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Ogni anno delle piogge intense, magari imputabili al cambiamento climatico che surriscalda il pianeta, tanto per dare la colpa a qualcuno, fanno uscire l’acqua [...] si invoca lo stato di “calamità naturale” [...] Nessuno prende in considerazione che non c’è niente di “naturale”. Segue

Ogni anno delle piogge intense, magari imputabili al cambiamento climatico che surriscalda il pianeta, tanto per dare la colpa a qualcuno, fanno uscire l’acqua dagli argini di fossi, torrenti, fiumi, sulle colline e nelle pianure, allagano e distruggono sottopassi, strade con i tombini che esplodono, campi coltivati con i loro faticati raccolti, fabbriche e abitazioni, strade e ferrovie. La risposta delle autorità è sempre la stessa: si invoca lo stato di “calamità naturale”, il che vuol dire chiedere allo stato qualche soldo, che arriva sempre in ritardo, per ricostruire nello stesso posto, le stesse cose che sono state spazzate via dalle acque, per rimborsare le perdite dei beni alluvionati o dei raccolti perduti.

Nessuno, cittadini, alluvionati, governanti, prende in considerazione che non c’è niente di “naturale”; si continua ad autorizzare costruzioni, edifici e strade, sulle rive dei fiumi e dei torrenti, sul fianco delle colline, dove fa comodo ai proprietari dei suoli i quali non pensano che le loro stesse proprietà andranno in rovina, un anno o l’altro. Ogni anno nel nord e al centro e nel sud e nelle isole d’Italia, le alluvioni fanno danni da mezzo secolo a questa parte. I governanti promettono iniziative per la difesa del suolo, emanano decreti che finanziano appalti per opere che saranno spazzate via uno o dieci anni dopo.

Io credo che chi propone o approva o modifica leggi, non sia mai andato con gli stivaloni nel fango a spalare detriti, non sia mai sceso sul greto di un torrente, altrimenti avrebbe osservato che le alluvioni sono figlie di una chiara violenza contro la natura e richiedono soluzioni altrettanto chiare. L’acqua da miliardi di anni ha “l’abitudine” di scendere dall’alto al basso lungo le strade di minore resistenza; quando trova un ostacolo lo aggira e si crea delle vie di scorrimento più comode, oppure lo sposta e lo porta in basso, siano sabbia, pietre, piante.

D’altra parte la forza delle acque è rallentata e frenata dalla vegetazione spontanea, e così nei millenni le acque hanno “disegnato” le valli e hanno creato le pianure che sono poi diventate fertili, attraversate da fiumi che portano incessantemente al mare il loro carico di sostanze solide disciolte o in sospensione. Purtroppo il fondo delle valli e le pianure, là dove corrono le acque, sono stati e sono gli spazi più appetibili economicamente e là sono sorti villaggi e poi paesi e poi città, con le loro strade e “ponti” e sottopassaggi, con i loro “fiumi sotterranei” di fogne. Tutto guidato dalle leggi “economiche”, cioè si è costruito dove c’erano interessi e proprietà privati o dove le opere costavano meno o erano più comode.

Con l’aumento della popolazione e del “benessere” le presenze umane hanno invaso gli spazi dove scorrevano le acque, hanno distrutto, con quartieri e strutture “sportive”, la vegetazione che rallentava il moto delle acque, ogni intralcio agli affari e al “progresso”. E le acque si vendicano, sono diventate più aggressive e veloci, è aumentata la erosione del suolo, sono diminuiti gli spazi per il libero scorrimento delle acque e queste, ad ogni pioggia più intensa si espandono e allagano le zone circostanti. Le fotografie e le immagini cinematografiche delle alluvioni sono più eloquenti di un trattato di geografia: guardate come i torrenti sono stati imprigionati in stretti canali, come il loro greto sia intasato da pietre, vegetazione, tronchi, come il diboscamento ha lasciato esposte all’erosione grandi superfici delle valli,

Eppure i rimedi sono noti. Il primo è sradicare la dannosa idea che, pur di “portare a casa” qualche soldo nei comuni e nelle regioni, pur di favorire imprese private, si possano autorizzare costruzioni e opere che intralcino il moto “naturale” delle acque. La seconda ricetta consiste nel mettere al lavoro delle persone che puliscano i fossi e i torrenti eliminando almeno i principali ostacoli al moto delle acque per permettergli di scorrere nelle loro vie ”naturali”, che svolgano la funzione di “sentinelle” delle acque. La prima cosa che Roosevelt fece quando divenne, nel 1933, presidente di un’America in piena crisi, piena di disoccupati, con il territorio devastato, fu la creazione dei corpi civili giovanili per la difesa del suolo, costituiti da giovani disoccupati, appartenenti a famiglie disagiate, col compito di svolgere proprio le operazioni di cui parlavo prima.

Si pensi che i soldi spesi e previsti in una delle tante recenti alluvioni per parziale rimborso dei danni sofferti dagli alluvionati, potrebbero assicurare un salario per un anno a migliaia di “sentinelle” delle acque. Con l’effetto che l’anno dopo, due anni dopo, dieci anni dopo, si eviterebbero dolori e danni e distruzioni che costerebbero, alla comunità, ben più di quella cifra. Spero che qualcosa si muova, un giorno o l’altro.

7 agosto 2018. Quattro più altri dodici, sono i braccianti morti in Puglia nel viaggio avanti e indietro dai campi; uno è l’autista morto nell’esplosione di un camion di gas sull’autostrada, eccetera... (segue)

Quattro più altri dodici, sono i braccianti morti in Puglia nel viaggio avanti e indietro dai campi; uno è l’autista morto nell’esplosione di un camion di gas sull’autostrada, eccetera. E in un solo giorno e si tratta di quei pochi che sono finiti sulle pagine dei giornali, senza contare gli altri che restano noti soltanto alle famiglie e all’INAIL.

I sedici morti del Foggiano erano in viaggio perché impiegati nella raccolta dei pomodori, proprio quelli che compriamo nel negozio freschi per l’insalata, o come conserve in bottiglia o che vengono esportati a beneficio dell’economia italiana. Insomma morti per la produzione di merci. Perché le merci non si producono a mezzo di denaro, e neanche a mezzo di merci, e neanche soltanto a mezzo di natura, come è stato scritto, ma si producono a mezzo di lavoro umano, di donne e uomini in carne e ossa.

Detta così, è una frase banale, ma in realtà si pensa poco, anche perché esistono dati molto limitati, sul “contenuto in lavoro” di ciascuna merce. Eppure sarebbe utile chiedersi chi ci ha permesso di possederla; se non altro per dire almeno un grazie.

Facciamo un piccolo esercizio proprio con una bottiglia di conserva di pomodoro: innanzitutto occorre il lavoro degli agricoltori che preparano la terra e seguono la crescita della pianta di pomodoro, poi quello di chi lo raccoglie, un lavoro faticoso sotto il sole, che abbiamo visto “assegnato” proprio ai più poveri e ai più affamati, spesso sfruttati da chi preleva parte dei loro magri salari per alloggiarli in modo indecoroso, per trasportarli avanti e indietro del campo con quei “pulmini” altrettanto indecoroso. E non sono solo stranieri, ma anche italiani poveri, perché ci sono anche italiani poveri che si adattano a qualsiasi lavoro --- e non chiamiamoli “umili” lavori --- per sopravvivere.

I pomodori fanno poi un lungo cammino, spesso in un camion guidato da un lavoratore esposto a tutti i pericoli della strada, amplificati dalla fretta e dal caldo e dalla stanchezza. Alla fine arrivano alla fabbrica dove altri lavoratrici e lavoratori li lavano, selezionano, avviano alle macchine che li trasformano in sugo.

Nella stessa macchina alla fine del ciclo la conserva viene posta in una bottiglia di vetro che è stata fabbricata da altri lavoratori, in qualche lontano posto, fondendo ad alta temperatura sabbia silicea e soda e altri ingredienti, ciascuno fabbricato da altri lavoratori che non sanno dove il vetro andrà a finire e chi dovrà ringraziare il loro lavoro, senza il quale la conserva di pomodoro non arriverebbe mai al negozio. La bottiglia deve essere sigillata con un tappo metallico, fabbricato da qualcun altro e sulla bottiglia va applicata con la colla una etichetta, l’una e l’altra fabbricata da altri lavoratori. Infine la bottiglia di conserva viaggerà su automezzi guidati da un lavoratore e, una volta arrivata nel negozio, potremo portarla a casa grazie al lavoro della cassiera. Quante persone faticano, soffrono, talvolta muoiono per soddisfare le nostre necessità, anche per una banale bottiglia di conserva di pomodoro.

Esistono statistiche che indicano quanti addetti o quante ore di lavoro sono assorbiti ogni anno da ciascun settore produttivo, ma il numero di ore di lavoro e il numero di addetti dicono poco su “chi” sono quelli che dedicano un’ora della propria vita per produrre un euro di ricchezza, o un chilo di merce, o per permettere ad una persona ad una merce di percorrere un chilometro, e su dove quei “chi” hanno lavorato, su una piattaforma petrolifera, guidando un camion o un treno, davanti ad un macchinario, o mungendo una mucca, eccetera.

Senza contare che ormai, con la globalizzazione, il ”chi” ha lavorato per farci avere la merce o l’oggetto che stiamo usando può avere la pelle di qualsiasi colore e vivere in qualsiasi paese della Terra. Ogni tanto ci sono risvegli di conoscenza e di coscienza quando qualche forma di violenza raggiunge le pagine dei giornali; è stato il caso della scoperta che il minerale contenente tantalio, in Congo, era estratto da lavoratori quasi schiavi. La storia del coltan insanguinato, dei diamanti insanguinati, è stata conosciuta, spesso grazie alle organizzazioni missionarie.

Ma la storia naturale del lavoro è ancora più lunga; le merci usate non scompaiono; li chiamiamo “rifiuti”, quelli domestici urbani, quelli “speciali”, 150 milioni di tonnellate all’anno in Italia. Ci siamo sempre detto che i rifiuti non scompaiono, che è opportuno smaltirli correttamente, che anzi è meglio riciclarli, ma si pensa poco anche qui a “chi” fa queste operazioni che molti non farebbero neanche per sogno; li sento, dalla finestra della mia camera, la mattina presto, quando svuotano i cassonetti facendo i conti con l’inciviltà di tanti animali urbani che lasciano le “immondizie” per terra, magari gli stessi che si lamentano perché un giorno gli “operatori ecologici” non sono venuti a svuotare i cassonetti.

Per non dire che una parte dei rifiuti viene esportata dove altri lavoratori, in genere in qualche paese povero, per pochi poveri soldi, spesso donne o bambini, razzolano fra tali rifiuti dei ricchi per ricavarne qualcosa di vendibile o di ancora utilizzabile. E chi poi pratica il recupero, per esempio, di metalli e materiali utili dai rifiuti elettronici che ne contengono in quantità, lo fa spesso fra fumi e acidi tossici.

Si lavora per soldi, naturalmente, per una paga che il datore di lavoro misura sulla base del prezzo a cui venderà la merce per assicurarsi un profitto, per cui la paga non ha niente a che fare con la fatica, il dolore, i bisogni, la vita delle lavoratrici o dei lavoratori. E’ il capitalismo, bellezza. Se non ti va bene, questa è la porta. Ma ci sarà mai un mondo in cui il lavoro è felicità, orgoglio di fare cose buone e non solo armi o veleni, un mezzo con cui la lavoratrice e il lavoratore offre una parte della sua vita per risolvere problemi umani dei suoi simili ?

Articolo inviato contemporaneamente a il manifesto.

“Lavorare fa male alla salute”. E’ il titolo di un libro scritto da Jeanne Stellman e Susan Daum, pubblicato nel 1973 e subito radotto in italiano da Feltrinelli, una amara e spietata...(segue)


Lavorare fa male alla salute”. E’ il titolo di un libro scritto da Jeanne Stellman e Susan Daum, pubblicato nel 1973 e subito tradotto in italiano da Feltrinelli, una amara e spietata denuncia delle tante cause di morte e di dolore a cui sono esposti milioni di persone nell’ambiente delle fabbriche, dei cantieri, delle miniere.

Immaginate una guerra che non risparmia donne e bambini, durante la quale, nel mondo, ogni anno, 3 milioni di persone muoiono subito e per le ferite, le mutilazioni, le lesioni e le malattie riportate per cause di lavoro, e in cui 350 milioni di persone soffrono per incidenti avvenuti negli anni precedenti. Solo in Italia ogni anno i morti per il lavoro sono oltre 1000 e gli incidenti sul lavoro oltre mezzo milione. Questa guerra è in corso, continuamente, e le persone di cui parlo sono operai e contadini, guidatori di treni o navi o camion, fabbricano automobili o edifici o scavano carbone nelle miniere e pietre nelle cave. Di questi morti e feriti non esistono neanche statistiche esatte perché molti sono lavoratori non protetti, non registrati dalle agenzie delle Nazioni Unite o dai singoli governi. Spesso le morti o le malattie privano una famiglia dell’unica fonte di reddito.

Nel settembre 1943 nasceva a Roma l'associazione nazionale fra lavoratori mutilati e invalidi del lavoro (ANMIL) che il 19 settembre di ogni anno ricorda le vittime del lavoro. A livello mondiale la International Labour Organization ha deciso di dedicare un giorno, il 28 aprile di ogni anno, al problema dei pericoli e della sicurezza sul lavoro, quest’anno col tema della vulnerabilità dei giovani lavoratori.

Secondo il pensiero corrente sarebbe finita l’esistenza della “classe operaia”; si dedica molta attenzione all’ecologia e alla difesa della natura e dell’ambiente che sono intorno a noi. Si finisce però per dimenticare che la prima ecologia si ha nell’ambiente di lavoro dove un enorme numero di persone, alcuni miliardi nel mondo, vengono ogni giorno a contatto con le mani e col corpo con sostanze tossiche, operano in condizioni di pericolo, sono esposti a rumori e anche a sempre nuove forme di nocività.

Non si dovrebbe morire, e neanche ferirsi o ammalarsi per il lavoro, che non è una cosa astratta, il mezzo per portare a casa un salario o stipendio, ma è la più importante attività umana, quella che permette a ciascuno di noi, di muoverci, di scaldarci, di avere ogni giorno nei negozi gli scaffali pieni delle merci che desideriamo.

Si dimentica, o si fa finta di non sapere, che in ciascuna merce o sevizio (assistenza medica, mobilità, turismo, istruzione, eccetera) c’è “dentro” abilità e fatica e dolore - e anche morte - di qualche persona, donna, uomo, adulti o ragazzi, vicina o lontana.

Comunque le statistiche sulle morti per il lavoro sono ingannevoli perché vengono contabilizzati solo coloro che muoiono direttamente, cadendo dalle impalcature, o colpiti da getti di metalli incandescenti, o travolti da un macchinario o da un trattore, o in breve tempo dopo l’incidente; molti altri muoiono a mesi o anni di distanza per le conseguenze dell’assorbimento, durante il lavoro, di polveri o sostanze tossiche o cancerogene.

Il caso più clamoroso è quello dei morti fra gli operai che hanno maneggiato l’amianto, una delle perverse sostanze cancerogene che da oltre mezzo secolo sono presenti intorno a noi, un lento veleno che proviene dagli isolamenti termici e acustici, da tubazioni, recipienti e tettoie di amianto-cemento, dai freni degli autoveicoli, e che continua a minare la salute di coloro che son ancora esposti all’amianto nelle operazioni di rimozione, eliminazione e smaltimento di manufatti contenenti le pericolose fibre.

L’amianto è solo una delle molte nocività presenti nell’ambiente di lavoro. Da decenni le organizzazioni dei lavoratori si battono per eliminarle; nei paesi europei solo dopo lunghe e dure lotte, dopo varie inchieste parlamentari, sono state ottenute delle leggi che migliorano (che dovrebbero migliorare) le condizioni di lavoro e diminuire i pericoli e per informare i lavoratori sui pericoli da cui sono circondati e a cui sono esposti, spesso senza saperlo. Ci sono voluti anni per eliminare i più tossici fra i solventi clorurati impiegati nelle lavanderie “a secco”, o il benzene nelle colle impiegate nella produzione di scarpe, o per imporre le maschere di protezione per gli addetti alla verniciatura a spruzzo.

Spesso le norme non sono osservate perché rallentano il lavoro o impongono maggiori costi e minori profitti “ai padroni”; purtroppo spesso il pericolo “non si vede” e non si sente e i tumori o le malattie si fanno sentire a molti anni di distanza, come si è visto nel caso dell’intossicazione da cloruro di vinile o dai fumi delle cokerie o dagli altri silenziosi veleni, tanto che è difficile, anche a fini di assicurazioni e risarcimenti e responsabilità dei datori di lavoro, riconoscerli come la vera causa di molte morti.

Nocività, pericoli e veleni mutevoli nel tempo in seguito a “innovazioni” tecniche, all’uso di nuove materie prime, alla diffusione di nuove attività, come quelle che hanno a che fare con lo smaltimento dei rifiuti urbani e industriali, anch’essi di composizione mutevole a seconda della provenienza. Nelle stesse università e nei centri di ricerca ci sarebbe moltissimo da fare, per chimici, ingegneri, medici, merceologi, per aiutare i lavoratori a conoscere le sostanze pericolose con cui vengono a contatto.

I morti per il lavoro meritano al più qualche frettolosa riga nella cronaca dei giornali. Mi piacerebbe che le città, per ogni morto per il lavoro, proclamassero il lutto cittadino, dal momento che si tratta di persone che hanno dato la vita per assicurare una frazione del benessere di cui ciascuno di noi gode. Ci sono delle città in cui una via o una piazza è dedicata ai “Caduti sul lavoro”; sarebbe importante che di loro si parlasse nelle scuole, dal momento che i ragazzi di oggi sono pure i lavoratori di domani.

Il 22 marzo è la mia giornata e quest'anno voglio parlare di me: sono la goccia di acqua. Di gocce simili a me ce ne sono in numero sterminato, tutte intorno a voi, nel mare davanti a Genova o Palermo o Trieste, ma siamo tutte in continuo movimento e ciascuna di noi ha una sua storia. Io sono in questo momento nel mare, ma sta sorgendo il Sole e il suo calore scalda me e tutte le mie compagne. Questo calore mi trasforma dallo stato di goccia liquida allo stato di vapore e mi disperdo perciò nell'aria. C'è una forza che mi spinge verso l'alto, nell'atmosfera, ma ben presto mi sento circondata da aria fredda che mi costringe a tornare, dallo stato di vapore, allo stato di goccia d'acqua, che è poi lo stato più naturale per me, che mi piace di più.

Come goccia sono più pesante dell'aria e scendo rapidamente; molte mie compagne, e qualche volta anch'io, ricadiamo di nuovo nel mare, ma oggi cado sul suolo di una zona interna dell’Appennino. Benché sia così piccina, arrivo sul terreno con una forza di caduta enorme al punto da disgregare le rocce e da sollevare tutto intorno la polvere; non per vantarmi (e non ci sarebbe da vantarsi) nella mia caduta sul suolo scavo un cratere quasi come una bomba. Il terreno su cui sono caduta è inclinato e io scendo in basso, verso quella che voi chiamate pianura e costa, trascinandomi dietro un po' della polvere disgregata dal terreno.

l mio cammino finisce dopo poco, in un lungo tubo buio; sento una grande forza che mi trascina, voi umani le chiamate pompe, e una di queste mi attira e mi spinge; per un po' di tempo non vedo niente, ma poi ritrovo la luce uscendo da un rubinetto e mi ritrovo fra le mani di un bambino che si sta lavando. La cosa mi piace fino a un certo punto perché il bambino si toglie lo sporco dalle mani con una roba schiumosa, quella che voi chiamate sapone, e io mi ritrovo tutta inquinata.

Dopo qualche istante sono trascinata, con tante mie compagne, lungo lo scarico del lavandino e qui le cose cominciano a mettersi male; lo scarico è collegato con altri tubi e altri tubi ancora e qui sono circondata da tantissime mie compagne ancora più sporche e inquinate di me; tutto intorno a noi, povere gocce d'acqua, ci sono porcherie, residui di cibo, sostanze schiumose, avanzi di fibre che, mi dicono, vengono dalle macchine che voi chiamate lavatrici. Voi umani scrivete delle belle poesie sull'acqua e anche un vostro santo ha detto che l'acqua è vostra sorella, ma all'atto pratico ci trattate davvero male. Alla fine arrivo in un aggeggio che chiamano depuratore e, con vari maltrattamenti, separano da me almeno una parte delle sporcizie con cui ho viaggiato nelle ultime ore.

Finalmente un tubo mi rigetta nel mare; ero così contenta di viaggiare nell'aria e sul suolo, ma adesso mi rendo conto di avere passato una brutta avventura; speriamo vada meglio la prossima volta. Dopo qualche giorno di nuovo il calore solare mi fa evaporare dal mare e questa volta vengo trascinata da un vortice di vento che mi porta in alto e lontano. Nel mio stato di vapore guardo sotto di me e vedo altri grandi mari e terre e questa volta trovo uno strato freddo a grande altezza e finalmente torno allo stato liquido di goccia e scendo verso il suolo.

Nella mia precedente caduta sulla terra nessuno si è occupato di me e mi hanno anzi maltrattata con le lavatrici e le fogne e i depuratori, ma adesso, mentre sto scendendo, vedo tante mani alzate verso di me ci sono tanti bambini e la loro pelle è colorata di scuro, molto diversa da quella bianca del bambino che mi ha usato per lavarsi le mani. La mani di questi bambini mi toccano, mi accarezzano, come se fossi un regalo del cielo; da quel che capisco, da mesi non vedevano una goccia di acqua e ne avevano disperato bisogno per preparare il cibo, per bere, per irrigare i campi da cui trarre i raccolti, per abbeverare i magri animali che vedo intorno a me. Questi umani almeno mi dicono grazie e mi raccolgono come una cosa preziosa; ogni piccola goccia di acqua come me viene messa entro vasi e stanno tutti attenti perché nessuna di noi cada a terra o vada persa.

Chi sa perché voi umani siete così diversi nei confronti della umile e preziosa goccia di acqua. Mi piacerebbe che la prossima volta che scendo su una delle vostre terre, piene di automobili e di pompe e lavatrici e tubi, mi salutaste con affetto o almeno con rispetto. Se qualche volta qualcuna di noi scorre troppo rapidamente verso la pianura e allaga i vostri campi non è colpa nostra; siete voi che avete maltrattato il suolo dimenticando che noi gocce d'acqua abbiamo le nostre regole e forze e possiamo arrivare nella vostra vita senza danni se imparate a conoscere come ci muoviamo sul suolo, nel sottosuolo, fra gli alberi e dentro le foglie.

L'acqua è vita e noi gocce d'acqua la vita portiamo a tutti voi terrestri, di pelle bianca o colorata.

Nel corso dell’anno ci sono tantissime ”giornate” ecologiche, quella della Terra, quella dell’ambiente, dell’acqua, degli oceani, eccetera. E passa quasi inosservata la giornata mondiale … dei gabinetti, che pure cade ogni anno il 19 novembre, organizzata dalle Nazioni Unite. Quest’anno il tema è “Wastewater”, cioè l’acqua con cui vengono eliminati gli escrementi.

Nei paesi industrializzati ci sono operazioni e gesti così “naturali” che neanche ci si pensa; ogni giorno è normale e indispensabile liberarsi del “superfluo peso del ventre” (come lo chiama Boccaccio); ogni persona, sia ricca e potente o povera e poverissima, ogni anno elimina circa 1000 chili, una tonnellata, di urina e feci.

Se una persona dispone di un gabinetto ad acqua corrente, per lo smaltimento di questi rifiuti, ogni anno “consuma” da 10 a 20 mila litri di acqua che viene così sporcata e contaminata; un fiume contenente sostanze organiche, batteri, virus, residui di medicinali, e di altre sostanze ingerite durante il giorno.

Se i gabinetti sono collegati ad una fognatura e a qualche depuratore, una parte dei rifiuti organici viene trattata o trasformata; altrimenti le acque sporche vanno a finire nei fiumi o nel mare e sono fonti di inquinamento microbiologico e di diffusione di virus.

Il gabinetto costituito da una tazza e da un serbatoio di acqua, una tecnologia perfezionata nel corso del Novecento è ormai considerata del tutto normale nei paesi più progrediti: in molti paesi si esige che i gabinetti siano presenti, oltre che nelle singole abitazioni, nelle scuole, negli uffici, nelle carceri, negli ospedali, nelle fabbriche; per molti lavoratori vengono progettati e resi disponibili gabinetti mobili.

Ebbene adesso fermatevi e pensate che questa situazione è un privilegio di pochi perché nel mondo 4000 milioni di persone come voi e come me, con le stesse necessità fisiologiche vive in abitazioni prive di gabinetti con acqua corrente e mille milioni - avete letto bene - defecano e fanno i propri bisogni all’aria aperta.

I loro escrementi, con il carico di sostanze puzzolenti suscettibili di putrefazione e fermentazione e di batteri e virus, finiscono nel suolo, contaminano le acque superficiali con cui vengono a contatto gli altri abitanti del paese e del villaggio, veicoli di malattie, epidemie e morte. I più colpiti sono i bambini che giovano per terra, sguazzano nelle pozze di acqua contaminata, tanto che nel mondo ogni anno oltre 300 milioni di bambini in tenera età muoiono per malattie associate alla mancanza di pur elementari servizi igienici, una strage degli innocenti.

Il superamento di questa situazione è considerata una delle priorità sanitarie dalle Nazioni Unite che organizzano iniziative per diffondere in tutti i paesi la disponibilità di gabinetti e di servizi igienici che assicurino anche ai più poveri sicurezza igienica e anche dignità, per un delicato e privato irrinunciabile atto della vita quotidiana.

Per richiamare l’attenzione delle autorità sanitarie e dell’opinione pubblica su questo grave problema, si tiene ogni anno la “Giornata mondiale dei gabinetti” voluta dalle Nazioni Unite in collaborazione con la associazione internazionale World Toilet Organization. Le iniziative per assicurare servizi igienici per i paesi poveri e poverissimi non sono motivate soltanto da considerazioni etiche o dall’amore per il prossimo; la diffusione di apparecchiature igieniche per chi ne è privo rappresenta un potenziale grandissimo affare industriale e finanziario. Infatti al fianco delle conferenze annuali della World Toilet Organization, la prossima si terrà alla fine di novembre a Melbourne, in Australia, si svolge una grande esposizione di gabinetti e fognature in cui centinaia di imprese presentano le proprie proposte di sistemi igienici, possibilmente a basso costo e efficienti, da esportare nei paesi poveri.

Il “mercato” è sterminato: in paesi come il Sud Sudan, Madagascar, Congo e Ghana, oltre l’80 percenti della popolazione non ha gabinetti. La situazione non è migliore neanche nelle abitazioni delle megalopoli di molti paesi emergenti nei quali la rapidità della crescita delle città non tiene il passo con il dovere di assicurare adeguati servizi igienici di gabinetti, fognature, depuratori.

La cui mancanza “costa” anche in termine di soldi se si considerano le spese che la collettività deve affrontare per curare dissenteria, malaria, epidemie e malattie provocate dal contatto con acqua sporca nelle case e nei villaggi. E’ stato calcolato --- ci sono sempre economisti pronti a tradurre in soldi anche il dolore umano --- che per ogni euro speso per migliorare i servizi igienici un paese ne risparmia 4 per minori spese di assistenza sanitaria.

Le Nazioni Unite si sono poste l’obiettivo di assicurare servizi igienici minimi per tutti nel 2030 e mancano appena 13 anni. E’ quindi evidente che le autorità sanitarie dei vari paesi chiederanno, a chi li sa produrre, apparecchiature igieniche, contando anche su finanziamenti internazionali.

E’ una nuova corsa a inventare, perfezionare e fabbricare strumenti per migliorare le condizioni igieniche del mondo, specialmente dei paesi più poveri: occasioni per affari e attività industriali per un “mercato” che pure comprende centinaia di milioni di persone.

Nelle Università può sembrare ridicolo lavorare su problemi così “volgari” come la progettazione di “gabinetti di villaggio” e di tecniche di depurazione delle acque di fogna, anche se la loro soluzione richiede spesso avanzate competenze tecnico-scientifiche.

Da noi per i paesi arretrati lavorano soltanto le associazioni di volontariato e le Famiglie missionarie, con mezzi limitati e nel disinteresse generale della politica e anche delle imprese. Alla progettazione e costruzione di gabinetti e sistemi igienici per i paesi arretrati lavorano invece intensamente proprio i paesi di nuova industrializzazione, come Cina e India; a Singapore e in India esistono dei Toilet Colleges per la ricerca tecnico-scientifica a e per l’educazione e l’informazione. Eppure queste tecnologie, umili e considerate “povere”, potrebbero dar vita anche in Europa a nuove imprese, a nuovi posti di lavoro, con prospettive di una vastissima richiesta futura: una ingegneria del rispetto per il prossimo e per l’ambiente.

Questo articolo è inviato contemporaneamente a il manifesto.

Piove. Dalla finestra guardo le prime intense piogge di questi giorni di novembre e la mente corre ai “novembre” dell’alluvione del Polesine, di quelle di Firenze e Venezia e a tutte le alluvioni e frane che ho visto nel corso della mia vita.

Dopo la più calda estate degli almeno ultimi cento anni è cominciata la stagione delle piogge, improvvise e violentissime, diecine di centimetri di acqua caduta in un solo giorno, in zone spesso relativamente ristrette. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti; paesi allagati, case distrutte, fabbriche ferme, campi che hanno perduto i raccolti, prima per la siccità e ora per gli allagamenti. Miliardi di euro di soldi, pubblici per ricostruire strade e per risarcire i danni, privati, ma soprattutto beni materiali spazzati via e dolori, spesso morti.

Le cause sono due, su entrambe si potrebbe intervenire, se si volesse. Le bizzarrie di siccità e piogge sono dovute ad un ormai innegabile mutamento del clima rispetto ai decenni e secoli precedenti: mari più caldi a livello planetario, fusione dei ghiacciai permanenti, modificazioni irreversibili del grande ciclo dell’acqua planetario.

Se ce ne fosse stato bisogno lo hanno ripetuto, nei giorni scorsi, anche gli scienziati dell’amministrazione dello scettico presidente Trump.

La rivoluzione industriale del carbone dell’Ottocento, ma soprattutto nell’ultimo mezzo secolo l’età del petrolio, con l’aumento del consumo dei combustibili fossili, l’irrinunciabile alimento della società dei consumi - nei paesi industriali, in quelli di recente industrializzazione e in quelli poveri che aspirano ai modelli di vita europei ed americani - hanno provocato un crescente flusso di gas (anidride carbonica, metano e altri) che, immessi nell’atmosfera, ne alterano la composizione chimica. Questo fenomeno, come è noto, fa lentamente aumentare la quantità di calore solare che resta “intrappolato” nell’atmosfera e che riscalda, di conseguenza, continenti ed oceani.

Da decenni gli scienziati chiedono ai governanti della Terra di rallentare il flusso nell’atmosfera dei gas che alterano il clima, modificando la produzione e il consumo di merci e di servizi, ”limitando” le attività che comportano un crescente consumo di combustibili fossili.

Nei prossimi giorni a Bonn sentiremo i governanti del mondo discutere, per la ventitreesima volta, di un grado e mezzo o di due gradi di riscaldamento, di “p.p.m.” di gas serra, se sono più colpevoli il carbone o il metano o le flatulenze dei bovini, concludere con dichiarazioni di buona volontà, anche se nessun governante dei paesi maggiori inquinatori vuole scontentare i venditori di carbone, di automobili, di petrolio, di gas, di elettricità, eccetera.

Tutto questo per dire che la situazione continuerà per anni come la conosciamo adesso, con tutti i suoi danni d’estate e d’inverno.

Ciò premesso, i danni dei mutamenti climatici sulle attività umane derivano soprattutto dal fatto che l’acqua piovana, per quanto intensa, non trova più le strade per raggiungere il mare da dove si è originata, quelle strade, rigagnoli e poi torrenti e poi fossi e poi fiumi, che la natura nei millenni aveva predisposto per agevolarne il moto lungo le valli e nelle pianure.

In Italia, nel dissennato uso del territorio di tanti decenni sono stati costruiti, autorizzati ed abusivi, edifici, strade, ponti, ferrovie, senza alcuna attenzione al moto delle acque, anzi alcuni interventi rappresentano veri ostacoli al moto delle acque; per alcune “infrastrutture”, come le chiamano, sono stati sbancati i fianchi delle valli e sono così stati accelerati i fenomeni erosivi che lasciano un suolo nudo su cui più facilmente e violentemente scorrono le acque.

Spesso dove è arrivata la presenza umana la copertura vegetale è stata considerata inutile; dove si pensa che siano d'intralcio alle opere “economiche”, alberi e macchia vengono estirpati o bruciati. Quest’estate poi la forza devastante degli incendi ha reso il suolo di centinaia di migliaia di ettari ancora più esposto all’erosione.

Per attenuare i dolori e i costi delle alluvioni ci sono (ci sarebbero) alcune cose da fare: prima di tutto opere di rimboschimento e incentivi per riportare l’agricoltura nelle zone collinari perché la cura del bosco e il paziente e rispettoso lavoro degli agricoltori sono i principali rimedi per regolare il flusso delle acque nel loro cammino dalle valli al mare.

Se il suolo è coperto di vegetazione la forza di caduta delle gocce d'acqua si "scarica" sulle foglie e sui rami, che sono elastici e flessibili, e l'acqua scivola dolcemente verso il suolo e scorre sul terreno con molto minore forza erosiva e distruttiva.

Quest’anno avremmo avuto un lungo periodo senza piogge che avrebbe consentito, ad un governo previdente, di far ispezionare tutte le vie di acqua e di far sgombrare le rocce e la vegetazione e gli ostacoli che le ingombrano e che rendono le valli più esposte alle frane.

Vorrei fare la modesta proposta di istituire un Servizio Idrogeologico Nazionale che tenga sotto continuo controllo lo stato dei corsi dei fiumi, proceda alla pulizia e manutenzione di tutte le strade percorse dall’acqua nel suo moto verso il mare, dei fossi, dei torrenti e dei fiumi maggiori al fine di rimuovere gli ostacoli incontrati dalle acque e di tenere aperte le vie naturali del loro scorrimento, che predisponga la liberazione dei fiumi e canali che sono stati “intubati” e coperti per guadagnare spazio per strade e edifici. Quando un flusso più intenso di acqua incontra queste prigioni artificiali, l’acqua “si arrabbia” e torna violentemente in superficie e porta distruzione e morte.

La istituzione di un Servizio Idrogeologico Nazionale consentirebbe la creazione di diecine di migliaia di posti di lavoro; capisco che è forse difficile trovare dei laureati che accettino di camminare lungo i torrenti e i canali, di controllare e identificare gli ostacoli al moto delle acque, di pulire i tombini nelle città, ma ci sarà pur gente che ha voglia di farlo considerando che questo servizio è il più importante, anzi unico, sistema per evitare disastri futuri. So bene quanto sia difficile questo progetto ma so anche quanta ricchezza e lavoro potrebbero essere mobilitati e quanti costi monetari e dolori futuri potrebbero essere evitati.

Infine all’ingresso dei vari ministeri dell’ambiente, delle infrastrutture e delle loro agenzie e uffici periferici che parlano di sostenibilità e di resilienza, proporrei di scrivere l’ammonimento di Albert Schweitzer: “L’uomo ha perso la capacità di prevedere e prevenire; finirà per distruggere la Terra”.

La contestazione ecologica, la protesta in difesa dei diritti fondamentali, quelli di essere circondati dalla natura incontaminata, da acque pulite, di respirare aria senza veleni, di acquistare cibi sani e sicuri ... (segue)

La contestazione ecologica, la protesta in difesa dei diritti fondamentali, quelli di essere circondati dalla natura incontaminata, da acque pulite, di respirare aria senza veleni, di acquistare cibi sani e sicuri, vede contrapposti vari soggetti che chiamerei, schematizzando come segue.

Ci sono gli inquinatori (soggetti che privano altre persone di tali diritti nel nome, come dice Papa Francesco, del “dio denaro”, della “logica del profitto”); gli inquinati, coloro che sono privati dei loro diritti; lo “stato”, nelle sue forme di amministratori e autorità locali o nazionali, che dovrebbe, se gli stesse a cuore il “bonum publicum”, difendere gli inquinati ma che spesso strizza un occhio agli inquinatori; e infine chi protesta per difendere i diritti, propri o quelli di altri, alcuni dei quali non sanno neanche di esserne privati --- e spesso riesce nel suo intento.

Negli anni settanta i fabbricanti di preparati per lavare (gli inquinatori) hanno scoperto che, addizionando ai loro prodotti dei fosfati, il lavaggio riusciva meglio e loro riuscivano a vendere più prodotti e a guadagnare di più. I fosfati finivano con le acque di lavaggio nelle fogne e poi nel mare; dopo alcuni anni la concentrazione nell’Alto Adriatico dei fosfati provenienti dalle fogne delle città della Valle Padana era così elevata da nutrire e far moltiplicare le alghe che privavano di ossigeno l’acqua marina e facevano morire i pesci. I turisti venivano così privati del diritto di fare il bagno in acque trasparenti e abbandonavano la Romagna, i pescatori venivano privati del diritto di trarre un salario dalla pesca perché non c’erano più pesci. Lo stato è rimasto silenzioso e distratto fino a che non sono intervenuti coloro che hanno protestato, persone che non erano né turisti né pescatori e che parlavano “nel nome del mare” e del diritto di tutti ad averlo pulito.

Come spesso capita, alcuni volonterosi “scienziati” cercavano di dimostrare che il fosforo non “faceva male” al mare, ma alla fine la difesa dei diritti è prevalsa. I contestatori ottennero, nelle piazze e in Parlamento, delle leggi che imponevano ai fabbricanti di aggiungere meno fosfati ai loro preparati per lavare: le fabbriche hanno cambiato la composizione dei loro prodotti, le massaie hanno potuto lavare ugualmente bene, l’invasione di alghe nel mare è scomparsa, i pesci sono tornati e i pescatori hanno ripreso a pescare.

Questa è una delle battaglie, vinte, ricordate in un recente libro di Michele Boato, Quelli delle cause vinte, Mestre, Libri di Gaia, 2017. Un’altra delle battaglie aveva lo scopo di fermare la diffusione della plastica inquinante in una delle sue forme più invadenti, quella dei molti miliardi di sacchetti per la spesa che ogni anno finiscono nell’ambiente in Italia. Comodissimi per trasportare la spesa dal negozio alla casa, dopo meno di un’ora di vita vengono buttati via e sono fonti di fumi inquinanti se bruciati negli inceneritori, restano indistruttibili se finiscono nei fiumi, sul terreno o nel mare. Già trenta anni fa è nato un movimento di protesta di ambientalisti e di cittadini che hanno chiesto la loro eliminazione o almeno delle azioni per scoraggiarne e diminuirne l’uso. Vincendo la dura opposizione dei venditori di plastica e di sacchetti, finalmente la protesta ha ottenuto dal Parlamento una legge che imponeva una imposta che ne faceva aumentare il prezzo nei negozi; così i consumatori sarebbero stati indotti ad usarne di meno o a riutilizzare quelli già acquistati o ad usare sacchetti duraturi.

La legge prevedeva che fossero esentati dall’imposta gli shoppers “biodegradabili”, un termine già allora tutt’altro che chiaro. Subito alcuni furbastri fabbricanti inquinatori riuscirono a far certificare, da compiacenti laboratori, come biodegradabili sacchetti che non lo erano affatto. Finalmente la protesta è almeno riuscita ad ottenere che gli shoppers in commercio siano più leggeri e “contengano” meno plastica, almeno un po’ decomponibile col tempo, pur auspicando ancora la diminuzione del loro uso e l’uso di sacchetti di tela a vita lunga o almeno che i sacchetti usati siano impiegati per la raccolta dei rifiuti.

Ma non sempre coloro che, nel nome del profitto e dei propri affari, impediscono ad altri soggetti di godere dei loro diritti, sono veri e propri inquinatori. Talvolta sono privati, come quelli che si propongono, per soldi, di permettere ai turisti di raggiungere le vette delle montagne o di sciare, cose di per se lodevoli, con mezzi e strutture che comportano il taglio dei boschi, la modificazione dei versanti, l’alterazione di delicati ecosistemi. O quelli che costruiscono strutture turistiche lungo le coste, beni collettivi per eccellenza, o alterando delicate zone naturalistiche con il compiacente silenzio delle autorità locali.

Il libro di Boato racconta, anche con testimonianze dirette, le molte imprese dannose o abusive che sono state fermate grazie alla mobilitazione di associazioni ambientaliste e naturalistiche e della parte responsabile della popolazione locale. Talvolta, infine, sono le stesse amministrazioni pubbliche che, facendo credere di risolvere problemi di pubblica utilità - smaltimento dei rifiuti, approvvigionamento di energia - lo fanno con soluzioni sbagliate e inquinanti, quelle più profittevoli per potenti interessi finanziari privati. Così sono proprio alcuni amministratori pubblici che sostengono la necessità di smaltire, nei loro territori, i rifiuti mediante inceneritori, studiati per far guadagnare i gestori degli inceneritori stessi, operazioni ecologicamente e economicamente dannose perché comportano la distruzione di materiali che potrebbero essere riciclati, anzi con la creazione di nuovi posti di lavoro.

La protesta ha messo in evidenza che gli inceneritori producono fumi e ceneri nocivi per le persone, l’agricoltura e l’ambiente naturale ed è riuscita a fermare alcune sconsiderate imprese. Gli inquinatori speculano anche con le fonti di energia rinnovabili, di per se auspicabili se ottenute nel rispetto dell’ambiente. Invece si è assistito alla diffusione di centrali eoliche o solari che deturpano il paesaggio, collocate dove astuti proprietari hanno affittato i loro terreni per godere degli incentivi statali; alla fabbricazione di biocarburanti ottenuti consumando prodotti agricoli sottratti all’alimentazione umana e con processi inquinanti.

Un capitolo del libro è dedicato alle lotte contro quegli “inquinatori” che, alterando e manipolando gli alimenti con le frodi, compromettono il diritto dei cittadini al cibo sicuro e nutriente. Un tema al quale Michele Boato aveva già dedicato un prezioso libro: Dalla parte dei consumatori. Anche qui abili frodatori sono riusciti, nel corso di oltre mezzo secolo, a sfuggire alle leggi italiane ed europee che stabiliscono norme perché gli alimenti siano sicuri e genuini. Il controllo della sicurezza è affidato a laboratori di analisi che sono costretti a elaborare sempre nuovi metodi di analisi per svelare frodi sempre più raffinate che approfittano dei commerci, resi possibili dalla globalizzazione, per importare prodotti agricoli o alimenti poco genuini.

Ma c’è un altro diritto umano fondamentale che è sempre in pericolo, compromesso adesso in maniera sempre più grave dalla diffusione degli strumenti resi possibili dalla scoperta della fissione del nucleo atomico: il diritto alla pace e ad un futuro meno radioattivo. Anche la protesta contro le armi nucleari e le centrali nucleari ha visto impegnati i protagonisti del libro di Boato, che sono riusciti a far cancellare gli assurdi programmi nucleari governativi degli anni settanta e ottanta, e a ostacolare l’invadenza di armi nucleari americane nel nostro territorio. Bombe e strutture militari nucleari americane che sventuratamente fanno dell’Italia, insieme a Germania, Belgio, Olanda, Turchia, un paese semi-nucleare al fianco dei nove paesi dotati di bombe nucleari.

Purtroppo per questa fedeltà alla NATO il governo italiano si è rifiutato di aderire al recente Trattato per il Bando totale delle Armi Nucleari, firmato di recente da molti paesi membri delle Nazioni Unite e addirittura già ratificato per prima dalla Santa Sede. Una iniziativa per cui i promotori hanno ricevuto quest’anno il premio Nobel per la Pace.

Il libro Quelli delle cause vinte offre una ventata di speranza nel futuro, necessaria in un paese spesso pigro e disincantato nel rivendicare i propri diritti. Con impegno e fatica è possibile correggere molte storture della nostra società, ma per vincere non servono le chiacchiere o i salotti televisivi. Occorre, lo ricorda l’autore, l’umiltà di andare in mezzo alla gente, ascoltare le persone, aprirgli gli occhi, spiegargli in quale modo sono violati i loro diritti, aiutarle a riconoscere “chi è il nemico”. Il libro invita a mettere in pratica, con coraggio, il messaggio lanciato anni fa da Edward Thompson: “Protest and survive”, ”Protestate se volete sopravvivere”. E alla fine (spesso) si vince.

Nei giorni scorsi è stata ricordata la tragedia avvenuta nella miniera belga di carbone di Marcinelle l’8 agosto 1956, quando i migranti eravamo noi. E’ bene che qualcuno racconti e ricordi delle storie di lavoro e di incidenti nell’ambiente di lavoro in questo tempo in cui sembrano cancellate dal vocabolario l’“odiata” espressione “classe operaia”, che sapeva tanto di comunismo, e la stessa parola “operaio” viene usata il meno possibile, come se gli operai fossero scomparsi in questo mondo così moderno.
La storia della catastrofe di Marcinelle - fu proposta in una vecchia miniserie RAI del 2003, Marcinelle, qualche volta trasmessa da quale televisione privata - è un concentrato di eventi; l’incidente avvenne in una miniera dell’Europa appena uscita dalla seconda guerra mondiale, nella quale il grande flusso del petrolio e del gas naturale era appena all’inizio e il carbone era la principale fonte di energia, così come lo era per tutto il mondo. A dire la verità, con tutti i progressi che ci sono stati, il carbone è ancora oggi il principale combustibile fossile; nel mondo milioni di minatori estraggono, ogni anno, circa settemila milioni di tonnellate di carbone e lignite dalle viscere della terra, risorse nascoste a centinaia e migliaia di metri di profondità. Ogni giorno milioni di persone scendono dalla superficie del suolo nelle strette gallerie sotterranee in cui il nero carbone viene staccato, pezzo per pezzo, dalle pareti della miniera, viene caricato su nastri trasportatori e carrelli e viene poi portato in superficie con gli ascensori.
Il carbone è un materiale fossile nero, relativamente fragile, che genera, durante la frantumazione, polveri che vengono respirate dagli operai, anche se sono muniti di maschere e filtri (agli operai italiani nel Belgio furono dati soltanto dopo l’incendio di Marcinelle) e che causano malattie polmonari dopo pochi anni di lavoro. Il più grande nemico dei minatori è il metano, il “grisou”, un gas infiammabile che è rimasto intrappolato, nel corso di migliaia di secoli, “dentro” i giacimenti sotterranei di carbone e che continua a liberarsi nell’aria delle gallerie a mano a mano che nuove superfici vengono a formarsi con la continua asportazione del carbone.
Per l’illuminazione delle gallerie oggi sono disponibili lampade elettriche, ma nel passato per molti decenni, le uniche lampade disponibili erano lampade a fiamma libera che provocavano esplosioni quando la concentrazione di metano era superiore ad una soglia di sicurezza; soltanto nel 1816, ad opera del grande chimico Humphrey Davy (1778-1829) sono state inventate le lampade di sicurezza da miniera, poi continuamente perfezionate.
Per essere respirabile l’aria delle gallerie, a centinaia di metri di profondità, deve essere continuamente ricambiata; fra cattiva ventilazione, polveri, scarsa illuminazione e fatica fisica, il lavoro dei minatori del carbone è fra quelli più usuranti e pericolosi che ci siano. Rispetto alle condizioni di lavoro delle miniere dell’Ottocento e a quelle descritte nel telefilm, peraltro girato in una vera miniera in Polonia, oggi le condizioni di sicurezza sono un poco migliorate, anche se gli incidenti continuano a verificarsi e comportano un sacrificio di migliaia di vite umane ogni anno, in Cina, Stati Uniti, India, Australia, Russia, Sud Africa, eccetera. Non bisognerebbe dimenticarlo perché l’elettricità che consente di accendere le lampadine, i televisori, le lavatrici, i frigoriferi, prodotta nelle centrali termoelettriche a carbone italiane, è “pagata” dalla fatica di qualche operaio in qualche miniera in qualche parte del mondo; c’è un “contenuto di dolore” in ogni bolletta dell’elettricità.
Erano ancora infami le condizioni di lavoro nelle miniere del Belgio negli anni quaranta e cinquanta del Novecento; in Belgio in quegli anni non c’erano abbastanza minatori e il governo belga strinse con quello italiano, nel marzo e giugno 1946, un accordo con cui l’Italia incoraggiava l’emigrazione nel Belgio di operai per le miniere e in cambio il Belgio assicurava la vendita a prezzi di favore all’Italia, affamata di energia. Merce lavoro in cambio di merce carbone necessaria per la ripresa delle nostre industrie e fabbriche. Negli anni successivi migrarono nel Belgio oltre 50 mila operai (dovevano essere giovani, in buona salute e dovevano restare per almeno un anno nel freddo lontano paese); venivano dalla Sicilia, dove erano state chiuse le miniere di zolfo, dalla Calabria, dalla Puglia, dalle Marche; un anno di lavoro di un operaio italiano nelle miniere del Belgio “valeva” per l’Italia circa una tonnellata di carbone a basso prezzo. Gli operai italiani nel Belgio vivevano in condizioni miserabili, in povere baracche; in questo viaggio della speranza alcuni avevano portato le famiglie, altri avevano portato la struggente nostalgia delle famiglie lontane a cui mandare il povero salario. La condizione degli immigrati era ancora più triste per l’ostilità che la popolazione locale manifestava per questi “stranieri” di lingua e abitudini diverse, che non portavano vantaggi economici; alcuni locali pubblici vietavano l’accesso “ai cani e agli italiani”.
Nella miniera di uno di questi paesini, Marcinelle, vicino Charleroi, avvenne l’incendio e il crollo delle gallerie che è costato la vita a 262 minatori, di cui 136 italiani e che destò, in quel lontano 1956, una enorme impressione in Italia e nel mondo. L’incidente fu provocato dalla arretratezza delle strutture, dalla mancanza di manutenzione, dall’egoismo dei proprietari che avevano già deciso di chiudere la miniera e volevano sfruttare fino all’ultimo le riserve di carbone e il lavoro dei minatori.
Dovremmo interrogarci più spesso sull’ambiente non solo nelle nostre città o nei nostri fiumi, ma anche nelle fabbriche, nei cantieri, nelle miniere e nelle cave, negli stessi campi in cui i lavoratori sono esposti a sostanze tossiche e a pericoli; e spesso questi lavoratori sono immigrati, circondati da ostilità, come lo erano gli italiani nel Belgio. Non dimentichiamolo perché c’è qualche famiglia, in qualche lontana parte del mondo, che mangia del pane che ha “dentro di se” il dolore dei parenti lontani, in Italia, come, appena pochi anni fa, molte famiglie siciliane e calabresi mangiavano del pane che aveva “dentro di se” il dolore dei minatori italiani lontano, nel Belgio.

in cui i paesi membri delle Nazioni Unite sono invitati a firmare un trattato...(segue)
in cui i paesi membri delle Nazioni Unite sono invitati a firmare un trattato per l’eliminazione dal mondo delle armi nucleari. Circola già la bozza di un trattato che sarebbe il primo che coinvolge i paesi della Terra in una iniziativa per la liberazione del nostro pianeta dal più grave pericolo per l’umanità, il possibile uso delle armi di sterminio di massa che non siamo ancora stati capaci di vietare. La sola minaccia dell’uso e la sola esistenza delle armi nucleari sono fonti di violenza e di paura fra i popoli.

In queste settimane ci sono stati numerosi appelli al Parlamento italiano perché dia disposizioni al governo di partecipare alle trattative e di aderire a tale trattato; per ora non si sa se il governo aderirà a quanto tanti cittadini italiani stanno chiedendo.
Di certo le voci che chiedono un ”mondo senza bombe nucleari” si stanno facendo sentire nel mondo, sia fra gli abitanti dei nove paesi che sono dotati di tali armi, sia nei paesi i cui governi considerano necessaria e utile - si fa per dire - l’esistenza delle armi nucleari o per fedeltà alla NATO o per fedeltà al governo americano o per altri motivi.
Fra tali voci c’è quella instancabile di Papa Francesco, ma altre persone con responsabilità internazionali si sono espresse anche in passato contro le armi nucleari.
Si possono ricordare Kissinger (proprio lui) che con Schultz e altri scrisse una lettere al Wall Street Journal, pubblicata il 4 gennaio 2007, Via le bombe nucleari dal Pianeta, chiedendo “A World free of Nuclear Weapons”. A questa lettera ne seguì un’altra sullo stesso giornale, pubblicata il 15 gennaio 2008, intitolata: “Toward a Nuclear-free World
E pochi mesi dopo D’Alema, Parisi, La Malfa e altri hanno scritto, firmando come membri del governo in carica o di quelli precedenti, al Corriere della Sera una lettera, “Per un mondo senza armi nucleari”, pubblicata il 24 luglio 2008: , in cui affermavano: “L'Italia e l'Europa possono e debbono fare la loro parte per favorire il cammino verso la completa eliminazione delle armi nucleari”.
Su coraggio, signore e signori che abbiamo eletto in Parlamento perché ci assicuriate un futuro meno violento e più sicuro, e voi del governo, che siete stati incaricati dal Parlamento di operare per il bene della presente e delle future generazioni, fate sì che l’Italia aderisca ad un trattato che consenta, davvero, di arrivare ad un “mondo senza armi nucleari”.



Quattrocentodieci. E’ stato dato gran rilievo, nei giorni scorsi, al fatto che la concentrazione dell’anidride carbonica CO2 nell’atmosfera ha raggiunto il valore di 410 parti per milione in volume (ppmv). Tale concentrazione, misurata da molti anni in una stazione nell’isola di Mauna Loa, nelle Hawaii, in mezzo al Pacifico, sta aumentando fra 2 e 3 ppmv all’anno. Ciò significa che ogni anno circa 15 o 20 miliardi di tonnellate di CO2, il principale gas responsabile del lento continuo riscaldamento del pianeta Terra, si aggiungono ai circa 3.000 miliardi di tonnellate di CO2 già presenti nei 5.000.000 di miliardi di tonnellate di gas dell’atmosfera.

L’anidride carbonica immessa nell’atmosfera (circa 30-35 miliardi di tonnellate all’anno) proviene principalmente dalla combustione dei combustibili fossili, attualmente circa 14 miliardi di tonnellate all’anno fra petrolio, carbone, gas naturale.

Altre fonti di CO2 sono la produzione del cemento (oltre 4 miliardi di tonnellate all’anno), la combustione di rifiuti, gli incendi delle foreste e alcune attività agricole. Una parte, circa la metà di tutta la CO2 immessa nell’atmosfera è assorbita dalla vegetazione sui continenti e dal mare nel continuo contatto fra l’atmosfera e la superficie degli oceani.

Per secoli la concentrazione nell’atmosfera della CO2 è rimasta relativamente costante a circa 280 ppmv; il progressivo, sempre più veloce aumento di tale concentrazione fino agli attuali 410 ppm e oltre, è cominciato all’inizio del Novecento quando il petrolio e poi il gas naturale si sono affiancati al carbone come fonti di energia per la produzione di crescenti quantità di merci richieste da una crescente popolazione mondiale. I processi naturali di “depurazione” dell’atmosfera non ce l’hanno fatta più e una crescente parte della CO2 è rimasta nell’atmosfera stessa, trattenendo una parte del calore solare.

E’ nelle merci, nei processi della loro produzione, nell’uso che ne viene fatto e nei processi di eliminazione dei rifiuti, quindi, la vera causa del riscaldamento planetario che sta spaventando i governanti del mondo - e gli abitanti della Terra alle prese con bizzarrie climatiche, periodi di siccità o di piogge improvvise, progressiva lenta ma apprezzabile fusione dei ghiacci permanenti e lento aumento della superficie dei mari.

E’ abbastanza curioso che molti considerino “merce” una parolaccia; eppure tutte le cose usate per soddisfare i bisogni umani di spostarsi, nutrirsi, comunicare, abitare, tutti gli oggetti commerciati, vestiti e carne in scatola, automobili e scarpe, gasolio e telefoni cellulari, giornali ed elettricità, eccetera, sono merci, fabbricate usando e trasformando le risorse naturali vegetali, animali, minerarie del pianeta.

Le stesse operazioni finanziarie, il prodotto interno lordo, lo spostamento di ogni soldo, si tratti di euro, di dollari o di yuan, sono accompagnati da spostamenti di merci, di materia ed energia. I 60.000 miliardi circa di euro che rappresentano il prodotto interno lordo mondiale annuo sono associati al movimento, ogni anno, di circa 50 miliardi di tonnellate di merci, prodotti agricoli, minerali, navi, metalli, plastica, mobili, cemento, pane, eccetera, e acqua, 4.000 miliardi di tonnellate, merce anche lei.

E tutto questa materia si ritrova, durante la trasformazione e dopo l’uso, come “merci usate” sotto forma di scorie, rifiuti solidi, liquidi e gassosi che finiscono nel suolo, nelle acque, nell’atmosfera, peggiorandone la qualità “ecologica”. Fra questi quella CO2 di cui si parlava all’inizio, e altre diecine di miliardi di tonnellate di materiali.

In altre parole esiste un rapporto diretto fra le modificazioni dell’ambiente e la produzione e l’uso, l’esistenza stessa, delle merci.

Nel 1970 Barry Commoner ha scritto che le alterazioni annue dell’ambiente planetario dipendono dal numero di abitanti della Terra, moltiplicato per i chili di merce usati in media da ciascuna persona in un anno, moltiplicato per la “qualità” di ciascuna merce, intesa come quantità di energia, di minerali, di altri prodotti, di acqua richiesta e di rifiuti generati per ogni chilo di merce usata.

“Qualità merceologica” che, a ben vedere, rappresenta il vero “valore” di una merce o di un servizio.

Gli ambientalisti hanno inventato degli indicatori degli effetti ambientali chiamati “impronta” ecologica, da valutare attraverso l’analisi del “ciclo vitale”, eccetera: di merci stanno parlando.

Ho avuto la sorte di essere sbeffeggiato per molti decenni di insegnamento universitario perché la mia disciplina era la merceologia; a molti miei colleghi faceva ridere l’esistenza stessa di un campo di studio che si occupava di frumento e carbone, di alluminio, e di olio, di merci, insomma, dimenticando, o forse senza aver mai saputo, che Carlo Marx, nel primo capitolo del primo libro del Capitale, quello intitolato “La merce”, dice che intende svolgere la critica dell’economia politica capitalistica cominciando dal concetto di valore di scambio. E precisa che le merci hanno anche un valore d’uso che però è l’oggetto di studio di una speciale disciplina, la merceologia (einer eigenen Disziplin, der Warenkunde).

E’ proprio questa ultima forma di valore quella da cui dipende il maggiore o minore danno ambientale, il “costo” ambientale, delle attività umane. Se si vuole rallentare gli effetti nefasti degli inquinamenti e dei mutamenti climatici si può agire sulla diminuzione della massa delle merci usate e sprecate nei paesi ricchi - perché i paesi poveri di più merci avranno bisogno, se non altro per uscire dal buio della miseria e delle malattie - ma soprattutto sulla modificazione delle merci esistenti, su una seconda tecnologia. Un bel lavoro per ingegneri, chimici, biologi per tutto l’intero secolo.

Quasi ogni giorno, nel mondo, si celebra una qualche “giornata” di qualche cosa: dell’ambiente, degli oceani, dell’alimentazione, della biodiversità, per non citare le giornate dei nonni, delle mamme, eccetera. Ogni volta è una occasione per qualche manifestazione o congresso o festa, spesso di natura esibizionistica e consumistica: spese e regali.

Quella che si ricorda il 22 aprile è una giornata particolare, dedicata “alla Terra”, al nostro pianeta, lanciata quasi mezzo secolo fa, nel 1970. Il decennio precedente, i favolosi anni sessanta del Novecento, erano stati pieni di speranze e di contraddizioni: gli anni del Concilio Vaticano II e della crisi dei missili a Cuba, gli anni delle lotte dei “negri” americani per la integrazione e quelli degli assassinii di John Kennedy nel 1963 e di Martin Luther King e Robert Kennedy nel 1968, gli anni delle lotte operaie e studentesche per nuovi diritti, gli anni della guerra del Vietnam e dei devastanti esperimenti con bombe nucleari sempre più potenti, e gli anni della conquista dello spazio.
La Terra, fotografata per la prima volta dagli astronauti dallo spazio, era apparsa nella sua bellezza e fragilità, una palla di rocce e foreste e acque, nostra unica casa nell’Universo conosciuto.

In quella primavera il mondo “scoprì” l’ecologia: questa austera disciplina, definita dal biologo tedesco Haeckel, nel 1866, come l’economia della natura, si era sviluppata nel silenzio dei laboratori come scienza capace di spiegare che la vita vegetale e animale dipende dalle sostanze chimiche tratte dall’aria, acqua, e suolo, cioè dall’ambiente; negli anni trenta del Novecento un gruppo di studiosi italiani, russi, americani, avevano spiegato che in un ambente di dimensioni limitate, come appunto la Terra, la limitata disponibilità di risorse naturali rallenta la crescita delle popolazioni e può portare al loro declino.
Vincoli alla crescita che si manifestavano anche per gli affari umani a causa dell’impoverimento delle riserve di minerali e della fertilità dei suoli in seguito all’eccessivo sfruttamento imposto dalla società dei consumi.
L’ecologia apparve come lo strumento per comprendere che, nel nome del profitto, pochi paesi si appropriavano, per trarne materie prime e per scaricarvi i rifiuti, di risorse naturali che non erano “loro”, ma che erano beni comuni. Considerazioni che mettevano in discussione il sacro principio della proprietà privata, introducevano parole maledette come limiti alla crescita.
L’ecologia, in quel 1970, divenne così la bandiera di una nuova contestazione del potere economico e militare, della violenza della società dei rifiuti, degli sprechi e delle armi, le merci oscene, con la richiesta di nuovi diritti, di nuovi modi e processi di produzione in grado di inquinare e alterare di meno l’ambiente, che tenessero conto anche della domanda delle classi e dei popoli poveri ed esclusi.

Anche l’Italia scoprì l’ecologia. Proprio il 22 aprile si tenne a Milano un congresso internazionale col titolo “L’uomo e l’ambiente”, lo stesso che sarebbe stato adottato, due anni dopo, dalla Conferenza delle Nazioni Unite che si tenne a Stoccolma.
Gli italiani cominciarono a guardarsi intorno e a riconoscere la violenza ecologica nelle valli disastrate, esposte al diboscamento e origine delle frane e alluvioni che si stavano verificando dai tempi del Polesine, in Calabria, a Firenze nel 1966. Hanno imparato a riconoscere i segni degli inquinamenti dovuti alle centrali a carbone e a olio combustibile, alla corrosione dei monumenti, ai rifiuti sparsi dovunque. Gli agricoltori hanno imparato a fare i conti con i pesticidi tossici e con la perdita di fertilità a causa dell’eccessivo sfruttamento dei suoli.
Anche in Italia comparvero le parole maledette: limite nei consumi, decrescita; i mondo imprenditoriale e benpensante reagì subito con energia contro questi ecologisti che, secondo loro, volevano far tornare il mondo ai tempi delle candele; erano loro, gli imprenditori, capaci di eliminare gli inquinamenti con depuratori e filtri, purché non si mettesse in discussione la divinità dell’economia, il dovere di far crescere il Prodotto Interno Lordo; Beckerman, un celebre economista inglese, affermò con fermezza che solo la crescita economica avrebbe potuto rendere l’ambiente migliore.
La consapevolezza dei limiti delle risorse naturali contagiò anche i popoli del terzo mondo le cui ricchezze minerarie, agricole e forestali erano sfruttate selvaggiamente dalle multinazionali straniere; nacquero così le prime rivendicazioni dei popoli per il controllo delle “proprie” materie prime, il petrolio in Libia e in Persia, il rame nel Cile, i metalli nel Congo, i fosfati nell’Africa occidentale.
La carica sovversiva di quella primavera dell’ecologia fu ben presto stemperata dagli eventi successivi: le crisi economiche, il breve boom economico degli anni Ottanta, la fine dell’Unione Sovietica, la nascita delle nuove potenze economiche Cina e India, infine la crisi degli inizi del XXI secolo. La promessa di un magico “sviluppo sostenibile” nel frattempo assicurava che con soluzioni tecniche sarebbe stato possibile avere un ambiente decente “purché” continuasse la crescita dei soldi e degli affari, cioè delle vere fonti delle crisi ecologiche.
Oggi esistono quasi dovunque ministri dell’ambiente di governi che hanno come imperativo la crescita economica, la moltiplicazione delle armi, l’allentamento dei vincoli ecologici. Le conseguenze si vedono; in Italia la crescita (quella si) della concentrazione di polveri nell’aria urbana, le fabbriche che chiudono per la concorrenza di paesi che possono esportare merci a basso prezzo ottenute con produzioni inquinanti, montagne di rifiuti, frane e alluvioni e, soprattutto, a livello planetario, inarrestabili peggioramenti climatici derivanti all’immissione nell’atmosfera dei gas liberati dalle crescenti produzioni e dai consumi.
In occasione della giornata della Terra del 1970 nelle strade di New York comparvero dei manifesti in cui uno sconsolato Pogo, un personaggio dei fumetti sotto forma di opossum antropizzato, raccoglieva i rifiuti lasciati da una manifestazione ecologica ed esclamava: “Ho scoperto il nemico e siamo noi”.

Adesso sapete con chi prendervela se dovete fare in conti con i danni delle siccità e alluvioni, della congestione urbana e dell’erosione delle coste, con prezzi in aumento e con la disoccupazione.
Questo articolo è inviato contemporaneamente a il manifesto

eddyburg, di un voto prima favorevole, poi smentito dal governo, sulla risoluzione... (segue)

eddyburg, di un voto prima favorevole, poi smentito dal governo, sulla risoluzione A/RES/71/258 che, all’assemblea generale delle Nazioni Unite chiedeva l’avvio di trattative per il divieto delle armi nucleari e la loro eliminazione, non si capisce se il nostro governo parteciperà ai lavori per tali trattative che cominceranno fra qualche giorno, lunedì 27 marzo, presso le Nazioni Unite a New York.

Sarebbe un grave errore non partecipare per la sola illusione che la presenza di bombe nucleari, quindicimila, nei nove paesi che le possiedono ha la funzione di evitare il loro uso; la teoria della deterrenza, secondo cui nessun paese le userebbe per primo per paura che il “nemico” si vendicasse con effetti ancora più devastanti, è sconsiderata e non evita il pericolo di una catastrofe planetaria.

Sarebbe un grave errore, anche politico, se il governo italiano, per sofismi giuridici e diplomatici, non partecipasse alle trattative per un disarmo nucleare nel nome della fedeltà atlantica agli Stati Uniti, ad un imperatore che rifiuta la stretta di mano al capo di un paese della stessa alleanza atlantica come la signora Merkel, come è avvenuto qualche giorno fa.

Gli ultimi mesi, anzi le ultime settimane, sono state caratterizzate da segnali ben preoccupanti; una corsa all’ampliamento e al perfezionamento delle bombe nucleari e dei missili da parte di tutti i nove paesi che li possiedono; un crescente pericolo del lancio accidentale di alcune delle migliaia di bombe pronte al lancio, dovuto ad un calcolo politico sbagliato, ad un errore umano o ad una attacco ai sistemi elettronici di trasmissione dei dati; la crescente instabilità internazionale; il possibile accesso di gruppi terroristici ad una anche “piccola” bomba nucleare.

Scienziati e uomini politici, oltre a milioni di persone in tutto il mondo, tutti i pontefici cattolici nell’ultimo mezzo secolo, i rappresentanti delle altre comunità cristiane e di altre religioni, hanno chiesto che le armi nucleari siano considerate illegali e siano messe al bando e distrutte come si è riusciti a fare con le altre armi di distruzione di massa, quelle chimiche e biologiche.

Con la risoluzione che si comincerà a discutere fra qualche giorno la maggioranza dei paesi della Terra ha avviato un processo che si propone tale obiettivo.

Milioni di esseri umani nel mondo guardano con ansia e speranza a quanto avverrà alle Nazioni Unite; occorre fare presto, perché l’auspicata distruzione delle armi nucleari esistenti nel mondo sarà una operazione lunga e di grandissimo impegno tecnico, scientifico e finanziario.

Immaginate che cosa può significare, anche in termini economici, lo smantellamento delle migliaia di bombe nucleari esistenti negli arsenali. Si tratta di smontarle, di separare gli “esplosivi nucleari” (uranio arricchito in U-235, plutonio, deuterio, trizio), materiali che restano radioattivi per anni, secoli, alcuni millenni, da mettere al sicuro da possibili furti, da seppellire non-si-sa dove e come per evitare contaminazioni ambientali.

D’altra parte le ancora più gigantesche somme finora spese per tenere in funzione e perfezionare le armi nucleari potrebbero essere finalmente messe a disposizione per dare acqua potabile a chi ne è privo, una casa e del cibo e istruzione e servizi igienici e sanitari ai miliardi di persone che sono affamate e disperate e arrabbiate, che si lanciano attraverso i deserti e i mari per cercare ricovero nei paesi ricchi, per opere che taglierebbero l’erba sotto i piedi dei terrorismi.

L’abolizione delle armi nucleari è, insomma, la premessa per realizzare una maggiore giustizia internazionale e, si sa, come ha detto Isaia, la giustizia è la mamma della pace.

riferimenti
Trovate gli altri articoli di Giorgio Nebbia sull'argomento, e su molti altri, nella cartella di eddyburg Nebbia a lui dedicata. Altri articoli anche nell'archivio di eddyburg

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Acqua, di cui si celebra ogni anno la “giornata” il 22 marzo, amica e nemica. Nei mari del nostro pianeta esistono grandissime riserve di acqua salina, inutilizzabile per dissetare umani e animali e per irrigare i campi; l’acqua dolce, in gran parte immobilizzata in forma solida nei ghiacci polari e montuosi o presente nei laghi e nel sottosuolo. Acqua che evapora continuamente e continuamente ricade sulle terre emerse e nel suo scorrere sulla superficie del suolo assicura la vita vegetale e animale nei campi e nelle foreste; acqua che nel suo moto rapido verso i fondovalle, asporta gli strati superficiali del suolo e provoca frane; acqua che cade sulla terra in modo irregolare, governata dal succedersi delle stagioni, per cui lascia tante terre aride per molti mesi e poi arriva irruente e si spande al di là degli argini dei fiumi, allagando i campi e gli edifici.

Acqua amica, necessaria per le fabbriche e per i campi; fonte di benessere nelle case, dove arriva aprendo un rubinetto, indispensabile per bere, per cuocere gli alimenti, per lavare il corpo e gli indumenti e le stoviglie, acqua che accompagna le scorie della vita domestica giù dai lavandini, verso fogne e depuratori e poi ritorna al mare, anche se con un carico, maggiore o minore, di sostanze estranee e inquinanti. Questo nei paesi ricchi, perché nei paesi poveri la preziosa acqua deve spesso essere raccolta dai pozzi e trasportata a distanza, un lavoro in genere sulle spalle delle donne, e dopo l’uso spesso l’acqua sporca ristagna nelle strade dei villaggi, fonte di malattie che colpiscono specialmente i bambini. Il Papa Francesco alcuni giorni fa, in un discorso all’Accademia Pontificia della Scienze, ha ricordato che ogni giorno mille bambini, ogni giorno!, muoiono nel mondo per malattie legate all’acqua.

Eppure talvolta, nei paesi poveri, l'acqua si trova a pochi metri di profondità e basterebbe disporre di pompe per sollevarla; l'acqua contaminata potrebbe essere depurata con sistemi relativamente semplici per renderla potabile; l'acqua sporca potrebbe essere incanalata in semplici fogne; qualcuno invoca una "ingegneria della carità", innovazioni semplici da esportare nei paesi poveri per alleviare la loro sete, per sgominare le malattie diffuse dall'acqua inquinata.

L'acqua è occasione di divisione politica e di conflitti; i fiumi sono difficilmente attraversabili dagli eserciti e sono stati scelti come confini fra popoli nemici. I confini di molte regioni italiane sono ancora costituiti dai fiumi che dividevano gli antichi stati in guerra, prima dell'unità d'Italia. Molti conflitti in Africa, Asia, America Latina, molte contese fra stati europei, fra Stati Uniti e Canada e fra Stati Uniti e Messico, hanno la loro origine nelle controversie per l'acqua.

L'aridità di molte zone del pianeta, le bizzarrie dei fiumi in altre zone, provocano quelle migrazioni planetarie di cui cominciamo a sentire i segni anche da noi. Sono problemi di acqua quelli che spingono i popoli fuori dalle loro terre che non sono più in grado di dare cibo e li portano sulle coste dell'Europa opulenta o del Nord America. Gli Stati Uniti hanno dovuto stendere, lungo il Rio Grande, quel "muro americano" che cerca di frenare le immigrazioni dal Messico. Nel discorso prima ricordato il Papa ha detto che non è da escludere una grande guerra mondiale per l’acqua.

La sete si sconfigge con condotte, dighe, tubazioni, pozzi, con la regolazione del corso dei fiumi; la violenza dell'acqua si sconfigge con il rimboschimento, con la difesa del suolo, con nuovi argini; l'avvelenamento delle acque si sconfigge con depuratori e filtri. Ma tutti questi accorgimenti tecnici saranno inutili se non sono mossi dalla consapevolezza che attraverso l'acqua siamo uniti tutti noi esseri umani e che la migliore distribuzione e uso dell'acqua richiedono una sola ricetta: la solidarietà.

La solidarietà presuppone azioni politiche, ma prima di tutto una rivoluzione educativa e culturale; le crisi e i conflitti derivano dalla ineguale distribuzione dell'acqua nello spazio e nel tempo. Le lunghe storie dei popoli hanno fatto si che le riserve idriche dei laghi e nei fiumi spesso siano contenute nei confini politici e amministrativi di stati e regioni diversi, ciascuno dei quali considera l'acqua come sua proprietà. La guerra alla sete e alle alluvioni richiede invece che tutti i popoli che abitano intorno ai corpi idrici superficiali si sentano uniti e ne usino le risorse a fini comuni, solidali, appunto. In Italia esistono leggi che prescrivono che le risorse idriche siano amministrate e utilizzate nell'ambito di unità geografiche, i bacini idrografici, che possono stendersi fra diverse regioni, le quali devono collaborare con piani comuni.

Le acque del Tevere e dei suoi affluenti non "appartengono" al Lazio, o all'Umbria o alla Toscana, regioni amministrative che comprendono nei loro confini tali acque, ma fanno parte di un grande unitario bacino e devono essere e usate in forma coordinata, "solidale", per ricavarne acqua potabile e per i campi. Purtroppo spesso regioni, enti acquedottistici, enti di bonifica, non vogliono rinunciare a quelli che considerano propri diritti di proprietà sull'acqua.

Vorrei avanzare, in questa giornata mondiale dell'acqua, una modesta proposta. Mi piacerebbe che i ragazzi delle scuole si esercitassero a disegnare, su una carta geografica "muta", i confini dei bacini idrografici - quelli che raccolgono al loro interno il fiume principale e i suoi affluenti e che sono delimitati dagli spartiacque - e li confrontassero con quelli politici e amministrativi, del tutto artificiali e arbitrari. E che provassero a pensare che non esistono austriaci, ungheresi, jugoslavi, romeni, eccetera, ma esiste il "popolo del Danubio", che non esistono lombardi, piemontesi e emiliani, ma il "popolo del Po", che il "popolo dell'Ofanto" non "appartiene" alla Puglia, alla Basilicata, alla Campania, ma alla terra del fiume comune.

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Si è svolto, nei mesi scorsi un vasto dibattito interno e internazionale sulla eliminazione delle armi nucleari, il più grande pericolo che incombe, insieme ai mutamenti climatici, sul futuro non solo degli italiani, ma di tutti i terrestri.

Ci sono oggi, all’inizio del XXI secolo, circa 15.000 bombe nucleari negli arsenali di nove paesi: Stati Uniti e Russia (che hanno il maggior numero di bombe), e poi Cina, Regno Unito, Francia, Israele, Pakistan, India e Corea del Nord.

Da anni si levano le voci di coloro che chiedono l’eliminazione di tali bombe la cui potenza distruttiva è oltre cento volte superiore a quella di tutti gli esplosivi usati durante la seconda guerra mondiale. Una bomba termonucleare “piccola”, da una dozzina di chiloton, ha la potenza distruttiva equivalente a quella di una dozzina di migliaia di tonnellate di tritolo.

Da anni le speranze di disarmo si scontrano con l’opposizione dei paesi, grandi e piccoli, dotati di bombe nucleari che non vogliono rinunciare al potere di minacciare qualsiasi ipotetico avversario che avesse l’idea di aggredirli, a sua volta, con un attacco nucleare; la chiamano deterrenza.

Eppure il Trattato di non proliferazione delle armi nucleari NPT, firmato da quasi tutti i paesi nel 1975 prescrive che si deve evitare la diffusione di tali armi con l’obiettivo (articolo VI) di arrivare ad un futuro disarmo nucleare totale.

Eppure nel 1998 la Corte internazionale di Giustizia ha riconosciuto l’illegalità delle armi nucleari, armi di distruzione di massa come quelle chimiche e biologiche la cui esistenza è stata pure vietata. Nonostante questo non si riesce a far nessun passo verso trattative per il disarmo nucleare.

Soltanto di recente un gruppo di paesi ha preso l’iniziativa di proporre alle Nazioni Unite una risoluzione (A/C.1/71/L.41) che imponga l’avvio di trattative per il disarmo nucleare. Il 26 ottobre 2016 la I Commissione dell’Assemblea Generale ha votato a larga maggioranza a favore di tale risoluzione; l’Italia, che ospita alcune bombe termonucleari americane ad Aviano e Ghedi, ha votato contro. Se ne è parlato in un breve intervento intitolato: Vergogna in eddyburg.

Per inciso lo stesso giorno il Parlamento Europeo aveva approvato a larga maggioranza una risoluzione (2016/2936(RSP)) di sostegno all’apertura di trattative di disarmo nucleare.

La proposta di risoluzione A/C.1/71/L.41, è stata esaminata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 23 dicembre 2016 ed è stata approvata con 113 voti a favore, 35 contrari (Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Russia, Israele, eccetera) e 13 astensioni (fra cui la Cina).

In questa votazione il rappresentante dell’Italia ha votato a favore dell’avvio di trattative per il disarmo nucleare.

A molti di noi si è allargato il cuore: finalmente un gesto di pace, magari influenzato dall’invito al disarmo nucleare espresso con energia nel messaggio per la giornata della Pace annunciato da Papa Francesco per il 1 gennaio 2017.

Nei giorni successivi alcuni parlamentari hanno presentato delle interrogazioni al governo esprimendo apprezzamento per il voto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e chiedendo che, per coerenza, venga chiesto agli Stati Uniti di ritirare le bombe nucleari depositate in Italia.

Entusiasmo di breve durata. Il viceministro Mario Giro ha risposto, nella seduta della commissione esteri del 2 febbraio 2017: “Desidero chiarire che l’intenzione di voto dell’Italia durante la sessione plenaria della 71ma Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulla Risoluzione «Taking forward multilateral disarmament negotiations», è stata alterata da un errore tecnico-materiale che ha interessato anche altri Paesi. L’erronea indicazione di voto favorevole è stata successivamente rettificata dalla nostra Rappresentanza Permanente presso le Nazioni Unite, che ha confermato il voto negativo espresso in Prima Commissione. Secondo quanto mi segnalano, tale errore sembra essere dipeso dalle circostanze in cui è avvenuta la votazione, a tarda ora della notte del 23 dicembre”.

La risposta continua spiegando perché il governo italiano è contrario all’avvio di colloqui per il disarmo nucleare ed è fautore, invece, di un “approccio progressivo” al disarmo.

Comunque nelle registrazioni di voto, in questa fine di febbraio 2017, il voto dell’Italia del 23 dicembre 2016 risulta ancora “YES”, a favore dell’avvio dei negoziati per il disarmo nucleare e non sembra quindi che il governo italiano abbia fatto correggere l’”errore” del suo funzionario.

Il voto italiano a favore di tali negoziati è stato dovuto ad una distrazione del funzionario che era in aula, quasi a mezzanotte dell’antivigilia di Natale, o ad una obiezione di coscienza del funzionario alle direttive del governo, o al pentimento o ripensamento del governo stesso?

Una commedia per il comportamento del governo, e una vergogna se davvero il governo continua nella decisione di opporsi a trattative che allontanino i pericoli di catastrofi rese possibili dall’esplosione anche solo di una bomba nucleare per errore di un operatore o per un atto terroristico.

Mi risulta che ci siano iniziative per chiedere al governo almeno di partecipare alle riunioni della commissione, istituita dalla risoluzione (ora denominata A/RES/71/258) approvata dalle Nazioni Unite, che dovrebbe avviare le trattative per il disarmo nucleare e che si svolgeranno a New York dal 27 al 31 marzo e dal 15 giugno al 7 luglio 2017.

Bisogna continuare a mobilitarci soprattutto alla luce della politica del nuovo presidente degli Stati Uniti che dichiara di voler potenziare e ammodernare il suo arsenale di bombe nucleari, e alla luce delle crescenti tensioni internazionali.

Bisogna continuare a mobilitarci, ricordando l’avvertimento con cui finisce il libro e il film L’ultima spiaggia (1959), davanti ad un pianeta i cui abitanti sono stati sterminati dalla radioattività liberata da una guerra nucleare cominciata “per caso”: “Fratelli, siete ancora in tempo a rinsavire”. Ma il tempo è poco.

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Il 24 dicembre, vigilia di Natale, all’assemblea generale delle Nazioni Unite a New York è stata approvata la risoluzione L.41 che impone l’avvio di negoziati per mettere fuori legge le armi nucleari, primo passo per la loro abolizione totale. La risoluzione è stata approvata con 113 voti a favore, 35 contrari e 13 astensioni; Hanno votato contro le potenze nucleari (ma la Cina si è astenuta), che non intendono privarsi delle loro bombe nucleari, molti paesi europei.

L’Italia ha votato a favore, cambiando il voto contrario alla stessa risoluzione espresso nella commissione disarmo il 27 ottobre scorso.

Il governo italiano, con il voto a favore del disarmo nucleare, ha ascoltato la voce di tante associazioni e persone - anche in eddyburg -che hanno chiesto tale svolta nella politica italiana e la voce del papa Francesco che domenica prossima, nella giornata della pace, ripeterà l’appello proprio in favore “della proibizione e dell’abolizione delle armi nucleari”, denunciando che la deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca non assicurano la coesistenza pacifica fra i popoli.

Nel mondo nove paesi possiedono armi nucleari; ce ne sono 15.000, molte su missili intercontinentali, pronte a portare morte e distruzione in qualsiasi parte del pianeta; alcune bombe termonucleari americane sono anche in Italia a Ghedi e Aviano.

Tutto questo dovrebbe gradualmente cessare con i negoziati per l’eliminazione delle armi nucleari che cominceranno nel 2017, settantadue anni dopo il lancio della prima bomba atomica americana su Hiroshima; molti problemi tecnici, economici, ecologici e politici, dovranno essere risolti, il cammino sarà lungo e difficile ma è cominciato.

Con l’eliminazione delle bombe nucleari, le centinaia di miliardi di dollari che ogni anno le potenze nucleari spendono per l’aggiornamento e il perfezionamento dei loro arsenali, potrebbero diventare disponili per assicurare cibo, acqua e case ai due miliardi di poveri del mondo.

Quante cose possono succedere se si preme il tasto giusto, quello del disarmo e della pace, durante la votazione in una aula delle Nazioni Unite, in un freddo giorno invernale.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a il manifesto

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divenne molto popolare come l’autore degli studi che portarono alla redazione del libro I limiti alla crescita (in italiano I limiti dello sviluppo, pubblicato da Mondadori nel 1972).

La ricerca era stata voluta da Aurelio Peccei, presidente del Club di Roma, un gruppo di scienziati, imprenditori e uomini politici; nella sua autobiografia Forrester racconta che Peccei, durante un incontro sul Lago di Como, alla fine degli anni sessanta, gli espresse le sue preoccupazioni sul futuro di una umanità presa fra una popolazione crescente, un impoverimento delle risorse naturali, consumi materiali crescenti e un crescente inquinamento.

Forrester suggerì che il problema poteva essere trattato con l’”analisi dei sistemi”, un metodo consistente nella risoluzione contemporanea di varie equazioni differenziali relative ai mutamenti nel tempo di variabili interrelate, come appunto quelle elencate da Peccei. Il progetto “sul destino dell’umanità” iniziò con un finanziamento della Fondazione Volkswagen e un primo rapporto fu presentato nel 1970 davanti ad una commissione del congresso americano.

L’analisi, condotta con gli allora favolosi calcolatori elettronici del Massachusetts Institute of Technology (MIT), forniva dei grafici in cui si vedeva che, se fossero continuate le tendenze in corso, la popolazione umana sarebbe stata destinata ad un declino dovuto al crescente inquinamento e peggioramento della salute e scarsità di cibo. Le anticipazioni delle ricerche di Forrester cominciarono a circolare in Italia già ai primi del 1971, furono presentate alla Commissione sui “Problemi dell’ecologia” istituita dal presidente del Senato Fanfani e furono discussi nel corso della conferenza sul tema “Processo alla tecnologia ?” nel febbraio 1972.

Il lavoro di Forrester, esposto nel libro World Dynamics, del 1971, attrasse grande attenzione dopo la pubblicazione, da parte dei coniugi Meadows, collaboratori di Forrester, di una versione semplificata e “popolare”. Il loro libro The Limits to Growth, apparve contemporaneamente in varie lingue in molti paese nel 1972, in fortunata coincidenza con la Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano in corso a Stoccolma. Al successo e alle reazioni del libro sui “limiti alla crescita” il prof. Luigi Piccioni ha dedicato un importante saggio pubblicato nel n. 20 della rivista altronovecento.

Alla scoperta dell’analisi dei sistemi Jay Forrester, nato nel 1918 in un paesino agricolo del Nebraska, laureato in ingegneria nel MIT, era arrivato dopo una lunga carriera scientifica. Poco più che ventenne era stato coinvolto nella progettazione di dispositivi per l’orientamento automatico delle antenne dei radar della difesa antiaerea. Alla fine della seconda guerra mondiale aveva partecipato alla costruzione del calcolatore elettronico Whirlwind utilizzando le memorie a nuclei magnetici inventate da An Wang nel 1949. Con questi nuovi strumenti di calcolo elettronico nei primi anni cinquanta del Novecento era possibile risolvere le complicate equazioni matematiche capaci di analizzare degli insiemi, dei “sistemi”, di grandezze economiche, sociali e biologiche legate fra loro.

Nel 1956 la Fondazione Sloan decise di istituire un cattedra di gestione aziendale presso il MIT al fine di portare i manager industriali a contatto con le realtà dell’ingegneria nel più prestigioso centro di tecnologie avanzate. Forrester fu chiamato a coprire tale cattedra e applicò la “analisi dei sistemi” ai fenomeni aziendali.

L’analisi dei sistemi permetteva di descrivere come i vari fattori delle attività di un’impresa - materie prime, produzione, distribuzione, mercato, personale - sono legati fra loro e si influenzano a vicenda; che cosa succede di ciascuno, per esempio dell’occupazione, se aumentano i costi di produzione e diminuisce la richiesta del mercato. La soluzione contemporanea di adatte equazioni matematiche può offrire una risposta a simili domande, come Forrester mise in evidenza con il libro Industrial Dynamics del 1961.

Una successiva occasione di applicare il nuovo modo di ragionare Forrester ebbe nel 1968 quando il sindaco di Boston gli chiese se fosse possibile analizzare il sistema urbano - distribuzione di abitazioni, servizi, uffici, trasporti - con il suo metodo. I risultati sono contenuti nel libro Urban Dynamics del 1969.

Dopo il successo del libro sui “limiti alla crescita” Forrester ha continuato a diffondere la cultura dell’analisi dei sistemi la cui utilità è andata crescendo a mano a mano che diventavano disponibili calcolatori elettronici sempre più potenti.

L’analisi dei sistemi non consente, né vuole, fare previsioni, come erroneamente credevano molti critici della ricerca del Club di Roma sul futuro dell’umanità, ma induce ad interrogarsi su quello che potrebbe succedere se: se aumenta la popolazione mondiale aumenta la produzione industriale; se aumenta la produzione industriale aumenta l’inquinamento; se aumenta l’inquinamento si diffondono malattie che rallentano la crescita della popolazione, e così via. Insomma uno strumento che aiuta a considerare che persone, economie, territori, città, materie prime, risorse naturali, sono legati da invisibili ma solidissimi fili. Meglio rendersene conto.

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Nel corso dell’anno ci sono tantissime ”giornate” ecologiche, quella della Terra, quella dell’ambiente, dell’acqua, degli oceani, eccetera. E passa quasi inosservata una giornata mondiale … dei gabinetti, che pure cade ogni anno il 19 novembre, organizzata dalle Nazioni Unite. Quest’anno il tema è “Gabinetti e occasioni di lavoro”.

Nei paesi industrializzati, giustamente, si combattono battaglie per ridurre i milligrammi di metalli o il numero di batteri come Escherichia coli che possono essere tollerati nelle acque di fogna, ma nel nostro pianeta 2400 milioni di persone non hanno fognature, e 700 milioni, il 10 percento della popolazione totale, non hanno neanche acqua corrente e gabinetti nelle loro case, che talvolta sono soltanto baracche. Gli escrementi finiscono nei campi e da li, con il loro carico di batteri e di sostanze nocive, sono trascinati dalle piogge nei fiumi e nel sottosuolo e finiscono nei pozzi e contaminano le acque usate poi nelle case: un ciclo perverso dell’acqua che diffonde malattie, epidemie e morte, soprattutto infantile.

Esiste una organizzazione mondiale per la diffusione dei gabinetti, la World Toilet Organization, che ha tenuto, proprio nei giorni scorsi, la propria 15a riunione annuale a Kuching, in Malaysia. In quella occasione è stato reso noto il rapporto annuale che ha descritto lo stato dei servizi igienici nel mondo. Ogni anno oltre 300 milioni di bambini in tenera età, una strage degli innocenti, muoiono per malattie associate alla mancanza di pur elementari servizi igienici.

Le iniziative per assicurare servizi igienici per i paesi sottosviluppati non sono motivate soltanto da considerazioni etiche o dall’amore per il prossimo; la diffusione di apparecchiature igieniche per chi ne è privo rappresenta un grandissimo affare industriale e finanziario; al fianco della conferenza di Kuching c’era una grande esposizione di gabinetti e fognature in cui centinaia di imprese hanno presentato le proprie proposte di sistemi igienici, possibilmente a basso costo e efficienti, da esportare nei paesi arretrati.

Il “mercato” è sterminato: in paesi come il Sud Sudan, Madagascar, Congo e Ghana, oltre l’80 percento della popolazione non ha gabinetti. La situazione non è migliore neanche nelle abitazioni delle megalopoli di molti paesi emergenti nei quali la rapidità della crescita delle città non tiene il passo con il dovere di assicurare adeguati servizi igienici di gabinetti, fognature, depuratori.

La cui mancanza “costa” anche in soldi per l’economia di ciascun paese se si considerano le spese che la collettività deve affrontare per curare dissenteria, malaria, epidemie e malattie provocate dal contatto con acqua sporca nelle case e nei villaggi.

Le Nazioni Unite si sono poste un obiettivo globale di assicurare servizi igienici minimi per tutti nel 2030 e mancano appena 17 anni. E’ quindi evidente che le autorità sanitarie dei vari paesi chiederanno, a chi li sa produrre, apparecchiature igieniche, contando anche su finanziamenti internazionali.

La dimensione del problema appare se si considera che ogni persona, sia essa ricca e potente o povera e poverissima, ogni anno introduce, direttamente o con gli alimenti, circa 1000 chili di acqua che vengono eliminati con gli escrementi sotto forma di urina e di feci. Se una persona può utilizzare un gabinetto ad acqua corrente, “consuma”, per lo smaltimento di questi rifiuti, ogni anno da 10 a 20 mila litri di acqua che viene così sporcata e contaminata; se i gabinetti sono collegati ad una fognatura e a qualche depuratore, una parte dei rifiuti organici viene trattata o trasformata; altrimenti le acque sporche vanno a finire nei fiumi o nel mare e sono fonti di inquinamento microbiologico e di diffusione di virus. In molti paesi non ci sono gabinetti e neanche acqua sufficiente.

E’ una nuova corsa a inventare, perfezionare e fabbricare strumenti per migliorare le condizioni igieniche del mondo, specialmente dei paesi più poveri: occasioni per affari e attività industriali. Nei paesi industriali ci sono investimenti e pubblicità per servizi igienici sempre più sofisticati per una popolazione che pure ha già risolto i suoi principali problemi igienici e non c’è attenzione per un “mercato” che pure comprende centinaia di milioni di persone.

Il fatto è che nelle Università può sembrare ridicolo lavorare su problemi così “volgari” come la progettazione di “gabinetti di villaggio” e di tecniche di depurazione delle acque di fogna, benché la loro soluzione richieda spesso avanzate competenze tecnico-scientifiche.

Da noi per i paesi arretrati lavorano soltanto le associazioni di volontariato e le Famiglie missionarie, con mezzi limitati e nel disinteresse generale della politica e anche delle imprese. Alla progettazione e costruzione di gabinetti e sistemi igienici per i paesi arretrati lavorano invece intensamente proprio i paesi di nuova industrializzazione, come Cina e India; a Singapore e in India esistono dei Toilet Colleges per la ricerca tecnica e per l’educazione e l’informazione degli abitanti. Eppure queste tecnologie, umili e considerate “povere”, potrebbero dar vita anche in Europa a nuove imprese, a nuovi posti di lavoro, con prospettive di una vastissima richiesta futura. Prospettive per una ingegneria dell’amore per il prossimo e per l’ambiente.

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Il 27 ottobre scorso nella prima commissione dell’assemblea delle Nazioni Unite è stata votata la risoluzione L.41 che chiede che nel 2017 siano avviate trattative per arrivare ad un divieto delle armi nucleari con l’obiettivo della loro totale eliminazione, prevista fin dal 1970 dall’articolo VI del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari (NPT), approvato dalla quasi totalità dei paesi della Terra, compresi quelli che possiedono armi nucleari.

La risoluzione è stata approvata con 123 voti a favore, 38 voti contrari e 16 astensioni. L’Italia ha votato contro. E’ questa, a mio parere, la vergogna, ed è il risultato dell’aver lasciato nelle mani del governo le decisioni importanti, senza consultazione del popolo che si esprime attraverso il Parlamento.

Una ulteriore riprova delle conseguenze negative dell’eventuale approvazione di una riforma costituzionale che, per “velocizzare” le decisioni, giuste o sbagliate, del governo, riduce ulteriormente il potere del Parlamento e il suo controllo sul governo che è chiamato ad “eseguire” quanto il Parlamento decide.

La risoluzione L.41 sarò oggetto di ulteriore votazione da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite alla fine di autunno. Come elettore di questo Parlamento chiedo che esso dia mandato al suo potere esecutivo di votare a favore dell’inizio di un cammino che porti al divieto totale delle armi nucleari auspicato da cittadini, studiosi, intellettuali, dal Papa Francesco e dai suoi predecessori, e che è un obbligo giuridico preso anche dall’Italia firmando il Trattato di non proliferazione NPT.

Nel mondo esistono ancora più di 15.000 bombe nucleari sufficienti per diffondere morte, malattie e danni all’ambiente nell’intero pianeta; per il loro ammodernamento e perfezionamento si spende nel mondo ogni anno l’equivalente di migliaia di miliardi di euro. Siamo ancora in tempo a eliminare le armi nucleari: chiediamolo ad alta voce.

Nature ... (segue)

Nature un articolo sostenendo che i peggioramenti climatici che stiamo conoscendo hanno le loro radici in eventi che risalgono ai primi decenni dell’Ottocento, all’inizio della rivoluzione industriale. D’altra parte il biologo americano Eugene Stoermer (1934-2012) e il chimico olandese Paul Crutzen (premio Nobel) anni fa avevano suggerito il nome “antropocene” per una nuova era geologica caratterizzata dalle più vistose modificazioni della Natura da parte dell’uomo e ne avevano indicato l’inizio nel 1784, l’anno in cui James Watt (1736-1819) ha perfezionato la macchina a vapore.

In quella seconda metà del Settecento si conosceva l’esistenza nel sottosuolo del carbone, un combustibile fossile; i suoi giacimenti erano spesso invasi dalle acque e vari inventori avevano proposto delle pompe azionate da macchine alimentate col calore liberato bruciando il carbone stesso. La vera soluzione del problema si ebbe con l’invenzione, da parte di Watt, di un dispositivo che permetteva di azionare le pompe e qualsiasi altra macchina con minori consumi di carbone. Per gratitudine i posteri hanno chiamato watt l’unità di misura della potenza di una macchina.

Dall’inizio dell’Ottocento in avanti è cominciata una reazione a catena: più carbone richiedeva altre macchine; altre macchine richiedevano altro ferro e acciaio; il ferro poteva essere separato dai minerali usando carbone; con più macchine era possibile meccanizzare la produzione di filati e tessuti; più tessuti richiedevano agenti di lavaggio come la soda, ottenibile trattando il sale marino con acido solforico e poi ancora con carbone.

La costruzione delle locomotive azionate da macchine a vapore a carbone apriva nuove terre alla coltivazione e le ferrovie richiedevano altro ferro anche per le rotaie. L’applicazione della macchina a vapore ai piroscafi transoceanici, nei primi dell’Ottocento, faceva affluire nelle fabbriche nuove materie prime e rendeva accessibili più alimenti.

Più fabbriche avevano bisogno di più operai che arrivavano nelle città industriali abbandonando le campagne alla ricerca di migliori salari; con migliori salari un maggior numero di consumatori poteva acquistare più merci prodotte con più fabbriche, con più macchine, usando più carbone.

Un’altra accelerazione si è avuta con la scoperta, dal 1860 in avanti, dei grandi giacimenti di petrolio negli Stati Uniti; con la raffinazione del petrolio diventavano disponibili carburanti per nuovi motori che, alla fine dell’Ottocento, avrebbero dato vita a mezzi di trasporto che si muovevano da soli, automobili, appunto.

Dagli inizi del Novecento col carbone è stato possibile ottenere per sintesi l’ammoniaca da cui ricavare concimi per aumentare la produzione di alimenti richiesti da una popolazione mondiale crescente e sempre più affamata, e ottenere acido nitrico con cui fabbricare esplosivi che sarebbero stati richiesti in grande quantità nelle due disastrose guerre mondiali del Novecento.

Nel 1960 l’energia ottenuta nel mondo dal petrolio ha superato quella ottenuta dal carbone e tutta la seconda metà del Novecento è stata segnata da crescenti consumi del petrolio da cui era anche possibile ottenere gomma sintetica, materie plastiche, fibre sintetiche, con cui era possibile percorrere strade con le automobili e attraversare i cieli con aerei, gli ingredienti della moderna società.

Gli eventi tecnico scientifici e merceologici di questo “secolo lungo”, come l’ha chiamato lo storico Pier Paolo Poggio, che va dal 1800 ad oggi, hanno avuto come conseguenza l’aumento della popolazione mondiale da 900 milioni agli attuali 7300 milioni di persone, e l’aumento di dieci volte dei consumi mondiali di energia. Energia ricavata, in questi due secoli, per la maggior parte da combustibili fossili, carbone, petrolio e, più recentemente, gas naturale, i quali tutti liberano energia sotto forma del calore di reazione fra l’elemento carbonio, delle rispettive molecole, e l’ossigeno dell’aria; si forma così il gas anidride carbonica che è andato continuamente ad accumularsi nell’atmosfera. La massa di anidride carbonica nell’atmosfera in due secoli è aumentata di 2000 miliardi di tonnellate; la sua concentrazione è passata da 220 a 400 ppm.

E’ proprio l’anidride carbonica, insieme ad alcuni altri gas come il metano e gli ossidi di azoto, anch’essi associati alla produzione e al consumo di energia, che trattiene nell’atmosfera una crescente frazione della radiazione solare e determina il riscaldamento planetario, causa dei continui peggioramenti climatici.

Non ci sono segni di rallentamento dell’uso dei combustibili fossili; l’energia nucleare, nonostante le promesse iniziali, non è stata in grado di sostituirli; l’energia del Sole e del vento possono sostituirli per ora solo parzialmente.

In questo scenario quanto potrà durare l’era della storia terrestre occupata da una specie, quella umana, che modifica e peggiora così aggressivamente la Natura ? Nessuno può dare una risposta; il Papa Francesco in una intervista anni fa ha detto che anche la nostra specie finirà; non finirà la vita sulla Terra, almeno fin quando il Sole continuerà ad irraggiare luce ed energia.

Intanto, per allontanare la fine di questo turbolento antropocene, non sarà male ripensare a come soddisfare i reali bisogni umani consumando meno energia fossile e inquinando di meno.

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Tutti i progressi per difendere e migliorare le condizioni dell’ambiente e della natura, cioè della salute umana, sono stati ottenuti in seguito alle proteste del “popolo inquinato”, delle persone danneggiate dalle azioni di qualche soggetto economico. Per capirci meglio, immaginiamo che una persona costruisca una fabbrica che “è buona”, perché produce beni utili e perché assicura occupazione e quindi reddito ai lavoratori, ma che, durante la produzione, immette nell’aria dei fumi che arrecano danni agli abitanti delle zone vicine. Alcuni di questi si ammalano e devono spendere dei soldi per curarsi e protestano - ecco l’inizio di un conflitto “ambientale” - e chiedono al proprietario della fabbrica di smettere di inquinare. Il proprietario della fabbrica inquinante replica che sta operando in conformità delle tecniche e delle leggi esistenti; ciò non soddisfa gli ammalati i quali chiedono che la fabbrica trovi qualche sistema per eliminare i fumi.

Il proprietario della fabbrica replica che, se facesse quanto chiesto dagli inquinati, la merce che produce verrebbe a costare troppo e sarebbe costretto a chiudere, licenziando gli operai. A questo punto operai e ammalati insieme ricorrono “allo Stato”, il quale ha il dovere di trovare una qualche soluzione in grado di difendere sia la salute degli inquinati, sia il posto di lavoro degli operai, sia il diritto del fabbricante di produrre le merci utili.

Per risolvere il conflitto lo stato può trarre dalle tasse dei cittadini qualche soldo per indurre il fabbricante a mettere un filtro sul suo camino, oppure per pagare un salario agli operai disoccupati, oppure per risarcire le spese degli ammalati o per qualsiasi altra soluzione. Anche se il riferimento al caso Taranto non è casuale, proprio questo tipo di conflitto ambientale è stato descritto già un secolo fa nel libro L’economia del benessere dell’economista inglese Arthur Cecil Pigou.

Lo studio di simili e di altri conflitti ambientali sarebbe di grande utilità per vedere come sono stati risolti in passato e come se ne possono trarre utili informazioni per il futuro. E’ quanto ha fatto l’Associazione ASud con il suo Centro Documentazione Conflitti Ambientali (CDCA) che raccoglie storici, sociologi, tecnici, ambientalisti, pacifisti (si, anche pacifisti alla ricerca di soluzioni dei conflitti militari, simili a quelli ambientali).

Nelle settimane scorse è stato pubblicato uno dei volumi del Centro, La democrazia alla prova dei conflitti ambientali, 100 pagine a cura di Giovanni Ruocco e Marianna Stori. Si tratta di uno dei preziosi libri “sommersi”, difficili da trovare nelle librerie, sovraffollate di libri commerciali, e che può essere cercato presso il CDCA.

I vari saggi del libro esaminano alcune delle molte forma in cui si presentano i conflitti ambientali in Italia. Talvolta la protesta riguarda l’inquinamento di attività che sono in funzione e di cui si vedono i danni alla salute e all’ambiente; è il caso dell’Ilva di Taranto o della centrale termoelettrica a carbone di Brindisi Sud. In altri casi la protesta della popolazione è rivolta ad impedire che vengano realizzate opere considerate inquinanti, dannose per l’ambiente, inutili o tecnicamente sbagliate; si possono ricordare le proteste contro i progetti di costruzione delle centrali nucleari, o delle fabbriche di proteine dal petrolio (che non sono state realizzate perché sbagliate), o quelli in corso nei confronti delle opere per il “Terzo Valico” fra Liguria e Piemonte, della linea ad alta velocità Torino Lione che attraversa la Valle Susa, della costruzione del ponte sullo stretto di Messina, che, secondo i proponenti, assicurerebbero più veloci trasporti di merci e persone e di cui i contrari contestano non solo l’utilità, ma anche la pericolosità e per le alterazioni che arrecherebbero ai territori attraversati.

In altri casi ancora il conflitto sorge per i danni che persistono dopo che le attività sono cessate. Si pensi ai morti per tumore per l’esposizione all’amianto in cave e fabbriche ormai chiuse (a Casale Monferrato e a Bari) o per essere venuti a contatto con sostanze cancerogene o tossiche di origine industriale presenti in depositi di rifiuti e scorie, come avviene in Campania e altre regioni. In questo terzo caso il conflitto chiede la punizione dei responsabili e un risarcimento per gli ammalati e per le morti.

Esiste poi tutto un vasto capitolo di conflitti che riguardano l’ambiente di lavoro, cioè i danni e pericoli a cui sono esposti i lavoratori all’interno delle fabbriche, delle cave e miniere, dei cantieri, nei confronti dei datori di lavoro che non assicurano adeguate condizioni di sicurezza. Un tema che è stato ben presente nelle organizzazioni sindacali e nella cultura scientifica da oltre mezzo secolo e che ha portato, solo di recente, all’emanazione dei decreti n. 626 del 1994 e 81 del 2008, che stabiliscono maggiori precauzioni, nonostante le quali ogni anno oltre mille persone perdono la vita nell’”ambiente” di lavoro,

Fra i conflitti ambientali vanno inclusi anche quelli che riguardano la difesa degli acquirenti di merci, esposti a frodi e a danni. Di questi si occupano numerose associazioni di difesa “dei consumatori”, talvolta attente anche ai risvolti ecologici dell’acquisto e dell’uso di merci.

Il libro prima citato mostra bene che la conoscenza dei conflitti ambientali può facilitarne la soluzione nel nome di una società capace di soddisfare i bisogni umani con minore violenza e con maggiore democrazia.

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E’ finalmente uscito il molto atteso libro: Rivoluzione e sviluppo in America Latina, a cura dello storico Pier Paolo Poggio, pubblicato dall’editore Jacabook di Milano.

Si tratta di un volume di oltre 750 pagine, il quarto di una serie di monografie ispirate all’”altronovecento”, cioè alle storie meno note del secolo scorso. I tre volumi precedenti sono stati dedicati a “rivoluzione e sviluppo” nel periodo del comunismo sovietico, e poi nel Novecento europeo e in quello degli Stati Uniti e sarà seguito da altri due che esamineranno le stesse contraddizioni in Africa e Asia e, infine, nel XXI secolo.

Questo quarto volume viene pubblicato proprio nei giorni in cui l’Olimpiade in corso a Rio de Janeiro, in Brasile, sta portando davanti agli occhi del mondo alcuni aspetti dell’America Latina, quella specie di vastissimo triangolo attaccato sotto l’America settentrionale. L’America meridionale deve essere sembrata una specie di paradiso terrestre incontaminato, ai “conquistatori” spagnoli e portoghesi che vi sono sbarcati 500 anni fa col preciso obiettivo di rapinarne, per la maggior gloria degli imperi europei, le risorse naturali.

Alla loro avidità si offrivano vegetazioni ricche di specie e materie fino allora sconosciute (si pensi soltanto alla patata, al pomodoro, al mais e alla gomma), minerali, deserti, montagne altissime, pianure erbose, cascate e vulcani, un continente attraversato da fiumi così vasti che i conquistatori pensavano fossero dei mari.

Ricchezze, soprattutto, che non erano “di nessun” e delle quali quindi il primo arrivato poteva impadronirsi tracciando una riga su una carta geografica. Salvo poi scoprire che tali ricchezze erano “di qualcuno”, di popolazioni di nativi, considerati “selvaggi”, anche se alcune avevano una lunga storia di civiltà e di cultura.

Per portare via metalli preziosi e risorse agricole e forestali occorreva della mano d’opera che i conquistatori ottennero portando via dall’Africa i “negri”, e usandoli vergognosamente come schiavi. Gli abitanti dell’America Latina diventarono così una straordinaria miscela di discendenti dei conquistatori europei, dei nativi, degli schiavi africani e dei relativi incroci, a cui si aggiunsero, e siamo ormai nel Novecento, gli immigrati provenienti dai paesi europei, in fuga dalla miseria e dai fascismi.

Nel XX secolo l’America Latina è stata davvero un crogiolo di diversità umane e naturali in cui sono nate, cresciute e scomparse rivoluzioni alla ricerca di strade autonome allo sviluppo, di liberazione da potenti e arroganti ristrette classi dominanti il cui sfruttamento delle risorse del paese ha mostrato presto i frutti avvelenati: inaridimento dei campi creati distruggendo le foreste, erosione del suolo, inquinamento delle acque, impoverimento dei pascoli.

E’ difficile riassumere in poche righe il gran numero di informazioni contenute nel libro Rivoluzione e sviluppo in America Latina; mi soffermerò a considerare alcuni aspetti delle risorse naturali e dell’ambiente relativi a tre dei paesi latinoamericani.

Cuba, la bella isola, pur indipendente dal 1902, è stata appetibile preda degli interessi economici e finanziari nordamericani con le sue ricche piantagioni di canna da zucchero, e la produzione di bevande alcoliche e di sigari, un turismo di lusso attratto dalla presenza di case da gioco. La rivoluzione castrista del 1959 ha liberato il paese dai corrotti personaggi che assicuravano la sudditanza agli Stati Uniti ed ha dato ad una austera Cuba mezzo secolo di sviluppo con migliori servizi sanitari e educativi.

Il Cile, repubblica indipendente dal 1817, ha vissuto periodi di grande prosperità grazie alle esportazioni del nitrato di sodio, materia prima per l’industria chimica, e poi del rame di cui possiede riserve fra le più grandi del mondo, per decenni nelle mani delle multinazionali nordamericane grazie a governi compiacenti. Così le ricchezze minerarie, pur appartenendo “al popolo”, potevano essere portate via lasciando solo spiccioli ai cileni. Nella breve primavera 1970-1972 del suo governo, Salvador Allende decise, con la nazionalizzazione delle miniere di rame, che i benefici della loro utilizzazione dovessero restare al popolo cileno per assicurarne uni sviluppo civile. Allende “fu suicidato” nel 1972, un evento che contribuì alle rivolte dei paesi produttori di materie prime, a cominciare da quelle petrolifere, contro gli sfruttatori stranieri.

Il Brasile ha vissuto la sua più recente primavera rivoluzionaria dal 2002 con l’elezione alla presidenza del socialista Lula che ha assicurato un periodo di grande prosperità e sviluppo economico e sociale e ha portato il Brasile fra le grandi potenze economiche e industriali emergenti, il gruppo BRIC, Brasile-Russia-India-Cina. Il successo di Lula è stato seguito da quello (2010) della presidente Dilma Rousseff (2010), entrambi osteggiati dalla potente destra che sta riportando il grande paese nella crisi economica e nel caos, difficilmente dissimulati dal chiasso e dallo sfarzo delle Olimpiadi.

Infine non è un caso che in questa straordinaria parte meridionale del continente americano sia nata quella primavera del cristianesimo che fu la teologia della liberazione, il movimento che ha riconosciuto la missione della Chiesa nel liberare, appunto, i popoli dalla povertà e dall’oppressione. Alcuni saggi del libro ricordano questa stagione che ebbe il suo più noto martire in mons. Oscar Romero, assassinato nel 1980 per aver testimoniato, “opportune et importune”, come scrive San Paolo a Timoteo, da che parte sta la Chiesa fra oppressori e oppressi. E non è un caso che da tale continente sia venuto l’attuale Papa Francesco, con le sue “nuove”, antichissime per il Vangelo, parole di giustizia e di misericordia.

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Bikini è una piccola isola, un atollo corallino, che fa parte della Repubblica delle Isole Marshall, in mezzo all’Oceano Pacifico. Dopo la seconda guerra mondiale il governo delle isole Marshall era stato affidato agli Stati Uniti i quali le scelsero, proprio così lontane da altre terra abitate, per condurre le prime esplosioni sperimentali (i test) delle bombe atomiche che avevano costruito da poco; le prime due erano state lanciate sulle città giapponesi di Hiroshima il 6 agosto e di Nagasaki il successivo 9 agosto 1945. L’America visse “la bomba” come il successo tecnico-scientifico che aveva costretto il Giappone alla resa, risparmiando migliaia di vite di soldati americani che sarebbero morti se la seconda guerra mondiale fosse continuata. Ma soprattutto era un sussulto di orgoglio per un paese stanco per i sacrifici di guerra, in cui molte famiglie piangevano i soldati morti sui fronti dell’Italia, della Germania, del Giappone.

Un libro di Paul Boyer, Il pensiero e la cultura americani all’alba dell’era atomica, descrive tale atmosfera; una copertina del settimanale Life mostrava una fotografia dell’attrice Linda Christian definita “bomba anatomica. L’era atomica arriva a Hollywood”. Parole come “atomico” e “uranio” entravano nei fumetti, nelle canzoni, nei film, nella pubblicità. L’America appariva come il paese più potente, in grado, con la sua capacità scientifica a industriale, di guidare il mondo e di assicurare la pace.

Il quadro luminoso aveva alcune ombre; da una parte alcuni scienziati cominciavano ad interrogarsi sulla moralità dell’uso della bomba atomica e sulle conseguenze ecologiche della radioattività rilasciata da ogni esplosione atomica. Dall’altra parte si stavano raffreddando i rapporti fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, alleata nella guerra contro la Germania ma così differente, col suo comunismo, dagli ideali capitalistici americani, e che era stata tenuta all’oscuro della fabbricazione della bomba atomica.

In queste condizioni i militari americani accelerarono in gran segreto gli sforzi per perfezionare le bombe atomiche e per costruirne altre; per controllarne l’efficienza e gli effetti distruttivi e ambientali occorreva effettuare delle esplosioni sperimentali e per tali test atomici furono appunto scelte le isole Marshall da cui furono fatti evacuare i pochi abitanti. Nella laguna dell’isola di Bikini furono trasportate molte decine di navi in disarmo fra cui la portaerei Oklahoma, che era stata danneggiata durante l’attacco giapponese a Pearl Harbor e la corazzata Prinz Eugen, orgoglio della marina nazista, catturata dopo la guerra.

Il 1 luglio 1946, settanta anni fa, un aereo sganciò sull’isola una prima bomba atomica; la chiamarono “Gilda” dal nome del film in cui appariva l’esplosiva bellezza di Rita Hayworth. La fotografia del lampo e della nube di polvere che si sollevava, come un fungo, sull’isola fece il giro del mondo; cinque giorni dopo uno stilista francese battezzò col nome di “bikini” un nuovo succinto costume da bagno che avrebbe avuto un successo mondiale.

L’effetto distruttivo dell’esplosione fu modesto: il 25 luglio successivo fu fatta esplodere una seconda bomba atomica, questa volta posta sul fondo della laguna, e l’effetto distruttivo fu un po’ maggiore; alcune navi affondarono, tutte furono contaminate dalla radioattività e rimasero inavvicinabili per molto tempo. La radioattività delle polveri lanciate nell’aria dall’esplosione atomica fu così elevata che il chimico Glenn Seaborg (premio Nobel nel 1951) dichiarò che quello di Bikini era stato "il primo disastro nucleare del mondo".

Le due esplosioni atomiche di Bikini, forse più ancora che quelle delle bombe atomiche precedenti lanciate sul Giappone un anno prima, rappresentarono una svolta storica: segnarono la nascita della consapevolezza dei pericoli nucleari e della contestazione ecologica e anche l’inizio del raffreddamento dell’entusiasmo americano e mondiale per l’atomo e la sua potenza. Si diffuse la paura che il segreto atomico finisse nella mani di altri paesi, e soprattutto dei sovietici, anche se molti in America ritenevano che un così importante segreto avrebbe dovuto essere reso accessibile a tutti, che avrebbe dovuto esserne vietata la costruzione e che mai più una bomba atomica avrebbe dovuto essere usata in guerra.

Intanto i rapporti fra Stati Uniti e Unione Sovietica si erano deteriorati al punto che nel 1948 i russi posero il blocco dei trasporti terrestri fra la Germania occidentale e la parte ovest di Berlino, circondata dalla Germania orientale comunista; la città isolata fu rifornita per un anno di cibo e carbone per via aerea. Era l’inizio della “guerra fredda”.

I militari americani accelerarono i perfezionamenti delle bombe atomiche come mostrarono i test del 1948 nell’atollo di Eniwetok, sempre nelle isole Marshall; ma intanto nel 1949 i sovietici avvertirono il mondo che anche loro avevano la bomba atomica. Si affacciava sulla scena un’arma ancora più potente, quella termonucleare, la bomba H, che gli americani sperimentarono per la prima volta nel 1952, 450 volte più potente di quella che aveva distrutto Hiroshima; tre anni dopo anche i sovietici fecero esplodere la loro bomba H.

E’ stata una corsa senza fine; oggi nel mondo ci sono 15.000 bombe termonucleari fabbricate da nove paesi e distribuite in molti altri paesi fra cui l’Italia. Uno dei film in cui erano immaginate le conseguenze umane e ambientali dell’esplosione su una città anche di una sola di tali bombe finiva con le parole: “Potrebbe succedere”. Per questo ricordiamo Bikini.

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che permettono il ricambio della vegetazione e ristabiliscono equilibri ecologici. Nel corso dei secoli gli esseri umani, col fuoco o con le asce, hanno distrutto le grandi foreste che coprivano l’Europa per trarne terreni da coltivare e legname da costruzione o da usare come combustibile. Nel Medioevo si poteva andare dalla Sicilia a Parigi senza uscire dai boschi e oggi si può fare lo stesso percorso senza entrare mai in un bosco; ottocento anni fa Federico Secondo poteva andare a caccia nei boschi pugliesi oggi scomparsi.

La distruzione dei boschi si è fatta sempre più rapida a mano a mano che è cresciuto il bisogno di terreni coltivabili e di spazi edificabili, a spese della vegetazione spontanea.

Nel nostro paese si sono moltiplicati gli incendi di alberi e di macchia mediterranea a causa di imprudenza ma più spesso intenzionalmente per sgombrare i terreni dalla vegetazione che intralciava progetti di costruzioni e di speculazione edilizia.

Dopo lunghi dibattiti e allarmi delle associazioni ambientaliste, finalmente il 21 novembre 2000 è stata emanata la legge n. 353 sugli incendi boschivi. La legge comincia a definire un incendio boschivo come “un fuoco con suscettività a espandersi su aree boscate, cespugliate o arborate, comprese eventuali strutture e infrastrutture antropizzate poste all'interno delle predette”, e prosegue che si propone di difendere dagli incendi il “patrimonio boschivo nazionale quale bene insostituibile per la qualità della vita”.

E, tanto per scoraggiare chi spera di distruggere boschi o vegetazione per costruirci edifici o altre opere di interesse economico, la legge precisa che “le zone boscate ed i pascoli i cui soprassuoli siano stati percorsi dal fuoco non possono avere una destinazione diversa da quella preesistente all’incendio per almeno quindici anni”. Nel corso degli ultimi venticinque anni la situazione è peggiorata: in tutto il mondo e ogni anno gli incendi stanno distruggendo sempre più estese superfici di boschi e di vegetazione.

Le foreste, dal punto di vista economico e finanziario, sono inutili; servono “soltanto” ad assicurare “la vita” delle attuale e delle future generazioni. Attraverso le loro foglie le piante assorbono l’anidride carbonica dall’atmosfera e la trasformano in biomassa, l’insieme di sostanze chimiche organiche che si formano liberando ossigeno nell’atmosfera; i boschi regolano la diffusione e la distribuzione delle acque superficiali e sotterranee, ospitano innumerevoli esseri viventi vegetali e animali, molti dei quali importanti per l’alimentazione delle popolazioni locali. Alla fine del ciclo vitale degli alberi e delle piante le spoglie cadono al suolo, vengono decomposte da microrganismi e le loro sostanze organiche si trasformano nell’humus, la complessa materia che assicura la continuazione dei cicli ecologici.

“Purtroppo” molte foreste nascondono nel loro sottosuolo preziose risorse di interesse economico, dai minerali alle fonti di energia, intralciano l’avanzata di strade e dighe per centrali idroelettriche. Già nel corso del Novecento è cominciato l’assalto a tali risorse e a nuovi spazi coltivabili e gli incendi sono stati i mezzi più rapidi e meno costosi per sgombrare la superficie dalla “inutile” copertura vegetale.

Nell’Amazonia con gli incendi vengono conquistati spazi da coltivare a cereali e canna da zucchero, anche se la superficie “liberata” rimane esposta alle piogge che dilavano lo strato fertile e rendono, col tempo, le nuove terre inadatte alla coltivazione.

Nelle foreste indonesiane gli incendi sono provocati per liberare terreni da coltivare a palma il cui olio è una merce ricercata per trarne biodiesel, il surrogato del carburante diesel ricavato dal petrolio, e come ingrediente alimentare largamente consumato in Europa nei dolciumi e merendine.

Gli incendi delle foreste fanno aumentare la concentrazione nell’atmosfera dell’anidride carbonica, il principale “gas serra” responsabile del crescente riscaldamento del pianeta; nello stesso tempo proprio il riscaldamento planetario dovuto all’effetto serra altera il ciclo delle acque, fa aumentare la siccità e rende più fragile, rispetto al fuoco, la vegetazione dei boschi. Così l’effetto serra fa aumentare il numero e la durata degli incendi che devastano in numero crescente l’Italia, l’Europa, e tutti i continenti, incendi che fanno notizia soltanto se arrivano a lambire i lussuosi quartieri residenziali della California.

La tecnologia offre strumenti per combattere gli incendi, per esempio spargendo dall’alto sulla superficie a fuoco agenti chimici che fermano in parte la diffusione delle fiamme, ma è una corsa fra i rimedi umani e le cause umane che provocano tali incendi.

Siamo di fronte ad un’altra drammatica conferma di quanto si osserva a proposito della fusione dei ghiacci e dell’innalzamento del livello dei mari, provocati dal riscaldamento globale e a loro volta causa di tale riscaldamento.

Anche qui gli incendi e la distruzione dei boschi sono facilitati dal riscaldamento planetario e contribuiscono al suo aumento, un fenomeno su cui si sta giocando il futuro dell’intera umanità. Molti hanno riso quando il matematico Edward Lorenz (1917-2008) ha scritto, nel 1963, che il battito dell’ala di una farfalla può provocare una tempesta a migliaia di chilometri di distanza. Ma oggi sappiamo che c’è un rapporto diretto fra l’olio di palma, contenuto nelle merendine acquistate a Milano (tanto per citare un nome), e le piogge che allagano periodicamente tale grande città.

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Due metri”, questo lo strano titolo di un recente articolo che parla del possibile innalzamento, di due metri, appunto, del livello dei mari in seguito al riscaldamento dell’intero pianeta ...(segue)

Due metri”, questo lo strano titolo di un recente articolo che parla del possibile innalzamento, di due metri, appunto, del livello dei mari in seguito al riscaldamento dell’intero pianeta Terra. Il dibattito sul riscaldamento globale interessa tanti soggetti: gli scienziati che misurano le variazioni del clima e soprattutto la temperatura in varie parti della Terra nelle varie stagioni; gli ecologi che studiano l’effetto delle variazioni della temperatura sui cicli vitali delle piante e degli animali; i chimici che studiano la natura dei gas (li chiamano gas “serra”) che vengono immessi nell’atmosfera e che influenzano, proprio come avviene nelle serre, il flusso di energia solare che arriva e che esce dalla Terra; i merceologi che studiano da quali fonti (industrie, agricoltura, trasporti, abitazioni) vengono l’anidride carbonica, il metano, gli ossidi di azoto, eccetera, che si comportano come gas serra; gli economisti che calcolano gli eventuali costi e benefici, in soldi, del riscaldamento globale; i governanti che si trascinano da una conferenza internazionale all’altra per cercare di capire quali leggi proporre nei loro paesi per attenuare i danni (allagamenti, siccità, eccetera) provocati da un clima sempre meno prevedibile e sempre più irregolare; le compagnie di assicurazioni che offrono assicurazioni contro i danni delle bizzarrie climatiche. Ci sono poi studiosi e opinionisti che scrivono libri e tengono conferenze per dimostrare che non è vero niente, che il riscaldamento globale non esiste e che se esiste non è dovuto alle attività umane e che non è proprio necessario diminuire il consumo di petrolio o carbone e che comunque si possono inventare altre tecnologie che non alterano il clima presente e futuro.

Sta di fatto che molti segni indicano chiaramente che esistono alterazioni dei cicli biogeochimici del pianeta interpretabili soltanto con un aumento della temperatura ”media” della Terra; è importante sottolineare che si parla non della temperatura di ieri o di quest’estate a Bari o a Stoccolma, ma della temperatura del pianeta nel suo insieme, un valore che, da millenni, oscilla intorno a circa 15 gradi Celsius. Nel corso della lunga storia della Terra, molti milioni di secoli, tale temperatura è diminuita di qualche grado, nei periodi glaciali, o aumentata un poco, sempre a causa delle alterazioni della composizione chimica dell’atmosfera. Lo si vede dallo studio dei depositi marini e dei fossili terrestri. Cambiamenti però lentissimi, che si manifestavano nel corso di millenni. Oggi siamo preoccupati perché simili mutamenti, verso il caldo, si stanno verificando in tempi brevi, nel corso di decenni; un aumento di velocità dovuto al rapido sviluppo delle industrie, al crescente consumo di fonti di energia, ai mutamenti delle coltivazioni agricole.

Una delle più vistose conseguenze del riscaldamento del pianeta è rappresentato dalla fusione di parte dei ghiacciai, quei giganteschi depositi di acqua solida, 30 milioni di chilometri cubi, immobilizzata nelle zone polari e nelle alte montagne; con la fusione l’acqua passa dallo stato solido allo stato liquido e scorre attraverso le valli e le pianure e torna al mare il cui volume aumenta e di conseguenza aumenta anche il livello dei mari e degli oceani; gli studiosi tengono sotto controllo (oggi si può farlo con i satelliti artificiali) la superficie e il volume dei ghiacci e ne stanno osservando, da alcuni decenni, la lenta graduale diminuzione. Non è facile misurare esattamente il livello dei mari, ma le misure fatte in molte parti del pianeta e con diversi strumenti indicano un aumento del livello dei mari intorno a due o tre millimetri all’anno, quasi impercettibile, ma continuo. Il fenomeno sta già preoccupando le isole che vedono lentamente sommergere le loro spiagge; per le isole turistiche questo significa la perdita di clienti che spesso sono l’unica fonte di reddito; le isole costituite da atolli, con una altezza massima sul mare di pochi metri, rischiano di perdere una parte della loro intera superficie.

Che cosa succederebbe se un giorno il livello dei mari aumentasse davvero di due metri ? Questo, per ora improbabile scenario, è stato studiato nell’articolo di cui parlavo all’inizio. Molte strade di Bari, Napoli, Genova, Ravenna, New York, e di tante altre città costiere sarebbero invase dall’acqua del mare; l’acqua marina salina andrebbe a miscelarsi con le acque dolci sotterranee che non sarebbero più adatte per l’irrigazione. Ma anche il sollevamento del livello del mare di poche decine di centimetri provocherebbe danni economici elevatissimi, evitabili soltanto con drastici e costosissimi provvedimenti di difesa a cui oggi nessuno pensa perché il fenomeno procede inesorabile, ma lentissimo. Nessun governo si preoccupa di quello che potrebbe succedere dopo i cinque anni in cui è in carica, sapendo che in tale periodo l’aumento del livello del mare sarebbe di “appena” uno o due centimetri.

Considerare, “oggi”, quello che potrebbe succedere se il livello dei mari aumentasse, non dico di “due metri”, ma anche soltanto di mezzo metro, è un invito a guardare “lontano”, a un pianeta in cui vivranno i nostri nipoti e pronipoti i quali potrebbero rimproverarci per non aver preso in tempo provvedimenti per evitare eventi di cui abbiamo già i segni. Albert Schweitzer, premio Nobel per la pace, scrisse che “l’uomo ha perso la capacità di prevedere e prevenire; finirà per perdere la Terra”, la sua unica casa nello spazio. Se cominciassimo già adesso a pensare al futuro?

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