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eddyburg potrebbero aver conosciuto quasi un decennio fa il caso del restauro, (invero ricostruzione) del Castello visconteo-sforzesco di Novara in Piazza dei Martiri, una volta Vittorio Emanuele II: il grande spazio quadrato tipicamente piemontese eredità della città storica interna circondata dai bastioni spagnoli. Un restauro che in seguito definito (a mala pena) discutibile equivalse a sminuirne la violazione delle buone regole quand’anche riferibili a interpretazioni del modo di Viollet-le Duc. Ricostruzioni di corpi di fabbrica immotivate, falsità spacciate per libertà d’architettura, soprattutto l’invenzione secca di una torre di 24 metri al centro dell’edificio prospiciente la piazza (a sua volta rimaneggiato, rimpastato come fosse un avanzo di torta mordicchiata dai topi). Torre pazza, insensata con quell’altana priva di destinazione chiusa per tre lati da alti muri ciechi. Non bastò l’opposizione di Italia Nostra e di molti intellettuali. Bastò invece il favore della soprintendenza e, ovvietà scontata, di altri intellettuali fra cui architetti amici o conoscenti del progettista fiorentino (in eddyburg, 20 marzo 2008).
Di qui, per aprire un nuovo argomento (in prima persona) debbo ripensare a momenti di oltre mezzo secolo fa. Il 1956 è una data cruciale nella storia moderna di Piazza dei Martiri. Pochi possono ricordarlo, pochissimi non anziani lo sanno: allora l’insieme urbanistico e architettonico fu in gravissimo pericolo di sovversione. Una terribile violenza edilizia stava per abbattersi sul Palazzo del Mercato, l’edificio insigne, magnifico esempio di architettura neoclassica del secondo ventennio dell’Ottocento, di solito designato come Palazzo Orelli dal nome del progettista, ingegner Luigi Orelli (progetto 1816, completamento 1842). Ogni passante oggi può godere la perfezione architettonica della vasta, compatta ed elegante costruzione quadrilatera, completamente porticata, dotata di un solo piano al disopra delle arcate e di un potente stilobate atto a ripianare le differenze di quota del terreno lungo i fianchi e il lato opposto alla piazza (Corso Italia, con la doppia scalinata).
Palazzo Orelli (Palazzo del Mercato) |
Ebbene, in quell’anno l’amministrazione di sinistra appena insediata si trovò a sfogliare il progetto per il sopralzo di un piano del palazzo per l’intero quadrato: progetto voluto e approvato dagli amministratori precedenti (democrazia cristiana) e avallato in maniera definitiva dal direttore generale delle antichità e belle arti presso il ministero della pubblica istruzione, Guglielmo De Angelis d’Ossat. Sandro Bermani è il nuovo sindaco, chi scrive giovane assessore a tutto ciò che concerneva allora l’urbanistica, comprendente lavori pubblici ed edilizia privata. La battaglia per «tornare indietro» fu subito iniziata e richiese anche un difficile e non poco imbarazzante confronto romano del sindaco e dello scrivente col principe dei soprintendenti. Come si vede e spero si vedrà per sempre passeggiando nella piazza ammirando il palazzo (permettendolo la molesta presenza, alle spalle, della famosa torre nonché delle automobili), la battaglia fu vinta. Un successo insperato, giacché i rapporti di forza a livello politico nazionale parevano impedirlo.
In quello stesso anno, mentre da una parte fu assicurata la persistenza della più importante piazza della città nella sua conformazione storica, da un’altra non si potette ignorare l’esistenza, lì vicino, di quel grande spazio fra il palazzo della scuola Bellini e lo spalto del bastione spagnolo: un grande rettangolo a cui era difficilissimo attribuire un senso: squallore, incertezza di appartenenza e utilità urbana lo segnavano insieme al disinteresse dei cittadini: uno spazio di nessuno, essendo semmai sentiti come propri solo la scuola e, contiguamente, l’ospedale. Aumentare il verde della città, specialmente dotato di vaste alberature, era un obbiettivo primario del nostro programma di amministratori. Mi impegnai con massima decisione insieme a ingegneri dell’ufficio tecnico in un progetto di piantumazione integrale del Largo intitolato alla benefattrice Giuseppa Tornielli Bellini.
Pensai che non bisognava diminuirne il significato e la funzione ecologica (perché no, miglioramento della sintesi clorofilliana) inserendo altre destinazioni (sportive, ludiche, commerciali…). Il risultato doveva consistere nella nascita e crescita di un vero bosco, un «bosco urbano», locuzione che più tardi il linguaggio dell’urbanistica inserirà finalmente nel proprio vocabolario. Così si procedette rapidamente a definire la griglia dell’impianto e la scelta dell’essenza, unica e a crescita non troppo lenta, appropriata al nostro territorio e al clima padano, già applicata durante le vicende storiche novaresi. I platani trasferiti dai vivai comunali non erano alberini come bambini appena nati, ma fusti di diametro apprezzabile e di chioma fremente al venticello. Dopo oltre mezzo secolo il bosco, bello e necessario, rivendica la propria intoccabilità. Alla conclusione dei lavori mi permisi ciò che altri avranno magari (non lo so) ritenuto uno sfizio, un grillo: all’inizio dell’alberata (provenendo dalla piazza) feci piantare tre ciliegi, frutto del tipo rosso-bianco che da ragazzi chiamavamo «tabarin». Anni dopo, venuto da Milano con mia moglie in visita a parenti e ad amici, potemmo gustare i frutti maturi colti da noi.
Il bosco di Largo Tornielli Bellini |
Ora un progetto degli attuali amministratori comunali (Lega) riguarda entrambi gli spazi oggetto di questa memoria. Vorrebbero distruggere il bosco urbano per farne un parcheggio (sotterraneo o a livello non fa differenza) allo scopo (dicono) di liberare la Piazza dei Martiri dalle auto e cacciarle lì. Da quale cultura deriva una scelta così retrograda? Nessuno può dire che in tema di paesaggio urbano l'una cosa valga di più o di meno dell'altra. Piazza dei Martiri (nonostante la torre) e Largo Tornielli Bellini reso fitto di piante nel 1956 (altrettanto storico, dunque) sono entrambe costituzioni alla pari del paesaggio novarese, quasi in reciproca sequenza l'una verso l'altra. La prima va restituita ai pedoni, senza se e senza ma, secondo un programma di riconquista dell'intera parte di città all'interno dei bastioni volto al bene di cittadini e visitatori. La seconda va difesa in ogni modo, a spada tratta come a fronte di una nuova invasione delle nostre terre (novaresi e vercellesi) di barbarici Cimbri, ben conosciuti e sconfitti dalle formazioni romane guidate da Caio Mario al tempo della battaglia di Campi Raudii (vedi Sebastiano Vassalli, Terre selvagge. Campi Raudii, Rizzoli, Milano 2014).
Nota. Diverse associazioni novaresi hanno consegnato alla vicesindaco una lettera firmata da 1.206 cittadini che perora la rinuncia al progetto del parcheggio. L’iniziativa proviene da Idee di Futuro, Novaresi Attivi, Sermais, Legambiente, Italia Nostra, Pro Natura, Unione Tutela Consumatori, Comitato Spontaneo per la Tutela del Centro Storico, Comitato Territoriale Novarese Acqua, Esposti all’Amianto, Medicina Democratica.
NOTA DELL'AUTORE - 19 GIUGNO 2017
Dopo diversi anni sono passato da Novara. Brutta sorpresa: Largo Tornielli Bellini, ora, lontano e deforme parente della sistemazione 1956, durevole per qualche decennio nella configurazione originaria man mano più bella per la crescita delle piante.
Sono rimasti solo due filari di platani, naturalmente alti ma potatura che più sbagliata (e ritardata) non si può, cioè taglio progressivo dei rami bassi per ridurli come scopini per la polvere. Spariti i tre magnifici ciliegi dalla chioma fitta pendente fin quasi a terra (era stato facile per noi cogliere i frutti…). Responabili non solo una ciclopista e i soliti privilegi al traffico automobilistico: il municipio non ha mai amato questo luogo e il progetto di realizzare un parcheggio sotterraneo non è di oggi. Ad ogni modo valga la forte opposizione dei movimenti elencati (il numero di firme ha superato le 5.000), benché il personale disamoramento (a quest'età!) invogli a cacciare il ricordo nel cestino.
in cui i paesi membri delle Nazioni Unite sono invitati a firmare un trattato...(segue)
in cui i paesi membri delle Nazioni Unite sono invitati a firmare un trattato per l’eliminazione dal mondo delle armi nucleari. Circola già la bozza di un trattato che sarebbe il primo che coinvolge i paesi della Terra in una iniziativa per la liberazione del nostro pianeta dal più grave pericolo per l’umanità, il possibile uso delle armi di sterminio di massa che non siamo ancora stati capaci di vietare. La sola minaccia dell’uso e la sola esistenza delle armi nucleari sono fonti di violenza e di paura fra i popoli.
tto del nuovo aeroporto... (segue)
Queste le affermazionidi Gianfranco Ciulli, portavoce dei Comitati della Piana contrari al progetto; ineccepibilidal punto di vista dell’osservanza delle leggi, sono, nella fattispecie, tenutein non cale, non solo dai privatidirettamente interessati, ma anche da coloro che istituzionalmente dovrebberoessere garanti del loro rispetto. In un paese normale, dove vige una democraziaeffettiva, queste affermazioni avrebbero provocato un acceso dibattito politicoe meritato i titoli di testa dei giornali. Nell’Italia, sospesa tra legge elettorale,la cui approvazione dovrebbe essere seguita da nuova elezioni per dare il benservito al governo clone di Gentiloni e ipotesi di nuove alleanze salvifiche traPD e Forza Italia contro la minaccia dei lanzichenecchi grillini, anche ledenunce più documentate non rompono il muro di gomma che i politici oppongonoai cittadini. In attesa che qualcuno annunci trionfalmente che il bird-strike non costituisce un pericolo,che i piani di rischio del proponente saranno controllati dal proponente, chel’Osservatorio, cui Enrico Rossi si è autocandidato come presidente-garante,non si farà. Ciò che, dati i precedenti, della Tav nel Mugelloe di casi analoghi, potrebbe non essere un gran male.
Quanta parte dell'urbanistica moderna delle origini si riassume sostanzialmente nel progetto del «viale della Stazione»? Se andiamo a guardare... (segue)
Ma l'una cosa complementa l'altra, anche nel modello ideale, si sa che le cose vanno così perché non potrebbero andare diversamente (è accaduto per esempio a Milano nelle polemiche dell'ultimo discutibile blitz poliziesco a controllare i bighellonanti in quel «portale simbolico di ingresso alla città»). Tutto cambia, però, quando le spinte del tutto naturali che da sempre legano stazione ferroviaria ed espansione urbana non sono soggette ad alcuna gestione, ad alcun governo vagamente adeguato, ovvero quando la linea di forza socioeconomico-territoriale e identitaria, che abbiamo chiamato teoricamente «viale della stazione», riesce ad esprimersi soltanto in modo confuso, perverso, o la pubblica amministrazione si accorge troppo tardi e male del pasticcio sedimentato nel tempo.
Di fatto, attorno a quella stazione, senza una piazza, senza un viale, senza uno straccio di asse di sviluppo che tenesse in conto la barriera ferroviaria, l'edificio, le potenzialità e vincoli, tutto è cresciuto a casaccio, o se vogliamo usare sarcasticamente un termine, «a regola d'arte», come vuole il cosiddetto straccionissimo mercato, un po' speculativo un po' goffamente ignorante.
Foto dell'Autore, scattate attorno alla stazione di Pioltello-Limito oggi pomeriggio, 31 maggio 2017. Di seguito, la notizia falsa e l'attentato incendiario nella cronaca locale de Il Giorno
Pioltello (Milano), 25 maggio 2017 - Riflettori accesi su Pioltello: la città più multietnica d’Italia condannata senza appello. È bastata una frase di troppo pronunciata in una trasmissione a innescare la valanga. Tutto è iniziato con la segnalazione, andata in onda in diretta televisiva. Un pioltellese avrebbe raccontato di aver sentito alcuni cittadini stranieri esultare in un bar di Seggiano di fronte alle immagini della strage di Manchester: una frase sparata nel mucchio che rischia di generare un pericoloso clima di intolleranza. E la città è indignata.
"È partito tutto da una segnalazione razzista e il nostro bar è finito sotto torchio. È una situazione assurda. Questa mattina (ieri per chi legge, ndr) abbiamo ricevuto controlli da tutte le forze dell’ordine: sono arrivati gli agenti dell’antiterrorismo, i carabinieri e la polizia", racconta Mimmo Sidella del Marrakech Lounge Bar, il locale finito sotto accusa. "La notizia è falsa. I carabinieri hanno individuato la fonte: si tratta di un uomo che scrive sui social dei post che inneggiano al razzismo, siamo pronti a denunciarlo".
"L'altra sera ero qui dentro e posso testimoniare che non c’è stato nessun festeggiamento - dice Mimmo Sidella -. Trasmettiamo solo video e trasmissioni musicali, non telegiornali. A Seggiano convivono tante etnie e religioni diverse: se qualcuno avesse davvero esultato per la strage, gli altri stranieri gli sarebbero saltati addossi". Il clima che si respira ultimamente è pesante. Tanto che ieri mattina un gruppo di cittadini islamici ha organizzato un flash mob per la pace in via Mozart, al quartiere Satellite, dove c’è la più alta densità di musulmani.
"Non vogliamo che venga infangata l’immagine di Pioltello - racconta Ali Sajid, promotore dell’iniziativa di protesta -, non permettiamo a nessuno di provocarci con accuse false. E il dubbio che qui esista l’Isis e soltanto una provocazione. L’Islam è pace: il Corano dice che chi uccide un uomo, uccide tutto il mondo. Non si può generalizzare, chi si fa esplodere non è un vero musulmano: è un fanatico".
La gente ha voglia di normalità. "Vivevo a Manchester quando era accaduto l’attentato di Londra - continua Ali Sajid - e ricordo bene la rabbia di alcuni inglesi, avevano paura e se la prendevano con tutti noi stranieri. Qualcuno lo faceva con violenza. Non voglio ripetere quella brutta esperienza. Il rischio è di scatenare l’intolleranza. A Pioltello abbiamo due moschee, una al quartiere Satellite e l’altra a Seggiano, e non è mai accaduto nulla di strano o pericoloso. Sono controllate, abbiamo migliaia di fedeli che ogni venerdì si riuniscono per la preghiera".
Dilagante e per lo più scomposta è stata l'attenzione mediatica riservata, in questi ultimi giorni, alle sentenze con le quali il TAR ha stroncato il fiore all'occhiello della cosiddetta riforma Franceschini (segue)
Obliterato nelle iniziative del responsabile politico del Mibact, il paesaggio è invece oggetto di attenzione privilegiato di alcuni degli ultimi provvedimenti che si iscrivono nel sempreverde ambito della "semplificazione" amministrativa accoppiato, ora, al nuovo passepartout del “ce lo chiede l’Europa”. Si tratta di decreti e disegni di legge tali, nei loro effetti convergenti, da rappresentare un pericolo gravissimo per la tutela paesaggistica dell’intero territorio nazionale.
Il 26 maggio eddyburg ha pubblicato l'appello contro il ddl Falanga (ALA di Verdini) che costituisce, con il pretestuoso obiettivo della regolamentazione delle demolizioni di immobili abusivi, una sorta di condono edilizio mascherato e, per di più, dilatato sine die, essendo privo di limiti temporali.
Il ddl è costruito in modo da costituire non solo un impedimento de facto alle demolizioni, ma da diventare addirittura un incentivo a nuove costruzioni abusive, reintroducendo una distinzione fra abusivismo di necessità e abusivismo di speculazione che riporta le lancette della storia indietro di almeno mezzo secolo.
Ma la continuità con la politica del ventennio berlusconiano dei due condoni edilizi va ben oltre.
Il recente decreto legislativo (401) di modifica della Valutazione di Impatto Ambientale, ora in fase di approvazione definitiva da parte del Consiglio dei Ministri, rappresenta un tentativo di compressione radicale di questo importantissimo sistema di verifica. Con la nuova VIA, non solo le Grandi Opere, ma ogni genere di infrastruttura godrà così di una sorta di percorso protetto, in quanto alla commissione di valutazione sarà sottoposto non più il progetto definitivo, ma solo quello preventivo, in moltissimi casi profondamente diverso dal precedente. Una cambiale in bianco che, anche in questo caso, ci riporta alle berlusconiane leggi Obiettivo (2001), annullando gli effetti del nuovo Codice degli Appalti che di quelle leggi voleva essere il superamento.
Circa un anno fa stesso destino era toccato alle Soprintendenze, i cui poteri di autorizzazione paesaggistica sono stati profondamente modificati - al ribasso - nei tempi e nelle modalità, dapprima con lo SbloccaItalia e poi soprattutto attraverso la nuova disciplina delle conferenze di servizio sancita dalla legge Madia.
Nel frattempo la Camera sta discutendo la pessima riforma della legge quadro 394/91, quella sui Parchi. Il ddl Caleo rappresenta, nell’attuale versione, lo stravolgimento della filosofia di conservazione delle aree protette, quella che aveva aperto – fra gli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso – una stagione di indubitabili progressi nella difesa dei beni naturali.
E infine, il 6 aprile scorso è entrato in vigore - tramite decreto (DPR 31/2017) - il nuovo regolamento che riduce ulteriormente l'ambito di applicazione dell'autorizzazione paesaggistica per gli interventi di "lieve entità" (fra i quali parcheggi, dehors, aperture di finestre, verande, impianti di microeolico e pannelli solari, e via elencando per oltre 70 tipi di intervento). Anche in questo caso, ci troviamo di fronte alla perfetta continuità con i governi Berlusconi che, non appena emanato il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, nella versione del 2008, anziché incentivare la copianificazione paesaggistica ivi prescritta a Mibact e Regioni sulle aree tutelate, cominciarono ad eroderne l’impianto soprattutto attraverso le limitazioni alla autorizzazione paesaggistica.
Anche da questo sommario elenco risulta evidente come esista una ratio comune che ispira i provvedimenti nel loro insieme: lo smantellamento progressivo del sistema di controlli e monitoraggi sul territorio, ad ogni livello. Processo che implica, inevitabilmente, un ribaltamento delle garanzie costituzionali: come noto, Corte Costituzionale e Consiglio di Stato hanno ribadito in innumerevoli sentenze come la tutela del paesaggio sia un interesse sovraordinato ad ogni altro, e addirittura “incompatibile con ogni forma di attenuazione determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici” (CdS, sentenza n. 3652/15, con riferimenti a giurisprudenza precedente).
In questa vicenda, chiara è la responsabilità del Mibact che, oltre a concentrare le risorse solo sui grandi attrattori turistici, ha sistematicamente mancato, rispetto ai provvedimenti sopra richiamati, di esercitare il benché minimo controllo e difesa delle prerogative ministeriali, di fatto concedendo un via libera incondizionato anche a rivolgimenti istituzionali sostanziali, come l’incardinamento delle Soprintendenze coordinate, ai sensi della Madia, dai prefetti.
Vi è però un aspetto che, nell’attuale fase ministeriale, lega fra di loro valorizzazione e tutela, ed è l’invadenza della politica a scapito della competenza tecnica: come nella scelta dei direttori dei Musei o dei Parchi nazionali, così per quanto riguarda le decisioni ultime delle conferenze dei servizi, quest’ultima stagione politica proclama a piena voce una volontà di affermazione autoreferenziale che si dimostra insofferente di ogni limite e contrappeso.
Il rischio non è più solo sul piano della tutela del patrimonio e del paesaggio, ma su quello delle regole democratiche.
Riflessioni sull'attualità degli standard urbanistici a partire dalle parole di tre grandi filosofi del novecento. Intervento introduttivo dell'incontro "Gli standard urbanistici cinquant'anni dopo", organizzato dalla Scuola di eddyburg per la rassegna Leggere la città. Pistoia, 8 aprile 2017. (m.b.)
Prima di affrontare il ruolo degli standard urbanistici nella costruzione della «vita civica» – al centro di questo incontro pistoiese organizzato della Scuola di Eddyburg –, mi preme ragionare sul valore dello spazio comune: pubblico e quindi politico. Per far ciò devo riferirmi sinteticamente alle riflessioni di tre filosofe. Simone Weil, Hannah Arendt, Françoise Choay.
I fondamenti dello spazio pubblico
Nel Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano scritto durante la Seconda Guerra, e intitolato significativamente “radicamento” (L’enracinement, 1949), Simone Weil individua i bisogni fondamentali dell’essere umano, o «esigenze dell’anima». Tra di essi è la «partecipazione dei beni collettivi». E quindi la partecipazione al loro uso. La filosofa afferma, infatti, che solo «laddove esiste [...] una vita civica, ognuno si sente personalmente proprietario dei monumenti civici, dei giardini, della magnificenza esibita nelle cerimonie; e così, il lusso che quasi ogni essere umano desidera è concesso persino ai più poveri». Altra primaria «esigenza dell’anima» è l’«uguaglianza». Essa è connessa col «riconoscimento pubblico, generale, effettivo, espresso realmente dalle istituzioni e dai costumi, che a ogni essere umano è dovuta la stessa quantità di rispetto e di riguardo».Lo Stato (la collettività), scrive la Weil, «ha il dovere di fornire la soddisfazione» del «bisogno» di uguaglianza e di proprietà collettiva del bene comune. Ed è proprio il riconoscimento di tali “diritti” che consente all’essere umano di assurgere alla civile vita associata.
Qualche anno dopo, in The Human Condition (1958, trad. it. Vita activa), Hannah Arendt riconosce lo spazio pubblico come dimensione essenziale alla condizione umana, luogo della «pluralità» e «sfera di possibilità della libertà politica». La filosofa tedesca mostra dunque l’intima connessione tra agire-insieme (politico) e spazio pubblico, o «mondo comune». In un altro passaggio di Vita activa, l’autrice si sofferma sulla città-stato greca. Troviamo qui un’importante riflessione sul “dato fisico” (importante per chi come gli urbanisti si esercita, per statuto, sul mondo fisico nell’interesse pubblico): le mura della polis – ella scrive – abbracciano e proteggono uno spazio pubblico già esistente. E, poiché «le cose del mondo hanno la funzione di stabilizzare la vita umana» (p. 98), lo spazio pubblico (costruito, conformato) è condizione non solo di esistenza della sfera politica, ma anche del suo permanere e riprodursi.
La Arendt non si esime tuttavia dal rimarcare la volatilità che affligge l’agire politico e il suo contenitore spaziale. Questa volatilità ci riporta all’oggi. Lo spazio pubblico, ella scrive, è effimero poiché «sorge dall’agire-insieme, dal condividere parole e azioni» e dura finché durano queste attività. Cessate le attività – l’agire nella polis, l’«agire-insieme» (p. 145) –, cessano di esistere anche gli spazi comuni, e il loro bisogno.
Tale dolorosa prospettiva viene lenìta, in tempi più vicini a noi, dalle acquisizioni teoriche che ci derivano dagli studi di Françoise Choay. La filosofa francese si sofferma infatti sul «ruolo instauratore» dello spazio pubblico, insistendo «sul rapporto dell’architettura [e dello spazio] con l’istituzione della società», riconosciuto che la scena architettonico-urbana costituisce il «quadro fondatore della nostra quotidianità». A tale quadro costruito – lo «spazio conviviale di contatto» della città medievale; lo «spazio scenico» rinascimentale-barocco; lo «spazio della circolazione» della Parigi haussmanniana; ma non lo «spazio delle connessioni» che caratterizza il periodo in cui oggi siamo immersi – viene attribuito un valore antropogenetico: esso contribuisce cioè alla nascita e all’esistenza della società.
«È fondamentale – rimarca la filosofa – comprendere che la facoltà di parlare e la facoltà di costruire sono le due facce della stessa competenza che fa di noi degli umani: cioè la competenza di simbolizzare». Poiché dunque l’atto di edificare «possiede la stessa dimensione simbolica del linguaggio», le opere che compongono la scena cittadina sorreggono simbolicamente la vita che vi si svolge.
Attraverso l’architettura, e lo spazio pubblico che essa determina e configura, si perpetuano nel tempo le civilizzazioni; attraverso lo spazio conformato «riusciamo a memorizzare ciò che il linguaggio esprime nell’istante», ma che nel linguaggio «è evanescente». Nel sottolineare la durata nel tempo dell’architettura, la Choay ci rincuora: lo spazio edificato è capace di rendere eterni «il nostro stato di cultura e le nostre identità umane nel tempo».
Lo spazio comune (città, edifici collettivi, spazi pubblici), grazie alla sua durata, obbliga perciò al ricordo di comportamenti sociali e ha la facoltà di «promuovere un sistema di valori giuridici e morali» nel tempo. Una facoltà interpretabile in chiave antropologica: «il processo di spazializzazione come potere inerente alla specie umana», «aboli[sce] le rotture grazie alla memoria», affermando «la fedeltà della nostra specie a se stessa in un imprevedibile processo di creazione che non può essere altro che continuazione».
Di tale facoltà dà prova la riproposizione della “villa comunale” di Chiaia nelle periferie napoletane (San Giovanni-Barra, Ponticelli, Scampìa) recuperate con un piano esemplare negli anni ’80 del post-terremoto. Il parco pubblico viene in questi luoghi riprodotto con criteri di analogia rispetto all’esempio storico, quanto a dimensioni, proporzioni e magnificenza, in base alla previsione di verde pubblico da standard ex DM 1444/1968.
Lo spaesamento e la demolizione
Le tre autorità interpellate – Weil, Arendt, Choay – ci hanno accompagnato nella definizione dello spazio pubblico come luogo, simbolo e matrice, della democrazia, della costruzione civile e antropologica, dell’uguaglianza. Tuttavia, nel trentennio neoliberista, l’ideologia che ha privilegiato l’azione privata su quella pubblica ha guidato la politica sul piano inclinato verso il privatismo; e, come conseguenza socio-spaziale, ha portato a confondere luoghi pubblici e luoghi di uso pubblico ma di proprietà privata.
Prendiamo il caso estremo dei centri commerciali. I cittadini (trasformati in utenti) interpretano quali spazi “pubblici” questi luoghi che hanno invece natura privata, che sono gestiti secondo princìpi privatistici volti all’interesse economico, e improntati al securitarismo, alla chiusura, alla selezione. Luoghi dove, in termini giuridici, il privato proprietario può esercitare lo ius excludendi alios.
La piazza, l’ambiente pubblico, è invece tradizionalmente caratterizzata da apertura, gratuità, inclusione.
Tuttavia, quando nel senso comune la città o la piazza valgono un centro commerciale, tutto è confuso e messo sullo stesso piano. Lo spaesamento va di pari passo con la disaffezione dei residenti per i luoghi centrali, che vengono loro sottratti dalla mercificazione generalizzata, dall’alienazione del patrimonio pubblico e dallo svuotamento degli edifici monumentali dalle funzioni collettive. Luoghi che diventano inoltre sempre più lontani a causa dell’inefficienza del trasporto pubblico, oggi pesantemente privatizzato.
Il cittadino frequenta diffusamente le enclosures moderne – sia per le comodità offerte (sono luoghi protetti e riscaldati), sia per le maggiori occasioni di incontro –, che così diventano luoghi di aggregazione (pur restando spazi di consumo), scene mnemoniche della vita vissuta, pur restando luoghi privati, mercantili.Tuttavia è ancor più grave il movimento inverso: il recente provvedimento detto “Daspo urbano” dimostra che la figura del sindaco è stata confusa con quella del proprietario di un centro commerciale.
Ma vorrei ora arrivare al nodo del discorso: gli standard urbanistici. L’istituto degli standard non è perfetto, come avvertirono i protagonisti. E non c’è dubbio che esso non sempre ha determinato la produzione di ambienti urbani di qualità. Negli “standard” è infatti del tutto assente la questione qualitativo-architettonica e, ciò che è più rilevante dal punto di vista urbanistico, è pure assente la questione localizzativa. Per conferire agli insediamenti qualità urbana, ambientale e sociale, le attrezzature di servizio e il verde dovrebbero infatti trovar luogo all’interno degli abitati e costituire così centralità di quartiere, evitando di intaccare il suolo agricolo o di occupare aree di difficile accessibilità incrementando in tal modo il traffico automobilistico privato.
A Bologna (1969), la città storica fu ripartita in aree dal raggio di 4-500 metri in cui furono verificate le carenze e le concentrazioni eccessive di servizi (asilo nido, scuola materna, scuola dell’obbligo, scuola superiore, assistenza, commercio, verde di quartiere etc.) e recuperati quelli necessari. Altro esempio storico può essere indicato negli arrondissements haussmanniani.
Analogamente, per la conurbazione urbana potrebbe essere applicata una suddivisione che discenda dalle ripartizioni storiche (perimetro del territorio delle parrocchie, delle Comunità da catasto storico, dei territori comunali antecendenti agli accorpamenti fascisti etc.): tale suddivisione renderebbe evidenti gli ambiti in cui localizzare attrezzature e verde pubblico da standard.
Comunque sia, stanti i difetti sopra accennati, il dispositivo previsto dal 1444/1968 rappresenta ancora, ad oggi, in quanto garanzia di universale accesso ai servizi, una valida soluzione alla domanda di:
- uguaglianza sociale (nella geografia peninsulare);
- costruzione permanente di democrazia;
- pari opportunità;
- mobilità sociale;
- benessere psicofisico.
E sarebbe perciò un istituto da difendere, da migliorare e da incrementare. Sarebbe. Uso il condizionale perché la deformazione della normativa urbanistica ed edilizia sta togliendo il terreno sotto i piedi a questa “postura” disciplinare. Vediamo, brevemente, alcune tappe della demolizione di tale fondamento della pianificazione urbanistica di segno “progressista” e quindi dell’assetto democratico del nostro mestiere, che sempre più dimentica il suo statuto sociale:
- DdL “Principi in materia di governo del territorio” detto DdL Lupi (approvato alla Camera dei Deputati il 28 giugno 2005). Scrivevano, in un pamphlet pubblicato nell’occasione, Alberto Magnaghi e Anna Marson: «La nuova legge prevede l’eliminazione degli standard urbanistici minimi finora vigenti, affidando la garanzia della “dotazione necessaria di attrezzature e servizi pubblici” (art. 7, comma 1) a “criteri prestazionali” non ulteriormente specificati, in relazione a un “livello minimo dell’offerta dei servizi” non meglio definito [...]. L’unico punto specificato è la possibilità che i servizi pubblici vengano garantiti anche con il concorso dei soggetti privati, mentre la definizione dei criteri del dimensionamento è affidata alle singole regioni»;
- la legge di attuazione (L 98/2013) del cosiddetto “decreto del fare” (L 69/2013), che va a modificare il Testo unico dell’edilizia (L 380/2001) a cui è aggiunto l’art. 2-bis (Deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati): «1. Ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali»;
- la bozza di riforma della legge urbanistica a firma del ministro Maurizio Lupi (2014), mai approdata in Parlamento a causa di uno scandalo che coinvolse l’estensore del progetto legislativo;
- il disegno di legge regionale «sulla tutela e l’uso del territorio» dell’Emilia Romagna, approvato in Giunta nel febbraio 2017, che introduce gli standard “differenziati”. Un ossimoro: standard è una norma, un modello uniforme di riferimento; differenziato significa «distinto a seguito di una funzionale discriminazione» (Devoto Oli).
Il DdL ER dispone una raffica di deroghe per molteplici casi e categorie di intervento; prevede diffusamente la monetizzazione degli standard e persino il loro azzeramento. Richiamo la vostra attenzione su questo punto: all’art. 9 del DdL è sancito che nei settori urbani caratterizzati «da un’elevata accessibilità sostenibile», il PUG (Piano Urbanistico Generale) può disciplinare la realizzazione di interventi di rigenerazione urbana che «escludano o riducano» l’utilizzo delle autovetture private e che saranno perciò «esentati dall’obbligo del reperimento di spazi per parcheggi pubblici e pertinenziali». È sufficiente che le convezioni che normano l’accordo riportino l’assunzione dell’«impegno [da parte] dell’operatore e dei suoi aventi causa a rispettare le limitazioni all’uso di autovetture» (art. 9, comma 1, lett. e). Insomma: se il costruttore promette che non ci saranno automobili, non c’è più bisogno dei parcheggi! Basta la parola.
Alternative in atto e in potenza
Credo che gli spazi pubblici possano (debbano?) avere, oggi, una parte importante nella costruzione di una società inclusiva.
La delibera per l’ex Filangieri a Napoli è una possibilità concreta, da estendere alle altre città italiane. La delibera fa leva sulla categoria giuridica di “bene comune” e riconosce ad alcune esperienze di riappropriazione in autogestione di edifici dismessi il «valore sociale di ambienti di sviluppo civico», e come tali le ritiene strategiche.
È una soluzione che non risolve il difetto di fondo, ossia che, nel caso specifico, il «valore sociale di ambienti di sviluppo civico» si fonda su atti di volontà non retribuiti, di singoli o di soggetti collettivi informali che forniscono in autonomia servizi di “welfare dal basso”. Tuttavia la delibera, formalizzando legalmente attività sociali e di servizio all’abitare in essere, porta alla luce e sancisce la necessità dell’esistenza stessa di pratiche di vita aggregata ulteriori rispetto alle attuali, evidentemente insufficienti.
Nel quadro attuale, la soluzione napoletana costituisce una boccata d’ossigeno. Sulla quale sarebbe necessario elaborare una strategia valida per l’intera penisola.
La colossale operazione di svendita del patrimonio pubblico in atto rischia di vanificare un’importante occasione per dar vita ad alternative d’uso risolutive dei mali che affliggono le città, occasione che proprio la consistenza (quantitativa e qualitativa) di tale patrimonio fornirebbe. Com’è noto, nelle alienazioni giocano un ruolo di primo piano, da una parte l’Agenzia del Demanio ridotta a società per azioni, dall’altra una Cassa Depositi e Prestiti privatizzata, nonché le relative agenzie che pongono in vendita i beni pubblici con «modalità organizzative e strumenti operativi di tipo privatistico». La natura puramente economica degli attori e delle scelte distrae l’attenzione dalla natura viceversa schiettamente urbana delle ricadute della colossale mercantilizzazione in cui le città sono coinvolte. Le ricadute mutilano il progetto urbano e urbanistico, poiché sottraggono agli urbanisti, e alle comunità, il fondamento materiale del progetto: proprio quei “contenitori” che giocherebbero un ruolo fondativo nella riconfigurazione dell’habitat urbano.
Gli edifici in vendita hanno infatti – nella grande maggioranza – una posizione centrale o sono situati nella città consolidata, hanno spesso qualità monumentali e rappresenterebbero perciò una risorsa importante per restituire all’uso della cittadinanza gli edifici che sono stati luogo del potere e dei soprusi: il palazzo, la caserma, il carcere, il manicomio.
Restituire disponibilità e funzioni collettive ai contenitori intra moenia evita l’espansione e la dispersione nelle campagne, contribuisce realmente a bloccare il consumo di suolo. Contribuisce infine a restituire ai quartieri centrali quel carattere di promiscuità d’usi, che è il primo presidio contro la mercificazione e la desertificazione degli spazi urbani.
Potete scaricare qui il testo in formato pdf, con l'impaginazione corretta e con le note a piè di pagina, dove trovate i riferimenti ai testi citati e i collegamenti ai siti.
L'intervento di Ilaria Agostini ha aperto l'incontro sugli standard urbanistici, organizzato a Pistoia a conclusione della sessione della scuola di eddyburg dedicata alle strutture culturali come servizio essenziale per una società solidale e multiculturale. All'incontro hanno partecipato Ilaria Boniburini, Mauro Baioni e Edoardo Salzano. Sul sito della scuola sono pubblicati il programma della scuola e presto saranno disponibili i documenti e le presentazioni. Vi consigliamo di guardare la bellissima video-intervista a Edoardo Salzano, registrata a Pistoia il giorno precedente da Andrea Pantaleo.
Da sinistra Ilaria Boniburini, Ilaria Agostini, Mauro Baioni, Edoardo Salzano |
Edoardo Salzano e Mauro Baioni (questa foto e la precedente sono scattate da Paolo Dignatici) |
Virtuosa, la Regione Toscana; però solo sulla carta, perché spesso si dimentica delle proprie leggi e gestisce in modo opaco le politiche del territorio. L’opacità decisionale, figlia della discrezionalità delle scelte politiche, è una minaccia alla democrazia reale. Tra le varie forme di opacità vi è anche quella di non rispondere alle domande dei cittadini su questioni cruciali: ad esempio con quali criteri venga accertata la conformità dei nuovi piani strutturali - quello di Lucca è il più importante - al Piano paesaggistico e alle leggi. Proprio su questo punto la Regione ancora non risponde alle associazioni ambientaliste – Fai, Italia Nostra, Legambiente, Rete dei Comitati, WWF – che già nel settembre del 2016 avevano rivolto al Garante dell’informazione della Regione un quesito su un punto critico riguardante l’applicazione della legge di governo del territorio.
I lettori di eddyburg sanno bene che tra i molti meriti (e taluni compromessi) della LR 65/2014, forse il più importante è avere introdotto la distinzione tra territorio urbanizzato e non. All’interno del primo, sono consentite le trasformazioni che comportano impegno di suolo non edificato a fini insediativi o infrastrutturali; all’esterno non possono essere previsti insediamenti residenziali e ogni nuovo consumo di suolo deve essere approvato da una Conferenza di copianificazione cui partecipano la Regione e gli enti locali interessati. Il quesito delle associazioni era motivato dal fatto che il Piano strutturale di Lucca (allora adottato, ora approvato) prevedeva cospicui insediamenti industriali al di fuori del limite urbano senza che la precedente Conferenza di copianificazione ne avesse disposto il dimensionamento. L’omissione deriva, tuttora, da una lettura capziosa della legge; ci si basa su un’omissione della voce “dimensionamento” nell’art. 25 e non su un’interpretazione complessiva della “ratio” della legge e, in fin de conti, sul buon senso. Che senso può avere una prassi – il caso di Lucca vale per tutti i Comuni – in cui Regione, Provincia e Comune si mettano d’accordo sulle destinazioni e le caratteristiche degli insediamenti extraurbani senza stabilirne né dimensioni, né carico urbanistico? Un accordo in cui mancherebbe la parte essenziale, l’entità dell’intervento e la quantità di nuovo territorio urbanizzato - come se un’area produttiva di dieci ettari fosse quantitativamente e qualitativamente uguale a una di cento. Lecito perciò chiedersi quale prassi segua la Regione Toscana nell’interpretazione della legge e se non ritenga illogico che in Conferenza di copianificazione, il parere – favorevole o meno – sull’impegno di suolo non edificato possa essere espresso in assenza dei dati quantitativi, lasciati successivamente alla discrezione del Comune, uno solo dei contrenti.
Al primo quesito il Garante risponde, incredibilmente, che la questione non è di sua competenza; al quesito, reiterato nel febbraio 2017 e rivolto anche all’Assessore all’Urbanistica, Vincenzo Ceccarelli, il Garante risponde di avere trasmesso la domanda all’ing. Aldo Ianniello, dirigente del settore Pianificazione del territorio; ma anche Ianniello non risponde. Stante il perdurante silenzio, in aprile, la stessa domanda viene rivolta al Presidente Enrico Rossi, con la richiesta di chiarire a livello regolamentare la corretta interpretazione della legge. Tutto finora tace sul fronte tecnico e politico.
L’atteggiamento delle istituzioni regionali nei riguardi dei cittadini, che alla fine può suonare sprezzante, il fatto di non sentire la responsabilità istituzionale di rispondere a un quesito decisivo per una corretta applicazione della legge è incomprensibile da un punto di politico. Il Presidente della Regione Toscana, in passato, ha mostrato attenzione alle richieste che venivano dal basso e le buone leggi, anche se poco o non applicate, sono sue leggi; si può capire che in questi giorni sia impegnato su un fronte nazionale di particolare complessità e per tali ragioni non abbia ancora preso in esame la domanda delle associazioni; dovrebbe, tuttavia, essere consapevole che la democrazia si basa essenzialmente sulla trasparenza delle istituzioni e che il muro di gomma è il tratto più tipico della peggiore destra. È vero che in un quadro nazionale in cui vi è un premier eterodiretto e un governo ultra debole, in cui le lobby e le clientele scatenate dettano leggi e decreti legislativi (si veda il depotenziamento della Via o il condono edilizio preventivo e permanente degli abusi edilizi), la questione può apparire poca cosa; ma ha, invece, un significato politico non trascurabile per chi crede ancora che la trasparenza delle istituzioni sia un importante valore democratico e, se proprio lo vogliamo dire, di sinistra.
... (segue)
è il cardine del programma che il sindaco Luigi Brugnaro sta portando a compimento con il plauso delle categorie economiche, in gran parte esentasse, che più se ne avvantaggiano. Da un lato, così, la pubblica amministrazione, che si vanta di aver appena chiuso la moschea ospitata in un edificio di proprietà della comunità musulmana, è impegnata nella eliminazione delle mense per i poveri, nell’adozione di misure speciali contro i mendicanti “aggressivi” e nella spietata demolizione dei rifugi dei senza tetto; dall’altro moltiplica i favori alla cosiddetta industria del turismo e regala sostanziosi incentivi agli sviluppatori immobiliari che stanno distruggendo il territorio lagunare.
Di questa situazione si trova conferma nelle notizie di ogni giorno, ma è con l’inaugurazione della Biennale, che quest’anno rimarrà aperta quasi sette mesi, e lo sbarco delle sue truppe di occupazione, che la città oscena si esibisce nel suoi aspetti più laidi, tra i quali vanno citati, almeno, il padiglione Venezia, le installazioni che invadono e deturpano gli ormai residuali spazi pubblici, inclusa l’acqua del canal Grande, le cene al museo delle grandi firme della moda.
1. Luxus è l’inequivocabile titolo del padiglione che, secondo il sindaco, “rappresenta Venezia e il cuore dei suoi cittadini”. Al suo interno elefanti di cartapesta argentata e sandali rinchiusi in una teca assieme a un pitone (vero) si mischiano a sfilate di boccette di profumo e a lampadari, tra cui uno prodotto dall’azienda vetraria Abate Zanetti, un tempo pubblica ed ora di proprietà di una società dello stesso sindaco.
Il palese conflitto di interessi e l’assenza di artigiani veneziani - l’unico è Giovanni Giusto, capogruppo della Lega in consiglio comunale - hanno suscitato numerose reazioni negative. Ad esempio, il presidente del consorzio Promovetro ha detto: «il padiglione è veramente imbarazzante e danneggia oggettivamente l’immagine dell’artigianato veneziano di qualità che non rappresenta minimamente».
Il sindaco, però, è molto soddisfatto, perché «così si promuove il made in Italy» ed inoltre, il padiglione e «le iniziative dei privati possono corroborare a rafforzare la Biennale, la cui ricchezza per la città è fuori di ogni discussione. Possiamo diffonderla in tutto il centro insulare e a Mestre. Diffondere la Biennale in tutto il territorio è il nostro vero obiettivo».
Concetti simili sono stati ribaditi dal ministro Franceschini, che ha anche colto l’occasione per esprimere la sua contrarietà all’introduzione di limiti all’accesso di turisti. Anzi, ha sottolineato, «questa Biennale avrà grandi numeri e l’Italia deve esserne orgogliosa». Parole mielate per le orecchie del sindaco, i cui collaboratori stanno predisponendo un “libretto di istruzioni” su come visitare Venezia, che comprende “norme sull’abbigliamento”.
2. Non si sa quando tale libretto (pagato con le tasse dei residenti) manifesterà i suoi prodigiosi effetti, ma i grandi numeri auspicati da Brugnaro e Franceschini sembrano un obiettivo già raggiunto.
La stampa locale parla di un “business certamente non inferiore ai trenta milioni di euro, senza contare l’indotto per alberghi, ristoranti e affittanze turistiche” e la mappa con le location della Biennale indica una ulteriore espansione delle posizioni conquistate: chiese, palazzi, magazzini, nonché suolo pubblico e l’acqua, assimilata a plateatico gratuito o usata come basamento su cui collocare grandi oggetti che servono da sfondo ai selfie dei turisti.
Delle due installazioni che gli addetti ai lavori segnalano come “imperdibili”, una consiste in due enormi mani, alte nove metri che sbucano dal canal Grande davanti all’hotel ca' Sagredo a santa Sofia. L’opera inaugurata dal sindaco, che ha concesso il patrocinio del comune, si chiama Support ed è «particolarmente significativa perché da sempre i privati sono quelli che supportano e portano avanti la città. L’idea della sussidiarietà è proprio questa. Iniziative come questa valorizzano Venezia, e soprattutto suscitano l’orgoglio di chi la abita».
Forse il sindaco non è al corrente del curriculum dei recenti proprietari dell’albergo, comprato nel 2008 da Giuseppe Malaspina, un imprenditore calabrese dai trascorsi interessanti. Emigrato in Brianza, nel 1981 era stato condannato per omicidio e poi tornato in libertà, dopo cinque anni, era diventato immobiliarista. In un’intervista del 2008 si era dichiarato interessato a “progetti ambiziosi sulla fascia del turismo di lusso e pronto a valutare altri investimenti nella città lagunare”. Qualcosa, però, non deve aver funzionato, tant’è che, nel 2015, Malaspina risulta indagato per bancarotta fraudolenta ed ora tutte le sue società sono state sciolte.
Al momento la situazione di Cà Sagredo è incerta (donde la ricerca di support?). Si sa solo che, proprio in questi giorni, trattative per la sua gestione sono in corso tra Hilton e Marseglia, una società pugliese “leader mondiale nella lavorazione e nella commercializzazione degli oli vegetali”, che ha diversificato i propri investimenti nei settori immobiliare, turistico e finanziario e che a Venezia ha di recente già acquisito l’Hilton Stucky alla Giudecca.
L’altra installazione è golden tower in campo san Vio, il cui autore per quarant’anni ha sognato di realizzare «un monumento dorato più alto del faro di Alessandria che rappresentasse l'unificazione dell'umanità protesa verso il cielo«. “ Venti metri d’oro da instagrammare al volo!” è la sintetica e appropriata definizione che ne dà un corrispondente delle cronache culturali.
3. Mentre le grandi folle fanno la coda per fotografarsi davanti a queste opere “iconiche”, i padroni, che come è noto hanno buon gusto, preferiscono cenare all’interno di musei veri. L’inserto Cultura (?) del Corriere della Sera dà conto della «lunga gara tra i marchi della moda: Fendi, quest’anno sponsor principale della Biennale (scuola grande di san Rocco), Bulgari (gallerie dell’Accademia), Dolce & Gabbana (palazzo Ducale), Vuitton (museo Correr), Prada a ca’ Corner della Regina e Swatch alla Guggenheim collection» e commenta compiaciuto «ce ne vorrebbe una ogni tre mesi, a Venezia, di settimane così».
Se i dettagli delle cene con l’arte sono ampiamente descritti in tutti i giornali, l’inviata di Vogue è rimasta particolarmente affascinata dallo «spettacolare dinner nella sala Capitolare della scuola grande di san Rocco dove i tavoli di specchio permettevano una immersione totale nell’opera sublime di Tintoretto. Come dire: arte a tutto tondo».
Ma certamente la festa più vistosa è stata quella di Pinault, che ha occupato il sagrato della chiesa di san Giorgio con centinaia di piante di limoni per accogliere al ritmo dei tamburi i suoi mille e trecento invitati. Come racconta ammirata la cronista del Corriere del Veneto, la padrona di casa (da quando san Giorgio è sua?) ha accolto gli ospiti «nei saloni senza tempo della fondazione Cini, con un lusso ostentato nell’addobbo dei tavoli e con il gusto tutto italiano di disporre le quattro mila ostriche, arrivate da Parigi con due camion frigoriferi». La cronista non dice se i suddetti camion hanno poi riportato indietro i gusci delle ostriche o se il mecenate ce li ha regalati.
Comunque, invece di entusiasmarsi di fronte alle volgari manifestazioni di pacchianeria dalle quali siamo circondati, i veneziani non dovrebbero dimenticare che pochi giorni fa un gruppo di bambini è stato multato dai vigili urbani per aver montato un tavolino in un campo in occasione di una “piccola” festa di compleanno. E soprattutto dovrebbero capire che più che l’entità della sanzione pecuniaria, conta il forte e intenzionale messaggio educativo di tale punizione, con la quale le autorità hanno detto ai nostri bambini (i pochi che ancora ci sono) che lo spazio pubblico, per loro, non c’è più.
4. Il clamore pubblicitario che la stampa di complemento ha suscitato attorno al via vai di bella gente che in questa settimana si è esibito durante i riti inaugurali della Biennale - per consegnare i leoni d’oro è appositamente calata da Roma Maria Elena Boschi - è di tale intensità che rischia di distogliere l’attenzione dai grandi affari che alcuni degli sponsor /mecenati stanno perfezionando in laguna.
A questo proposito va ricordato che uno degli sponsor della Biennale 2017 è Coima sgr, società di gestione patrimoniale di fondi di investimento immobiliare per conto di investitori istituzionali italiani e internazionali, che il 9 maggio ha finalizzato gli accordi con il partner britannico London & Regional Properties per la costituzione di un nuovo fondo denominato "Lido di Venezia II" (il "Fondo") a cui è stato apportato il portafoglio alberghiero composto dall'Hotel Excelsior, dall'Hotel Des Bains, da Palazzo Marconi, dalle concessioni sulle spiagge e dai beni ancillari (non meglio definiti) dei due alberghi.
Secondo Manfredi Catella, fondatore e amministratore delegato di Coima «l'accordo rappresenta un primo risultato determinante nell'avvio della riqualificazione del Lido di Venezia, in collaborazione con le istituzioni cittadine e con la comunità, al fine di comporre un progetto turistico culturale che possa affermare la capacità italiana delle istituzioni ed imprenditoriale e contribuire alla competitività del Paese. La rigenerazione del Lido di Venezia può rappresentare un importante progetto pilota nel turismo per l'Italia». Catella non menziona altre iniziative, ma contemporaneamente a questo annuncio sono riprese a circolare voci circa la rinnovata pretesa degli investitori immobiliari di costruire un porto marina nel compendio dell’ospedale al mare e di ulteriori interventi di riqualificazione dell’isola.
In attesa che i relativi progetti vengano esposti l’anno prossimo, quando la Biennale non sarà dedicata all’arte bensì all’architettura, non ci resta che goderci quella che il Sole 24 ore definisce «una mostra ispirata al neo- umanesimo».
(segue)
Un giornalista di vero talento, Alberto Statera, inventò per Cagliari un definizione eterna. La chiamò città delle tre Emme. Massoneria, Medici e Mattone. Logge, ospedali e imprese formicolanodi figli della vedova.
Invece, un medico massone che riuniva in sé le tre Emme, in disaccordo con la definizione di Statera, affermò che Cagliari era la città del sole, del mare e dei fenicotteri. E ha avuto ragione perché oggi i fenicotteri sono molto più numerosi dei massoni, dei medici e dei costruttori. Dice Vincenzo Tiana, parroco dello stagno di Molentargius e ostetrico dei fenicotteri, che l’ultimo censimento conta quarantamila esemplari adulti e diecimila pulli. Insomma, anche contando i pulli di medici e massoni, oggi stravincono i fenicotteri.
Che la città nuova abbia la forma di oggi è anche demerito loro, nel senso che la forma illogica dei nuovi quartieri, delle periferie e dell’hinterland è stata in parte decisa dalle Emme che dal dopoguerra in poi hanno inciso profondamente nel governo dei luoghi. La saldatura delle tre Emme con i governi che si succedevano è difficile da mettere in discussione e la definizione di Statera non è mai stata “smontata”.
Insomma, si è affermato un sentire massonico fondato sull’appartenenza, su una visione iniziatica del gruppo, sul riconoscimento tra simili, sul “è dei nostri”, sul “gli parlo”, un sentimento talmente infiltrante che pochi possono affermare di esserne esenti. Un sentire, oltretutto, prevalentemente maschile, da spogliatoio dopo calcetto, dove i maschi si incontrano a parlare di roba da maschi. Il collante è nella tendenza alla confraternita, alla congregazione, sino alla setta. L’esigenza tranquillizzante di appartenere a qualche comunità.
Quando nel rapporto non è importante l’argomento discusso, l’oggetto del ragionare – comunemente chiamato il merito dei fatti – allora diventa fondamentale, appunto, l’appartenenza a un gruppo, a una rete. Ci si riconosce come esemplari della medesima specie attraverso segni, riti e princìpi che precedono la sostanza, il significato delle cose e perfino l’uso della ragione.
Affiliazione, dunque. Non ragionamento. Prima di tutto riconoscimento.
Una roba ancestrale, istintiva. E’ il paleo-cervello, quello delle emozioni, che entra in gioco. L’opposto della relazione, forma evoluta dei rapporti sociali, attività della corteccia cerebrale. La relazione si sostiene attraverso il ragionamento, senza forme preconcette di accettazione. Quest’anima massonica è ubiquitaria e può manifestarsi in ogni forma associativa, nei partiti, nelle sette religiose, nei circoli, in ogni confraternita.
Ha causato e causa danno nella gradazione del progresso sociale. Lo blocca, lo mummifica, lo priva di una reale parità, di dinamismo, di complessità, amputa la democrazia vera perché crea di fatto un’oligarchia molesta, fondata, lo ripetiamo, sull’affiliazione.
Però la speranza che la capacità di stabilire relazioni prevalga sul sentimento di appartenenza è ancora viva. E molti, tra mille difficoltà e nonostante l’intreccio tra affiliati di ogni risma, riescono mantenere il filo della relazione libera, fondata su ragionamento e critica. Sarà un processo lento, un’emancipazione faticosa, ma un giorno, finalmente, potremo vedere nel cielo della nostra città solo stormi di fenicotteri.
Due sembianti della città appaiono chiari solo casualmente ai milanesi (per quanti ne esistano ancora e ricordino le vicende sociali). Come due linee parallele che man mano allungano il proprio tracciato mentre il tempo trascorre, quindi non spariscono mai, anzi seguono la logica dell’accumulo e diventano linee di forza, la mafia (in Lombardia specialmente ‘ndrangheta) e il fascismo-nazismo coltivano la propria distinzione. Come le parallele non si incontrano né si scontrano, benché lo si sarebbe potuto immaginare pensando a storie di mafia e di fascismo del meridione [1]. La prima occupa un largo spazio del capoluogo e tanti altri spazi nella regione, come fosse ormai canonizzata per due motivi: legittima appartenenza a diversi settori economici, quelli in cui è diventata «grande azienda» attraverso una lunga esperienza spesso sanguinosa in Calabria e in Sicilia; partecipazione al dialogo politico-sociale, se così possiamo esprimerci. Il secondo, fenomeno minore al confronto solo per dimensione corporea ma preciso e puntuto, è capace di strascicarsi dentro le mille fenditure nel cretto di una società che perde coesione, che tende, appunto, a fratturarsi come una terra condannata da molto tempo alla siccità.
1. Un procuratore milanese conoscitore dei fatti e misfatti mafiosi per aver lavorato oltre un decennio nella Direzione distrettuale antimafia (Dda), ci dimostrò in un convegno di cui cade ora il decennale che ‘ndrangheta, mafia e consimili diventavano preminenti possessori nella nostra città di interi settori economici o di una loro grossa parte [2]. Dell’edilizia si sapeva, nel Sud il comando sull’intero ciclo produttivo dal terreno all’edificio era già un dato storico. Nulla si erano vietati i clan per liberarsi di qualsiasi ostacolo, assassinio compreso. Nell’esportazione al Nord della potenza imprenditrice non occorrerà più uccidere per conquistare il mercato, semmai basteranno intimidazioni mediante danneggiamento o incendio ai cantieri. E si approfitterà intensamente della tipica condizione esecutiva nel settore delle costruzioni che al temine delle procedure essenziali si sedimenta nella pacchia dei subappalti. Ah.. l’Expo!
Ancora un magistrato ha letto un elenco di comuni lombardi nei quali mafia o ‘ndrangheta rappresentano forze determinanti dell’economia e dei rapporti sociali. Città e paesi, per prima Milano, (non si poteva dubitare…), ma ci sono Varese e Como e Lecco e Monza e Busto Arsizio e molta Brianza e comuni popolosi. D’altronde la Regione conosce i Consigli comunali sciolti per mafia. Le pagine locali dei quotidiani rappresentano la Lombardia come una metafora perfetta della ramificazione della ‘ndrangheta in tutto il settentrione. La questura milanese (la squadra mobile) possiede una mappa - pubblicata dai giornali - che mostra i centri appena importanti fra il capoluogo (compreso) e il confine svizzero «colonizzati».
2. Disattenzione, parola chiave. Disattenzione di prefettura, questura, Comune di Milano, polizia locale, consigli dei municipi, associazioni, cittadini. Non si era ancora spenta la risonanza di un 25 aprile popolare trascorso col successo delle manifestazioni e, finalmente dopo diversi anni, col divieto del prefetto (una gentile signora) alle formazioni fasciste-naziste contrassegnate da varie sigle di entrare in corteo nel cimitero Maggiore di Milano, a Musocco, e commemorare alla loro maniera con atti apologetici i soldati della Rsi sepolti al campo 10, quando, il giorno 29, scatta la disattenzione.
Le dimostrazioni (e di più) vietate il 25 accadono in forma massiccia ed esaltata quattro giorni dopo. Il raggruppamento dei tanti movimenti fascisti, neofascisti, neonazisti, nazionalsocialisti, razzisti, (non meno di 1000 militanti, forse 2000?) aveva preparato in segreto la doppia beffarda provocazione: la parata e la celebrazione con i perfetti riti-reato (in primis gli spropositati saluti col braccio alzato) al Musocco, la rievocazione in piazzale Ss. Nereo e Achilleo del camerata Sergio Ramelli ucciso nel 1975 appunto il 29 aprile. Centrati così due obiettivi: «il primo è una prova “muscolare”, beffare lo stato aggirando il divieto della prefettura… Il secondo è strategico: offrire una rappresentazione plastica - visibilissima - dell'attuale compattezza del blocco nero» [4].
Quanto più le numerose formazioni di estrema destra troveranno ragioni per unirsi, tanto più dovremmo preoccuparci per la loro capacità di attrazione in tempo di crisi economica accompagnata da scomposizione sociale e deprivazione della politica di sinistra. Questo nuovo fascio-nazismo sembra più forte del neofascismo degli anni Settanta, anche nei riferimenti culturali che i meno rozzi militanti riescono a sbandierare. Inoltre potrebbe sviluppare una propensione (magari con tattica mistificante) ad alleanze con partiti e movimenti di una destra non propriamente fascista attorno a principi e pratiche effettive di nazionalismo oltranzista, razzismo, odio verso l’immigrato, omofobia, decontaminazione etnica (per esempio Lega, Fratelli d’Italia, pezzi di altri partiti, varie formazioni locali).
Per attrarre i giovani, in parte almeno diplomati della scuola superiore, rivendicare certi presupposti culturali e certi autori-personaggi è il meno che possiamo attenderci quando già abbiamo sentito vantare più volte quali guide magistrali un Julius Evola o un Ezra Pound, entrambi ammiratori di Mussolini ma diversi fra loro. Il primo, innegabile peggior «pedagogo» giacché col suo orientalismo, misticismo, esoterismo, ascetismo, spiritualismo e alchimismo offrì al fascismo ciò di cui aveva bisogno, in sintesi: ogni forma di irrazionalismo per sorreggere e rendere suggestiva la propria brutalità: mito del sangue, della razza, dell’élite spirituale, della sacralità del capo, della fedeltà ai principi eterni lo raffigurano chiaramente. Il secondo, abbagliato da un’Italia fascista creduta acerrima nemica di banchieri, usurai, speculatori, burocrati del capitale, giornalisti servitori del potere finanziario, quando la sua furiosa indignazione avrebbe dovuto indirizzarsi proprio contro un regime completamente asservito al potere capitalistico. Come fosse cieco, il poeta ha creato da sé il proprio inganno e i neo fascio-nazisti che ne fanno un loro eroe scelgono un uomo che illustrava un fascismo inesistente.
Tutto l’armamentario culturalista sfruttato cominciando al principio del Novecento lo potranno sfoltire puntando sull’italianità, accantonando i Drieu La Rochelle, i Charles Maurras, i Louis-Ferdinand Céline (quello «troppo» antisemita di Bagatelles pour un massacre), non un Knut Hamsun, collaborazionista del regime di Quinsling durante l’occupazione nazista della Norvegia e per questo processato, ma premio Nobel del 1920, narratore dall’immaginazione «neoromantica», mistico e visionario. Secondo Claudio Magris «anarchico di destra che sceglie di vivere rifiutandosi di scorgere qualsiasi orizzonte di valori al di là della vita stessa e scoprendo perciò […] l’assoluta irrazionalità dell’esistenza, anche se mitigò [nei romanzi] tale vitalismo con una gentile e perduta poesia delle lontananze» [5]. Resteranno così i maestri nostrani del nazionalismo e, alcuni, del sovversivismo, grani di un rosario contando dai primi tre precursori, Giovanni Pascoli elegiaco bellicista (giustificò la guerra imperialista d’Etiopia con la teoria del «posto al sole), Gabriele d’Annunzio e Filippo Tommaso Marinetti (signori di lettere e arti d’epoca). Poi Giovanni Papini (la violenza necessaria…) e forse il Giuseppe Prezzolini studioso dei mistici tedeschi (per il resto, attivissimo e colto pubblicista, interventista e spettatore davanti al fascismo); e il rosario sgrana nomi su nomi mentre vige la mediocrità (salvo eccezioni!) del «ritorno all’ordine» fino a sciogliersi nel disastro della guerra finché l’ultimo granello disperso recherà il segno di Alessandro Pavolini, scrittore e giornalista, squadrista d’antan, ministro della cultura nel regno, fondatore delle brigate nere, segretario del partito fascista nella Rsi (Repubblica sociale italiana, 23 settembre 1943 – 25 aprile 1945). Fucilato a Dongo il 28 aprile 1945.
[1] I rapporti mafia-fascismo erano evidenti sia prima che dopo l’8 settembre 1943: mafia, fascisti e istituzioni collaborarono secondo una logica repressiva dei movimenti socialisti, comunisti e anarco-rivoluzionari che si stavano affermando in Sicilia. È la propaganda fascista che ha sempre raccontato il regime mussoliniano quale implacabile nemico della mafia.
[2] Vedi il mio La rendita e le mafie, in il Novarese, a. XXVVII, n. 4, dicembre 2016, p. 8.
[3] Vedi la mia descrizione del tragitto in La contesa degli identici a Milano, madre della compravendita, in eddyburg, 21 aprile 2016.
[4] Paolo Berizzi, Milano, la deriva neofascista ricompatta la galassia nera: così l’ultradestra unita sfida lo stato, in la Repubblica/Milano, 6 maggio 20017.
5] Claudio Magris, Il prigioniero della vitalità, in C. Cases, C. Magris, L’anarchico al bivio, Einaudi, Torino 1974, p. 38.
Quattrocentodieci. E’ stato dato gran rilievo, nei giorni scorsi, al fatto che la concentrazione dell’anidride carbonica CO2 nell’atmosfera ha raggiunto il valore di 410 parti per milione in volume (ppmv). Tale concentrazione, misurata da molti anni in una stazione nell’isola di Mauna Loa, nelle Hawaii, in mezzo al Pacifico, sta aumentando fra 2 e 3 ppmv all’anno. Ciò significa che ogni anno circa 15 o 20 miliardi di tonnellate di CO2, il principale gas responsabile del lento continuo riscaldamento del pianeta Terra, si aggiungono ai circa 3.000 miliardi di tonnellate di CO2 già presenti nei 5.000.000 di miliardi di tonnellate di gas dell’atmosfera.
Altre fonti di CO2 sono la produzione del cemento (oltre 4 miliardi di tonnellate all’anno), la combustione di rifiuti, gli incendi delle foreste e alcune attività agricole. Una parte, circa la metà di tutta la CO2 immessa nell’atmosfera è assorbita dalla vegetazione sui continenti e dal mare nel continuo contatto fra l’atmosfera e la superficie degli oceani.
Per secoli la concentrazione nell’atmosfera della CO2 è rimasta relativamente costante a circa 280 ppmv; il progressivo, sempre più veloce aumento di tale concentrazione fino agli attuali 410 ppm e oltre, è cominciato all’inizio del Novecento quando il petrolio e poi il gas naturale si sono affiancati al carbone come fonti di energia per la produzione di crescenti quantità di merci richieste da una crescente popolazione mondiale. I processi naturali di “depurazione” dell’atmosfera non ce l’hanno fatta più e una crescente parte della CO2 è rimasta nell’atmosfera stessa, trattenendo una parte del calore solare.
E’ nelle merci, nei processi della loro produzione, nell’uso che ne viene fatto e nei processi di eliminazione dei rifiuti, quindi, la vera causa del riscaldamento planetario che sta spaventando i governanti del mondo - e gli abitanti della Terra alle prese con bizzarrie climatiche, periodi di siccità o di piogge improvvise, progressiva lenta ma apprezzabile fusione dei ghiacci permanenti e lento aumento della superficie dei mari.
E’ abbastanza curioso che molti considerino “merce” una parolaccia; eppure tutte le cose usate per soddisfare i bisogni umani di spostarsi, nutrirsi, comunicare, abitare, tutti gli oggetti commerciati, vestiti e carne in scatola, automobili e scarpe, gasolio e telefoni cellulari, giornali ed elettricità, eccetera, sono merci, fabbricate usando e trasformando le risorse naturali vegetali, animali, minerarie del pianeta.
Le stesse operazioni finanziarie, il prodotto interno lordo, lo spostamento di ogni soldo, si tratti di euro, di dollari o di yuan, sono accompagnati da spostamenti di merci, di materia ed energia. I 60.000 miliardi circa di euro che rappresentano il prodotto interno lordo mondiale annuo sono associati al movimento, ogni anno, di circa 50 miliardi di tonnellate di merci, prodotti agricoli, minerali, navi, metalli, plastica, mobili, cemento, pane, eccetera, e acqua, 4.000 miliardi di tonnellate, merce anche lei.
E tutto questa materia si ritrova, durante la trasformazione e dopo l’uso, come “merci usate” sotto forma di scorie, rifiuti solidi, liquidi e gassosi che finiscono nel suolo, nelle acque, nell’atmosfera, peggiorandone la qualità “ecologica”. Fra questi quella CO2 di cui si parlava all’inizio, e altre diecine di miliardi di tonnellate di materiali.
In altre parole esiste un rapporto diretto fra le modificazioni dell’ambiente e la produzione e l’uso, l’esistenza stessa, delle merci.
Nel 1970 Barry Commoner ha scritto che le alterazioni annue dell’ambiente planetario dipendono dal numero di abitanti della Terra, moltiplicato per i chili di merce usati in media da ciascuna persona in un anno, moltiplicato per la “qualità” di ciascuna merce, intesa come quantità di energia, di minerali, di altri prodotti, di acqua richiesta e di rifiuti generati per ogni chilo di merce usata.
“Qualità merceologica” che, a ben vedere, rappresenta il vero “valore” di una merce o di un servizio.
Gli ambientalisti hanno inventato degli indicatori degli effetti ambientali chiamati “impronta” ecologica, da valutare attraverso l’analisi del “ciclo vitale”, eccetera: di merci stanno parlando.
Ho avuto la sorte di essere sbeffeggiato per molti decenni di insegnamento universitario perché la mia disciplina era la merceologia; a molti miei colleghi faceva ridere l’esistenza stessa di un campo di studio che si occupava di frumento e carbone, di alluminio, e di olio, di merci, insomma, dimenticando, o forse senza aver mai saputo, che Carlo Marx, nel primo capitolo del primo libro del Capitale, quello intitolato “La merce”, dice che intende svolgere la critica dell’economia politica capitalistica cominciando dal concetto di valore di scambio. E precisa che le merci hanno anche un valore d’uso che però è l’oggetto di studio di una speciale disciplina, la merceologia (einer eigenen Disziplin, der Warenkunde).
E’ proprio questa ultima forma di valore quella da cui dipende il maggiore o minore danno ambientale, il “costo” ambientale, delle attività umane. Se si vuole rallentare gli effetti nefasti degli inquinamenti e dei mutamenti climatici si può agire sulla diminuzione della massa delle merci usate e sprecate nei paesi ricchi - perché i paesi poveri di più merci avranno bisogno, se non altro per uscire dal buio della miseria e delle malattie - ma soprattutto sulla modificazione delle merci esistenti, su una seconda tecnologia. Un bel lavoro per ingegneri, chimici, biologi per tutto l’intero secolo.
di ventura svizzeri (segue)
Insomma, Hofer dimostra che il rimpianto della patria può manifestarsi come malattia. Il termine si diffonde presto in molte lingue e, siccome nei dizionari medici ci sta stretto, si arricchisce rapidamente di significati. Nella dissertazione di laurea Hofer lega la nostalgia ai luoghi di nascita lontani che quei giovani identificano con se stessi, con la propria anima. Una nostalgia del paesaggio, perfino geologica. Lui sa che la storia dell’uomo è intessuta di lontananza. Conosce grandi racconti di rimpianti della terra dove si nasce, la Bibbia, Omero, Virgilio, Ovidio, Dante, Shakespeare, sino ai tempi suoi. Sa pure che ogni lingua possiede da millenni una propria parola per esprimere il desiderio del ritorno. Una parola giovane, dunque, ma antica. Hofer, comunque, dimostra per primo che di lontananza e di cambiamento dei luoghi ci si può ammalare. E definisce la nostalgia come un “disturbo dell’immaginazione” che si riverbera sul corpo. Precorre, inconsapevolmente, la psicoanalisi che di nostalgia si occuperà. Precorre anche l’antropologia. E alla fine del ‘600 anticipa la definizione moderna di Angoscia territoriale, il fenomeno clinico che Ernesto De Martino, due secoli e mezzo dopo Hofer, descrive in una popolazione rurale lucana quando si stacca dal suo paesaggio.
Lo spaesamento si può produrre in due modi. Perché ci allontanano dalle nostre radici, fatte di paesaggi e persone. Oppure, al contrario, perché mutano o scompaiono i luoghi e le persone dal nostro intorno. Il passaggio attraverso una membrana simbolica dai propri luoghi al mondo esterno è il viaggio. Questo passaggio ha una la forza profonda dell’allegoria. E rappresenta una delle fatiche essenziali dell’esistenza. Il viaggio – che duri anni o giorni non fa differenza – inteso come opposto dell’abitare. Chi viaggia non abita, per questo anche il viaggio è connesso al sentimento della nostalgia. E quei soldati che si ammalano quando oltrepassano la membrana, danno conto dell’importanza dell’abitare e della sua corrispondenza all’essere, all’esistere. Patiscono, insomma, la malattia del non abitare più.
Ma perché, visto che quei guerrieri erano tutti sradicati, se ne ammalava solo una parte? Quelli affetti dalla nostalgia erano più deboli di quelli che non si ammalavano? Forse erano “troppo legati” ai propri luoghi dell’anima? Esiste un “troppo legati”? Certo quei giovani guerrieri sentimentali sono una metafora perfetta dell’identificazione tra uomo e paesaggio. Così, a partire da quell’esperienza e da queste domande, tentiamo di trasferire alla nostra condizione il sentimento della nostalgia in rapporto ai luoghi. Un’operazione naturale e istintiva, visto che ognuno può essere come i soldati di Hofer e provare o non provare il sentimento universale della nostalgia. E questo “gioco della nostalgia” può servire a conoscere meglio noi stessi.
Anche nella nostra città l’insediamento umano è stato una complicata, ininterrotta elaborazione, sino dall’origine. Cagliari – come ogni comunità e luogo – ha subìto cambiamenti grandi nella sua storia di antica fondazione. E un continuo adattamento ha determinato la psicologia della collettività di oggi a partire da un vissuto iniziato millenni fa. D’altronde la stessa fondazione rappresenta un cambiamento. I fondatori, probabilmente, erano spaesati in cerca di radici e noi esistiamo perché alcuni “spaesati” si sono fermati in questo golfo perfetto. Forse la fondazione, in sostanza, non è altro che la riproduzione nostalgica del proprio mondo d’origine. E ogni città inizia dalla nostalgia di un’altra. Ogni città, insomma, racconta una città precedente attraverso un cambiamento.
Il cambiamento genera, a seconda di come avviene, più o meno dolore. La velocità del cambiamento e la sua entità rivestono un’importanza capitale per chi lo vive. E proprio nella sua rapidità e nella sua portata è contenuta una parziale risposta alla domanda sull’essere “troppo legati ai luoghi”.
Le città, per loro natura mutano. Ovvio. E ognuno di noi coltiva un proprio pensiero sulla trasformazione. Anche i bambini sanno che le città e i luoghi cambiano. Una classe di quinta elementare, in un tema intitolato “descrivi la tua città”, l’ha rappresentata con semplicità meravigliosa, insieme alla casa, come luogo della vita e del suo evolvere permanente. Il cambiamento è la vita stessa della città ed è un’allegoria dell’esistenza. Abbiamo un’idea della Cagliari punica che fiorì per secoli. Poi il passaggio dai punici sconfitti ai romani, un passaggio progressivo come dimostrano l’uso della necropoli di Tuvixeddu con i morti romani accanto a quelli punici o il riuso dell’area sacra del promontorio della Sella. Poi la città bizantina, poi quella medievale, poi quella spagnola, poi i Savoia. Grande è stato anche il mutamento ottocentesco da città murata a città aperta, sostenuto però da un’idea coerente che attraversava molte città bisognose di “uscire” dalle mura e di “respirare”.
L’intera isola e dunque anche le città - lo racconta in modo emozionante Giulio Angioni - sono più cambiate negli ultimi sessant’anni che in molti secoli. Ed è naturale che un mutare così rapido della condizione collettiva abbia creato disagi comuni e individuali, legati alla forma e alle funzioni della città. Ma nessuno può sfuggire al proprio passato. Il passato è il protagonista del futuro. Solo dalla sua conoscenza possiamo avere cognizione del presente e immaginare il domani. E se una comunità non possiede la capacità di riconoscere le proprie radici accadono disgrazie. Angioni racconta come questa accelerazione abbia indotto uno spaesamento dolente in tutta l’isola, un duro sradicamento di singoli, gruppi e comunità che non si riconoscevano in un ambiente bruscamente mutato. Comprese le comunità forzatamente industrializzate o quelle espropriate dei luoghi per usi diversi da quelli originari. Gli ultimi sessant’anni sono stati a Cagliari un tumulto incontrollato di cemento e mattoni, come in tutta la nazione. I motivi sono noti. La guerra, la ricostruzione, l’inurbamento.
E’ noto anche come si sia concretizzato rapido un potere a sostegno di questa moltiplicazione violenta. E come in molte parti del paese questo sia avvenuto sulla spinta di una malavita ben strutturata. Un potere che a Cagliari – senza un’evidente influenza criminale – ha disegnato in pochi decenni una città nuova. Questa trasformazione non è un bene o un male in sé. Ma lo è, o non lo è, a seconda del tipo di governo e del tipo di cambiamento, della sua velocità, della “forza” o della “debolezza” della comunità che lo subisce. Ed è un danno certo se dentro quel cambiamento non è contenuto un pensiero alto e organizzato. Un’idea, appunto, di città. Non solo un insieme di tetti e rifugi dove mangiare e dormire. Non solo un luogo che risponde ai bisogni materiali più o meno elementari. Quest’idea è mancata anche in gran parte delle comunità isolane. E sarebbe stata un lenitivo per ogni nostalgia.
Una città non cresce da sola, ma è conseguenza di condizioni date. Esistono perfino città “spontanee” belle e piene di fascino, però, come un essere vivente, crescono più o meno bene a seconda dei genitori, dei nonni, dell’intera genealogia. Un abitare cosciente, insomma, riconosce radici lontane. A Cagliari esisteva una concezione radicata dell’abitare e del “fare” la città. Un sapere saldo aveva ispirato il piano regolatore di Cagliari del Cima. Un pensiero articolato aveva orientato la Cagliari vagamente sviluppista ma coerente del sindaco Bacaredda. Un’armonia architettonica e urbana deve essere riconosciuta anche al ventennio fascista. Poi la guerra. La cultura dell’abitare si affievolisce gravemente proprio a partire dalla città della ricostruzione e se ne perde quasi traccia arrivando ai tempi nostri.
I segni sono chiari ed è facile oggi interpretarli osservando i quartieri nati allora. In questo lungo squarcio di secolo l'edilizia ha finito per vincere sull'architettura che nel frattempo aveva sconfitto l’urbanistica. L’edilizia lasciata a sé è un’espressione feroce dell’uso dei luoghi. L’edilizia senza un filosofia cancella il passato perché l’edilizia è espressione pura del profitto. Non accoglie, sradica, perché non rappresenta chi vive i luoghi ma la volontà avida di chi costruisce per costruire. Un’involuzione. L’opposto della scienza dell’abitare. E i cantieri hanno finito per dirigere le scelte urbane anziché il fisiologico contrario. Sino all’attuale inversione della città stessa, gonfiata in periferia, sempre più vuota al centro e sempre più sparsa nell’hinterland a sua volta stravolto e snaturato. Così nascono le depressive palazzate di viale Sant’Avendrace che nascondono il colle di Tuvixeddu, oppure gli incoerenti palazzoni del quartiere di San Benedetto, Santa Teresa a Pirri, i palazzacci di Sant’Elia, la cosiddetta Fonsarda, la pappa urbana dell’hinterland sfigurato… un elenco interminabile e inquietante che ognuno può completare come preferisce. Perfino il nostro piano regolatore, nato bene per la pianificazione urbana, viene distorto dalla spinta edilizia con un abuso irragionevole di varianti e accordi di programma. Impossibile non provare nostalgia. O almeno immaginare come sarebbe potuto essere.
Certo non è semplice comprendere e dirigere il cambiamento della città, prevederne le conseguenze e l’impatto sociale. Governare richiede capacità, versatilità, conoscenza e perfino doti profetiche che pochi possiedono. Ma richiede innanzitutto indipendenza e una ferma e forte teoria dell’abitare. Indipendenza del governo e della politica non significa, evidentemente, agire da padroni incondizionati. Anzi. Dovremmo aspirare all’inter-dipendenza della politica, a una cooperazione tra forze distinte e autonome. Ci muoviamo in un reticolo di energie diverse. E un governo ideale – se mai esisterà e forse non esisterà mai – dovrebbe armonizzarle. Nulla a che vedere, dunque, con la discussione tra modernisti e passatisti che, invece, sa di muffa.
Il principio immateriale che anima un paesaggio rappresenta un’essenza che ha impiegato decenni, secoli e perfino millenni a costituirsi. E consiste nella comprensione che di quel paesaggio possediamo come individui e come comunità. Questa consapevolezza si costruisce lentamente di generazione in generazione, viene da lontano nel tempo, ha perfino una sua ereditarietà. E’ un carattere dominante. E naturalmente richiede una anche una pedagogia, un’educazione. Essa sostiene il nostro equilibrio che si può rompere anche con fragore quando il carattere e l’anima dei luoghi vengono manipolati senza attenzione.
Abitare è un’azione che inizia con il primo respiro. E noi? Cosa desideriamo e cosa accade intorno a noi? Aspiriamo naturalmente al benessere. Ma il benessere non consiste solo nel soddisfacimento di bisogni materiali. La città deve dispensare anche benessere spirituale. La prima identità, sappiamo, si forma nei luoghi dove nasciamo. E possiamo ritrovarci un guscio che non corrisponde né al nostro interiore né all’esterno. L’identità è un abito in gran parte trasmesso. Se è una crosta si sbriciola facilmente. Se è consolidata nell’intimo può soffrire ma “non viene giù”. Se questa identità è incerta, ed è una patina, per di più senza considerazione del passato, allora viene sostituita inevitabilmente da altre identità d’importazione. Da false identità. Identità inquinate. E alle volte si arriva a possedere identità multiple conformate a modelli facili e rassicuranti perché ricopiati da un altrove percepito come “superiore”. “Quelli dell’identità debole” si cuciono addosso altri abiti, anche uno sopra l’altro, nel grottesco tentativo di travestirsi da quello che non sono. E sentono di esistere solo se rassomigliano a qualcuno visto in qualche altrove.
Oh, tutto questo avviene in gran parte del mondo. Si tratta di meccanismi studiati e spiegati da sociologi e antropologi. Gli stessi meccanismi per i quali si fanno in città i mercatini nordici di Natale a ottanta miglia dalla Tunisia, si vedono da queste parti bambini che festeggiano la ricorrenza estranea di Hallowen oppure si considera bella una passeggiata al mare perché uguale a quella della lontana Rimini. I deboli di identità si sentono “normali”, “non da meno di altri”, perché finalmente hanno una spiaggia rosticceria, navi da crociera che per una mattina vomitano passeggeri in una città di cui non ricordano neppure il nome, una passeggiata a mare che sembra un rendering, luoghi uguali a mille altri luoghi. E queste identità incontinenti si sentono all’altezza, inserite nel mondo, solo se “imitano”. Insomma, indossano un abito tranquillizzante perché lo indossa la moltitudine. Nessuna resistenza. Fusi in un’unica poltiglia anonima che non deve essere spiegata, pensata e tanto meno progettata. E’ roba già masticata da altri e non si deve faticare più. Paesaggi predigeriti. Nessuno sforzo, nessun travaglio per creare un proprio paesaggio. E pazienza se il nuovo abito non ha continuità con il passato ritenuto vecchiume dai deboli di identità. Il problema per loro è di essere se stessi. Meccanismi di infelicità: travestirsi da quello non siamo oppure al contrario produrre una caricatura di sé, indossare la maschera macchietta della propria comunità.
Per certi il bisogno di un paesaggio scollegato dalle proprie radici passa anche attraverso un senso di inadeguatezza del paesaggio che hanno ricevuto in eredità. La vergogna del proprio habitat arriva sino al tradimento. E’ un meccanismo che colpisce comunità e individui fragili, nel senso che avvertono se stessi come inferiori rispetto ad un’altra realtà ritenuta superiore. Senza dubbio un sentimento che per semplicità definiamo “vergogna” ha attraversato la considerazione di noi sardi per la nostra condizione e per il nostro habitat che pure sentivamo, sì, come nostro, ma “vergognosamente” arretrato, “vergognosamente” povero. E questa che qui definiamo “vergogna” – ma è una condizione psicologica complessa – ha determinato una fulminante, traumatica scomparsa dei nostri paesi bellissimi (peraltro amorevolmente conservati e allo stesso tempo moderni nella vicina Corsica) e della grande varietà che li distingueva. Una lacerazione.
E’ anche per la “vergogna” che abbiamo attribuito poco valore e svenduto un’infinità di beni, stupiti perfino che qualcuno se ne interessasse. Non concepivamo che avremmo potuto unire modernità e passato restando dentro un solco che avrebbe tutelato l’identità nel suo profondo, che avrebbe conservato la nostra riconoscibilità, che avrebbe conservato perfino la nostra lingua e la nostra “stabilità psicologica”. Allora – senza comprendere i nostri luoghi – abbiamo goffamente copiato paesaggi, copiato abitati, abitanti e abiti lontani, ignorando che copiare è, a sua volta, un artigianato difficile. E che scimmiottando si rischia il grottesco e addirittura la scomparsa. Così, svanito il “vero”, sostituito da un finto moderno, ci siamo riconosciuti in questa impostura e – per un rischioso meccanismo di rimbalzo – abbiamo finito per rispondere al sentimento della vergogna con un orgoglio compensativo altrettanto esagerato, fondato su un’identità posticcia, fatta di orpelli e di simulazione di un’unicità che non esiste più ma che ci illudiamo di rappresentare. Però l’orgoglio è vicino alla superbia e distorce gravemente la percezione di sé e della realtà intorno, come e forse più della vergogna.
Insomma, paesaggi estranei possono intossicare sentimenti e pensieri ma non esiste uno strumento certo per prevedere, riconoscere e misurare la nostalgia che comunque in qualche forma si manifesta. Hofer descrive sintomi e indica la cura nel ritorno ai luoghi che sentiamo dell’anima. Si può perfino nascere lontano da quei luoghi, ma essere legati intensamente al luogo d’origine della nostra genealogia. Perché i luoghi si possono incidere dentro di noi attraverso i nostri geni anche senza averli mai visti. Una conoscenza trasmessa, innata, alle volte silente per anni, che magari viene fuori inaspettata. Poche certezze, dunque. E’ solo certo che ogni cambiamento deve essere prudente e ispirato al principio del “prima di tutto non nuocere”. Per questo il giusto cambiamento deve essere avvalorato come inevitabile e ritagliato addosso a noi, deve rispondere a esigenze reali, deve tendere alla continuità, deve avvenire in armonia con il contesto. Deve possedere una sua fisiologia e non produrre dolore.
Tutto qua il nostro sapere. Quanti significati nella vicenda di quella tribù nomade australiana che segnava i luoghi dove si fermava con un palo identificato come asse del mondo. Quando il palo un giorno si spezzò per un fulmine la tribù perse l’orientamento e per un terrore antico tutti morirono confusi e sbigottiti. Quest’esempio è solo un espediente retorico, è chiaro. Però obbliga a riflettere sul pericolo di un’evoluzione che non guarda al passato e sul rischio dell’autocancellazione che deriva dalla perdita della memoria. E per questa perdita, per questo fondersi in un unico magma potrebbe non essere mai più vero che “la Sardegna si riconosce anche in un frammento di cartolina raccolto tra la polvere”. E potremmo non riconoscerci più in noi stessi. Al nome Sardegna, infine, ognuno può sostituire il proprio luogo dell’anima e immaginare le conseguenze di un’amnesia delle origini. E’ un esercizio salutare che dà un giusto valore alle origini.
La borrelliosi, o malattia di Lyme dalla cittadina del Connecticut in cui fu rilevata per la prima volta negli anni '70, si manifesta inizialmente con un eritema cutaneo (segue)
foto F. Bottini in campagna |
Foto F. Bottini in città |
Su La Città Conquistatrice qualche nota in più, ad esempio, a proposito di bio-diversità urbana
Il decreto legislativo 401, in corso di esame presso la 13ª Commissione “Territorio, ambiente e beni ambientali”, è non solo un colpo micidiale a territorio, ambiente, beni ambientali e paesaggio...(segue)
Il decreto legislativo 401,in corso di esame presso la 13ª Commissione “Territorio,ambiente e beni ambientali”, è non solo un colpo micidiale a territorio,ambiente, beni ambientali (e paesaggio), ma una prova generale dell’Italia chepotrebbe venire dopo le elezioni politiche. Neanche Berlusconi aveva mai osatotanto, dal momento che limitava la procedura speciale della Valutazione diimpatto ambientale alle sole opere dichiarate di interesse nazionale. Ora ilPd, asse portante del partito delle grandi opere, vuole estendere la proceduraspeciale di Via, quella della legge Obiettivo - condotta non sul progettodefinitivo ma su quello preliminare (qui chiamato “progetto di fattibilità” conriferimento al Decreto legislativo 50/2016) - a tutti i progetti che “possonoavere impatti ambientali negativi”, cioè a tutte le opere soggette a Via: laspecialità diventa normalità. E se non bastasse, se anche il progetto difattibilità si mostrasse troppo oneroso, il decreto offre la possibilità aproponenti e autorità competente di mettersi d’accordo sul grado di dettaglioda osservare nel progetto.
Il provvedimento nonsolo è devastante per la tutela di ambiente e paesaggio, ma è l’anteprima di unpossibile alleanza Pd-Forza Italia, giustificata dal disastrato bilanciostatale e dalle richieste dell’Europa. Dopo le elezioni, cosa si potrebbe metteresul piatto degli investimenti, non avendo risorse a disposizione? L’opportunitàpiù facile è di appropriarsi di un patrimonio comune che non appartiene alloStato, né tanto meno al governo, ma alla collettività: territorio, ambiente epaesaggio, appunto, da svendere al cartello delle imprese costruttrici e delle banche.Ma per dare il via alla riffa delle grandi opere (inutili, dannose e costose), occorrefin da ora eliminare le procedure di valutazione esistenti, troppo aperte,quando siano presentati progetti preliminari spacciati per definitivi, aopposizioni amministrative e legali - vedi ad esempio quelle di Comuni e comitatinei confronti del progetto del nuovo aeroporto di Firenze. Si sa bene che granparte dei progetti presentati a Via è vulnerabile perché scientemente lacunosae che sono proprio le lacune, quando approvate, a giustificare in corso d’operala moltiplicazione dei costi, indispensabile alimento della corruzione e dellapolitica. Vi è una discrasia drammatica tra il mondo politico, anche quello disinistra o che si dichiara tale, e i cittadini a proposito del valore diambiente e paesaggio - le migliaia di comitati e associazioni a difesa diterritori e monumenti lo stanno a dimostrare. In attesa, non passiva, di unsoggetto politico, esistente o nuovo, o per lo meno di politici che saninoquesta discrasia
Quasi ogni giorno, nel mondo, si celebra una qualche “giornata” di qualche cosa: dell’ambiente, degli oceani, dell’alimentazione, della biodiversità, per non citare le giornate dei nonni, delle mamme, eccetera. Ogni volta è una occasione per qualche manifestazione o congresso o festa, spesso di natura esibizionistica e consumistica: spese e regali.
Quella che si ricorda il 22 aprile è una giornata particolare, dedicata “alla Terra”, al nostro pianeta, lanciata quasi mezzo secolo fa, nel 1970. Il decennio precedente, i favolosi anni sessanta del Novecento, erano stati pieni di speranze e di contraddizioni: gli anni del Concilio Vaticano II e della crisi dei missili a Cuba, gli anni delle lotte dei “negri” americani per la integrazione e quelli degli assassinii di John Kennedy nel 1963 e di Martin Luther King e Robert Kennedy nel 1968, gli anni delle lotte operaie e studentesche per nuovi diritti, gli anni della guerra del Vietnam e dei devastanti esperimenti con bombe nucleari sempre più potenti, e gli anni della conquista dello spazio.
La Terra, fotografata per la prima volta dagli astronauti dallo spazio, era apparsa nella sua bellezza e fragilità, una palla di rocce e foreste e acque, nostra unica casa nell’Universo conosciuto.
In quella primavera il mondo “scoprì” l’ecologia: questa austera disciplina, definita dal biologo tedesco Haeckel, nel 1866, come l’economia della natura, si era sviluppata nel silenzio dei laboratori come scienza capace di spiegare che la vita vegetale e animale dipende dalle sostanze chimiche tratte dall’aria, acqua, e suolo, cioè dall’ambiente; negli anni trenta del Novecento un gruppo di studiosi italiani, russi, americani, avevano spiegato che in un ambente di dimensioni limitate, come appunto la Terra, la limitata disponibilità di risorse naturali rallenta la crescita delle popolazioni e può portare al loro declino.
Vincoli alla crescita che si manifestavano anche per gli affari umani a causa dell’impoverimento delle riserve di minerali e della fertilità dei suoli in seguito all’eccessivo sfruttamento imposto dalla società dei consumi.
L’ecologia apparve come lo strumento per comprendere che, nel nome del profitto, pochi paesi si appropriavano, per trarne materie prime e per scaricarvi i rifiuti, di risorse naturali che non erano “loro”, ma che erano beni comuni. Considerazioni che mettevano in discussione il sacro principio della proprietà privata, introducevano parole maledette come limiti alla crescita.
L’ecologia, in quel 1970, divenne così la bandiera di una nuova contestazione del potere economico e militare, della violenza della società dei rifiuti, degli sprechi e delle armi, le merci oscene, con la richiesta di nuovi diritti, di nuovi modi e processi di produzione in grado di inquinare e alterare di meno l’ambiente, che tenessero conto anche della domanda delle classi e dei popoli poveri ed esclusi.
Anche l’Italia scoprì l’ecologia. Proprio il 22 aprile si tenne a Milano un congresso internazionale col titolo “L’uomo e l’ambiente”, lo stesso che sarebbe stato adottato, due anni dopo, dalla Conferenza delle Nazioni Unite che si tenne a Stoccolma.
Gli italiani cominciarono a guardarsi intorno e a riconoscere la violenza ecologica nelle valli disastrate, esposte al diboscamento e origine delle frane e alluvioni che si stavano verificando dai tempi del Polesine, in Calabria, a Firenze nel 1966. Hanno imparato a riconoscere i segni degli inquinamenti dovuti alle centrali a carbone e a olio combustibile, alla corrosione dei monumenti, ai rifiuti sparsi dovunque. Gli agricoltori hanno imparato a fare i conti con i pesticidi tossici e con la perdita di fertilità a causa dell’eccessivo sfruttamento dei suoli.
Anche in Italia comparvero le parole maledette: limite nei consumi, decrescita; i mondo imprenditoriale e benpensante reagì subito con energia contro questi ecologisti che, secondo loro, volevano far tornare il mondo ai tempi delle candele; erano loro, gli imprenditori, capaci di eliminare gli inquinamenti con depuratori e filtri, purché non si mettesse in discussione la divinità dell’economia, il dovere di far crescere il Prodotto Interno Lordo; Beckerman, un celebre economista inglese, affermò con fermezza che solo la crescita economica avrebbe potuto rendere l’ambiente migliore.
La consapevolezza dei limiti delle risorse naturali contagiò anche i popoli del terzo mondo le cui ricchezze minerarie, agricole e forestali erano sfruttate selvaggiamente dalle multinazionali straniere; nacquero così le prime rivendicazioni dei popoli per il controllo delle “proprie” materie prime, il petrolio in Libia e in Persia, il rame nel Cile, i metalli nel Congo, i fosfati nell’Africa occidentale.
La carica sovversiva di quella primavera dell’ecologia fu ben presto stemperata dagli eventi successivi: le crisi economiche, il breve boom economico degli anni Ottanta, la fine dell’Unione Sovietica, la nascita delle nuove potenze economiche Cina e India, infine la crisi degli inizi del XXI secolo. La promessa di un magico “sviluppo sostenibile” nel frattempo assicurava che con soluzioni tecniche sarebbe stato possibile avere un ambiente decente “purché” continuasse la crescita dei soldi e degli affari, cioè delle vere fonti delle crisi ecologiche.
Oggi esistono quasi dovunque ministri dell’ambiente di governi che hanno come imperativo la crescita economica, la moltiplicazione delle armi, l’allentamento dei vincoli ecologici. Le conseguenze si vedono; in Italia la crescita (quella si) della concentrazione di polveri nell’aria urbana, le fabbriche che chiudono per la concorrenza di paesi che possono esportare merci a basso prezzo ottenute con produzioni inquinanti, montagne di rifiuti, frane e alluvioni e, soprattutto, a livello planetario, inarrestabili peggioramenti climatici derivanti all’immissione nell’atmosfera dei gas liberati dalle crescenti produzioni e dai consumi.
In occasione della giornata della Terra del 1970 nelle strade di New York comparvero dei manifesti in cui uno sconsolato Pogo, un personaggio dei fumetti sotto forma di opossum antropizzato, raccoglieva i rifiuti lasciati da una manifestazione ecologica ed esclamava: “Ho scoperto il nemico e siamo noi”.
Adesso sapete con chi prendervela se dovete fare in conti con i danni delle siccità e alluvioni, della congestione urbana e dell’erosione delle coste, con prezzi in aumento e con la disoccupazione.
Questo articolo è inviato contemporaneamente a il manifesto
Da sempre, dalla sua data di nascita, l’urbanistica ha fatto ampio uso di concetti importati da altre discipline, in particolare...(segue)
Da sempre, dalla sua data di nascita, l’urbanistica ha fatto ampio uso di concetti importati da altre discipline, in particolare dalla fisica e, più recentemente, dalla biologia. Negli anni Cinquanta e Sessanta, ad esempio, furono introdotti molti concetti dalla fisica per costruire modelli matematici che avrebbero dovuto simulare il comportamento delle persone in ambito urbano. Quei modelli presero a prestito, dalla fisica, la legge di gravitazione universale di Newton (opportunamente corretta, ovviamente) per spiegare e prevedere gli spostamenti casa-lavoro, ovvero per costruire modelli di traffico urbano. Poi, caduto un po’ di moda il paradigma della fisica, è sembrata la biologia la disciplina più adatta a fornire concetti e modelli da usare nelle scienze urbane.
E’ ben noto che la metafora (letteralmente: spostamento, trasferimento, traghettamento di un concetto da una disciplina all’altra) è stata da sempre origine di molte scoperte e invenzioni nel campo della scienza e della tecnologia per il suo carattere evocativo, non vincolato a un significato preciso. Essa però, per essere feconda (nella nuova disciplina), ovvero per produrre avanzamenti conoscitivi, è necessario che il termine trasferito - l’uso nomadico o viaggiante dei concetti, come diceva Isabelle Stengers - sia ridefinito nella nuova disciplina. L’esempio del concetto di “vis” è servito a Newton per coniare quello di “forza” che però, nella fisica, ha assunto un nuovo significato (è un vettore caratterizzato da un’intensità, una direzione e un verso e applicata a un solido, produce lavoro). Il semplice trasferimento del concetto non basta a produrre una innovazione nel campo della nuova disciplina. Anzi, potremmo dire, che il semplice trasferimento tout court si presta ad un’operazione ambigua, oscura, mistificante, senza aggiungere produzione di nuova conoscenza. Le metafore, dunque, vanno “usate” con estrema accortezza e delicatezza. Al contrario esse finiscono col fornire alla disciplina importatrice l’alibi di possedere un presunto, quanto inconsistente, statuto scientifico.
Dalle scienze biologiche l’urbanistica ha attinto a piena mani; basti pensare ai termini di: tessuto urbano, organismo urbano, metabolismo urbano. C’è tutta una corrente di pensiero che definisce la città come un organismo vivente dotato di un proprio metabolismo, evolutasi per selezione “naturale” (una metafora darwiniana). Da cui discendono una serie di concetti letteralmente trasferiti al campo dell’urbanistica, in particolare attribuiti alla città: omeostasi, resilienza, resistenza. Ma se questi concetti hanno un preciso significato nel campo scientifico dove sono stati coniati, trasferiti nell’urbanistica evidenziano una debolezza interpretativa, suppliscono una carenza argomentativa, e la espongono a rischi di falsificazione o mistificazione ideologica.
Oggi sono due i neo concetti “di successo” presi a prestito dalla biologia: quello di resilienza e quello di rigenerazione (quest’ultimo, in verità, presente in molte altre discipline). In biologia ed in ecologia la resilienza indica la capacità di un ecosistema di autoripararsi da eventuali danni prodotti (incendi, eventi atmosferici, inquinamento, ecc.), ovvero la misura (inversa) del tempo necessario all’ecosistema per ritornare nel suo stato di equilibrio originale dopo che l’eventuale perturbazione lo ha allontanato da quello stato. E’ un concetto per molti versi opposto a quello di resistenza. Ad esempio una grande foresta pluviale presenta una grande resistenza (ad essere distrutta da un incendio) ma una scarsa resilienza (moltissimo tempo per riprodursi). Al contrario un giovane boschetto ha una bassa resistenza (può essere distrutto facilmente), ma una grande resilienza (poco tempo necessario per tornare nella sua condizione originaria). Trasformare le città in resilienti starebbe a significare la capacità di una comunità e dei suoi abitanti di modificarsi (adattarsi) per rispondere agli effetti dei cambiamenti climatici. In questo modo essa si lega al concetto di sviluppo sostenibile e a quello di rigenerazione urbana, perché, sostengono i suoi teorici, una città sostenibile è necessariamente una città resiliente, come dimostrano gli esempi di altri Paesi europei che hanno investito sullo sviluppo di una strategia nazionale per l’adattamento ai cambiamenti climatici. La città resiliente è stata una bandiera dell’ex sindaco di New York, Bloomberg, che, all’indomani dell’uragano Sandy, ha lavorato per trasformare la città in uno spazio urbano preparato agli effetti dei cambiamenti climatici, primo fra tutti l’innalzamento del livello del mare, con interventi sul paesaggio e sugli edifici.
Ecco allora svelato il significato strumentale del neo concetto. Nei fatti, quello di resilienza si presta a nuove opportunità economiche per continuare a ricavare profitti anche in situazioni di disastro. Non a caso la città resiliente chiama in causa la green economy o le neo città smart cities come esempio di adattamento progressivo.
I cambiamenti climatici si affrontano riducendo la produzione di merci, ovvero la produzione di co2 associata ad essa. Il che significa in primo luogo riconversione ecologica della produzione che sappiamo comporta una vera e propria (e difficile) rivoluzione economica, culturale e antropologica, un nuovo paradigma, questo sì, in grado di invertire il fenomeno del riscaldamento globale. Cercare di contrastare i cambiamenti climatici adattando le città a resistere a eventuali catastrofi è come imbottirsi di aspirine per contrastare la febbre dovuta a qualche patologia grave. La resilienza diventa così la coperta di Linus per scongiurare il disastro annunciato.
L’altro termine: rigenerazione in biologia sta ad indicare la sostituzione di parti danneggiate con copie identiche alle stesse. E’ il caso della coda della lucertola che se mozzata può rigenerarsi, oppure dell’albero mutilato del suo ramo che in breve tempo rigenera se stesso. Ma in urbanistica? Essa starebbe ad indicare la possibilità di riconvertire (in maniera innovativa, così dicono i sostenitori) tutti quegli spazi lasciati liberi e inutilizzati dal processo di deindustrializzazione e delocalizzazione produttiva e, più in generale, di riconvertire parte del patrimonio edilizio invecchiato o obsoleto. In sintesi, una grande opportunità innovativa, di modernizzazione (e di fare affari). Anche in questo caso è necessario fare qualche riflessione critica. Da sempre le città si sono rigenerate, hanno cambiato forma e aspetto. Vecchie funzioni sono state sostituite da altre più adatte ai tempi. Si tratta di un processo quasi naturale, fisiologico. Ma le parole sono cariche di significati (e talvolta di ideologie) e l’enfasi per la rigenerazione è un po’ sospetta. Cosa si cela dietro questa parola magica? Riconvertire questi manufatti, queste aree abbandonate in quale prospettiva di nuova città? con quali vantaggi? e di chi?
Se non si risponde a queste domande, la rigenerazione resta una parola grimaldello, come lo sviluppo sostenibile o la resilienza, con la quale scardinare qualsiasi equilibrio in nome della solita innovazione e modernizzazione. Oggi, ad esempio, questa parola viene invocata da molte amministrazioni per sfrattare centri sociali e culturali da vecchi edifici fatiscenti. Altra cosa sarebbe se per rigenerazione si intendesse proprio favorire queste esperienze in nome di un rinnovamento culturale e sociale.
In conclusione, questo uso di concetti e modelli importati da altre discipline più “dure” si spiega forse con il fatto che quello dell’urbanistica è un sapere più recente (possiamo datare la nascita dell’urbanistica moderna nell’epoca della rivoluzione industriale, verso la fine del Settecento), che non ha raggiunto il grado di maturità che permette alla fisica o alla chimica, per esempio, di svilupparsi in modo autonomo, al riparo delle influenze ideologiche e culturali. Presentarsi come disciplina scientifica ha delle ricadute in termini di prestigio, ma anche di finanziamenti di ricerca o contratti di consulenza.
Sarebbe bene che questa disciplina smettesse di importare concetti da altri campi per darsi una veste di apparente scientificità o per mostrarsi alla moda, e ne sviluppasse dei propri a partire dalla sua tradizione, con proprie parole e propri significati; il processo di partecipazione inizia da qui.
Il respiro delle rovine può far rinascere le città, apparso oggi su Repubblica, Salvatore Settis tesse l’elogio della trasformazione in parco urbano della high line...(segue)
Un edificio di Zara Hadid. in basso a destra un pezzo del parco |
«Come esistono quelli specializzati nel piastrellare un pavimento, così esistono i partecipatori. Questi vengono adoperati da amministrazioni, autorità locali ma anche grosse imprese di progettazione per mediare il rapporto tra progetto ed utenti. Diventano facilitatori del consenso, o comunque negoziatori tra le richieste della popolazione e le decisioni dei pianificatori» [1]
La loro vocazione (un tantino tenuta nascosta) è quella di eliminare il conflitto tra i rappresentanti e i rappresentati, tra l’amministrazione e gli abitanti, in ordine a un qualche progetto o a una qualche opera controversa. Dunque, semplificando, prima i rappresentati (cittadini) votano i loro rappresentanti politici (amministratori), poi, una volta eletti questi ultimi, si organizzano gruppi di pressione per far valere quelli che ritengono i propri diritti. Tutto questo laborioso progetto maschera la crisi della politica, il vuoto politico tra eletti ed elettori. Ma siamo sicuri che il conflitto (parola di questi tempi oscurata) vada eliminato o comunque ridotto?
«Si tratta, in sostanza, di riflettere sulle trasformazioni della rappresentanza in un’epoca in cui il popolo non si sente più rappresentato dalle istituzioni e i cittadini non concorrono più a determinare la politica nazionale (o locale, nda) associandosi in partiti, ma, eventualmente, in altro modo. Potremmo deprecare o meno entrambi i fatti, tuttavia questo è il dato di realtà dal quale partire. E allora delle due l’una: o si ritiene si possa fare a meno del parlamento e dei partiti, rinunciando in tal modo all’idea stessa di democrazia così come definita dalla modernità giuridica (in fondo le pulsioni populiste che sono oggi egemoni operano in tal senso) oppure diventa necessario ricollegare le istituzioni e gli strumenti della democrazia rappresentativa alle diverse espressioni in cui si manifesta la volontà popolare. Se si vuole rafforzare la democrazia costituzionale è necessario ripensare oltre alle forme della rappresentanza anche le forme della partecipazione»[2]
Ma c’è un secondo aspetto della questione che è dirimente: chi partecipa alla partecipazione? Non tutti gli abitanti della città, ovviamente, ma un limitatissimo gruppo di loro esponenti, quelli che se lo possono permettere, mentre la gran parte della popolazione, una volta esaurita la fase elettorale, è occupata a procurarsi quanto necessario per vivere o, più spesso, per sopravvivere. Il gruppo dei partecipanti diventerà ben presto un gruppo di pressione che, a sua volta, pretenderà di aver ricevuto una delega dagli abitanti esclusi e di rappresentarli di fronte agli amministratori.
«Una specie di professione cuscinetto tra interessi diversi. Il problema è che in questa funzione filtro specializzata tutto si ricompone in maniera tale che poco cambia nella passività degli abitanti e nella vecchiezza dell’impostazione progettuale».[3]
Ma nel lungo periodo il rischio è che tale pratica tecnica aumenti ancora di più il distacco tra popolazione e suoi rappresentanti, anzi che ne sancisca definitivamente il distacco, che è crisi della politica, crisi della rappresentanza, crisi della democrazia. E anziché affrontare questa crisi, si preferisce aggirarla, sterilizzarla. E come sempre è la tecnica ad assolvere questa funzione. Perché, spiegano i cosiddetti facilitatori, la partecipazione ha delle regole ferree che bisogna conoscere e rispettare, pena la sua perdita di efficacia. Quella del “facilitatore” è diventata dunque una professione a parte che si avvale di un linguaggio e di tecniche che solo uno specialista può conoscere. Così che all’opacità dei progetti di una amministrazione si aggiunge quella, ancora più opaca, della partecipazione, con buona pace del conflitto e della cittadinanza attiva. Se applicassimo questo concetto alla malattia, sarebbe come dire che trovando oscure le parole del medico cui ci si affida e altrettanto incomprensibili le cure da lui prescritte, si decidesse di far nascere una figura professionale (il facilitatore) che fa da cuscinetto tra il paziente e il medico.
Quì la crisi dell’urbanistica, in quanto sapere specializzato, si fa più evidente. Sappiamo bene che un abitante che volesse leggere il piano regolatore del proprio paese per conoscere la destinazione d’uso di una qualche area e le norme tecniche che ad esso si riferiscono, troverebbe assai difficile comprendere quelle mappe e ancor più difficile destreggiarsi tra quelle norme. Sorge allora la domanda: quand’è che l’urbanistica si è così specializzata tanto da diventare incomprensibile agli abitanti al servizio degli interessi dei quali essa è nata, a tal punto specializzata che occorre una figura professionale ad hoc per decifrarne il senso e le insidie? Questa sua specializzazione, come la lingua latina usata da don Abbondio per abbindolare Renzo e Lucia, sembra costruita ad arte per essere di volta in volta, interpretata in funzione delle esigenze dei privati, delle agenzie immobiliari. Il piano regolatore, ad esempio, detta delle regole precise in tema di edificazione e uso dei suoli. Ma poi poteri forti sono sempre capaci di derogare quelle norme, o attraverso nuove norme o attraverso varianti al piano. Alla fin fine lo strumento di piano finisce sempre col favorire l’interesse privato rispetto a quello pubblico.
In che modo la cittadinanza può difendere l’interesse pubblico in una condizione di svuotamento della democrazia rappresentativa? Non sempre una democrazia pluralista e conflittuale può supplire questa carenza. La complessità sociale con la quale si manifesta oggi la cittadinanza difficilmente si presta ad essere interpretata e men che mai ad essere rappresentata. Così che anche «il rappresentato dovrà convincersi – in tempi di crisi della rappresentanza e di liquefazione del rappresentante – che la lotta per le istituzioni democratiche gli appartiene»[4]
[1] F. La Cecla, Contro l’urbanistica, Einaudi, Torino, 2014, p.79
[2] Così Gaetano Azzariti, riassume il senso dell’attuale crisi della rappresentanza; da: I tre cardini del rinnovamento istituzionale, Il manifesto, 15 marzo, 2017
[3] Ivi
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Giunta al potere, infatti, la Sinistra storica emarginò la sua ala cosiddetta “Estrema” – vale a dire i propugnatori di programmi riformatori più radicali – e si alleò con la Destra liberale, governando per un decennio con una politica di centro e dando un colpo rilevante all’etica politica e all’immagine pubblica dell’istituzione parlamentare. Sui vari provvedimenti del governo, infatti, Sinistra e Destra convergevano armonicamente. Maggioranza e opposizione divennero indistinguibili. Dunque, il trasformismo del nostro tempo è, propriamente, quello inaugurato da Renzi, con il patto del Nazareno, vale a dire un’alleanza informale di governo con il precedente avversario. Senonché Silvio Berlusconi non è Marco Minghetti o i fratelli Spaventa, ma il capo di un partito-azienda, condannato in via definitiva da un tribunale della Repubblica, dunque un pregiudicato, un leader portatore di un gigantesco conflitto di interessi mai risolto, un uomo che aveva manomesso Parlamento ed esecutivo per i propri privati interessi, che aveva dato di sé, all’opinione pubblica mondiale, un’immagine offensiva della nostra dignità nazionale.
Quando un partito, com’è accaduto al PD di Renzi, finisce con l’allearsi con l’avversario politico di un ventennio, per perseguire peraltro scopi politici controversi, il colpo di natura piscologica e morale subìto da elettori e militanti risulta particolarmente severo. In questo caso una lunga stagione della vita, venti anni dei sentimenti e delle passioni di milioni di persone, vengono rovesciati e contraddetti di colpo dall’iniziativa politica decisa di un uomo solo. E’ davvero difficile pensare che una simile scelta potesse essere perseguita senza conseguenze anche gravi sul popolo che stava dietro le insegne di quel partito. I partiti e in primissimo luogo quelli di sinistra, erano ( e sono in parte ancora) formazioni di forte identità, luogo di sentimenti oltre che di idee e interessi, terreno di idealità e di generoso volontariato. La dissoluzione di queste fedi, di questi collanti sentimentali, per quanto usurati rispetto ai precedenti decenni d’oro, ha divorato ogni ragione di condivisione ideale tra la grande massa di popolo che si identificava in quel partito.
Nel novero delle repliche del passato andrebbe oggi anche posta l’idea del Partito della nazione che Renzi intendeva perseguire con la combinazione della riforma della Costituzione e l’Italicum. Una formazione che, per almeno un decennio, sarebbe diventato il “Partito unico della nazione”, se gli italiani non l’avessero bocciato nelle urne. Una replica funesta della storia, anche se in un contesto profondamente mutato, fortunatamente abortita.
Ed ecco l’ultimo grottesco ripescaggio, in nuove forme, di comportamenti politici dai bassifondi della vita civile del nostro passato: la negazione della decadenza del senatore Minzolini da parte di molti senatori del PD. Grazie anche a costoro, il Parlamento ha violato una legge dello stato. Anche in questo caso abbiamo assistito a un episodio che Gramsci avrebbe definito di «sovversivismo delle classi dirigenti», una delle tante forme di violazione dello stato di diritto che i ceti dominanti italiani hanno messo in atto lungo la nostra storia unitaria.
Per questo gli episodi di tesseramento selvaggio al PD, in varie città italiane, segnalati dalla stampa negli ultimi giorni, non deve sorprendere più di tanto. Lo svuotamento etico-politico di questo partito è ormai completo. Ed esso si presenta quale drammatica testimonianza di una esperienza fallimentare e insieme insegnamento ineludibile per il futuro. Non si può far commercio dei sentimenti e degli ideali delle persone, senza pagare conseguenze, talora anche gravi e definitive. La Realpolitik, di cui, nella sinistra, è stato maestro Giorgio Napolitano, può anche conseguire successi momentanei, ma alla lunga può risultare rovinosa. E’ diventa rovinosa nel caso di Renzi , perché al capovolgimento del sentire comune di tanta parte del popolo del PD, è anche corrisposto un suo definitivo distacco dalla rappresentanza degli interessi della classe operaia e dai ceti popolari.
eddyburg, di un voto prima favorevole, poi smentito dal governo, sulla risoluzione... (segue)
eddyburg, di un voto prima favorevole, poi smentito dal governo, sulla risoluzione A/RES/71/258 che, all’assemblea generale delle Nazioni Unite chiedeva l’avvio di trattative per il divieto delle armi nucleari e la loro eliminazione, non si capisce se il nostro governo parteciperà ai lavori per tali trattative che cominceranno fra qualche giorno, lunedì 27 marzo, presso le Nazioni Unite a New York.
Sarebbe un grave errore non partecipare per la sola illusione che la presenza di bombe nucleari, quindicimila, nei nove paesi che le possiedono ha la funzione di evitare il loro uso; la teoria della deterrenza, secondo cui nessun paese le userebbe per primo per paura che il “nemico” si vendicasse con effetti ancora più devastanti, è sconsiderata e non evita il pericolo di una catastrofe planetaria.
Sarebbe un grave errore, anche politico, se il governo italiano, per sofismi giuridici e diplomatici, non partecipasse alle trattative per un disarmo nucleare nel nome della fedeltà atlantica agli Stati Uniti, ad un imperatore che rifiuta la stretta di mano al capo di un paese della stessa alleanza atlantica come la signora Merkel, come è avvenuto qualche giorno fa.
Gli ultimi mesi, anzi le ultime settimane, sono state caratterizzate da segnali ben preoccupanti; una corsa all’ampliamento e al perfezionamento delle bombe nucleari e dei missili da parte di tutti i nove paesi che li possiedono; un crescente pericolo del lancio accidentale di alcune delle migliaia di bombe pronte al lancio, dovuto ad un calcolo politico sbagliato, ad un errore umano o ad una attacco ai sistemi elettronici di trasmissione dei dati; la crescente instabilità internazionale; il possibile accesso di gruppi terroristici ad una anche “piccola” bomba nucleare.
Scienziati e uomini politici, oltre a milioni di persone in tutto il mondo, tutti i pontefici cattolici nell’ultimo mezzo secolo, i rappresentanti delle altre comunità cristiane e di altre religioni, hanno chiesto che le armi nucleari siano considerate illegali e siano messe al bando e distrutte come si è riusciti a fare con le altre armi di distruzione di massa, quelle chimiche e biologiche.
Con la risoluzione che si comincerà a discutere fra qualche giorno la maggioranza dei paesi della Terra ha avviato un processo che si propone tale obiettivo.
Milioni di esseri umani nel mondo guardano con ansia e speranza a quanto avverrà alle Nazioni Unite; occorre fare presto, perché l’auspicata distruzione delle armi nucleari esistenti nel mondo sarà una operazione lunga e di grandissimo impegno tecnico, scientifico e finanziario.
Immaginate che cosa può significare, anche in termini economici, lo smantellamento delle migliaia di bombe nucleari esistenti negli arsenali. Si tratta di smontarle, di separare gli “esplosivi nucleari” (uranio arricchito in U-235, plutonio, deuterio, trizio), materiali che restano radioattivi per anni, secoli, alcuni millenni, da mettere al sicuro da possibili furti, da seppellire non-si-sa dove e come per evitare contaminazioni ambientali.
D’altra parte le ancora più gigantesche somme finora spese per tenere in funzione e perfezionare le armi nucleari potrebbero essere finalmente messe a disposizione per dare acqua potabile a chi ne è privo, una casa e del cibo e istruzione e servizi igienici e sanitari ai miliardi di persone che sono affamate e disperate e arrabbiate, che si lanciano attraverso i deserti e i mari per cercare ricovero nei paesi ricchi, per opere che taglierebbero l’erba sotto i piedi dei terrorismi.
L’abolizione delle armi nucleari è, insomma, la premessa per realizzare una maggiore giustizia internazionale e, si sa, come ha detto Isaia, la giustizia è la mamma della pace.
“big, beautiful, powerful”), vale a dire il muro...(segue)
“big, beautiful, powerful”), vale a dire il muro che separerà il Messico dagli Stati USA confinanti, sta provocando un crescente attivismo nelle amministrazioni locali, ben intenzionate a ostacolarne la realizzazione: soprattutto in California, ma anche altrove. Fra le misure adottate, la ‘lista nera’ delle imprese di costruzione: se parteciperanno alle gare d’appalto per il muro, non otterranno più alcun incarico dalle amministrazioni locali.
Fra i grands travaux sbandierati da Trump, quello a più alto valore simbolico, poiché materializza in un manufatto fisico lungo la metà della Grande Muraglia Cinese la sua ideologia reazionaria e razzista, è certamente il muro che dovrebbe essere costruito lungo tutto il confine fra gli Stati Uniti e il Messico: 2.000 miglia, una altezza di almeno 5 metri e mezzo e una profondità al suolo di 2 metri per impedire lo scavo di tunnel sotterranei. Costo preventivato: 21 miliardi dollari; una cifra colossale destinata ad attirare frotte di imprese di costruzione e di cementieri.
Ma in California, e non solo, l’iniziativa di Trump non è gradita a molte amministrazioni locali che stanno reagendo con decisione e ostacolando, con iniziative legislative mirate, la realizzazione di un’opera probabilmente inutile, ma, soprattutto, inaccettabile per il suo valore simbolico di chiusura del paese nei confronti della popolazioni che si ammassano al confine meridionale della California e che hanno invece costituito, nella lunga durata, l’imponente esercito di forza lavoro a basso costo che ha garantito la crescita esponenziale dell’economia dello Stato più ricco degli USA.
Fra pochi giorni (esattamente il 28 marzo 2017) dovrebbe essere approvato dal consiglio municipale di San Francisco, e dalla omonima Contea, una norma, proposta da due membri del Board of Supervisors1), Hillary Ronen e Aaron Peskin, che impedirà alle imprese che parteciperanno alle gare d’appalto per la realizzazione del muro di concorrere in futuro per l’aggiudicazione di appalti per lavori pubblici commissionati dall’amministrazione locale.
San Francisco non è nuova a queste iniziative orientate alla tutela dei valori progressisti e democratici che la caratterizzano da sempre. Recentemente il sindaco Ed Lee ha proibito tutti i viaggi non essenziali degli impiegati della municipalità nel North Carolina, per protestare contro le politiche discriminatorie esercitate da quello Stato nei confronti della comunità LGBT; lo stesso ha fatto per i viaggi in Indiana dove l’allora governatore (e attuale vicepresidente) Mike Pence aveva fatto approvare una legge sulla ‘libertà religiosa’ apertamente discriminatoria nei confronti di gay e lesbiche; anche il vice-governatore della California Gavin Newson ha preso una decisione analoga nei confronti dell’Arizona, in risposta alle disumane politiche anti-immigrazione approvate in quello Stato nel 2010 (Arizona Senate Bill 1070).
Più in generale, è tutta l’area metropolitana di San Francisco la capofila di queste iniziative anti-muro: il consiglio municipale di Berkeley ha già approvato da pochi giorni una ordinanza analoga a quella in via di approvazione a San Francisco; e lo stesso ha fatto quello di Oakland. Ma analoghe misure sono state proposte anche per lo Stato e la città di New York.
Il Parlamento della California si sta a sua volta muovendo: il 20 marzo è stata presentata in Parlamento una proposta di legge (Assembly Bill 946) che si fregia dell’eloquente titolo “Resist the Wall Act”: la legge vieterà ai fondi pensione di investire nelle imprese coinvolte nella costruzione del muro, “di investire nei valori pieni di odio rappresentati dal muro di Trump”.
Sembra che già 640 imprese, in prevalenza americane, abbiano manifestato il loro interesse a partecipare alla costruzione del “muro della vergogna” (come viene definito in California); fra queste, due grandi imprese (una di Oakland e una di Los Angeles) che hanno recentemente ottenuto grandi contratti pubblici a San Francisco. Anche queste imprese verranno escluse da future gare pubbliche locali se parteciperanno ai bandi per la costruzione del muro.
A due mesi dall’inizio del mandato presidenziale, le ordinanze locali anti-Trump adottate negli USA sono già molteplici e significative; sono l’indicatore di un grande attivismo locale e di una capacità di elaborazione propositiva coraggiosa e lungimirante. Si è cominciato subito dopo le elezioni presidenziali con le iniziative per la tutela della popolazione ‘illegale’ già residente (le cosiddette Sanctuary Cities); si procede oggi con nuove ordinanze prescrittive finalizzate a rendere più arduo il percorso per l’ aggiudicazione dei ricchi appalti per la costruzione del Muro della vergogna.
Probabilmente le ‘liste nere’ avranno un effetto relativamente limitato. E, nel caso avessero effetto, arriveranno immediatamente a sostituire le imprese locali quelle internazionali, attratte dal ghiotto boccone rappresentato dalla colossale opera pubblica. Ma la mobilitazione contro il progetto odioso di Trump, e la capacità di ‘comando e controllo’ manifestata dai governi locali nei confronti delle grandi imprese di costruzione (il divieto al quale ho fatto cenno si estenderebbe anche alle imprese subappaltanti) costituiscono comunque delle esperienze virtuose, ancorate a un modello di cittadinanza aperta e multiculturale.
Insomma, viste dal nostro paese queste esperienze appaiono davvero sideralmente distanti. Quando mai in Italia i governi locali hanno ‘discriminato’ sulla base di motivazioni etico-politiche le grandi imprese di costruzione? Tutt'al più, lo hanno fatto a seguito di interventi della magistratura inquirente. In un paese dove i ‘furbetti del quartierino’ hanno rappresentato soltanto la parte emergente (per sguaiataggine e cinismo) dell’iceberg – purtroppo inattaccabile dal riscaldamento globale - della collusione fra politica e settore immobiliare/finanziario; in un paese nel quale, a livello generalizzato e senza eccezioni, i costruttori e le loro lobby politiche di sostegno continuano a spadroneggiare in totale libertà (e spesso opacità) nella trasformazione urbana e nel saccheggio del territorio, la battaglia di San Francisco e delle altre città americane ci attrae poichè ci propone strategie e azioni di buon governo. Certo, l’opera contro la quale si stanno mobilitando le autorità locali appare particolarmente odiosa; ma la risposta che quest'ultime stanno dando costituisce un esempio di Buona Pratica che occorrerebbe saper imitare anche nel nostro paese: un paese nel quale la politica (tutta) appare oltre che completamente asservita alle logiche immobiliari anche particolarmente imbelle e senza fantasia.
1) Il Board of Supervisors è costituito da 11 membri eletti dai Distretti e garantisce il supporto giuridico per le decisioni dell’amministrazione locale.
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Nel luglio 2016, Matteo Renzi ha invitato a pranzo Jeff Bezos, fondatore e presidente di Amazon (pappa al pomodoro, filetto, gelato alla crema e vini tutti toscani) e, dopo averlo portato a spasso al museo, ha così commentato l’incontro: «bello discutere con Jeff Bezos a Firenze e belli i progetti di Amazon per l’Italia».
Tra i progetti che hanno suscitato l’ammirazione dell’ex capo del governo figurano i due centri di distribuzione, rispettivamente a Passo Corese, ad una trentina di chilometri da Roma, e a Vercelli, con i quali la multinazionale del commercio online si appresta a consolidare la sua presenza sul suolo italiano, dove è sbarcata nel 2011 insediandosi a Piacenza, nel polo logistico di Castel San Giovanni.
Le tappe del processo che porta alla realizzazione degli enormi magazzini sono ovunque le stesse. La location viene scelta fra un certo numero di città che lottano fra di loro per attrarre l’investitore e allo scopo offrono infrastrutture, vantaggi economici e rilassamento di norme e regole. Nelle trattative tra istituzioni locali e capitale privato, i cui termini non vengono resi noti ai cittadini, sono coinvolte grandi società immobiliari e di costruzione che si accaparrano i terreni, realizzano le opere e le affittano ad Amazon. Accortamente, i pubblici amministratori lasciano trapelare solo indiscrezioni riguardanti l’arrivo miracoloso di migliaia di posti di lavoro, il che stronca ogni possibile opposizione e fa si che i progetti vengano approvati senza una realistica valutazione dei danni ambientali e sociali che la costruzione di queste e vere e proprie città per le merci comporta.
Lo stabilimento di Passo Corese, alto quindici metri, occuperà cento dieci mila metri quadrati su una superficie fondiaria di duecento venti mila, all’interno dell’omonimo parco di sviluppo industriale istituto dalla provincia di Rieti per mettere a profitto una “naturale vocazione alla logistica, a servizio del sistema-Roma, ma anche dell’intera Italia centrale e meridionale. Un investimento reale, che punta sulla crescita economica locale per creare lavoro, specie per i più giovani.”
L’area del parco industriale coincide con quella che avrebbe dovuto essere riservata al parco archeologico della Sabina, di fatto cancellato, malgrado le proteste di alcuni gruppi di cittadini e del FAI che, nel 2011, aveva segnalato alla sopraintendenza per i beni archeologici del Lazio i rischi di danni ambientali e deturpazione del paesaggio. La sopraintendente aveva risposto che «la normativa vigente permette di contemperare le istanze di tutela del patrimonio archeologico con la realizzazione dell’intervento che risulta provvisto delle necessarie autorizzazioni». I lavori per il parco industriale sono proceduti a rilento per molti anni - la vicenda è stata oggetto anche di una delle inchieste del programma televisivo Report - ma ora, grazie al bel progetto di Amazon, il cantiere è in piena attività.
Subito dopo il vertice di Firenze, Amazon e la regione Lazio hanno sottoscritto un accordo per dare il via a "uno dei più grandi progetti di sviluppo del territorio". La regione ha messo “nero su bianco gli impegni al fine di dotare l’area di tutte le infrastrutture ed i servizi necessari all’arrivo di un gigante come Amazon”. Più specificamente, si è impegnata "a investire sulle infrastrutture materiali e immateriali e a impartire direttive ai centri per l'impiego presenti nella provincie di Rieti e Roma affinché promuovano le offerte di lavoro, consigliando gli strumenti legislativi per procedere all'assunzione del personale e prevedendo altresì agevolazioni per la formazione”.
Inoltre, le parti pubbliche dovranno completare la bretella di collegamento tra la strada statale Salaria e la strada regionale di Passo Corese. Per questo, “senza oneri alle parti private”, la regione s'impegna a concedere un finanziamento affinché venga realizzato, entro il 31 dicembre 2017, il raddoppio della strada regionale nel tratto compreso tra la bretella di collegamento e l'asse di penetrazione all'area del polo.
Gli edifici per Amazon verranno costruiti dalla Vailog real estate investment sui terreni che, dopo essere stati espropriati al valore di suolo agricolo, risultano di proprietà della SECI real estate (una branca del gruppo Maccaferri di Bologna) che fa parte della società per il parco industriale della Sabina spa, e verranno attrezzati con sistemi di gestione e movimentazione della merce robotizzati, automatizzati e standardizzati.
«Finalmente arriva il lavoro» è stato il commento entusiasta del presidente della regione Nicola Zingaretti, alla posa della prima pietra, il 10 febbraio 2017. Alla cerimonia è intervenuto anche il ministro delle infrastrutture Graziano Delrio che ha detto: «la scelta di Amazon di continuare a investire sul nostro paese è la prova della nostra capacità di offrire una rete infrastrutturale e amministrazioni locali che funzionano». In passato, ha aggiunto «l'Italia è rimasta indietro nelle infrastrutture, anche perché la logistica non è mai stata al centro dell'attenzione. Ciò che serve sono investimenti accompagnati da una forte semplificazione burocratica in un quadro di scelte strategiche concrete. L'Italia è davvero la porta d'ingresso delle merci per l'Europa». «Oggi, e così nei prossimi anni» - ha concluso il ministro - «l'Italia è chiamata ad affrontare la sfida della crescita del commercio online anche ai fini dell'internazionalizzazione delle nostre imprese, e al centro di ciò deve esserci l'innovazione della logistica e l'ottimizzazione dei trasporti».
A conferma che l’Italia è stata scelta dalla multinazionale del commercio online come uno dei fronti di penetrazione in Europa, nel dicembre 2016 Amazon ha annunciato che costruirà un centro di distribuzione anche a Vercelli.
«Vercelli è, per noi, un posto strategicamente molto importante», ha detto Tareq Rajjal, il country manager di Amazon Italia. «Abbiamo l'autostrada vicino, che ci permette di essere ben connessi con il resto del paese, ma non solo. Noi siamo un network continentale, abbiamo 31 siti in tutto il contesto europeo e Vercelli sarà inserita in questa scacchiera, per noi l'Europa è un paese unico, e noi siamo un'unica city”.
Lo stabilimento occuperà cento mila metri quadrati di terreno agricolo. «La trattativa è stata gestita tutta da privati e i giochi sono ormai fatti. Il consiglio comunale ha concesso uno sconto sui terreni e la (tanto vituperata) macchina amministrativa ha fatto il suo lavoro», gongola la stampa locale. E a rassicurare Amazon, è intervenuto anche il presidente della regione Sergio Chiamparino che ha dichiarato «la regione considera l’investimento strategico per il territorio e si impegna a cooperare con Amazon in modo da creare e mantenere un ambiente positivo che permetta alle aziende di crescere, innovarsi ed espandersi».
La scelta di Vercelli è avvenuta dopo una fiera battaglia a colpi di sconti con Biella e Novara, al termine della quale i vincitori si vantano di essere «il luogo ideale, perché costiamo meno anche come oneri di concessione», e il Sole 24 ore ha incluso la città nella lista delle “grandi città della logistica”, lista la cui prima posizione è occupata da Piacenza, dove ormai un lavoratore su dieci è impiegato nella logistica.
Piacenza è stata la prima località italiana scelta da Amazon, perché offre “la possibilità di attingere a una forza lavoro di eccellenza, ottimi collegamenti con le principali autostrade, una valida collaborazione con il comune e i suoi enti”.
Avviato nel 2011 e più volte ampliato, anche il centro di distribuzione di Piacenza è di proprietà della società Vailog e si estende su circa cento mila metri quadrati. E’ stato oggetto di inchieste e denunce per le infami condizioni a cui sono sottoposti i lavoratori, il cui unico risultato è l’operazione Porte Aperte, cioè la possibilità per gli estranei di effettuare visite guidate al suo interno.
Oltre ai tre centri di distribuzione, Amazon ha in Italia un centro di servizio a Cagliari e una serie di magazzini e depositi in diverse località e, secondo “indiscrezioni”, sta cercando di farsi vendere dall’Enel alcune centrali elettriche in disuso per installarvi i suoi data center. Probabilmente ci riuscirà, grazie ai buoni rapporti che i padroni di Amazon hanno con il governo italiano, e soprattutto con Renzi che, nel febbraio del 2016, ha nominato Diego Piacentini, il vicepresidente della multinazionale, “commissario del governo per il digitale e l’innovazione”.