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Lodo Meneghetti
Da una parte la mafia, dall’altra il fascio-nazismo
12 Maggio 2017
Lodovico (Lodo) Meneghetti
Due sembianti della città appaiono chiari solo casualmente ai milanesi (per quanti ne esistano ancora e ricordino le vicende sociali). ...

(segue)

Due sembianti della città appaiono chiari solo casualmente ai milanesi (per quanti ne esistano ancora e ricordino le vicende sociali). Come due linee parallele che man mano allungano il proprio tracciato mentre il tempo trascorre, quindi non spariscono mai, anzi seguono la logica dell’accumulo e diventano linee di forza, la mafia (in Lombardia specialmente ‘ndrangheta) e il fascismo-nazismo coltivano la propria distinzione. Come le parallele non si incontrano né si scontrano, benché lo si sarebbe potuto immaginare pensando a storie di mafia e di fascismo del meridione [1]. La prima occupa un largo spazio del capoluogo e tanti altri spazi nella regione, come fosse ormai canonizzata per due motivi: legittima appartenenza a diversi settori economici, quelli in cui è diventata «grande azienda» attraverso una lunga esperienza spesso sanguinosa in Calabria e in Sicilia; partecipazione al dialogo politico-sociale, se così possiamo esprimerci. Il secondo, fenomeno minore al confronto solo per dimensione corporea ma preciso e puntuto, è capace di strascicarsi dentro le mille fenditure nel cretto di una società che perde coesione, che tende, appunto, a fratturarsi come una terra condannata da molto tempo alla siccità.

1. Un procuratore milanese conoscitore dei fatti e misfatti mafiosi per aver lavorato oltre un decennio nella Direzione distrettuale antimafia (Dda), ci dimostrò in un convegno di cui cade ora il decennale che ‘ndrangheta, mafia e consimili diventavano preminenti possessori nella nostra città di interi settori economici o di una loro grossa parte [2]. Dell’edilizia si sapeva, nel Sud il comando sull’intero ciclo produttivo dal terreno all’edificio era già un dato storico. Nulla si erano vietati i clan per liberarsi di qualsiasi ostacolo, assassinio compreso. Nell’esportazione al Nord della potenza imprenditrice non occorrerà più uccidere per conquistare il mercato, semmai basteranno intimidazioni mediante danneggiamento o incendio ai cantieri. E si approfitterà intensamente della tipica condizione esecutiva nel settore delle costruzioni che al temine delle procedure essenziali si sedimenta nella pacchia dei subappalti. Ah.. l’Expo!

Intanto, da cittadini abbiamo quasi toccato con mano la conquista di posizioni dominanti o in ogni modo notevoli nel commercio in tutte le sue declinazioni, negozi di abbigliamento, turismo, alberghi, ristoranti-bar, pizzerie… Secondo voce di popolo le probabilità di portar soldi a ‘ndrangheta o mafia cenando in una qualsiasi pizzeria sono almeno del cinquanta per cento. Del resto la magistratura aveva segnalato che la mano mafiosa detiene circa il 25% del valore commerciale milanese e che «sul mercato» operano intoccabili gruppi di comando potenti quanto e più della vecchia nomenclatura siciliana o calabrese. I negozi e gli empori di abbigliamento che si susseguono inesorabilmente lungo gli oltre quattro chilometri da piazzale Loreto fino al Castello (non esiste quasi nient’altro, se non i bar-falsi-ristoranti per la sosta-pranzo degli impiegati) [3] e s’ingrovigliano fra sparizioni e avventi, cambiamenti di insegna, di marche e di prezzi, ci narrano che la sfera dell’intero processo commerciale gira come un pianeta dove ogni attore sociale svolge il proprio compito, anche truffaldino, nel perseguimento della legalità: ogni capitale d’origine sconosciuta, anche il più intriso di indecenti e nere costituzioni, diventa bianco e si appariglia ai consanguinei allo scopo di vendere solo in apparenza.

Ancora un magistrato ha letto un elenco di comuni lombardi nei quali mafia o ‘ndrangheta rappresentano forze determinanti dell’economia e dei rapporti sociali. Città e paesi, per prima Milano, (non si poteva dubitare…), ma ci sono Varese e Como e Lecco e Monza e Busto Arsizio e molta Brianza e comuni popolosi. D’altronde la Regione conosce i Consigli comunali sciolti per mafia. Le pagine locali dei quotidiani rappresentano la Lombardia come una metafora perfetta della ramificazione della ‘ndrangheta in tutto il settentrione. La questura milanese (la squadra mobile) possiede una mappa - pubblicata dai giornali - che mostra i centri appena importanti fra il capoluogo (compreso) e il confine svizzero «colonizzati».

Le mafie, soprattutto le cosche calabresi, si sono rigenerate dopo le pesanti condanne subite dai capi-famiglia negli anni Novanta grazie all’entrata in azione di figli e altri famigliari che si muovono in maniera per così dire moderna allo scopo di inserirsi nell’economia legale. «Le risorse specializzate» assegnate ai distretti per combattere la mafia sono insufficienti. Quello di Milano, comprendente fra l’altro le città mafiose di media dimensione sopra citate, è costituito da poco più di 200 uomini. La Dia (Direzione investigativa antimafia) che ha competenza su tutta la Lombardia da soli 68. A noi appare ancor più grave la dichiarazione che aggiunge una ragione sociale della mancanza di risorse per una lotta efficace: sta prevalendo «un contesto di “disattenzione”» dei cittadini e delle autorità perché l’attenzione si rivolge «al tema della percezione della sicurezza, che ha spostato i riflettori sulla microcriminalità collegata alla presenza di stranieri e di altri soggetti operanti sul terreno della devianza sociale».

2. Disattenzione, parola chiave. Disattenzione di prefettura, questura, Comune di Milano, polizia locale, consigli dei municipi, associazioni, cittadini. Non si era ancora spenta la risonanza di un 25 aprile popolare trascorso col successo delle manifestazioni e, finalmente dopo diversi anni, col divieto del prefetto (una gentile signora) alle formazioni fasciste-naziste contrassegnate da varie sigle di entrare in corteo nel cimitero Maggiore di Milano, a Musocco, e commemorare alla loro maniera con atti apologetici i soldati della Rsi sepolti al campo 10, quando, il giorno 29, scatta la disattenzione.

Le dimostrazioni (e di più) vietate il 25 accadono in forma massiccia ed esaltata quattro giorni dopo. Il raggruppamento dei tanti movimenti fascisti, neofascisti, neonazisti, nazionalsocialisti, razzisti, (non meno di 1000 militanti, forse 2000?) aveva preparato in segreto la doppia beffarda provocazione: la parata e la celebrazione con i perfetti riti-reato (in primis gli spropositati saluti col braccio alzato) al Musocco, la rievocazione in piazzale Ss. Nereo e Achilleo del camerata Sergio Ramelli ucciso nel 1975 appunto il 29 aprile. Centrati così due obiettivi: «il primo è una prova “muscolare”, beffare lo stato aggirando il divieto della prefettura… Il secondo è strategico: offrire una rappresentazione plastica - visibilissima - dell'attuale compattezza del blocco nero» [4].

Quanto più le numerose formazioni di estrema destra troveranno ragioni per unirsi, tanto più dovremmo preoccuparci per la loro capacità di attrazione in tempo di crisi economica accompagnata da scomposizione sociale e deprivazione della politica di sinistra. Questo nuovo fascio-nazismo sembra più forte del neofascismo degli anni Settanta, anche nei riferimenti culturali che i meno rozzi militanti riescono a sbandierare. Inoltre potrebbe sviluppare una propensione (magari con tattica mistificante) ad alleanze con partiti e movimenti di una destra non propriamente fascista attorno a principi e pratiche effettive di nazionalismo oltranzista, razzismo, odio verso l’immigrato, omofobia, decontaminazione etnica (per esempio Lega, Fratelli d’Italia, pezzi di altri partiti, varie formazioni locali).

Per attrarre i giovani, in parte almeno diplomati della scuola superiore, rivendicare certi presupposti culturali e certi autori-personaggi è il meno che possiamo attenderci quando già abbiamo sentito vantare più volte quali guide magistrali un Julius Evola o un Ezra Pound, entrambi ammiratori di Mussolini ma diversi fra loro. Il primo, innegabile peggior «pedagogo» giacché col suo orientalismo, misticismo, esoterismo, ascetismo, spiritualismo e alchimismo offrì al fascismo ciò di cui aveva bisogno, in sintesi: ogni forma di irrazionalismo per sorreggere e rendere suggestiva la propria brutalità: mito del sangue, della razza, dell’élite spirituale, della sacralità del capo, della fedeltà ai principi eterni lo raffigurano chiaramente. Il secondo, abbagliato da un’Italia fascista creduta acerrima nemica di banchieri, usurai, speculatori, burocrati del capitale, giornalisti servitori del potere finanziario, quando la sua furiosa indignazione avrebbe dovuto indirizzarsi proprio contro un regime completamente asservito al potere capitalistico. Come fosse cieco, il poeta ha creato da sé il proprio inganno e i neo fascio-nazisti che ne fanno un loro eroe scelgono un uomo che illustrava un fascismo inesistente.

Tutto l’armamentario culturalista sfruttato cominciando al principio del Novecento lo potranno sfoltire puntando sull’italianità, accantonando i Drieu La Rochelle, i Charles Maurras, i Louis-Ferdinand Céline (quello «troppo» antisemita di Bagatelles pour un massacre), non un Knut Hamsun, collaborazionista del regime di Quinsling durante l’occupazione nazista della Norvegia e per questo processato, ma premio Nobel del 1920, narratore dall’immaginazione «neoromantica», mistico e visionario. Secondo Claudio Magris «anarchico di destra che sceglie di vivere rifiutandosi di scorgere qualsiasi orizzonte di valori al di là della vita stessa e scoprendo perciò […] l’assoluta irrazionalità dell’esistenza, anche se mitigò [nei romanzi] tale vitalismo con una gentile e perduta poesia delle lontananze» [5]. Resteranno così i maestri nostrani del nazionalismo e, alcuni, del sovversivismo, grani di un rosario contando dai primi tre precursori, Giovanni Pascoli elegiaco bellicista (giustificò la guerra imperialista d’Etiopia con la teoria del «posto al sole), Gabriele d’Annunzio e Filippo Tommaso Marinetti (signori di lettere e arti d’epoca). Poi Giovanni Papini (la violenza necessaria…) e forse il Giuseppe Prezzolini studioso dei mistici tedeschi (per il resto, attivissimo e colto pubblicista, interventista e spettatore davanti al fascismo); e il rosario sgrana nomi su nomi mentre vige la mediocrità (salvo eccezioni!) del «ritorno all’ordine» fino a sciogliersi nel disastro della guerra finché l’ultimo granello disperso recherà il segno di Alessandro Pavolini, scrittore e giornalista, squadrista d’antan, ministro della cultura nel regno, fondatore delle brigate nere, segretario del partito fascista nella Rsi (Repubblica sociale italiana, 23 settembre 1943 – 25 aprile 1945). Fucilato a Dongo il 28 aprile 1945.

[1] I rapporti mafia-fascismo erano evidenti sia prima che dopo l’8 settembre 1943: mafia, fascisti e istituzioni collaborarono secondo una logica repressiva dei movimenti socialisti, comunisti e anarco-rivoluzionari che si stavano affermando in Sicilia. È la propaganda fascista che ha sempre raccontato il regime mussoliniano quale implacabile nemico della mafia.
[2] Vedi il mio La rendita e le mafie, in il Novarese, a. XXVVII, n. 4, dicembre 2016, p. 8.
[3] Vedi la mia descrizione del tragitto in La contesa degli identici a Milano, madre della compravendita, in eddyburg, 21 aprile 2016.
[4] Paolo Berizzi, Milano, la deriva neofascista ricompatta la galassia nera: così l’ultradestra unita sfida lo stato, in la Repubblica/Milano, 6 maggio 20017.
5] Claudio Magris, Il prigioniero della vitalità, in C. Cases, C. Magris, L’anarchico al bivio, Einaudi, Torino 1974, p. 38.

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