avanguardia architettonica internazionale. Nessun riguardo per le relazioni con la città esistente, quindi" ( Il Giornale dell’Architettura, p. 30).

Intanto scalpitano le altre cordate coi relativi architetti e le Nuove Milano di Montecity-Rogoredo (industrie chimiche e metallurgiche dismesse), del Portello (terreno dei vecchi capannoni dell’Alfa Romeo), di Porta Vittoria (ex scalo ferroviario), di Garibaldi-Repubblica, (uno spazio ritornato in partita dopo essere rimasto a gerbido per decenni invece che trasformato in un parco, e dopo le vicende di un concorso dimenticato) sembrano (sembrano) tutte sul punto di decollare. Ma non conosciamo quale sarà il vero assetto finale di ogni luogo poiché vediamo rappresentati o esposti qua e là solo i meta-progetti immaginosi che avranno qualche possibilità di trasformarsi in realtà somiglianti ai primi solo in vaghe linee generali, certo non nella plasticità di componenti intrinseche studiate a fondo che ora nei progetti non esistono. Immagini e modelli a parte, leggiamo elenchi di destinazioni – le solite cose – ma, risolvente per sentire la prossimità del rivolgimento urbanistico, osserviamo il movimento traboccante delle imprese, presenti sulla scena milanese ben più dei loro architetti burattini se guardiamo, da un lato, alla polpa finanziaria e fondiaria, dall’altro alla facilità di comando verso il comune. Il giovane Luigi Zunino, uno sconosciuto piemontese per i cittadini non attenti alle trame finanziarie e fondiarie e alla borsa, di mestiere "sviluppatore" si è scritto, pare lui, oggi, l’affarista sulla cresta dell’onda più alta. Le mani le ha da tempo su Montecity-Rogoredo, più esteso della Bicocca, e anche sullo scalo di Porta Vittoria. Prendiamo il primo caso. Zunino, si legge sui quotidiani, presenta il progetto, il cui disegno complessivo è stato affidato a Norman Foster. Ma quale progetto? Vediamo sui giornali una gustosa prospettiva puntillista svagante di case e alberi e leggiamo un’intervista nel cui sommario si vanta un "verde" pari a metà della superficie. Nel testo però lui stesso ci racconta di un parco di 33 ettari che, su un totale di 120, sono veramente pochi (e non sarebbero sufficienti nemmeno 60 secondo una visione progressista del rapporto fra spazi edificati o infrastrutturali e spazi esclusivamente verdi). Ma la verità e la velleità infine risiedono, appunto, in un piatto e noncurante, se così posso dire, elenco. Leggo: "…tra l’altro quasi duemila appartamenti, un centro commerciale, un parco [ah! ecco], un centro convegni e un nuovo mega-svincolo per la Paullese". E poi le complicazioni esecutive che comporteranno ribaltoni progettuali: "…la società di Zunino ha ceduto i diritti per la residenza alle Acli e alla Legacoop e il commerciale alla Esselunga. Per il resto si vedrà: manca in particolare un privato che si accolli l’onere del centro congressi" (in "la Repubblica" 20.10.2004, p. II di Milano Cronaca). Commentar non serve.

Sull’area Garibaldi-Repubblica uno schema esposto al pubblico e un elenco ci indicano che attorno al grattacielo della Regione dovrebbero sorgere la città della moda, la scuola, il museo del design, un albergo, zone residenziali… che altro?. Purtroppo quella stupida effige di più alto grattacielo d’Europa immaginato dal vecchio Ieoh Ming Pei per il fanatismo del nostro governatore Formigoni – con uno spigolo fortemente appuntito destinato, quando fosse vero, a essere sfregato e lucidato dalle dita dei visitatori come nella New Wing della National Gallery of Art realizzata dall’architetto trent’anni fa a Washington – forse riuscirà a svettare: salvo un’augurabile prossima débâcle finanziaria o d’altra natura che bloccherebbe l’erigendo all’altezza di un mozzicone ammonitore. (Intanto si è già sollevata la protesta degli abitanti e dei Verdi per l’eccessiva vicinanza delle costruzioni previste alle abitazioni esistenti…)

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