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La fattoria dell’Europa porta al mercato il suo ultimo prodotto: i suicidi. Tra Cremona, Brescia, Mantova e Reggio nell’Emilia, in due anni, sono aumentati del 32 per cento. Disprezzata e infine ignorata, corrosa dalle crisi, l’agricoltura italiana espelle la scoria estrema: gli uomini. La condanna si consuma mentre la domanda di cibo, ed i prezzi, esplodono. Troppo tardi. Nelle cascine si cercano braccia, ma non ci sono più nemmeno le teste. I vecchi tornano con gli occhi agli anni Cinquanta, spartiacque tragico della fuga dalle campagne. Il granista Doriano Zanchi, 36 anni, è stato trovato nella corte due giorni fa. Ha avviato il trattore. Poi si è seduto davanti, contro il porticato. Nelle golene, lungo il Po, sono i pioppi a proteggere chi, ricontrollato l’estratto conto, si affida a certi rami leggeri. Un invisibile, drammatico passaggio storico sta spazzando via chi si è ostinato ad aggrapparsi alla terra: la contro-rivoluzione dell’agricoltura virtuale, fondata su aziende senza contadini e su prodotti senza valore. Se anche la Baviera italiana liquida silenziosamente la sua anima, significa che il processo è irreversibile. Egidio Franzoni cammina tra i meloni che la pioggia fa maturare attorno a Goito. A chi appartiene questo campo? Nessuno lo sa. Fino a tre anni fa era dei cugini. Tradizione secolare. Adesso una società rimanda all’altra. Si dividono le quote i fornitori di semi e di concimi, il grossista e l’industriale, la banca mantovana acquistata da Siena. Anche Marco Stazzini, sotto Dosolo, ignora il nome del padrone della sua stalla, appoggiata tra seicento biolche di frumenti. Sei mesi fa l’istituto di credito l’ha ceduta ad una finanziaria. Ora è il contoterzista a fornire macchine, stallieri indiani e braccianti marocchini. Le 200 vacche olandesi arrivano dalla multinazionale che gli vende i mangimi. Il brooker gli comunica la sigla del grossista, il direttore commerciale della grande distribuzione fissa il prezzo del latte. All’allevatore mantovano, soffocato dall’ennesima impennata dai costi, restano l’ipoteca sulla terra e il governo delle bestie: mungitura alle 4, smaltimento del liquame alle 22. Un finto proprietario alle dipendenze di un padrone ignoto. «Il Paese - dice lo storico dell’economia Marzio Romani - sta perdendo il controllo dell’agricoltura. è un problema enorme, anche di democrazia». Se il cibo è la fonte di energia essenziale, il confronto con la psicosi atomica e petrolifera appare ridicolo. Lombardia ed Emilia, squassate dal cortocircuito borsistico di cereali e combustibili, sono prigioniere degli scioperi del latte e del maiale, che stanno sconvolgendo l’Europa. Migliaia di contadini, in balìa delle speculazioni finanziarie, oscillano tra le decine di «Farmer Market» settimanali e i cinque «signori» che decidono quanto vale un chilo di carne. Seguire il viaggio di una bistecca significa penetrare nel buio che, salendo dalle campagne, inghiotte la civiltà metropolitana del micro-onde. Lo hanno fatto due fratelli di Asola. Uno choc. Sette padroni, prima che una fettina in sette mesi passi dalla stalla al piatto. L’allevatore che fa nascere il vitello in Danimarca. Il mediatore tedesco che lo vende ad un produttore di Suzzara. Il macellaio della «Unipeg» di Pegognaga che lo fornisce al direttore acquisti dell «Cremonini». Il commesso di Auchan che lo vende alla professoressa di Gonzaga. «Nessun bene al mondo - dice Cristian Odini, agricoltore di San Prospero - fa tanti passaggi in così poco tempo. Tutti devono guadagnare, lo scarto è del 30%». Esplode il prezzo al consumo, crolla quello all’origine. è qualcosa di più profondo della nostalgia e del paesaggio, di più sostanziale del libero mercato e del potere dei fondi americani. Andrea Biagi, a Roverbella, coltiva fragole. Trenta centesimi al cestino, fino al maggio 2007. Ha allargato le serre, trent’anni di vita sulla lama del mutuo. «Da tre mesi - dice - siamo sommersi da navi di fragole salpate da Grecia, Spagna e Africa. Dieci centesimi a vaschetta. O vendo direttamente, o chiudo». è così che il contadino, beffato dalla politica debole che nasce e muore in ufficio, scompare dalla società. «Per avviare dal nulla una fattoria media - dice Antonio Negro, patriarca degli allevatori di Formigosa - servono tra i 2 i 3 milioni di euro. Le banche ti stritolano, un crimine legalizzato: ti aprono l’ombrello se c’è il sole, te lo chiudono quando piove. Se uno è bravo, dopo una vita di sacrifici, ricava 1300 euro netti al mese. Laurearsi costa meno e rende di più: nessun giovane capace può restare nei campi». Un cortocircuito di civiltà: in Meridione, negli ultimi dieci anni, lo spopolamento agricolo ha travolto quota 56%. A suonare è la campana di un incubo: la qualità dei prodotti italiani ignorata dal mercato globale che pretende quantità. «Ci hanno costretto a ingrandirci - dice Mario Caleffi, coltivatore di mais a Commessaggio - a investire sulla competitività, a produrre sempre di più, a puntare tutto sulla qualità. Ma la gente non ha più soldi per pagare la qualità del cibo sano. Se ne frega: chi è grande chiude, chi ha tagliato i dipendenti cade in pugno ai terzisti, i terreni esausti impongono sempre più concimi chimici, la grande distribuzione paga prosciutti di Parma e grana padano come salumi e formaggi importati dalla Romania». Se fino ad oggi è stato il «cambiamento» a segnare la storia delle campagne, nella Borsa agricola di Mantova il giovedì mattina ora si pronuncia, a voce bassa, la parola «estinzione». Il pomeriggio, a Bologna, ci si spinge oltre: fino a riflettere, partendo dall’epocale crollo del prezzo dei maiali, sul significato della domanda di «territorio» che sgorga dal Nord. «Governi e organizzazioni internazionali - dice lo storico dell’agricoltura Eugenio Camerlenghi - non controllano più la produzione alimentare. Da servo della gleba, l’agricoltore è diventato schiavo della «globa». Decisiva è la riduzione della libertà di usare lo spazio: piazze, fiumi, campagna». Si nasconde qui, nella decimazione della società contadina, l’ossessione locale che impone di odiare Roma, Bruxelles, l’America e la Cina. Sfrattata dalla terra, espulsa dal territorio, la gente si tuffa nella territorialità. I nuovi orfani sociali, costretti a regalare latte e ad estirpare barbabietole, chiedono protezione ai profeti della xenofobia. «In dieci anni - dice il mantovano Roberto Borroni, presidente di Agrisviluppo - i parlamentari espressi dagli agricoltori sono passati a 90 a 2. La politica li ignora, i sindacati di categoria conservano l’ideologia contrapposta della Guerra Fredda. I contadini sono più divisi e disorientati che mai: erano la civiltà dell’equilibrio, presto saranno la leva di una rivoluzione». Possibile, proprio adesso? Sono dieci mesi che, secondo i listini, il misterioso boom dei cereali trascina le rendite agrarie. India e Cina mangiano di più e lavorano di meno, gli speculatori affittano e riempiono magazzini clandestini, gli Usa fanno la guerra energetica alla Russia parlando di biodiesel. Perché, se il valore aggiunto cresce del 7%, nelle cascine cova la rivolta? Nessuno che infili un paio di buone scarpe coi lacci e si perda tra manze e onde di erba medica. Di notte, tra Castiglione e Luzzara, le piste arginali sono intasate di cisterne. Si vive di contributi Ue anche nella pianura padana: ma le bestemmie sono tutte contro l’Europa. Autisti clandestini versano nei fossi montagne di letame e oceani di urina. «Bevevamo dai ruscelli - dice Luigina Mattioli, maestra di salami - ora ci si ammala a guardarli». Leggi incomprensibili, quanto sacrosante, costringono ad affittare terreni per smaltire i liquami, di un sorprendente odore chimico. Poche cose, come gli odori, fanno pensare. Plichi di altre norme proibitive, come recinti alti 2 metri e mezzo o luce elettrica nei fienili, suggeriscono di risparmiare scaricando tutto nel canale più vicino. La lezione delle quote-latte, termine di rottura del mondo agricolo, non è stata compresa. La finzione a pagamento su Ogm e Bio, mina anche l’ultima fiducia. «Ogni posto vacca - dice Elisabetta Poloni, presidente della Cia mantovana - arriva a costare 6 mila euro. L’Italia, a Bruxelles, conta meno della Lituania. Gli uffici Ue governano il 99% dell’agricoltura: non abbiamo nemmeno tecnici capaci di tradurre le direttive. A trattare ci presentiamo in venti: gli altri Paesi ne mandano uno». Una nazione attenta, reduce dalla spaventosa stagionalità perenne riprodotta nei supermercati, cercherebbe di capire perché, lo stesso pezzo di formaggio, oscilla tra 6 e 13 euro al chilo a seconda delle ore. Perché il grano duro è salito da 190 a 500 euro a tonnellata in tre giorni. Perché il riso è sparito. Perché un litro di latte costa 37 centesimi e viene venduto a 160. Perché un anno fa il siero veniva regalato, poi è stato quotato e oggi si torna a consegnare gratis. Perché i pollai del Veronese, in tre anni, sono caduti nelle mani di banche e industrie che forniscono pulcini, lampade a raggi infrarossi e mangime. è bastata una nave di soia americana, ferma nel porto di Ravenna, a far saltare tre contadini di Reggiolo. «La protesta che devasta l’Italia - dice Benedetto Orsini, proprietario di un’azienda modello a Castel d’Ario - affonda nel tradimento della campagna. L’assalto ai campi nomadi e ai centri di raccolta dei clandestini, il rifiuto politico dell’Europa, sono il precipitato di un abbandono sociale senza precedenti. Fattorie, paesi, periferie e città di storia agricola, consegnate a euroburocrati corrotti e finanzieri senza volto che operano dai paradisi fiscali. L’euro è un pretesto: a Roma non si capisce che la rabbia di chi produce cibo si sta saldando con l’odio di chi lo consuma». Le sera i campi di pannocchie, a Sabbioneta, ricordano i parchi pubblici. Ex contadini, finiti a fare i gelatai e i centralinisti, cercano la vita perduta nelle corti abbandonate dell’infanzia. Dimezzati in dodici anni. Ridotta ad un terzo la superficie coltivata. «Sembra che il problema - dice Fabio Spazzini, orticoltore di Guidizzolo - sia proteggere la diversità dei prodotti tipici. Si parla di marchi, mentre il cambiamento è radicale: la possibilità di coltivare torna nelle mani di pochissime dinastie estranee all’agricoltura. L’energia alimentare è la nuova arma di scambio nella lotta per il potere globale». Emilia, Lombardia e Veneto, regno degli ex metalmezzadri salvati dai consorzi, naufragano tra i profitti dell’onnipotente grande distribuzione. Il rigoglioso ceto dei capitalisti un mutande, prigionieri della terra perduta, sconvolge così il proprio profilo. Aprono agritur, fondano mercati contadini, piantano distributori di latte crudo, spacciano culatelli, inaugurano fattorie didattiche, organizzano spettacoli nelle aie. è il dramma negato di un Paese che finge di investire su salute, natura e alimenti genuini: i contadini cacciati dai campi e ridotti a sovvenzionati giardinieri, cuochi, venditori ambulanti, attori e locandieri. «Qui vivevano - dice Ferdinando Boccalari, erede della meravigliosa Corte Virgiliana di Andes - 150 persone. Un paese, pieno di bambini. Si fermavano papi e regine. Oggi, con 200 ettari coltivati e 550 animali, stentiamo in tre famiglie. Vendita diretta e multifunzionalità non sono una scelta per guadagnare di più: contribuiscono a limitare i debiti a fine mese. Migliaia di coltivatori e di allevatori dipendono dal cartello di un pugno di industrie, che impongono la dieta a milioni di persone. L’agricoltura italiana sta fallendo e nessuno alza un dito». Nelle trattorie della Bassa mantovana e del Reggiano, protetti da qualche sorso di lambrusco, i vecchi riconoscono di aver commesso molti errori: i veleni, il saccheggio del territorio, la monocoltura, le truffe sui contributi, la divisione ideologica e sindacale. L’illusione che il villano potesse mangiare più bollito del vescovo. Colpe però insufficienti a giustificare un Paese mediterraneo costretto a importare il 65% del fabbisogno alimentare, con scorte di tre giorni e un rincaro del cibo del 7,3% in un anno. è allora importante che a Villastrada, mentre partiti e televisione si affannano attorno alle nozze di Briatore e ai soldati mimetizzati nelle aiole di Milano, si ricominci a parlare di lumache, zucche, rane, meloni. Il mugnaio Romolo Perteghella dice che la terra, se ospita varie specie, riesce a tenere a bada da sé i parassiti. Alex Odini, giovane agrotecnico, dice che con altre dieci vacche potrà recuperare un campo per l’orzo. Giorgio Zombini, miscelatore di mangime, dice ha il patto di fiducia tra «produttore e consumatore» può essere recuperato. Giulio Sereni, potenza dei maiali che si ostina a chiamare suini, promette di denunciare i consorzi che vendono «salumi freschi italiani» con bestie surgelate e importate dalla Cina. Può essere che le confuse discussioni da stalla, la minaccia di presìdi e scioperi, servano ad esorcizzare la paura di aver consumato un ruolo. La sensazione però è che solo da qui, dalla riappropriazione della sua semplice e periferica identità colonica, il Paese possa attingere le risorse civili per costruire una società meno precaria. A Suzzara è sabato mattina e sul mercato contadino piove. Si vendono le prime pere mirandoline, piccole pesche di orto, latte fresco senza certificati, coste e catalogna, ciliegie della Ferrovia, formaggio di trenta mesi, qualche gallina e pochi pani di burro giallo. Prezzi da anni Settanta. I coltivatori parlano della fine di un «fiol put»: ieri sera un altro allevatore, stritolato dal mutuo sui prati per conservare cento vacche, si è buttato nella porcilaia. Sembrano rivoluzionari, partigiani di una nuova resistenza, cospiratori impegnati nel far cadere un regime. Non è il caso di sorridere, forse, con la nota sufficienza.

Le case sono sulla spiaggia, conficcate in un arenile chiaro, appena mosso da un cordone di dune. Il mare è a dieci metri e il cantiere è recintato da una plastichetta verde. La costruzione è bloccata, si attende una decisione del Tar. Porto Garibaldi: uno dei lidi di Comacchio, il comune più grande dell’immenso Delta del Po, il delicato territorio esteso su oltre 1.300 chilometri quadrati, la zona umida più vasta d’Europa dove finisce il lungo fiume e sfumano i confini fra terra e mare, acque salate e acque dolci, pinete e saline, boschi secolari e valli allagate. Un paesaggio rasserenante eppure mai uguale a sé stesso e sempre minacciato. In Emilia Romagna, secondo calcoli prodotti dagli uffici regionali, dal 1980 a oggi c’è stato un incremento delle costruzioni del cento per cento. Il patrimonio edilizio è raddoppiato. E qualcosa del genere è accaduto anche sul litorale deltizio, la cui storia è la più emblematica fra quelle in cui si intrecciano i temi della tutela e dello sviluppo economico. Una pagina esemplare per l’ambientalismo italiano, iniziata esattamente quarant’anni fa.

Anche i luoghi festeggiano le loro date simboliche. Il Delta del Po celebra in questi giorni turbolenti diversi anniversari. Ai primi di ottobre del 1968, Italia Nostra di Ferrara organizzò un convegno che tracciò un bilancio delle sconvolgenti trasformazioni che quell’area aveva subìto nei decenni precedenti, a causa in particolare delle bonifiche decise sulla spinta della miseria che ghermiva quei luoghi. Le aree di palude, che nel 1925 raggiungevano i 45 mila ettari, nel ?68 erano scese a 13 mila. Occorreva recuperare più suolo da coltivare e da destinare a industrie oppure la fragile coesistenza di acqua e terra andava tutelata, perché non c’era niente di simile altrove e perché proprio quella coesistenza poteva essere occasione di crescita? E che cosa fare delle attività che in quei territori incerti si erano installate - l’allevamento delle vongole e delle anguille? Come comportarsi di fronte a un paesaggio che mutava in continuazione, un luogo che l’intervento dell’uomo aveva trasformato in un "paesaggio culturale"? Erano anni di formidabili accelerazioni, sia politiche che culturali, e il dibattito cominciava allora a muovere i primi passi. Il Delta fu uno dei luoghi in cui quel dibattito esordì.

Il Delta era una regione depressa. Nonostante le bonifiche, la gente continuò a fuggire ancora negli anni Cinquanta e Sessanta. Ma qualcosa di sconvolgente intanto avveniva sulla fascia litoranea, dove prima lentamente poi voracemente sorgevano case per il turismo, palazzine e palazzi. Quel convegno di Italia Nostra, presieduto da Giorgio Bassani, con Pierluigi Cervellati, Fulco Pratesi, Bernardo Rossi-Doria, Paolo Ravenna, chiese di metter fine alle bonifiche, di bloccare l’urbanizzazione. La neonata Regione si mostrò sensibile alle richieste. Non si riuscì a evitare che la pregevole valle della Falce venisse prosciugata, ma si impedì la costruzione di una strada da Goro a Volano che avrebbe squarciato il Bosco della Mesola, uno dei gioielli dell’intero Delta.

Le bonifiche si fermarono e iniziò il faticoso cammino della tutela. Che comportò anche un aggiornamento culturale, adattabile a un territorio dai mille profili, quello morfologico, quello vegetale, quello della fauna. Nel 1988 nacque la porzione romagnola del Parco regionale.

Ma le minacce non sono finite. Oggi le case sulla spiaggia, bloccate da un’ordinanza del sindaco di Comacchio, Cristina Cicognani, sono l’ultimo episodio dell’impetuosa aggressione che l’edilizia compie su questo lembo incerto di terra. Un’aggressione che ha la forma di villette allineate a pettine, tutte uguali, con la scala, il ballatoio e la porta finestra. Sono le palazzine di vacanza del Lido degli Estensi, del Lido delle Nazioni e, appunto, di Porto Garibaldi, chiuse undici mesi l’anno durante i quali compongono uno spettrale insediamento (è il piano regolatore di Comacchio che autorizza questa espansione).

Le paure per il futuro si moltiplicano. Una società italo-tedesca ha messo a punto Euroworld, un progetto tanto faraonico da sembrare finto: la riproduzione di paesaggi e architetture europee (dalle spiagge dell’Algarve a Capo Nord, dall’Acropoli di Atene al Big Ben) che si estenderebbe su 124 chilometri quadrati, quasi un decimo dell’intero Delta, fra i comuni di Porto Tolle e Porto Viro. Un elefantiaco kitsch da 10 miliardi di euro, 30 mila visitatori al giorno, 25 mila posti di lavoro. Per il momento Euroworld ha l’aspetto di una boutade. A una preoccupata interrogazione del consigliere regionale dei Verdi, Gianfranco Bettin, l’assessore del Veneto, Flavio Silvestrin, ha risposto che il progetto non è compatibile con il parco. «Se arriva Euroworld non possiamo esserci noi», sintetizza Emanuela Finesso, direttrice del Parco veneto del Delta. Gli emissari della società italo-tedesca continuano però a pubblicizzare il loro progetto. E i grandi numeri suggestionano.

Sul territorio veneto del Delta incombono la conversione a carbone della centrale termoelettrica di Porto Tolle (contro la conversione si è pronunciato il Parco) e l’impianto di rigassificazione che in questi giorni viene installato a una ventina di chilometri al largo di Porto Viro. O, ancora, la ripresa delle estrazioni di gas metano, decisa con un decreto del governo. Il timore è che le estrazioni provochino un abbassamento del terreno, un fenomeno che lacera la memoria di questi luoghi flagellati dall’alluvione del Polesine del 1951. In molte zone il Po corre a un livello più alto del piano di campagna e le estrazioni accentuerebbero lo squilibrio. «Il nostro territorio è tenuto su da pompe di sollevamento», spiega Emanuela Finesso, «e le guide raccontano ai bambini che qui i pesci nuotano più in alto degli uccelli».

Nella zona romagnola del Delta la pressione dell’edilizia sta diventando insopportabile. Questa imponente mole di costruzioni «rende impermeabile una superficie enorme di terreno, che impedisce il normale assorbimento dell’acqua», denuncia Lucilla Previati, direttrice del Parco romagnolo. «È un problema in territori ordinari, ma qui può avere effetti catastrofici». Quando piove molto l’acqua si accumula in una rete scolante insufficiente, la stessa di trent’anni fa, e il trabocco è inevitabile. Basta un acquazzone e gran parte dei lidi finisce allagata. Continue sono, fra Comacchio e Goro, le richieste di aumentare gli allevamenti di vongole, una grande fonte di ricchezza, ma anche di pericolo per la morfologia dei fondali. Oltre che per la nidificazione di molte specie di uccelli - le fraticelle, le beccacce di mare, i gabbiani reali. Recentemente, poi, un privato ha acquistato una delle aree più pregiate, la valle Bertuzzi, e ha pensato di circondarla di una barriera di robinie che la rendono quasi invisibile.

Il Delta assorbe, nel silenzio delle sue valli, molte tensioni. Alcune lascia che convivano, essendo già nelle sue forme una dose di ambiguità e cercando equilibri sempre diversi, ma comunque stabili. Altre tensioni tenta di scansarle in una partita con il futuro che si riapre ogni giorno.

Antegnate, 28/08/2008

Egr.Sig. Sindaco

Antegnate (BG)



OGGETTO: Proposte ai fini della redazione del Piano di Governo del Territorio L.R. 12/2005

PREMESSO CHE:

Da qualche mese è iniziato il processo di definizione del Piano di Governo del Territorio (PGT), un evento molto importante per tutta la nostra comunità, durante il quale si definiscono gli assetti del paese.

La normativa regionale (L.R. 12/2005) per la redazione del PGT prevede che il piano sia poi sottoposto alla VAS - Valutazione Ambientale Strategica, con l’obiettivo di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente, un uso parsimonioso del suolo, l’integrazione delle considerazioni ambientali all’atto dell’elaborazione del piano e al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile come criterio primario, ovvero come decidere al meglio il futuro dei luoghi in cui viviamo e vivranno le generazioni future.

La procedura della VAS definita negli “indirizzi generali per la VAS” approvati con D.C.R. 13 marzo 2007, n. VIII/351 e succ. D.G.R. del 27 dicembre 2007, n. VIII/6420 prevede una prima fase di scoping. Il D.lgs 4/08 definisce questa fase come “analisi preliminare dei potenziali effetti del piano” e prevede la redazione di un apposito documento per la consultazione dei soggetti competenti in materia ambientale.


La nuova legge regionale ha, infatti, trasferito la maggior parte delle competenze e delle funzioni in materia urbanistica ai singoli Comuni, i quali hanno pressoché carta bianca nella stesura della pianificazione territoriale. Una grossa opportunità, ma anche un rischio.

Come contrappeso alla mancanza di un controllo superiore, la nuova legge dispone espressamente il rafforzamento della trasparenza e della partecipazione dei cittadini, associazioni e istituzioni varie per tutto il percorso di costruzione del PGT.

Tutto questo richiedeva pertanto l’apertura di un dibattito nel paese per definire tutti insieme quale tipo di sviluppo vogliamo, di quante persone riteniamo utile crescere, di quali servizi attrezzarsi per il futuro.

Molti Comuni hanno, in questo senso, promosso assemblee pubbliche con gli abitanti, le varie associazioni, gli imprenditori o distribuito questionari ai cittadini per raccogliere suggerimenti e proposte che hanno costituito, insieme al lavoro dei tecnici incaricati, la base del documento del PGT. L’informazione e il coinvolgimento della popolazione quindi, hanno avuto un’importanza fondamentale, permettendo così al cittadino di intervenire in modo consapevole.

Il PGT è uno strumento di governo del territorio completamente nuovo, che non può essere definito “a porte chiuse”, anzi, è necessario che sia fatto in modo allargato e condiviso superando la vecchia concezione dei piani regolatori come progetti calati dall’alto, “contrattati” da una ristretta cerchia di persone. Si tratta di pianificare lo sviluppo del paese, per i prossimi anni, secondo un modello urbanistico basato sul principio della sostenibilità.

Purtroppo questo ad Antegnate non è avvenuto ed il PGT che ci e’ stato proposto, oltretutto con documenti incompleti in allegato, rispecchia tra l’altro l’accoglimento delle istanze di privati per l’edificazione di una grande area adiacente al costruendo centro commerciale.

Quell’area, che confina con Barbata, è oltretutto prevista dal P.T.C.P. per una parte a costituire il corridoio ecologico e fascia ambientale tra i due comuni per evitare l’innesco di fenomeni di saldatura tra paesi e per la parte dell’area contigua alla statale è prevista la destinazione ad area agricola con finalità di protezione/conservazione.


La concertazione con il privato fa certo parte di un moderno e più avanzato concetto di pianificazione e governo del territorio, ma non si può pensare che automaticamente le sue istanze vadano nella direzione degli interessi diffusi dei cittadini.

Non si capisce anche, perché un’altra area a Nord/Est sopra la zona industriale già edificata, è stata proposta ad ambito produttivo pur essendo in netto contrasto con le indicazioni contenute nel Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale che ha previsto per la stessa la non edificabilità per la costituzione del corridoio di tutela per la TAV.

Il PGT dovrebbe tener presente come il territorio di Antegnate sarà fortemente penalizzato dal passaggio di BREBEMI e TAV, sicuramente utili ma fortemente impattanti sull’ambiente, della cava già approvata su un’area di circa 360.000 m2 e un’area estrattiva di 124.000 m2 con scavo fino a 35 mt di profondità, che comporterà anche un appesantimento della rete viabilistica e senza dimenticare la prossima apertura del centro commerciale che oltre ai benefici porterà inevitabilmente nuovi flussi di traffico e inquinamento.

Come territorio credo quindi che Antegnate abbia già dato la sua parte e che chiunque faccia una seria analisi dell’impatto ambientale e sociale di queste ed ulteriori grandi strutture su un così piccolo paese, non potrà che condividere il parere negativo per le trasformazioni proposte.

Le zone agricole non sono aree in attesa di essere edificate, ma ambiti territoriali che potenzialmente possono migliorarsi per le proprie prestazioni produttive, ambientali ecologiche e sociali e che possono offrire servizi fondamentali alla collettività e all’ecosistema.

Il territorio, patrimonio prezioso e non rinnovabile, è sempre più importante: se le scelte con le quali viene “modificato” sono prese senza il consenso dei cittadini e non nel loro interesse ma sono scelte conseguenti ad altri interessi, in se legittimi, allora i danni alla comunità saranno permanenti.


Il nostro paese naturalmente sta cambiando ma si sono create nel tempo situazioni di dispersione ed estraneità, alcune inevitabili e altre volute e lo spirito delle mie indicazioni non vuole di certo bloccare lo sviluppo e la crescita economica di Antegnate ma mira a uno sviluppo equilibrato e sostenibile, per non peggiorare la situazione del territorio ma salvaguardare chi, scegliendo di vivere ad Antegnate, lo possa fare soprattutto perché trova una dimensione di vita ottimale, non solo perché trova lavoro.

Per la mancanza di dati e con la riserva di integrarle quando l’Amministrazione Comunale metterà a disposizione i documenti completi di informazioni,

PRESENTA LE SEGUENTI INDICAZIONI

1) Si adotti una procedura corretta che dia alle autorità/soggetti con competenze ambientali i documenti preliminari con dati completi (visto che la prima conferenza di valutazione è già stata effettuata con documentazione mancante di dati), in modo da poter dar loro la possibilità di effettuare corrette indicazioni, anche perché il loro ruolo nel processo di VAS è estremamente importante perché la competenza e l’autorevolezza dei loro pareri costituisce uno dei più rilevanti strumenti di trasparenza e di garanzia per i cittadini circa la correttezza delle stime di impatto e la completezza del processo di VAS. Le stesse autorità dovranno poi essere consultate, nella fase conclusiva prima dell’adozione del piano, sulla bozza di Piano e sulla VAS che dovrà esplicitare in quale modo le loro indicazioni sono state tenute in conto.

2) L’area a Ovest adiacente al centro commerciale mantenga, per il momento, la destinazione agricola di salvaguardia ambientale come previsto dal vigente P.R.G. e si decida la sua destinazione futura dopo l’apertura della tangenziale e del centro commerciale al fine di monitorare la sostenibilità sociale, ambientale e viabilistica che è molto più importante per i cittadini dell’urgenza di un interesse privato.

3) L’area posta a Nord/Est sopra la zona industriale già edificata, recepisca le prescrizioni contenute negli strumenti di pianificazione sovraordinati, quali il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale in relazione alla futura infrastruttura ferroviaria. (corridoio di tutela TAV)

4) L’area di rispetto della Roggia Cusano in lato ovest rimanga, come previsto dal vigente P.R.G., da usufruire come oasi ambientale insieme alla piccola cappella adiacente al parcheggio dello stabilimento Zucchetti, con fascia di rispetto identica a quella imposta all’edificazione di un concittadino in quella zona.

Nota: le fotografie per niente filologiche del centro abitato e del nuovo centro commerciale (distante poche decine di metri) sono state scattate dal sttoscritto il 6 settembre 2008; su Antegnate e l'area circostante, Mall ha pubblicato due testi relativi rispettivamente al Centro Commerciale Bre.Be.Mi e al Centro Commerciale Le Acciaierie; i pochi materiali del PgT di Antegnate sono disponibili sul sito ufficiale del Comune (f.b.)

Intervento di ampliamento e completamento del progetto di coltivazione della cava di inerti della Green cave S.r.l. denominata “Cascina la mandria” in località cascina La Mandria, Santhià- Vc.

Osservazioni in merito

Secondo quanto previsto in materia di partecipazione -Legge 40-1998- art 14

1.Chiunque, tenendo conto delle caratteristiche del progetto e della sua localizzazione, intenda fornire elementi conoscitivi e valutativi concernenti i possibili effetti dell'intervento, ha facoltà di presentare in forma scritta all'autorità competente osservazioni, ivi comprese informazioni o contributi tecnico-scientifici, nei termini seguenti [:…]

b- la fase di valutazione, entro quarantacinque giorni dalla data di avvenuto deposito di cui all'articolo 12, comma 2 lettera a.

2. Le osservazioni di cui al comma 1 sono messe a disposizione per la consultazione da parte del pubblico fino al termine della procedura di VIA. I provvedimenti conclusivi delle fasi di verifica e di valutazione danno conto delle osservazioni pervenute.

Premesso

- che i sottoscrittori del presente documento da tempo continuano a tenere sotto osservazione le numerose attività estrattive e non solo, relative alla zona in quanto portatori di interessi diretti quali abitanti di paesi appartenenti all’area Alice Castello, Santhià, Tronzano e Cavaglià o limitrofi quali Borgo d’Ale, Saluggia, Livorno Ferraris, Cigliano, Viverone,

- che in ogni modo si sono sempre sollevate le numerose problematiche ambientali inerenti i comuni interessati

- che si sono tenute negli anni 2007-2008 alcune petizioni popolari, regolarmente presentate ai Sindaci di Alice Castello e di Tronzano Vercellese, in cui i firmatari esponevano le loro preoccupazioni per le attività di cava fiorenti nei nostri comuni

- che ci sono stati vari tentativi di avvicinare la Provincia e i comuni stessi, esponendo correttamente in colloqui informali o pubblici, secondo i canali consentiti, le preoccupazioni e le richieste della popolazione

-visti i documenti relativi alla richiesta di ampliamento della cava in cascina La Mandria

espongono quanto segue e chiedono venga tenuto conto in sede di Conferenza dei servizi.

a- Considerazioni sui fatti accaduti finora

Dal Piano di coltivazione di cava di cui si fa riferimento in apertura, si evince che l’attività della ditta in questione non è avviata ora. La società è costituita dal 2001, la concessione risale al 2003 (delibera comunale n° 38 del 28-7-2003 e precedente delibera comunale 01-02- 1999 rilasciata alla ditta Gesri srl) e malgrado le notizie rassicuranti presentate nel Piano, dal punto di vista della popolazione locale i benefici finora apportati sul piano economico e sociale ai nostri paesi non sono rapportabili alle ferite inferte al paesaggio, all’ambiente e di conseguenza ala salute dei cittadini.

Lo stesso Piano consideracongrua la domanda di ampliamento proprio perché “già esistenti altre attività estrattive”, né la continuità che il gruppo Candeo avanza ci paiono positive alla luce dello stato dei fatti.

Lo stesso Piano pur parlando di ripristino dell’ambiente, segnala che le voragini saranno piantumate, ma resteranno tali anche alla fine della coltivazione, verificandosi quindi nella zona, un continuo abbassamento del piano campagna “che non viene più ripristinato”. La modificazione del paesaggio é definita “rilevante”, del resto basta considerare cosa è accaduto finora in Valledora per non avere dubbi sul risultato finale. Non si può dunque parlare di “ricostruzione naturalistica del paesaggio” poiché rimarrà uno sbancamento effettivo permanente al quale nessuno riuscirà più a porre rimedio. Citiamo testualmente dal progetto: “ La fase di escavazione è tra le maggiori dal punto di vista del progetto in quanto, nonostante il successivo recupero ambientale, costituisce modificazione permanente del paesaggio. Soltanto un corretto recupero finale potrà ridurre l’impatto determinato, anche se non riuscirà certamente a ripristinare le condizioni iniziali”

Si consideri che il tutto viene effettuato a 20 metri da un complesso storico del ‘700, appunto la cascina La Mandria, e quindi ai piedi di un bene tutelato, raro esempio di corte padana, dove alcune famiglie hanno investito sia nel loro futuro e sia le loro risorse.

Si aggiunga che in questo modo si aggredisce e non si tutela lo sviluppo agricolo di una delle porzioni più produttive della Pianura padana, costringendo chi faticosamente tenta di continuare la vocazione agricola naturale di questa zona a una difesa strenua e non ad armi pari.

“ Le radici degli abitanti dell’area con la terra non sono solo proclamate ma ribadite e testimoniate da atti concreti …quali…investimenti in irrigazione, attivitàprimarie integrate” ( vedi Consulenza sull’impatto ambientale di attività estrattiva– Università degli Studi di Torino-Dipartimento di scienze della Terra- 1994).

Inoltre anche secondo le indicazioni del Comune di Santhià “ trattasi di aree dove sono state apportate profonde modificazioni dovute ad attività antropiche”- Piano regolatore comunale-, aggiungiamo noi, sovente di gruppi provenienti da altre regioni che hanno concessione di agire nell’assoluta mancanza di programmazione generale senza due documenti importantissimi al fine di poter procedere ad altre autorizzazioni di ampliamenti o di nuove concessioni:

un Piano cave provinciale,

un Piano provinciale relativo alla protezione degli acquiferi esistenti sul territorio, entrambi previsti dalla normativa ( Piano territoriale regionale e Piano territoriale regionale -acque ).

Anche il DPAE, che indica invece la qualità dell’area estrattiva del materiale della Valle Dora e le conseguenti norme dei PAEP, raccomanda, attraverso la prescrizione del tipo di studi e previsioni, una progettazione ambientalmente compatibile”- documento regionale.

Il DPAE mira a fornire il quadro territoriale e a delineare i possibili scenari verso i quali far evolvere i diversi bacini estrattivi, e riveste il ruolo di indirizzo per la formazione dei Piani Provinciali di cui siamo carenti.

I principali documenti esistenti

1. PTA regionale- Piano regionale tutela delle acque- approvato in data 13 marzo 2007 dal Consiglio regionale del Piemonte che ha come scopo la conservazione e il miglioramento dello stato delle acque superficiali e profonde del territorio considera la zona della Valle Dora “BACINO DI RICARICA DELLE ACQUE in quanto situato in esatta CORRISPONDENZA dell'ASSE DRENANTE della falda acquifera, paragonabile ad una zona di confluenza di falda”.

L’importanza idrogeologica della zona Valledora è riconosciuta dunque nel contesto del Piano regionale delle acque in cui ” individua …zone di elevata qualità… si tratta di riserve idriche da proteggere”

Nel PTA la regione chiede che al più presto vengano stabiliti dei limiti e dei vincoli nelle aree di ricarica di falda da inserirsi negli strumenti urbanistici comunali, provinciali e regionali.

2-Stato della zona e Vulnerabilità del territorio.

Il territorio Valle Dora, in cui si vuole apportare l’ampliamento in questione, è comprensivo di aree ricadenti in due province e tre comuni: Alice Castello, Cavaglià e Santhià ed è stato classificato da diversi studi come «altamente vulnerabile dal punto di vista idrogeologico». Tale vulnerabilità alta è stata riconosciuta anche da documenti presenti nel sito della Provincia di Vercelli appunto nella Carta della vulnerabilità degli acquiferi sensibili all’inquinamento- del giugno 2006.

3- 1990- Schema idrogeologico, qualità e vulnerabilità degli acquiferi della pianura vercellese”CNR – politecnico di Torino

Cita: IL COMPLESSO ACQUIFERO AD USO POTABILE E’ IDRAULICAMENTE COMUNICANTE CON la FALDA SUPERFICIALE

ed è ribadito chiaramente anche nella cartografia disponibile nel punto 3b.

3b - Convenzione tra il Dipartimento di Scienze della terra dell’Università degli Studi di Torino e la Regione Piemonte – 2002-Identificazione del modello idrogeologico degli acquiferi di pianura e loro caratterizzazione

( riferimenti p. 14-21-22 )

4 - 1987-”Idrogeologia ed idrogeochimica del settore pedecollinare della pianura vercellese –alessandrina” Rossanigo-Zuppi Milano.

Si definisce che “le acque veicolate nelle porzioni… SONO IN STRETTO CONTATTO IDRAULICO caratterizzandosi come acquifero unico FINO ALLA PROFONDITA’ DI 100 METRI”

5- geologo Floriano Villa nel 1991 –studio per Valledora discariche ad Alice Castello

La zona non è allo stato originario poiché “vi sono state apportate modifiche essenziali con l’asportazione di tutto lo strato superficiale … che è in grado di filtrare e depurare tutte le acque che dalla superficie scendono nel sottosuolo….Gli acquiferi in zone idrogeologicamente attivate come questa possono dar luogo a forti fluttuazioni ( sollevazioni e abbassamenti) della superficie dellafalda … dato il richiamo di coni di depressione che risentono a distanza, per l’alta permeabilità dei materiali”.

5 -Impatto ambientale di attività estrattive 1994- Dipartimento di Scienze della Terra, Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali, Università di Torino - La ricerca, pur se mirata all'attività di estrazione, prende in esame

l'impatto ambientale delle varie attività presenti nella zona e giunge alle conclusioni che ulteriori

attività di cava in questo territorio porterebbero a:

-diminuzione del valore strategico della risorsa idrica sotterranea e perdita del potenziale utilizzo di

un campo pozzi;

rischio per le captazioni di acquedotti di Santhià e Tronzano[…]

esigenza di un monitoraggio ambientale i cui costi graverebbero sulla collettività;

esigenza di predisporre un piano di recupero complessivo dell'area.

“…è evidente che un corpo di utilizzo di così rilevante interesse non è compatibile con nuove attività a rischio quali cave o discariche” p. 48

Dalla consultazione delle carte risulta imprescindibile nella nostra zona interessata la comunicazione tra i due acquiferi superficiale e profondo.

8- marzo 2008 –Ampliamento del progetto di coltivazione e recupero ambientale- Coltivazione di cava di inerti in località La Mandria-

Detta che“…l’opera collocata in ogni caso in un’area leggermente depressa e paesaggisticamente non rilevante”

“La predisposizione dell’area con destinazione pubblica per una fruizione ludica aumenterà il grado di accettazione da parte della popolazione interessata all’intervento”

A fronte di queste discutibili affermazione si dichiara che ogni zona è definibile ” particolarmente non rilevante” solo da chi non abita e non vive nella stessa e che per la popolazione residente non è accettabile la rassegnazione al degrado della zona in cui si vive.

Le compensazioni poi non esistono e tanto meno per una “destinazione ludica dell’area”.

9 - Ci appelliamo ancora ai nuovi orientamenti sulla Convenzione europea del paesaggio, recepiti dal contratto Stato-Regioni nel 2001, al Codice dei beni culturali e del paesaggio emanato nel recente gennaio 2004, in cui si promulga che “i valori espressi nel paesaggio sono da intendersi come manifestazioni percepibili dell’identità collettiva”.

Riteniamo che ogni paesaggio abbia una sua dignità e faccia parte di un patrimonio collettivoinsostituibile, sia fautore della cultura e della tradizione locale e che nessuno abbia ragione di stravolgerlo, neppure per ragioni di libero mercato.

Riteniamo che occorra muoversi in una direzione diversa per salvaguardare questa identità collettiva ormai fortemente minata da scelte operate in antitesi ad ogni programmazione e a ogni buon senso, avallate da autorizzazioni che non tengono conto di altre ragioni se non quelle di una idea di sviluppo discutibile o non compatibile.

c - Osservazioni di carattere specifico

Il progetto prevede una profondità di scavo da 21 a25 metri dal piano campagna attuale arrivando rispetto alla prima falda acquifera ad un livello di minima soggiacenza di metri 1,5 con una velocità di penetrazione di eventuali inquinanti 6,5 minuti. Questo rappresenta un gravissimo stato di pericolo durante l’ultima fase di coltivazione della cava quando ci sarà presumibilmente raggiunta la massima profondità di scavoe non si sarà ancora provveduto a stendere su tutte le scarpate e il fondo cava lo strato di limo di 70 centimetri che dovrebbe rendere decisamente superiore il tempo di penetrazione di inquinanti (p. 74).

Sarà poi da verificare se dopo un notevole lasso di tempo lo strato di limo posato sulle scarpate e sul fondo manterrà la sua capacità di impermealizzazione o se gli apparati radicali degli alberi messi a dimora scalfiranno l’integrità del limo e di conseguenza verrà ridotta la capacità di rallentamento della penetrazione degli inquinanti.

Rimangono molti dubbi sulla capacità di attecchimento delle varie specie messe a dimora per il recupero ambientale su uno strato di terreno fertile di 30 centimetri sulle sponde di cava e di 50 centimetri sul fondo cava.

Per quanto riguarda la completezza del progetto sono decisamente insufficienti, a nostro parere, le verifiche generali. Attualmente sono previsti monitoraggi semestrali sulla qualità dell’acqua di prima falda, effettuati dall’ ARPA, ma chiediamo siano pianificate , a spese della ditta e in accordo con gli organi tecnici del Comune, verifiche periodiche semestrali su tutte le fasi di sviluppo della coltivazione della cava: profondità di scavo, pendenza delle scarpate, fasi di recupero da effettuarsi prima della fine di coltivazione di cava, possibili variazioni di soggiacenza minima tenendo conto delle periodiche dosi elevate di piovosità degli ultimi tempi per le variazioni climatiche in atto.

Si segnala inoltre che la viabilità sulle strade provinciali e comunali risulta già compromessa dall’alto numero di camion che percorrono la zona e che trasportano il materiale rendono pericoloso il transito normale dei veicoli, rallentano la circolazione e la ostacolano, pertanto anche l’aumento previsto nel dettaglio del progetto fino a un passaggio ogni 5 minuti circa, risulta dannoso ulteriormente e gravante sulla qualità dell’aria.

Conclusioni

Si chiede, infine, ad ogni singolo Ente presente alla Conferenza dei Servizi convocata per l’esame del progetto in oggetto, di esprimersi in merito a quanto sopra esposto con inchiesta pubblica come previsto dalla Legge 40-1998 .

In conclusione chiediamo alla Conferenza dei servizi istituita dalla Provincia di Vercelli di pronunciarsi negativamente sullo studio di Impatto ambientale a tutela della salute pubblica di tutti i cittadini che risiedono in questi Comuni di cui le Istituzioni presenti sono i garanti.

Si dichiara la disponibilità per ogni chiarimento e ci si riserva l’opportunità di integrare con ulteriori considerazioni

MOVIMENTO VALLEDORA

Anna Andorno

Gruppo ambiente Santhià – Cei Simonetta

Mario Ferragatta

Comitato Cave di Tronzano V.se - Andrea Chemello

Gruppo Ambientalista Alicese- Aldo Casciano

Comitato per la Tutela dell’Ambiente e della Salute di Cavaglià- Alba Riva

Comitato “No inceneritore, no inquinamento” Livorno Ferraris p.Flavio Bruzzesi

Anna Andorno

Pronatura Piemonte- Mario Cavargna

Italia Nostra onlus – sezione di Vercelli

EttoreCagliano

Lipu Biella - Vercelli - Giuseppe Ranghino

Santhià, 22 agosto 2008

Oggetto: progetto denominato “Autostrada regionale integrazione del sistema transpadano - direttrice Cremona-Mantova, tratto Cremona-Mantova”.

L’ Associazione Italia Nostra Onlus, nel rispetto dei propri fini statutari, visto il progetto definitivo dell’autostrada in oggetto indicato, elaborato dalla società “Stradivaria” concessionaria della Regione Lombardia, per collegare Cremona con Mantova, ma in una prima fase limitato di fatto ai due collegamenti Cremona – Calvatone e Virgilio – A22, formula le seguenti osservazioni.

A titolo generale valgono le seguenti considerazioni:

- un’ autostrada non può essere definita “regionale” perché per sua natura deve avere una influenza territoriale non limitata al perimetro amministrativo locale di una Regione;

- un’arteria intesa soprattutto per alleggerire la viabilità ordinaria dal trasporto merci rappresenta una concezione superata, mentre oggi è più attuale e realistico prevedere linee ferroviarie ad alta capacità che colleghino interporti prossimi alle città con treni navetta per trasporto di autocarri o container (si veda l’ esempio già in atto in Austria e Svizzera) con minori costi e maggiore eco-sostenibilità;

- né a Cremona né a Mantova la popolazione, mai consultata dagli enti promotori, in spregio alla vigente normativa comunitaria e nazionale in materia di Valutazione Ambientale Strategica (V.A.S.) (D. Lgs. 3.4.2006 n. 152) ritiene utile tale iniziativa, anzi ne vede soltanto gli aspetti dannosi per il territorio;

- il completamento del percorso tra i due collegamenti previsti nella prima fase, da realizzare nei prossimi anni, si prospetterebbe con la seconda fase tra il 2026 ed il 2032, tempi di programmazione assurdi per un simile tracciato.

Si osserva in particolare per il tratto Cremona – Calvatone:

● il progetto conferma e, in qualche caso, peggiora il grave impatto ambientale che la arteria è destinata a produrre nel cuore della pianura cremonese, attraversandola longitudinalmente da Cremona sino al confine con la provincia di Mantova. È appena il caso di ricordare che il terreno interessato è certamente tra i più fertili dell’intero pianeta e tra i meglio conservati dell’intera Pianura Padana;

● il progetto, sempre per quanto riguarda il tratto cremonese, non appare lineare, come sarebbe stato logico attendersi da un’ autostrada che per sua natura dovrebbe tendere a minimizzare la sua lunghezza, ma, nonostante l’assenza di ostacoli fisici significativi, è abbastanza contorto al punto da presentare alla periferia di Piadena (località Pontirolo) quella che nel linguaggio dei gran premi automobilistici potrebbe definirsi una curiosa “ chicane”;

● mentre la legislazione nazionale impone alle nuove edificazioni di mantenere opportune distanze rispetto alle strade, il progetto di autostrada si accosta spesso a costruzioni esistenti, quasi lambendole, senza preoccuparsi di rispettare il distanziamento di legge e limitandosi ad affidare la riduzione del disagio che così fatalmente verrà apportato, alla creazione di apposite barriere di protezione acustica, circostanza che mortificherà significativamente, persino nei futuri utenti dell’autostrada, la possibilità di godere del panorama circostante;

● il nastro autostradale, realizzando una pesante e nettamente peggiorativa variante al progetto preliminare, intersecherà la ex-strada statale “ Padana Inferiore”, e cioè la maggiore tra le tradizionali arterie che dal territorio convergono radialmente su Cremona, sovrapassandola, anziché sottopassandola come in origine ipotizzato. Il nuovo colossale rilevato autostradale, alto una diecina di metri sopra il piano della campagna, sbarrerà così il territorio cremonese inibendo per chilometri quella libera visione del “ Torrazzo” (la maggiore torre muraria d’Europa) che tradizionalmente guida il viaggiatore diretto alla città. La circostanza confligge con una delle più significative caratteristiche del paesaggio della Lombardia meridionale che lo stesso Piano Territoriale Paesistico Regionale impone di tutelare;

● in località Sant’Agata il nastro autostradale giunge a lambire la discarica provinciale di rifiuti solidi urbani, costituita da un macroscopico volume fuori terra (collina artificiale) di cui è imminente l’ampliamento. È importante ricordare che tale localizzazione, appartata e invisibile dalla viabilità tradizionale convergente su Cremona, era stata a suo tempo individuata soprattutto al fine di minimizzare l’inevitabile effetto anomalo e disturbante nel tipico panorama piatto e alberato della campagna cremonese. Tale cautela viene ora radicalmente distrutta dalla nuova progettazione autostradale che darà alla discarica una visibilità davvero inopportuna;

● il nastro autostradale dividerà inesorabilmente in due parti distinte il territorio provinciale posto ad oriente di Cremona. Il passaggio dai terreni a sud a quelli a nord, e viceversa, verrà reso problematico ad uomini ed animali, limitando la tradizionale mobilità attraverso la continuità del territorio finora esistente;

● non è chiaro se i sottopassi per gli spostamenti e le migrazioni degli animali siano stati previsti in misura e in posizioni adeguate. Ci si domanda perché analoga rete di collegamenti privilegiati non sia stata prevista anche per pedoni e ciclisti. La lacuna progettuale, decisamente grave considerate le caratteristiche piatte e agevolmente “ ciclabili” della pianura cremonese, sembra inspiegabilmente contraddire lo stesso inequivocabile dettato legislativo. Occorre infatti qui ricordare che la Legge 19.10.1998 n° 366 (art. 10, commi 1 e 2) ha integrato con il comma 4 bis l’art. 13 del D.L.gs. 30.04.1992 n° 285 (Codice della Strada) prescrivendo che “ le strade di nuova costruzione classificate ai sensi delle lettere C, D, E ed F……. devono avere, per l’intero sviluppo, una pista ciclabile”. Sembra pertanto inopportuno ed illegittimo che tutte le nuove strade di interesse locale, che il progetto autostradale prevede di realizzare per raccordare la viabilità locale preesistente altrimenti interrotta dalla nuova opera, risultino prive di parallela pista ciclo-pedonale realizzata in sede propria;

● poco ad ovest di Piadena il progetto autostradale prevede un’ area di sosta a ridosso dell’area di protezione naturalistica denominata “ Lagazzi”. Appare ovvia la preoccupazione che il traffico di persone e veicoli possa risultare di grave disturbo per il microambiente dell’area protetta;

● la considerazione più singolare riguarda il fatto che il tratto autostradale di cui si è nei fatti progettata la effettiva e rapida costruzione (Cremona-Calvatone) potrà avere un minimo di utenza solo se effettivamente allacciato al ponte sull’Oglio della autostrada Tirreno-Brennero (TI-BRE), della quale è tutt’altro che sicura la tempestiva realizzazione. Se quest’ultima opera viaria dovesse ritardare o addirittura essere rinviata “ sine die” , l’autostrada Cremona-Calvatone rimarrebbe un’irrazionale e inspiegabile moncone praticamente privo di utenza.

Si osserva in particolare per il tratto Virgilio – A22:

● il tracciato in progetto di km 4,8 dal comune di Virgilio all’ Autobrennero A22 risulta inutile e dannoso perché aggiunge un ulteriore consumo di territorio senza che si sappia come completare il sistema tangenziale di Mantova, per ora rappresentato da alcuni tronconi separati;

● inoltre esso tenderà a indurre fenomeni speculativi su un territorio agricolo di grande pregio che deve rimanere verde in quanto costituisce, insieme con i laghi, l’ anello paesistico che caratterizza da secoli la città;

● come rilevato anche da comitati spontanei di cittadini, esso non sarà in grado di risolvere o attenuare i problemi del traffico pesante nella zona a sud di Mantova, anzi aggraverebbe le condizioni della cintura verde intorno al centro storico.

In considerazione di quanto sopra esposto, la scrivente Associazione formula le seguenti istanze:

Il progetto di autostrada Cremona-Mantova non venga approvato in quanto inutile per la funzionalità del territorio e dannoso per la tutela della sua integrità ambientale, sia per la parte cremonese sia per quella mantovana.

In assenza della corretta applicazione della V.A.S ai sensi della normativa vigente sia europea sia nazionale, si ritiene che l’ iter procedurale finora percorso sia da considerare nullo in quanto gli enti promotori non hanno consultato associazioni e cittadini in merito al progetto.

Nota

Il progetto di Autostrada Cremona Mantova Express ( ACME, appunto) è stato fra i primi a inaugurare la nefasta sezione SOS Padania di questo sito, come lampante esempio di opera tesa a promuovere "sviluppo del territorio", anziché svolgere la propria teorica funzione di asse di trasporto veloce; una logica poi confermata dalla complementare Autostrada della Lomellina (che sposta verso l'asse centropadano parte del traffico pedemontano) e per ultimo dal disegno di legge sulla capannonizzazione delle fasce laterali. Il tutto appare poi decisamente surreale, soprattutto nel momento in cui anche amministrazioni orientate a centrodestra, come quella di Arnold Schwarzenegger in California, sembrano andare proprio nella direzione opposta (f.b.)

Ho lagàt la mè cà zo n’del Kentucky

E ma so trasferìt sota Clüsù

E ‘nvece di nisüline a maie i cachi

E ‘nvece di serpencc a go i bisù

Forse basta l’ironia dei versi del Bepi [1] (una specie di Bruce Springsteen delle Valli Orobiche) a riassumere in qualche battuta tanti dei problemi di queste parti, e non solo. L’America è un sogno, quando poi arriva magari è un incubo, e non ci resta che riderci sopra, tanto per non piangere.

E giusto per partire dall’America, lo raccontava benissimo quasi un secolo fa l’ambientalista Benton MacKaye nel progetti di Appalachian Trail, come nel mondo contemporaneo ci sia un rapporto strettissimo, anche direttamente territoriale oltre che sociale ed economico, fra i sistemi montani e gli insediamenti metropolitani delle grandi pianure: acque, poi manodopera, poi puro spazio, in tutte le sue possibili forme [2].

Spazio che, quando smette per ovvi motivi di prossimità fisica di essere relativamente protetto dalla collocazione remota, rischia un destino “esurbano” e in definitiva sostanzialmente suburbano: non certo nell’accezione vagamente poetica a cui ci hanno abituato le promozioni immobiliari, ma in quella assai prosaica di sprawl a colpi di villette, palazzine, centri commerciali e capannoni. E poco importa se sull’orizzonte di questa bella raccolta di scatolame spiccano rocce, pascoli, pinete. La conclusione non cambia: si è di fronte a una schifezza impresentabile, dannosa per l’ambiente, socialmente inutile ed economicamente col fiato corto.

Qualche filologo orobico in vena polemica, potrebbe obiettare qui che i versi del Bepi si riferiscono alla Val Seriana, mentre il titolo parla in effetti di Piazzatorre, che sta nell’adiacente Val Brembana. Niente da obiettare, la geografia almeno a questo livello è una scienza esatta. È anche vero però che, ancora per tirare in ballo sogni americani assortiti, ad esempio già negli anni ’20 la scuola sociologica di Chicago spiegava come si potessero tracciare i confini della metropoli seguendo le tracce della diffusione di stampa locale e relative inserzioni pubblicitarie[3]. Basta fare una passeggiata per il centro di Milano, o per stare oltre l’Adda nei centri commerciali dell’area di Dalmine, Zingonia, Curno, Brembate, per vedere le medesime inserzioni, su manifesti e volantini: tale Tonino, Pierino, Carlino, in camicia a scacchi da travet in libera uscita, decanta il calore del legno e della pietra nelle villette sparse in tutte le valli orobiche, che aspettano la gentile clientela (sia le villette che le valli orobiche sottostanti) complete di mutuo.

Anche per restare ancor più terra terra, dalla linea delle tangenziali di Milano a velocità media, se si evitano le ecatombe serali dei giorni lavorativi, ci vuole un’oretta scarsa per arrivare all’imbocco delle valli, e un’altra mezzora per arrivare, che so, appunto a Piazzatorre. Come canta ancora il Bepi, A ghìe ü pick-up enorme piè de polver; Che ‘nvece i ma dacc ön Ape rot, ma come ben sa chiunque sia uscito su una strada italiana nell’ultimo lustro, ormai anche qui abbondano pick-up enormi (di solito del tutto scarichi), Suv e altre diavolerie. Lo sanno benissimo anche le autorità responsabili di strade e affini, che continuano a sforacchiare le valli con tunnel, bretelle, variantine e rotatorie, appunto per tentare di smistare questo flusso costante di traffico, in cui il tradizionale pendolarismo di lungo corso dei camioncini di muratori che alimenta il mercato metropolitano delle ristrutturazioni, si mescola con le massicce quote dei nuovi commuters di lusso, che mantengono la residenza in città ma usano ormai le valli come prima casa di scorta, più che casa vacanze. Il che si traduce in spazi del tutto identici nella scarsa qualità e assenza di ambienti pubblici, ma più fitti e trafficati su e giù da fuoristrada che non hanno mai calpestato altro che asfalto.

Ce lo raccontano eloquentemente anche i nuovissimi studi di Richard Florida, o quelli promossi dalla RPA newyorkese e dalla rete europea GAWK, sulle “megaregioni”: l’area metropolitana come sistema territoriale integrato ha da tempo ceduto il passo a formazioni più articolate e vaste, e tentare di ricondurre forzosamente studi e interpretazioni a categorie di epoca industriale, per non parlare di divisioni amministrative, risulta del tutto fuorviante [4].

Insomma non solo la mitica Padania proposta da alcuni tristi figuri come semplicistico bacino elettorale esiste davvero, ma in certi casi (se calcoliamo ad esempio l’isocrona delle due ore in macchina e il quadro delle relazioni di lavoro e altri spostamenti) le valli orobiche sono a tutti gli effetti dei quartieri di Milano.

E concentrandosi sul caso di Piazzatorre, lo raccontano anche i pieghevoli della promozione turistica, che qui l’alba del nuovo secolo inizia a sorgere quando i milanesi negli anni ’20 della prima ondata - elitaria ma non esclusiva - di automobilismo si accorgono di quanto sia bello e facile ritagliarsi un pezzo di natura alpina quasi sulla porta di casa. Più precisamente, sulla porta di seconda casa.

Qui da subito turismo significa in prima e seconda battuta occupazione costante dello spazio: alberghi, alloggi, ecc. quasi niente. Case private, rigorosamente vuote per la maggior parte del tempo, quasi il 100%. E quindi, in zone che erano pochissimo popolate, con un’agricoltura povera, si tratta di una crescita che più che mai si appoggia soprattutto sull’edilizia, da cui dipende qualunque altra cosa. Valga, ad esempio, il confronto con lo sfruttamento della montagna per l’attività apparentemente più vantaggiosa, ovvero lo sci alpino:

la gestione degli impianti di risalita è scarsamente remunerativa, se non addirittura in perdita. Ciò in quanto la gestione di tali attività è caratterizzata da altissimi costi di installazione, che incidono pesantemente nei bilanci come ammortamenti, da ingenti spese per personale ed energia elettrica, ed i ricavi sono concentrati quasi esclusivamente in brevi periodi di tempo, principalmente nei week end e nelle festività natalizie[5].

In altre parole, ogni cosa sembra dipendere dall’unica risorsa del territorio, a cui si attinge nel modo più impattante e definitivo, ovvero con la trasformazione edilizia, le relative infrastrutture, e parallelamente (secondario dal punto di vista economico, non necessariamente di effetti ambientali) gli interventi diretti sul contesto della montagna per le piste, gli impianti di risalita, i cannoni sparaneve ecc.

E basta leggere le nude cifre sugli edifici realizzati a Piazzatorre nelle varie epoche, accostando in parallelo qualunque aspetto delle relative fasi di sviluppo socioeconomico dell’Italia settentrionale, per capire meglio questa realtà: dal 1919 al 1945, si costruiscono 38 edifici, che si aggiungono ai 62 preesistenti; fra il 1946 e il 1971, su un arco di tempo simile ma in epoca automobilistica, gli edifici nuovi sono 115; solo fra il 1972 e il 1981, ovvero quando nelle pianure iniziano a dilagare insediamento diffuso, mobilità automobilistica, decentramento produttivo, gli edifici nuovi di Piazzatorre sono ben 130. E naturalmente alla quantità si affianca la “qualità” dell’insediamento.

Il toponimo spiega abbastanza bene l’organizzazione fisica di questa terrazza inclinata, piccola diramazione dal tracciato della strada della Val Brembana che sale verso il Mezzoldo e Passo San Marco, e che dopo un percorso di alcune centinaia di metri in pendenza anche abbastanza notevole si interrompe in corrispondenza dei primi impianti di risalita. È su questo fazzoletto di prati e primi ciuffi di alberi ai piedi delle montagne, che si sono posati senza alcun piano complessivo diverso dalla semplice relativa prossimità all’asse naturale centrale, tutti gli edifici. Si distinguono una zona più bassa, corrispondente all’esiguo nucleo storico principale, poi spazi più radi e sfrangiati che si concludono circa a metà dello sviluppo lineare verso nord-est, in corrispondenza di una ex colonia elioterapica. Poi l’insediamento prosegue discontinuo nella zona più elevata fino ai piedi delle piste da sci, ma l’aggettivo “discontinuo” forse non rende benissimo l’idea. Come sempre accade quando la crescita è pezzo per pezzo, accorpamento di fettine di mondo alla sacralità del privato e del focolare familiare (cosa quasi istintiva in ambiente montano, specie per un foresto), l’effetto suburbio è comunque massiccio. Vale a dire che con rare eccezioni il grande ambiente aperto della “piazza” originaria, così come doveva presentarsi fino alla prima metà del ‘900, coi pascoli che salgono gradatamente a confondersi nei pendii boscosi e roccioso della montagna, è solo un ricordo da cartolina. Ah: i residenti totali del comune, non arrivano a 500 anime.

E pare del tutto consequenziale a queste – lunghe ma necessarie – premesse, il corrente manifestarsi di “crisi” nel sistema di sviluppo dal fiato corto: per esaurimento di spazio, per degrado ambientale, per grandi trasformazioni esterne. Trasformazioni ad esempio di carattere socioeconomico e della mobilità, che vedono evolvere le modalità d’uso di queste valli da centri vacanze veri e propri, relativamente autonomi, a esurbio di “prime case e mezza”. Trasformazioni nell’uso del tempo libero, coi consumi dello sci alpino forse più sensibili alle mode e/o ad attrazioni sempre meno collaterali di carattere spettacolare e di intrattenimento. Trasformazioni infine in qualche modo legate al cambiamento climatico, in questo caso molto più tangibile che nelle cronache dei convegni scientifici, verificabile quotidianamente fra scarsità delle precipitazioni nevose, calo delle presenze sulle piste, uso dell’innevamento artificiale e relativi, ulteriori impatti ambientali.

E l’ultima “strategia” - più o meno obbligata – dell’amministrazione locale per rilanciare Piazzatorre ancora una volta si rivolge alla trasformazione edilizia, combinata alla riorganizzazione ed estensione nell’uso delle piste da sci.

Nel marzo del 2007 il consiglio comunale approva un piano di indirizzo che vede da un lato il rilancio delle piste con l’unificazione dei “comprensori” (ovvero dei sistemi di percorsi e risalite utilizzati come spazio unitario dallo sciatore) e interventi tecnici e gestionali sugli impianti, dall’altro la cessione del complesso dell’ex Colonia Genovese nella zona medio-alta dell’insediamento, che privatizzata, con forti aumenti di cubature e riorganizzazione “attrezzata” degli spazi liberi circostanti, “potrà rappresentare un tassello importante nell'operazione di rilancio della stazione invernale” [6]. In questo voto consiliare primaverile, le uniche opposizioni riguardano la sostenibilità finanziaria dell’operazione.

Finalmente la seconda settimana di novembre, alle porte dell’inverno e dell’attesa/temuta stagione sciistica, “per Piazzatorre è arrivata la tanto agognata svolta storica, sottolineata l’altra sera, in una sala consigliare mai così affollata, dall’applauso dei cittadini” [7]. Basta la cifra, di oltre cinquanta milioni di Euro investiti, e la promessa di 100 (cento) posti di lavoro, a spiega ampiamente quell’applauso liberatorio, quel sospiro di sollievo collettivo per l’atteso ritorno alla normalità della vita. Si, ma quale normalità della vita? E per chi?

Anche lasciando perdere l’aspetto, pure rilevantissimo, di rilancio nel consumo di territorio e ambiente rappresentato dall’uso intensivo degli spazi per lo sci alpino, proviamo a concentrarci solo sul proseguimento dell’attività edilizia in paese. Gli interventi sono due: uno nel centro storico, col recupero dell’ex Colonia Opera Bergamasca, trasformata in appartamenti privati da offrire sul mercato; uno decisamente più rilevante, nella zona alta ancora a insediamento più rado verso gli impianti di risalita, con l’ex Colonia Genovese che “sarà trasformata per il 75% in albergo, centro wellness, bed & breakfast e alloggi residenziali da affittare; il restante 25% in appartamenti da vendere” [8].

Quantitativamente, si tratta anche di realizzare una superficie di pavimento di 16.000 (sedicimila) metri quadrati, distribuiti su due-tre piani, il tutto come recita la convenzione a patto di “utilizzare personale e aziende della Valle Brembana, a parità di prezzo e di qualità delle controprestazioni, di guisa da garantire la tutela della manodopera e dell’economia locale” [9].

Una tutela della manodopera locale che, cumulativamente, come si è visto, comporta l’erosione del territorio su cui la medesima manodopera locale poggia i piedi. Detto in termini più vicini alla percezione corrente di questi spazi montani, per accedere a un rapporto più o meno diretto con gli ambiti aperti e naturali, occorre quasi sempre infilarsi su per gli impianti di risalita, visto che la “piazza” volge ormai alla trasformazione in quartiere urbano a bassa densità e privatizzazione quasi completa. Perché la trasformazione d’uso delle due colonie (anche escludendo i 16.000 mq in più) significa anche questo: edificato e verde assumono i contorni usuali dell’abitazione privata, ovvero esclusione dei non residenti ed eventuali ospiti autorizzati.

Nell’immediato e in particolare, come commenta una villeggiante abituale, si trasforma tutto lo spazio alle “spalle della vecchia colonia genovese, radendo al suolo un bosco molto bello ed eliminando quella residua soluzione di continuità tra la località Rossanella e l'edificato a sud”. In generale, si accentua l’effetto corridoio caratteristico di questi insediamenti turistici, e che li distingue spesso anche planimetricamente da quelli storici: è con poche varianti la logica auto-oriented della città diffusa, che qui si nota ancora di più, visto che i piazzali dei parcheggi restano per gran parte del tempo desolatamente vuoti, e le recinzioni dei giardini privati risultano se possibile ancora più incongrue nei lunghi momenti di “morta”.

Insomma questa tendenza di medio-lungo periodo all’uso massiccio della trasformazione edilizia (ad alto consumo di spazio e impatto ambientale) come elemento trainante dello sviluppo locale, tendenzialmente svuota il territorio dei suoi caratteri, delle sue risorse specifiche, e nel caso in questione sommato alla relativa vicinanza all’area metropolitana ne appiattisce sempre di più le qualità, livellandole (altitudine s.l.m. e pendenze escluse) a quelle di qualunque borgo delle periferie diffuse, cresciuto a cerchi concentrici larghi attorno al campanile, e dove i campi e prati residui sono solo, appunto, residui, e non strutturanti.

Caratteri che valgono per Piazzatorre così come per tutte le valli prealpine e alpine prossime alla metropoli diffusa. E dunque problema non certo risolvibile affrontando “quella residua soluzione di continuità tra la località Rossanella e l'edificato a sud”, pure senza dubbio rilevante, ma a cui in effetti una buona progettazione e una riduzione concordata dei volumi previsti forse potrebbero porre almeno parziale rimedio.

La questione è che, come scrive una lettrice di eddyburg in un articolo riportato recentemente dal sito: “Reti rosse che delimitano un prato, pochi giorni e via una ruspa scava nel terreno che l’agricoltore ha per anni curato,concimato,irrigato,troncando in pochi attimi quel rapporto che si crea tra la terra,chi la abita e la coltiva” [10]. Una scena che si ripete ovunque, e si replica nei cantieri connessi delle trasformazioni stradali che a quelle edilizie sono complementari, nel ciclo ben riassunto dal numero di edifici realizzati a Piazzatorre nei vari periodi storici, e che come ripetuto rappresenta la base di ogni altra attività economica, su cui poggia la società locale.

È possibile uscire da questa spirale? Come è stato osservato, “Spesso è molto semplice urlare contro “ l’invasione del cemento” o magari rivendicare uno “ sviluppo sostenibile“, ma questi sono termini che innanzitutto devono essere spiegati chiaramente” [11]. Una “chiarezza” che appartiene quasi sempre all’ambito delle decisioni politiche, certamente non locali, soprattutto quando ciò significa come nel caso specifico reagire ad una sorta di ricatto, e farlo nella prospettiva inevitabile del proprio mandato, e in un territorio i cui “cittadini” evidentemente e per svariati motivi vanno assai oltre il numero degli aventi diritto al voto.

Lo riconosce anche il piano per lo sviluppo socioeconomico territoriale locale, che “L’organizzazione dell’offerta turistica non è riuscita a strutturarsi in modo confacente con le sue potenzialità … ad incidere positivamente in ordine alla valorizzazione del settore. In analoga situazione di marginalità si pone il sistema dell’accoglienza specie in ordine allo sviluppo di sistemi alternativi …” [12]. Del resto salta abbastanza agli occhi, ad esempio col “rilancio” contemporaneo della vicina e più famosa San Pellegrino da parte di un magnate dei centri commerciali e affini, come la tendenza per questo esurbio metropolitano sembri essere, in assenza di decisioni fortemente orientate in senso diverso, quella di trasformarsi in un parco tematico diffuso, a cui si intrecciano da un lato il mai risolto problema di un’occupazione mediamente qualificata, dall’altro appunto la caratteristica sempre più marcata di suburbio esterno residenziale, per quanto anomalo, strettamente legato all’area metropolitana.

Come si vede in qualunque serata di giorno feriale quando dalla A4, o dallo stradone di Dalmine, dai ponti sull’Adda o dalle basse dell’Oglio, risalgono in coda per dirla col Bepi pick-up enormi piè de polver dai cantieri della terziarizzazione strisciante, mescolati ai Suv delle “prime case e mezzo”. Come direbbe il Boss Springsteen, quello vero, “ the highway is alive tonight: where it’s headed, everybody knows”. Quello che nessuno sa, è dove se ne andranno a finire, di questo passo, con la neve che non cade più e i prati che stanno per sparire sotto i parcheggi, tutte le Piazzatorre, e i boschi dietro le ex colonie elioterapiche.

N.B: si noti che le aree attono alla diramazione di valle urbanizzata descritta sopra sono tutelate da un parco, e che l'assessore leghista lombardo sostiene la necessità di ridimensionare lo "strapotere" dei parchi consentendo ai comuni di espandersi attraverso un ridisego dei confini; è facile immaginare cosa succederebbe in casi simili a quello di Piazzatorre. Aderite all' Appello per scongiurare questa criminale idiozia! Alla fine delle note e links, scaricabile il pdf dell'articolo con qualche immagine in più (f.b.)

[1] La canzone è “Kentucky”: Ho lagàt la mè cà zo n’del Kentucky, E ma so trasferìt sota Clüsù, E ‘nvece di nisüline a maie i cachi, E ‘nvece di serpencc a go i bisù. Ho lasciato la mia casa là nel Kentucky, E mi sono trasferito sotto Clusone, E invece delle noccioline mangio i cachi, E invece dei serpenti ho i biscioni. A ghìe ü pick-up enorme piè de polver. Che ‘nvece i ma dacc ön Ape rot. Avevo un pick up enorme pieno di polvere, E qui m’hanno dato un Ape rotto […] Ma mè sto bè po a chè, Semper inàcc e ‘ndrè, E ‘nvece de des miglia, Rìe fo al bar a pè. Ma mè sto bè po a là, E mpo’ per ol parlà, A mè i ma ciàma amò l’Americà. Ma io sto bene anche qui, Sempre avanti e indietro, E invece di dieci miglia arrivo al bar a piedi, Ma io stavo bene anche là, E un po’ per l’accento, Mi chiamano ancora l’Americano. Forse per capire meglio il senso di questa stravagante canzone, conviene ascoltarla interamente nella versione disponibile su Youtube, filmata al raduno di Pontida della Lega Nord

[2] Cfr. Benton MacKaye, Appalachian Trail, un progetto di pianificazione regionale, 1921, disponibile anche in italiano su eddyburg, sezione Urbanistica / Glossario /Città.

[3] Cfr. Roderick McKenzie, The Metropolitan Community, McGraw Hill, New York 1933; ampi estratti in italiano in tre puntate, disponibili su eddyburg, sezione Urbanistica / Glossario / Città

[4] Faccio riferimento qui in particolare a: Richard Florida, Tim Golden, Charlotta Mellander, The Rise of the Mega-Region, rapporto novembre 2007; Regional Plan Association, New York, North East Mega-Region 2050: a Common Future, rapporto novembre 2007; Northern California Megaregion, numero monografico di Urbanist, periodico della San Francisco Urban Research Association, novembre-dicembre 2007; disponibili anche estratti in italiano su eddyburg_Mall.

[5] Luca Urbani, Lo sviluppo edilizio di Piazzatorre, Val Brembana News, 11 ottobre 2007, anche per i dati successivi sull’edilizia.

[6] Giovanni Ghisalberti, “Ex colonia in vendita per rilanciare le piste”, l’Eco di Bergamo, 20 marzo 2007.

[7] Giovanni Ghisalberti, “Piazzatorre in pista: rilancio dal 55 milioni”, l’Eco di Bergamo, 14 novembre 2007.

[8] Idem.

[9] Dal documento votato in Consiglio comunale di Piazzatorre, punto “H” degli adempimenti previsti per la società “Alta Quota” Srl.

[10]Renata Lovati, Fiordalisi e papaveri contro il consumo di suolo, novembre 2007.

[11]Luca Urbani, Lo sviluppo edilizio … cit.

[12] Comunità Montana Valle Brembana, Piano Integrato di Sviluppo Locale, dicembre 2006, 1.3.5. L’analisi SWOT, p. 99

Parte l’assalto al verde del Parco Sud. Ci si lavora dal 2006, e da oggi i Piani di cintura urbana iniziano il loro iter amministrativo. I Pcu sono cinque progetti urbanistici che riguardano aree del parco Sud, vincolate alla destinazione agricola, in territorio perlopiù di Milano e marginalmente dell’hinterland. L’accordo fra la Provincia (ente gestore del parco Sud), e il Comune di Milano prevede che poco più dell’8% di questi terreni, originariamente inedificabili, venga costruito, per reperire i soldi necessari a salvaguardare il resto. Ancora non si sa, però, quale sarà l’indice di edificabilità concesso. La Provincia calcola che, se anche Milano fissasse un tetto minimo, il nuovo costruito non potrebbe essere contenuto nell’8% reso edificabile.

Più cemento nel Parco Sud si costruirà nell’8% dell’area

di Stefano Rossi

Non ci sono solo l’Expo e le grandi infrastrutture. A delineare il volto futuro di Milano concorrerà in modo decisivo l’assetto delle ultime aree agricole della città, in discussione oggi di fronte al direttivo del Parco Sud. Il direttivo raccoglie i Comuni inclusi nel parco e deve dare un parere sui Piani di cintura urbana (Pcu), cinque grandi progetti che coinvolgono Milano e, in parte, l’hinterland per 4.800 ettari, oltre un decimo dei 46.000 dell’intero Parco Sud. Il protocollo concordato fra il parco, governato dalla Provincia, e i Comuni, prevede che l’82% del territorio rimarrà verde: agricolo, naturalistico, parco pubblico; un 8% sarà destinato a impianti ricreativi e sportivi (possibile ad esempio l’ampliamento del parco Acquatica a Quinto Romano); un altro 8,15% sarà destinato a edilizia e infrastrutture.

Il braccio di ferro si esercita su questo 8,15 per cento. Per gli ambientalisti è una perdita secca, poiché si parla di aree già vincolate a verde. Milano sostiene invece che sia l’unica strada, poiché il Parco Sud, ripete spesso l’assessore all’Urbanistica, Carlo Masseroli, «oggi è solo degrado». Nel mezzo sta la Provincia: «Edificare ci permette di finanziare la costruzione del verde, altrimenti l’agricoltura è conservata solo sulla carta», spiega Ugo Targetti, architetto già vicepresidente della Provincia nella giunta Tamberi e ora consulente sui Pcu.

In pratica gli oneri di urbanizzazione delle nuove case pagherebbero il verde: i filari lungo i canali, i boschi, insomma gli abbellimenti elencati fra i doveri degli agricoltori che coltivano i terreni. Va però messo a punto - con successivi accordi di programma fra il parco Sud, la Provincia e i Comuni - il meccanismo di scambio con i grandi proprietari immobiliari. La Provincia punta alla compensazione: per ogni metro quadrato di cemento, 10 metri quadrati di area agricola ceduta in proprietà al parco. Oppure 20 affittati all’agricoltura con contratti almeno ventennali, perché il degrado è dovuto in buona parte al fatto che ai conduttori dei fondi ottengono solo contratti brevi, che scoraggiano gli investimenti.

Il Comune di Milano crede invece nella perequazione, criterio guida del Piano di governo del territorio che sostituirà il Piano regolatore e andrà approvato entro il marzo 2009. Vuol dire assegnare un indice edificabile anche alle aree agricole (e dunque non edificabili, come quelle nel Parco Sud) e cumularlo con l’indice di altre aree, a loro volta invece edificabili. In cambio, le aree non edificabili passano in proprietà al Comune. «Per noi è il sistema più efficace», scommette Masseroli. Targetti replica «che la cessione al parco di singole aree rischia di bloccare qualunque intervento, fino a che non si realizza una certa continuità del territorio. Il rischio è che non si veda progredire il parco mentre le case vengono su».

Nel direttivo del Parco Sud, Milano ha il coltello dalla parte del manico: forse per la prima volta, con le ultime elezioni la maggioranza delle amministrazioni in provincia è passata al centrodestra. Ma non ci si può nascondere che anche diversi Comuni di centrosinistra sono insofferenti dei vincoli ambientali.

Il valore del paesaggio

di Paolo Hutter

Di nuovo è a rischio il Parco Sud, il territorio agricolo nella periferia meridionale di Milano che ha finora - faticosamente - resistito all’avanzata del cemento. L’opposto anche geografico della via Gluck, un esempio di sostenibilità, di possibile inversione della tendenza.

Recentemente Carlin Petrini lo ha candidato a luogo di sperimentazione della filiera corta, ovvero di quella vicinanza tra produzione e consumo dei prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento che viene indicata come la soluzione del buon tempo antico alla crisi global dell’energia fossile. La candidatura sarebbe di particolare attualità perché l’alimentazione sarà tema centrale dell’Expo. Se non fossero rimasti terreni agricoli fin nel cuore della periferia Sud di Milano bisognerebbe inventarli, decementificare qualche pavimento di fabbrica dismessa. E invece siamo qui a fare il tifo, temendo che dal direttivo del Parco possa venire un qualche via libera al sacrificio di pezzi del Parco Sud, magari col pretesto di renderli più fruibili.

Nei mesi scorsi dal Comune di Milano erano venute anche affermazioni esplicite sul «degrado» che deriverebbe da zone agricole non presidiate da attività e da edilizia. Fatto sta che oggi invece la partita si gioca attorno a concetti complicati, cose da addetti ai lavori come la «perequazione» urbanistica. In sostanza il Comune dice: «Non preoccupatevi se diamo un indice di edificabilità alle aree agricole, poi lo trasferiamo altrove». Ovvero aumentiamo ulteriormente le cubature in altre parti della città, il verde complessivo resta sempre lo stesso, e se necessario mangiucchiamo anche qualche pezzo di parco Sud, tanto si tratta di sterpaglie, non di parchi pubblici con le panchine. Questo è dunque il pericolo. I Comuni vengono indotti a rendere edificabili nuovi terreni dalla sete della moneta sonante degli oneri di urbanizzazione, che rischiano di diventare indispensabili addirittura per la spesa corrente. Ma se concordiamo sul valore «inestimabile» dell’agricoltura, del paesaggio, della sostenibilità proviamo ad alzarne il valore reale. Tanto più che il passato mica tanto passato delle influenze ligrestiane induce a una saggia diffidenza.

E Ligresti pregusta un’altra vittoria sull’asse via Ripamonti-Cerba

di Stefano Rossi

Milano ricomincia a costruirsi. Altro che saturazione degli spazi, l’assalto alle ultime aree libere -aree pregiate, ai margini della città edificata, 3-4 chilometri dal Duomo - riparte. È questo il quadro presente, e più ancora, futuro, che si sta preparando. Oggi il Parco Sud è considerato degradato.

Degradato perché nelle aree tutelate si sono insediati abusivamente discariche e sfasciacarrozze. Impossibile un recupero, meglio rinunciare a quei terreni. Ma questo impasse vale il sacrificio di oltre l’8% di territorio già vincolato che forse - è la critica - si poteva proteggere meglio? No, secondo Legambiente: «Non siamo per principio contro la perequazione, ovvero lo scambio di indici di edificabilità ai privati contro la cessione delle aree inedificabili dai privati al Comune di Milano - spiega il presidente lombardo Damiano Di Simine - il punto vero è quale indice di edificabilità concederà il Comune».

Per altri motivi, anche i grandi proprietari di aree nel Parco Sud stanno cercando (e ci stanno riuscendo), di moderare la perequazione. L’assessore comunale all’Urbanistica, Carlo Masseroli, vuole estenderla ai Pcu perché ne ha fatto il cardine del suo Piano di governo del territorio, gli immobiliaristi chiedono che sia facoltativa. In altre parole, l’assegnazione di un indice virtuale di edificabilità su aree agricole non obbligherebbe alla perequazione e alla cessione delle aree stesse al Comune.

Il perché di questa scelta dei grandi proprietari (ma soprattutto di uno, Salvatore Ligresti) lo spiega bene l’esempio del Cerba, il Centro europeo di ricerca biomedica del professor Umberto Veronesi. Sorgerà, con 30 ettari di padiglioni ospedalieri e 30 di parco, su un’area di Ligresti. Ma è di Ligresti anche il terreno non distante su cui è sorto lo Ieo, l’Istituto europeo di oncologia, sempre di Veronesi. E mentre l’ingegnere di Paternò comunicava all’assessore azzurro Masseroli le sue perplessità sulla perequazione, la giunta provinciale di centrosinistra stralciava il Cerba dal Pcu 3, sottraendolo alle norme vincolistiche e aprendo un fronte di crisi in maggioranza con i Verdi.

Commenta proprio un verde, il consigliere comunale Enrico Fedrighini: «Ligresti costruisce a CityLife, dove con Impregilo partecipa pure agli scavi della Linea 5. Ha una quota minoritaria, rispetto a Hines, di Garibaldi-Repubblica. Farà il Cerba. È l’ultimo grande pianificatore rimasto, peccato che non si preoccupi della crescita della città ma dei suoi affari. Del tutto legittimo, ma se riesce a condizionare le scelte strategiche della città è perché la politica glielo consente».

A giugno la Mm ha ricevuto l’incarico per uno studio di fattibilità della Linea 6 lungo via Ripamonti con capolinea al Cerba. Significa superare il limite della città e raggiungere il nuovo avamposto edificato del Cerba. Che fine potrà mai fare la campagna che ci sta in mezzo? La ricostruzione castastale di Fedrighini rivela come tutto l’asse a est di via Ripamonti, a sua volta da raddoppiare, appartenga alla Immobiliare Costruzioni di Ligresti. Saper aspettare, a volte, vale davvero la pena.

Beninteso, nei Piani di cintura urbana (Pcu) ci sono anche previsioni di sicuro valore ambientale. Nel Pcu 4 si potrebbe collegare l’Idroscalo con le cave (trasformate in laghetti) di San Bovio a Paullo, a 3 km di distanza, e aumentare del 50% lo specchio d’acqua complessivo. Si starebbe in barca per ore, mentre la costruzione della rete di collegamento dei canali si ripagherebbe con l’escavazione della ghiaia dal fondo dei nuovi canali. Il Pcu 5 vuole recuperare il rudere dell’albergo dei Mondiali per il ‘90. Il Pcu 1 ha buone potenzialità naturalistiche, le aree sono al margine del Boscoincittà e del parco delle Cave. Il Pcu 3 mira a fare della cava Pecchione, a sud dell’abbazia di Chiaravalle, un centro balneare e sportivo. «I Pcu - dice l’assessore provinciale all’Ecologia, Bruna Brembilla - sono una grossa opportunità di riprogettare aree marginali attraverso la partecipazione e condivisione dei Comuni e di ambientalisti, agricoltori e cittadini».

Sull’altro piatto della bilancia, però, se pure Milano limitasse l’indice di edificabilità a, diciamo, 0,15-0,20 metri quadrati di costruito per un metro quadrato di terreno, secondo la Provincia sarebbe autorizzato tanto cemento che la quota dell’8,15% di aree agricole riconvertite alla edificabilità dai Pcu non basterebbe a contenerlo. A meno di non tirare su dei gran grattacieli. Nel frattempo, la proprietà di aree spezzate e discontinue, impossibili da trasformare in un vero parco fino a che non fossero riconnesse, permetterebbe facilmente ai famosi sfasciacarrozze, conclude Di Simine di Legambiente, di «spostarsi 300 metri più in là». E di replicare il degrado. Al quale ovviare magari con nuovi palazzi.

Monguzzi: "Così si cede ai grandi costruttori"

Carlo Monguzzi, consigliere regionale verde, cosa pensa dell’idea di costruire l’8% delle ultime aree agricole milanesi?

«Il clima generale, specie dopo l’abolizione dell’Ici, è questo. L’unico gettito consistente per i Comuni sono gli oneri di urbanizzazione, così è impossibile opporsi ai grandi costruttori».

Avete criticato lo stralcio del Cerba dai Piani di cintura urbana.

«Il Cerba è una funzione nobile, ma non va messa lì. Il mio sogno, ripreso da Carlo Petrini di Slow Food, era trasformare il parco Sud entro i confini di Milano, con i suoi fontanili e le sue cascine, in una zona di agricoltura biologica di qualità. Va bene la vicinanza allo Ieo, ma il Cerba non è nemmeno servito dai mezzi».

Nei Piani di cintura però ci sono anche progetti interessanti.

«Certamente. E aggiungo che destinare le aree trascurate all’edificazione e recuperare quelle di pregio non è sbagliato in sé. Ma un simile meccanismo oggi non dà garanzie. Occorre vigilare, come faremo sul Piano territoriale regionale in gestazione, la madre di tutti gli strumenti di pianificazione».

Non ci sono troppi strumenti urbanistici? Sullo stesso territorio il Piano di governo del territorio dei Comuni, le aree vincolate dal parco, il piano delle aree agricole della Provincia, ora il Piano regionale...

«No, ma vanno collegati bene. Il grosso guaio è quando si vuole mettere il parco all’ultimo gradino della scala, come vuole fare la Regione».

postilla

In effetti da un certo punto di vista si potrebbe anche concordare con chi sostiene che in fondo siamo in area metropolitana, la crescita è un dato ineludibile ecc. ecc. Ma.

Ma se vogliamo guardare le cose in una prospettiva giusta, ovvero di medio-lungo termine, forse è il caso di ricordare almeno due cose:

1) siamo al terzo, forse quarto ciclo di attacchi su più lati al medesimo sistema della greenbelt in pochi mesi, e con la prospettiva dell'Expo le cose sono destnate a peggiorare;

2) là dove le medesime forze che ora spingono per "modernizzare il verde" hanno agito liberamente, è lo stesso sistema ambientale ad essere molto vicino all'artificializzazione completa. Basta dare un'occhiata al disegno della Dorsale Verde che con fatica la Provincia di Milano sta cercando di portare a termine, per salvare almeno il salvabile. Che non è molto, e potrebbe facilmente diventare nulla.

Poi è probabile che come già successo in passato, le grandi città e aree metropolitane italiane seguano a ruota il mirabile esempio. In fondo gli operatori sono sempre gli stessi (.b.)

Nota: di seguito un pdf (spero leggibile) estratto dalle norme del Piano Territoriale Parco Sud con l'art. 26 oggetto della discussione sui Piani di Cintura (f.b.)

LA SINTESI DELLA PRIMA RIUNIONE

La riunione, che si è tenuta il 15 luglio 2008 presso la sede del Consiglio regionale, per via di disguidi nella trasmissione dell’invito ha visto la partecipazione di un limitato numero di comitati, alcuni dei quali rappresentanti di reti locali.

La riunione è stata aperta da Mario Agostinelli che ha illustrato la bozza di progetto messo a punto con Andrea Rossi riguardante “la costituzione della rete dei comitati in difesa del territorio”. Ne è seguito un dibattito che ha permesso di integrare alcuni punti del progetto che dovrà essere sottoposto a tutti i comitati. La discussione ha affrontato inoltre la questione posta da Locatelli riguardante il modo con cui rendere operativa la rete tenendo presente due aspetti: la massima apertura e la condivisione del percorso e dei contenuti.

È stato fatto presente che per la gestione della Rete Lombarda non si può prendere a riferimento il modello della rete della Toscana dato che essa si è strutturata attorno ad una specifica tematica (il caso Montichiello). La rete della Toscana è strutturata operativamente attorno a 8 gruppi di lavoro composti da un numero variabile di persone, coordinati da un responsabile. I partecipanti alla rete condividono una “carta della rete” composta da un preambolo e da 10 punti. La rete ha un Consiglio di Coordinamento, un Consiglio scientifico ed una Segreteria

Per la Lombardia è stato ipotizzato l’affidamento della gestione della rete a 3 Gruppi operativi (uno per ciascuna macro-area tematica: urbanistica e pianificazione del territorio - ambiente e paesaggio - energia) composti da rappresentanti di comitati (in numero da definire) oltre al Comitato tecnico scientifico ed a una Segreteria.

Per garantire la massima apertura e partecipazione è stata proposta la rotazione periodica dei componenti di ciascun Gruppo operativo. Nella discussione è comunque emersa l’importanza di evitare un sistema organizzativo eccessivamente flessibile poiché esso inciderebbe negativamente in termini di efficienza. Pertanto i partecipanti hanno avanzato un’ipotesi di organizzazione della rete che coniughi la più alta partecipazione possibile dei comitati con la necessità di avere dei punti di riferimento stabili.

Nel corso della riunione è altresì emersa la necessità di “qualificare” la rete (evitando comunque una connotazione di tipo partitico) al fine di non aggregare comitati che, sulla stessa problematica, perseguono obiettivi opposti e/o contrastanti. Per questo motivo si ritiene necessario che l’adesione alla rete lombarda venga fatta sulla base della condivisione di uno “statuto” o “carta” della rete.

Si è inoltre accennato al modo con cui sostenere i costi di gestione della rete: è stata avanzata l’ipotesi di definire una quota associativa annuale da porre in capo a chi vi aderisce.

I presenti hanno inoltre accolto la proposta di indire quattro iniziative a partire dall’autunno sulle seguenti tematiche:

energia sul territorio: fossili o rinnovabili

mobilità e grandi infrastrutture

expo 2015: Milano ed i territori lombard

salvaguardia dell’ambiente e contenimento del consumo di suolo

Infine si sono assunte le seguenti decisioni di carattere organizzativo:

a - inviare via e-mail a tutti i comitati ed alle persone che individualmente hanno accolto la proposta di Bergamo di costituire la rete lombarda, la bozza di progetto riguardante “la costituzione della rete dei comitati in difesa del territorio” al fine di ricevere suggerimenti e proposte (qui in allegato);

b - convocare i comitati lombardi ad una assemblea pubblica il giorno 15 settembre alle ore 18:00 presso la sede della Regione Lombardia al fine di assumere decisioni operative riguardanti la strutturazione e l’organizzazione della rete.

Andrea Rossi

UNA PROPOSTA DI LAVORO

La costituzione di una Rete dei Comitati di lotta deve tener conto:

delle caratteristiche peculiari dei vari Comitati

dei loro punti di forza e di debolezza

della domanda che viene espressa

della volontà dei Comitati a costituire forme di relazione informazione e coordinamento

Elementi caratteristici strutturanti i Comitati di lotta

Si tratta di organismi vertenziali nati per rispondere, in genere, a bisogni locali specifici di varia natura che:

Rivendicano la propria autonomia rispetto alle Istituzioni ed alle forze politiche

Rivendicano la propria autonomia di elaborazione e di decisione

Le decisioni vengono assunte in assemblee pubbliche e con il metodo del consenso

Dispongono di una propria piattaforma rivendicativa/propositiva

Autofinanziano le proprie iniziativeIn genere non hanno una struttura formalizzata –esiste portavoce.

Le cariche non sono permanenti

Sono composti da persone aventi posizioni politiche eterogenee e provenienti da strati sociali diversi

Si rivolgono a tutte le forze politiche ed alle istituzioni al fine di ricercare condivisione e sostegno alla rivendicazione in atto

Attuano forme di lotta decise in assemblee pubbliche

Punti di forza

Sono in grado di mobilitare la cittadinanza locale (non solo) in assemblee, manifestazioni, forme di lotta varie autogestite

Sono in grado di coinvolgere sulla vertenza/piattaforma le forze politiche locali e le istituzioni

Sono in grado di coinvolgere i mass media locali per pubblicizzare la lotta/vertenza in atto

Sono in grado di conseguire i risultati vertenziali attesi in un rapporto di rappresentanza diretta

Punti di debolezza

Limitano il proprio orizzonte vertenziale / di lotta al livello locale

Le lotte/vertenzialità hanno una natura spontaneistica (nascono con la manifestazione del bisogno e dal riconoscimento che ad esso non si dà una risposta pubblica adeguata)

Non dispongono in genere di adeguati sostegni e informazioni di natura scientifica

Tengono limitatamente conto delle esperienze analoghe fatte da altri comitati

Dispongono di limitate risorse economiche per l’autogestione delle lotte

L’esperienza non è quasi mai formalizzata, per cui si perde nel tempo (perdita della memoria)

Le vertenze non si trasformano per lo più in iniziative di carattere generale (dal comitato al movimento)

Non è scontato un rapporto tra comitati e forze politiche

Le vertenze hanno una scarsa incidenza sulla produzione legislativa

La domanda dei Comitati

Collegarsi agli altri Comitati presenti nel territorio lombardo per socializzare (mettere in circolo) l’esperienza attivata, per ricercare sostegno e supporto alla propria vertenza, per conoscere eventuali altre esperienze e per condividere i risultati conseguiti

Costituzione di un Osservatorio sui problemi oggetto di vertenzialità, sulle piattaforme e sui risultati conseguiti

Disporre di conoscenze tecnico-scientifiche e legislative (formazione)

Disporre di un comitato tecnico scientifico a cui rivolgersi per formulare proposte tematiche e dare sostegno alla piattaforma vertenziale (supporto alle vertenze)

Disporre di supporti legali

Produrre cambiamenti in un quadro di coerenza che incida oltre il livello locale

Obiettivi

Ricostruire fino al livello regionale il ciclo di messa a profitto del territorio attraverso la rappresentanza dei singoli Comitati

Disporre di un osservatorio dei bisogni/problematiche presenti sul territorio

Disporre di un osservatorio della vertenzialità e lotte in essere sul territorio

Supportare le vertenze in atto

Attuare forme di scambio e partecipazione attiva - sia interregionali che intraregionali - dei Comitati nelle varie lotte per uscire dalla frammentazione

Sviluppare forme di solidarietà sociale

Superare una visione localistica dei problemi presenti e permettere una lettura complessiva delle problematiche territoriali

Dare alle istanze territoriali provenienti dal basso uno sbocco politico-istituzionale

Definire forme di comunicazione efficaci e partecipate

Organizzazione

Al fine di organizzare in modo efficace la Struttura della nascente Rete dei Comitati si potrebbe pensare ad un percorso a tappe

Costituzione e finanziamento di una struttura per l’organizzazione e mantenimento della rete

Costituzione di gruppo di coordinamento aperto con incarichi revocabili o a rotazione

Censimento ed organizzazione dei comitati (modulistica-segreteria)

Predisposizione sito internet dei comitati e gestione diretta e coordinata

Costituzione di comitati tecnico-scientifici per AREE TEMATICHE

Organizzazione di incontri -convegni -seminari di formazione

Definizione di forme di comunicazione efficaci e partecipate

Questionario

Ad ogni Comitato che vorrà far parte della Rete, verrà inoltre richiesta la compilazione di un questionario nel quale raccogliere le seguenti informazioni:

breve storia del Comitato

problemi oggetto della vertenza

obiettivi della vertenza

controparte della vertenza

alleanze strette forme di lotta attuate/previste

documentazione prodotta sulla vertenza

aspettative dalla Rete dei Comitati

aspettative dai supporti tecnico scientifici

suggerimenti per il finanziamento

aspettative formative

ORGANIZZAZIONE DEL BILANCIO SOCIALE TERRITORIALE (BST)

Il Bilancio sociale territoriale dovrebbe essere strutturato sulle seguenti macro tematiche:

Urbanistica e pianificazione del territorio

Ambiente e paesaggio

Energia

Acqua e beni comuni

Trasporti

Il Bilancio sociale territoriale dovrebbe essere strutturato secondo una matrice che permetta di costruire:

a) Una mappa del bisogno sociale/territoriale (attraverso la costruzione di una matrice in cui si mettono in relazione i TEMI della vertenzialità con la loro LOCALIZZAZIONE

b) Una mappa del bisogno sociale/comitato-organismo-vertenziale (attraverso la costruzione di una matrice in cui si mettono in relazione i TEMI della vertenzialità con il COMITATO PROMOTORE)

L’aggiornamento continuo delle mappe consente il MONITORAGGIO delle vertenze/lotte in atto e la VERIFICA dei risultati conseguiti

(seguono tabelle esemplificative che traducono le indicazioni sopra riportate; scarica il file .pdf allegato)

Postilla

Un tentativo interessante di aumentare l’efficacia delle singole iniziative di difesa del territorio, tenendo conto di quanto è avvenuto in Toscana dopo lo scandalo di Monticchiello.

In effetti, le iniziative locali hanno un respiro breve, e raggiungono risultati spesso effimeri, se non allargano il loro orizzonte. Non si tratta solo di essere più forti perché si è di più, ma di assumere consapevolezza che le lotte locali saranno sempre minoritarie e perdenti finché non alzeranno il tiro. Generalmente le scelte locali di devastazione del territorio e di privatizzazione dei beni comuni sono conseguenze di atti e decisioni che hanno radici lontane nel tempo (esempio, scelte di piani urbanistici approvati nel silenzio e nell’indifferenza dei cittadini) o nello spazio (esempio, leggi e atti amministrativi regionali o nazionali). Solo collegandosi ad altre iniziative locali e dandosi strumenti capaci di mirare alle cause i risultati potranno essere positivi.

Questa consapevolezza è implicita nei documenti. Forse sarebbe utile che diventasse esplicita, e che ogni comitato si impegnasse a dare (aiutando a colpire bersagli comuni e “lontani”) oltre che a ricevere (assistenza tecnica, informazioni ecc.)

Si legge sui giornali che, bontà sua, l’Unione Europea dopo lungo dibattito e considerazione ha deciso di stanziare un miliardo di euro per il sostegno allo sviluppo del continente africano. Si legge anche, più o meno sugli stessi giornali, che sull’asse di via Torino a Settimo Torinese un consorzio formato per ora da Comune, Pirelli Tyre , Edison , Intesa-San Paolo , IPI , Pirelli RE , Loclafit, vuole investire UN MILIARDO E DUECENTO MILIONI di euro in un progetto di trasformazione urbana. Complessivamente la superficie interessata è di circa un milione di metri quadrati: moltissimo, per un comune come Settimo Torinese; pochino, se lo paragoniamo all’Africa, no? E con una concentrazione di risorse del genere si capisce, che qualcuno salti sulla sedia, e che a qualcun altro inizino a brillare gli occhi, come succede nei fumetti a Zio Paperone.

La via Torino è il percorso della Padana Superiore nel primissimo tratto “extraurbano”a est di Torino città, dopo la grande rotonda in cui si conclude l’asse di corso Giulio Cesare alla periferia del capoluogo. Dopo corso Romania e il cavalcavia, questa di via Torino è tutta la striscia che sta prima di convergere con l’altro “ramo” di via Regio Parco e restringersi nell’area pedonalizzata del centro storico di Settimo. Qui soprattutto nella seconda metà del Novecento si è accumulato un po’ di overspill produttivo metropolitano che ha trasformato questa zona di ex campagna fra le sponde dello Stura e il nucleo centrale di Settimo in terra di conquista per capannoni che classicamente proponevano il proprio modello insediativo piuttosto brutale. Isolati enormi, impenetrabilità, e ad anticipare in qualche modo il centro commerciale di oggi un’organizzazione introversa che lasciava ben poco al contesto, salvo gli indispensabili assi della strada di attraversamento e la vicina parallela ferrovia, che fa da margine settentrionale.

Immediatamente dopo l’ultima guerra, questa striscia di futura metropoli si conquista un piccolo quarto d’ora di celebrità. È quando sulle pagine della prestigiosa Metron, diretta da Bruno Zevi, Giovanni Astengo e Mario Bianco pubblicano alcuni estratti del loro pionieristico “ Piano Regionale Piemontese”, elaborato anche come modello possibile da offrire alla Costituente per le future, non ancora formulate nei dettagli, Regioni italiane. Proprio l’asse della via Torino è presentato come schizzo tridimensionale di sistema lineare di espansione metropolitano, nel quadro del più ampio “comprensorio” che in quel piano si stende sin oltre Chivasso.

Naturalmente all’epoca la sola idea della pianificazione regionale faceva venire i sudori freddi agli “interessi consolidati”, e al congresso INU di Venezia del 1952 lo stesso Bruno Zevi doveva spiegare a liberali e democristiani seduti in platea che no, questi piani non erano tanto da prendere sul serio. Infatti in tutte le periferie più o meno metropolitane d’Italia invece di seguire piani regolatori l’edilizia sapeva benissimo “regolarsi” da sola …. Figuriamoci poi quando come nel caso di Settimo Torinese si trattava di impianti produttivi, e strettamente legati al comparto dell’automobile, i pneumatici della Pirelli …

Passano gli anni, le imprese scoprono i mercati del lavoro più convenienti di altri paesi, e in tutte le nostre città iniziano a svuotarsi le fabbriche e riempirsi le sale dei convegni in cui si discetta di aree dismesse. Le stesse imprese, ovvero gli “interessi consolidati”, avevano ovviamente già scoperto da anni il tema della grande dimensione territoriale: la loro avversità ai piani regionali del 1952, si doveva solo al fatto che non volevano alcuna interferenza pubblica nel decidere i grandi assetti spaziali entro cui imperversare. Non a caso, quando ancora negli anni ’60 alcuni politici lungimiranti tentano di inserire un approccio programmatico anche territoriale nei documenti di bilancio, il tutto viene liquidato dalla grande stampa come “libro dei sogni”. Proprio nel momento in cui le medesime grandi formazioni delineate ad esempio dal Progetto ’80 iniziano a prendere forma visibile, primo fra tutti il Triangolo Industriale, soprattutto sull’ipotenusa Milano-Torino.

Ipotenusa che, guarda caso, sul lato occidentale si attacca proprio a quelle poche centinaia di metri di via Torino, fra gli sparpagliati capannoni dismessi della Pirelli. E quando c’è di mezzo l’interesse privato, salta improvvisamente fuori che il “libro dei sogni” dell’area vasta, anche vastissima, non è una cosa da sfottere, ma da prendere maledettamente sul serio. Come nel caso della recente enorme trasformazione urbana dal poetico nome “Laguna Verde”, proposta (e a quanto pare già accettata).

Di seguito alcuni dati desunti dal sito Skyscraper City e più o meno confermate dagli articoli dei giornali:

- superficie interessata 815.000 mq

- 13.300 posti auto

- parco di 320.000 mq

- centro ricerca 60.000 mq

- palazzetto dello sport 15.000 mq

- piscina

- scuola 25.000 mq

- museo 12.000 mq

- edifici privati : 650.000 mq (50% residenziale , 19% attività commerciale , 17% ricerca e produzioni innovative , 7% terziario e direzionale , 7% tempo libero)

- cittadella del sapere 160.000 mq

- il progetto prenderà vita in 6-7 anni

E c’è sempre da tenere ben presente quel 1,2 miliardi di euro, nonché la “sinergia” territoriale entro cui si inserisce l’investimento. Dal punto di vista metropolitano, che già non è affatto poco, il Piano Strategico legato a doppio filo alla TAV recita:

Nel territorio metropolitano […] due assi di sviluppo ad alta accessibilità […] La seconda centralità metropolitana investe il settore urbano compreso tra la periferia nordest di Torino e i comuni di Settimo e Borgaro, dove il progetto di trasformazione è declinato prioritariamente in termini di riqualificazione [….] Urbanistica, Laguna verde, nuovi comparti produttivi Pirelli[1].

C’è anche, forse soprattutto, la dimensione megalopolitana di questi interventi, che forse spiega meglio l’enorme pressione che hanno alle spalle. Se ne sentono varie eco molto più a oriente, nel dibattito sull’Expo milanese, come ha ben raccontato su Lo Straniero Giacomo Borella, di questa vagheggiata regione urbana, che “impropriamente” qualcuno immagina solo come aumento delle densità edilizie e infrastrutturali (e relativa torta da dividere) su quantità spropositate di spazio.

Ma che saranno mai cento chilometri di territorio, per certi nostrani maîtres à flairer da convegno a gettone, paludati in pensosi maglioncini scuri girocollo da cabaret esistenzialista, geniali nella fulminante battuta che fa scattare l’applauso? Uno scioccare di lingua, e il balzo è bell’e fatto! Alla faccia di quei noiosi geografi e pianificatori, sempre lì a occuparsi dei dettagli … Poi via, nelle sterminate pianure, verso il prossimo convegno sui destini dell’ineluttabile ubiquo “sviluppo del territorio” ...

Con questi presupposti, appare poi del tutto conseguente l’atteggiamento della stampa, che con tono omogeneo e appiattito sulle dichiarazioni dei promotori, sembra descrivere un panorama in cui tornano tutti i possibili luoghi comuni: la brillante idea del prestigioso architetto che ci libererà per sempre da ogni traccia di vetusto puzzolente industrialismo, potenzialità strabilianti che dalle casse degli investitori si riverseranno automaticamente (nella migliore vulgata liberista) sulla testa dell’umanità tutta, eccetera eccetera. Una brevissima rassegna ci racconta:

Una sorta di San Gimignano del terzo millennio che prenderà il posto dell’area industriale. […] Settimo diventerà la porta verso Malpensa, la Fiera di Rho, Milano. Ma anche verso Aosta e Ginevra, nell’ambito di una riorganizzazione complessiva del Nord Ovest, in grado di coinvolgere anche Genova. Anche per questo nel concept è prevista la realizzazione di un’isola nella Laguna per ospitare un hotel” (Augusto Grandi, “A Torino la città sopraelevata”, Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2008).

Uno dei più grandi progetti di riqualificazione urbana e di eco-city d’Italia […] è ritenuto uno dei più sofisticati ed ecocompatibili del pianeta. […] la sostenibilità non sarà solo naturalistica, ma antropoculturale, socio-gestionale ed economico-finanziaria” (Giovanna Favro, “Le palafitte della città futura”, La Stampa, 12 giugno 2008).

In mezzo a tanto verde il comune intende costruire anche vari grattacieli e una stazione ferroviaria” (Jan Pellissier, “Laguna Verde, eco-city a Settimo”, Italia Oggi, 18 giugno 2008).

Il grattacielo […] l’impressione che darà è di un libro sfogliato […] con due bracci puntati direttamente sul centro di Milano e sulla città di Ginevra” (Andrea Gatta, “Ecco Laguna Verde, cittadella del futuro a misura di ambiente”, Cronaca Qui, 12 giugno 2008).

Il tutto sulla base di una serie di classicissimi renderings, che mostrano sostanzialmente un insediamento a organizzazione lineare lungo l’asse attuale, con edifici molto sviluppati in altezza, un percorso denominato broadway a connettere il tutto, e l’idea della “Laguna”, ovvero dell’edificato e di parte del verde a “galleggiare” organizzato in “isole” sopra il livello delle infrastrutture.

E con tutto il rispetto per i promessi uno virgola due miliardi di euro di investimenti: che ci azzeccano in sé e per sé i grattacieli, di un colore o l’altro che siano, con la “ sostenibilità antropoculturale”? Per giustificare la presenza di un albergo c’è bisogno di essere la porta su Malpensa, di stare “ nell’ambito di una riorganizzazione complessiva del Nord Ovest”?

Insomma, senza entrare troppo nei dettagli, che tra l’altro pare non ci siano, l’impressione è che si tratti di un trompel’oeil giornalistico, come già visto in tanti e tanti casi di grandi progetti di trasformazione urbana. L’unica osservazione che si può aggiungere per il momento pare di metodo anziché di merito: è davvero il caso che, come riferiscono gli articoli dei giornali, il Comune approvi “prima” questa serie di suggestivi schizzi e tabelle del concept, e “poi” inizi le procedure di variante ad hoc del Piano Regolatore?

Perché l’intuizione migliore probabilmente l’ha avuta suo malgrado uno di quei lettori entusiasti di Skyscraper City, pronti ad acclamare sempre e comunque i rendering più colorati e ad effetto. Il progetto della cosiddetta “Laguna Verde” a Settimo Torinese gli ricordava molto da vicino quello di Renzo Piano per le aree delle ex acciaierie di Sesto San Giovanni. A Settimo non sono ancora arrivati i premi Nobel al traino, ma lo schema sembra presentarsi identico, coi salvatori della patria che promettono e stragiurano sfracelli.

Ma, “Poi”?

L’unico modo di garantirsi un “poi” è quello di arrivare “prima”: con una strategia condivisa all’interno della quale collocare, con tutte le contrattazioni pubbliche del caso, anche vagonate di renderings, tonnellate di pensosi filosofi e sociomani da convegno, e magari anche le esigenze della città. Che non si calcolano solo in rapporto agli investimenti: “ diventare una città modello per il dialogo, per lo studio, per l’ambiente. Dove sia piacevole vivere e interessante lavorare”, come ha dichiarato il sindaco di Settimo al Sole 24 Ore, passa anche e soprattutto da una strategia. Condivisa con una platea magari un pochino più ampia di quella degli investitori.

Di seguito scaricabile un pdf con questo testo e qualche immagine, dell'area e del progetto "concept" di P.P. Maggiora (f.b.)

[1]Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Provincia di Torino, Un territorio sostenibile ad alta relazionalità. Schema di Piano Strategico per il territorio interessato dalla direttrice ferroviaria Torino-Lione, p. 75

Con le presentazioni a Palazzo Mezzanotte ed ai Sindacati, in pubblico e, osiamo supporre, ai Sindaci amici in privato, la strategia di SEA è uscita allo scoperto ed i piani sono chiari, oltrechè i soliti: crescita e terza pista non sono certo novità.

Coperta rimane la questione ambientale che noi, invece, vogliamo ricordare: parlare di 50 milioni di passeggeri a Malpensa è terrorismo ambientale.

Vogliamo evidenziare, a questo proposito, che Malpensa sta nel Parco del Ticino, non in un deserto, e che tutta l’area è fortemente antropizzata.

É facile verificare che, nel raggio di 10 km dalle piste, esistono 38 Comuni con oltre 250.000 abitanti.

Allargando a 15 km si contano in totale 88 Comuni e 500.000 abitanti.

É qui che vogliamo far crescere un aeroporto che è già oltre il doppio del limite stabilito dal proprio P.R.G.A?

Nulla di nuovo anche sul fronte sindacale: a parte qualche esponente incredulo (dove troveranno i soldi?) il plauso è generale. Gli allarmi occupazionali (esagerati!!!) sono già rientrati, sono già ricominciate le assunzioni, si riparla di crescita e l’esperienza appena vissuta con il dehubbing e tutte le falsità relative non ha insegnato nulla.

Se Malpensa torna a crescere, l’elevata concentrazione di voli (forzando il mercato) e di lavoratori costituirà di nuovo una bolla destinata a scoppiare. E quando scoppierà (e sarebbe già la terza volta) pagheranno come al solito i più deboli o, nella migliore delle ipotesi, i contribuenti, per gli errori di politici, amministratori e sindacati.

Politici, amministratori e sindacati che, quando Malpensa cresce, si fregano le mani tutti contenti, senza pensare all’ambiente, quando scoppia, strillano e cercano altrove il capro espiatorio su cui rovesciare le proprie responsabilità.

In merito alle dimensioni aeroportuali è interessante ricordare che Linate, con una sola pista, gestiva, fino al ’98, 16 milioni di passeggeri/anno: perchè Malpensa, che doveva gestire al massimo 12 milioni di passeggeri, ha due piste?

Allora la proposta è: rispettiamo il P.R.G.A. e l’ambiente e, invece di fare la terza pista, chiudiamo una delle due attuali.

Si noti inoltre che due piste parallele consentono, ad esempio a Londra Heathrow, una capacità operativa superiore a quella che sarebbe possibile a Malpensa con tre piste.

Questo studio, infatti, redatto per S.E.A. da Mitre Corporation di Washington, e noto per essere stato presentato ad alcuni Sindaci e per descrizioni circolate, invece di risolvere i principali problemi di Malpensa, ne crea altri.

Attraversamento di pista con rischio di collisioni e ridotta capacità operativa (ridotta per un hub, in realtà, per l’ambiente è esagerata) sono attualmente i principali problemi.

Con la terza pista secondo Mitre l’operatività aumenterebbe un po’, ma anche i problemi, poichè gli attraversamenti di pista ci sarebbero ancora e la dipendenza tra le piste diventerebbe un gioco a tre (piste), quindi ancora meno sicuro.

Poi, particolare non trascurabile, si dovrebbe demolire e ricostruire la torre di controllo (costata 15 milioni di €) perchè nell’attuale posizione interferirebbe con i movimenti sulla nuova pista.

Ricordiamo la nostra proposta, il “Sistema Aeroportuale del Nord Italia”, dove ci sono 13 aeroporti con 15 piste ed una capacità di ca. 100 milioni di passeggeri/anno, il traffico reale è meno di 40 milioni e quindi non serve alcun ampliamento, neppure a Malpensa.

Ma non è ora di smetterla con questo aeroporto?

Gallarate, 19 luglio 2008 http://unicomal.blogspot.com/

Milano è da alcuni anni I'epicentro del virus dell'eccellenza. Questo virus megalomane si è propagato a macchia d'olio nel discorso pubblico e mediatico, intossicando in modo trasversale con la sua retorica ogni ambito della comunicazione politica, amministrativa, universitaria, giornalistica, sanitaria, architettonica, perfino gastronomica. Ciò che rende difficile da sopportare l'epidemia retorica dell'eccellenza è il fatto che essa cresce in rapporto di diretta proporzionalità allo scadimento della vita di ogni giorno nella regione metropolitana milanese, all'indecenza che caratterizza la progettualità nella dimensione quotidiana e ordinaria di molta parte delle istituzioni e della cittadinanza. Si pensa di curare la perdita della capacità di prendersi cura della "città di tutti i giorni", della capacità di investire energie nel senso civico quotidiano -che è il segno di ogni urbanità civile -a colpi di eccellenza, progetti straordinari, grandi opere, allo stesso modo in cui la perdita profonda della capacità di fare festa, oggi produce la serie infinita di festival, kermesse, eventi, intrattenimenti. È chiaro quindi che in questo quadro l'Expo 2015 "vinta" da Milano arriva come il cado sui maccheroni: Grande Opera e Grande Intrattenimento, insieme, in un solo colpo.

Ma prima di venire all'Expo, è necessario capire meglio la scena sulla quale essa ora si affaccia come un deus ex machina: un angolo visuale privilegiato per farlo, per descrivere la mancanza di decenza nella costruzione della città ordinaria, e per osservare gli effetti dell'avvento del discorso retorico dell'eccellenza che avrà poi il suo apogeo nell'Expo, può essere quello delle trasformazioni urbanistiche e architettoniche milanesi degli ultimi anni.

Di certo emblematica è la prima generazione di trasformazioni delle aree industriali dismesse, avvenuta a cavallo tra anni novanta e duemila: un'occasione irripetibile prodotta da un cambio di paradigma produttivo di rilevanza epocale, che si è risolta nella costruzione di una serie di quartieri monofunzionali - residenza mono-ceto (medio-alto) più centro commerciale - all'insegna del più tradizionale consociativismo - grande proprietà, comune, cooperative bianche e rosse, grande distribuzione commerciale - e nella più totale incoscienza delle questioni urbane nodali del nostro tempo - energia, viabilità, integrazione sociale, ambiente. Questa generazione di interventi (detta dei Pru, dal nome dello strumento urbanistico utilizzato: Programmi di recupero urbano) è avvenuta in sostanziale continuità con le modalità proprie delle ultime grandi operazioni immobiliari della stagione pre-tangentopoli, quali i quartieri del famigerato Piano Casa di Ligresti (poi messo a riposo per un brevissimo periodo di quarantena, e come sappiamo oggi ampiamente terminato) e come essi, tra l'altro, contrassegnata da un'architettura anche formalmente indecorosa, progettata da professionisti impresentabili, per quanto spesso in posizione di forza all'interno delle università. La realizzazione dei Pru è stata il principale fiore all'occhiello delle politiche urbanistiche delle giunte Albertini, insieme al Piano dei parcheggi, che consisteva nella realizzazione di oltre un centinaio di parcheggi sotterranei (molti ancora oggi in corso di realizzazione), su suolo pubblico in concessione a privati, in buona parte in zone centrali della città: un esplicito incentivo all'uso abituale dell'automobile negli spostamenti urbani.

Questo quadro molto sommario -al quale bisognerebbe aggiungere almeno l'ondata di sopralzi generalizzata promossa da una legge formigoniana che, al di là di importanti effetti negativi sul piano urbanistico, ha soprattutto fornito un ritratto impietoso dell'analfabetismo architettonico dei tecnici e committenti milanesi -ha avuto un progressivo punto di svolta cinque o sei anni fa, quando ha cominciato a diffondersi la parola d'ordine dell'eccellenza. Questa trasformazione è ben rappresentata proprio dalle strategie di Ligresti, che fino ai primi anni novanta affidava il progetto di centinaia di migliaia di metri cubi ai geometri del suo ufficio tecnico, e che oggi, a capo della cordata che ha comprato all'asta l'area della ex Fiera Campionaria, ingaggia le più grandi star dell'architettura commerciale mondiale (tra l'altro, su consiglio dell'ex operaista tafuriano Francesco Dal Co, oggi potente manovratore della critica e del management architettonico). Su questa traccia fortemente mediatizzata e spettacolare, e sul modello delle dinamiche del cosiddetto Real Estate affermate in tutto il mondo, da Londra a shanghai, si allineano le successive trasformazioni delle grandi aree dismesse residue nel milanese. O meglio, sulla base del più casereccio precedente modello "indecente" dell'architettura lottizzata e impresentabile, viene innestato il nuovo modello "eccellente" dell'architettura-spettacolo. La seconda serve anche a vendere la prima, la prima tenta di "aggiornarsi" imitando la seconda: è ciò che succede per esempio nell'area Garibaldi-Repubblica, o ancor più emblematicamente al supermediatizzato progetto di Santa Giulia, dove la parte scadente già quasi terminata e realizzata dalle cooperative (bianche e rosse) rischia di rimanere senza quella eccellente disegnata da Norman Foster, che forse non si farà più a causa dei guai finanziari di Zunino e del contemporaneo afflosciarsi della bolla del mercato immobiliare.

Va visto in questa chiave di urbanistica mediatica, anche se qui le superstar dell'architettura non c'entrano, pure l'Eco-Pass, la congestion charge del sindaco Moratti, un provvedimento teso chiaramente a comunicare un messaggio anti-inquinamento senza intaccare i diritti degli automobilisti, più che a ridurre drasticamente il numero di auto circolanti in città. Un provvedimento oggettivamente ridicolo, visto che la limitazione riguarda solo la cerchia dei Bastioni e solo le auto "vecchie": in tutta la parte di città costruita dal Seicento a oggi (e nel frattempo Milano è diventata una città-regione) le auto possono circolare liberamente.

Così la Milano del nostro tempo è una città che, con più enfasi di altre in Italia, punta all'eccellenza dello straordinario e nell'ordinario razzola nell'indecenza. È in primo luogo in rapporto a questo scenario che si può comprendere quanto poco ci sia da essere contenti della vittoria di Milano nella gara per l'assegnazione dell'Expo 2015 e quanto sia costernante l'u- nanimità pressoche assoluta dei consensi che l'hanno accolta. Assegnare l'Expo a Milano è un po' come regalare a un matto megalomane un vestito da Napoleone.

La vicenda dell'Expo milanese dimostra che Guy Debord, descrivendo quarant'anni fa la Società dello Spettacolo, se aveva sbagliato, aveva sbagliato per difetto. L'Expo conferma che la politica non può governare se non mediante lo spettacolo, l'evento. Un consigliere comunale di Forza Italia, membro del comitato organizzatore, nel corso di un dibattito radiofonico alla vigilia dell'assegnazione dell'Expo mi dice innocentemente che capisce tutte le mie perplessità, ma che con gli strumenti e le risorse ordinarie non si sarebbero potuti purtroppo soddisfare i bisogni fondamentali della città, le infrastrutture e i servizi di cui Milano assolutamente necessita, e che l'Expo servirà proprio a quello. Che diamine di bisogni abbiamo, a quali standard ci rifacciamo per misurarli, quali modelli di città abbiamo in mente, se le risorse di uno degli otto paesi più sviluppati del mondo non bastano a soddisfarli? Ed è a partire da questo sovradimensionamento dei propri bisogni che questa città si propone di affrontare, come recitano i depliants pubblicitari dell'Expo, "i grandi problemi dello sviluppo sostenibile del pianeta"? A rendere ancora più grottesco questo tema c'è poi il fatto che - se sono riuscito a capire qualcosa nella ridda di cifre spesso incoerenti tra loro diffusa dai media - dei 4,1 miliardi di budget previsti per la costruzione dell'Expo, solo il20 per cento viene da fonte privata, ovvero 1'80 per cento saranno fondi pubblici, stanziati da Comune, Provincia, Regione e soprattutto Stato. Ciò significa che, posto che tali necessità siano davvero inderogabili, le risorse per rispondervi che sembrerebbero reperibili nella quasi totalità anche senza l'Expo, senza la scusa catartica del Grande Spettacolo in realtà non lo sarebbero affatto.

E se ufficialmente a sostenere la "necessità" dell'Expo vengono portate ragioni “scientifiche", di ferreo realismo economico, in realtà una dimensione magica, salvifica, taumaturgica, ai limiti della superstizione, viene attribuita a questo evento da moltissimi sostenitori, compreso il sociologo Aldo Bonomi, che nel corso dello stesso dibattito sostiene che "la Sciura Maria che torna dal mercato con le borse della spesa, se l'Expo non venisse assegnata a Milano, avrebbe una conferma del declino della città e del paese, e questo sarebbe tragico". L'Expo come talismano contro il declino!

Tutta la vicenda dell'Expo milanese è una galleria di situazioni grottesche. Nell'atmosfera calcistico-patriottica prodotta ad arte dai media dopo la vittoria, si sostiene che a trionfare è stata la serietà e completezza del dossier di candidatura presentato da Milano, sostenuta dalla testimonianza di Al Gore che assicura che "Milano è una città amica dell'ambiente" (pazienza se i rapporti dell'Organizzazione mondiale della sanità indicano l'area metropolitana milanese come una delle zone più inquinate di Europa), o che il successo è frutto del lavoro di squadra bipartisan, oppure al contrario si rivendica il merito esclusivo della vittoria, come fa Berlusconi la sera stessa dell'assegnazione. Ma si sa perfettamente che l'appoggio dei diversi paesi membri del Bureau (o di quelli che non lo erano, ma che sono stati convinti a entrarvi: negli ultimi giorni prima della scadenza il numero è improvvisamente aumentato del 50 per cento) è stato comprato sguinzagliando negli ultimi tre mesi assessori di Comune, Provincia e Regione in giro per il mondo: voti comprati in cambio di "aiuti allo sviluppo" dei generi più strampalati -una centrale del latte alla Nigeria, un ct italiano alla nazionale di calcio del Vietnam - con una caparra anticipata di complessivi dieci milioni di euro e un conguaglio a saldo, a votazione positiva avvenuta, di altri cento milioni. Ma neppure in questa compravendita quasi nessuno trova qualcosa di un po' schifoso, né a destra né a sinistra: è capacità di costruire partnership internazionali, arte di tessere reti geopolitiche.

Grottesco, se non osceno, a me appare il tema stesso scelto per l'intera kermesse – tema che invece entusiasma anche i pochi scettici illustri dell'Expo: Renzo Piano e Adriano Celentano - e fa abbastanza impressione vedere tra i membri del comitato scientifico, tra gli altri, i nomi di Carlo Petrini e Amartya Sen: dietro allo slogan generico "Nutrire il pianeta / Energia per la vita" viene tracciata una linea che congiunge il tema dell'eccellenza gastronomica, il famoso italian food, a quello della fame del mondo. Il tema di questo grande spettacolo da 4 miliardi di euro, ma dall'indotto complessivo stimato in oltre 40 miliardi, è in sostanza il mangiare, in senso molto lato, fino a comprendere il suo opposto: il non-mangiare. Sievince dai depliants promozionali che illustrano il programma che il problema di chi comprensibilmente si ostina a far riferimento al secondo versante, cioè a non mangiare, o a mangiare molto poco, è un problema medico, tecnico e tecnologico, dietetico, di educazione alimentare, di innovazione, e giammai il prodotto di un preciso modello di sviluppo politico-economico fondato sulla diseguaglianza, sull'iperconsumo di alcuni e sulla miseria e lo sfruttamento di molti. La medicalizzazione della fame nel mondo, la sua rubricazione nella categoria delle disfunzioni della filiera produttore-consumatore, è un messaggio così rivoltante che sinceramente stupisce che neppure nelle parti più decenti del fronte pro-Expo nessuno abbia avuto niente da dire.

Tra i molti precedenti di grandi opere o grandi eventi milanesi che si potrebbero ricordare, a partire dai disastri economico-urbanistici dei campionati mondiali di Italia ‘90, è bene evidenziarne almeno due tra i più recenti. Del potenziamento dell'autostrada Milan-Torino e della contestuale realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità, ancora in corso, i giornali si sono occupati a lungo concentrandosi sui costi e sui tempi astronomicamente lievitati e sulle massicce infiltrazioni mafiose nei loro appalti. Ma quest'opera è anche un esempio lampante di che cosa significa oggi da un punto di vista fisico, ambientale, paesaggistico la corsa allo sviluppo, alla crescita, all'eccellenza: un tratto di territorio della lunghezza di un centinaio di chilometri è stato trasformato d'un colpo da paesaggio semirurale a scenario periferico lineare, una concatenazione ininterrotta di viadotti ferroviari sopraelevati e di bretelle, svincoli, sotto passi autostradali necessari a superare le continue intersezioni fra i due sistemi di trasporto (perché, come è ormai noto, ogni aumento della velocità di comunicazione in una direzione, costituisce un ostacolo e un rallentamento per gli spostamenti nella direzione trasversale alla prima, e rende necessarie ulteriori infrastrutture per il loro che a loro volta divengono ostacoli nell'altra direzione, eccetera...). È lo scheletro infrastrutturato di un futuro suburbio lineare sovraregionale, la megalopoli Torino-Trieste che manda in brodo di giuggiole Fuksas, la città infinita che ambiguamente descrive Bonomi.

Proprio Fuksas immagina la sua Fiera di Rho-Pero - che è il secondo esempio a cui volevo accennare e che si salderà con il villaggio Expo che le sorgerà giusto accanto – non come una semplice fiera, ma come un brano di questa futura megalopoli. E su questa dismisura essa è sintonizzata: la sua dimensione è tale che, da quando esiste, la Fondazione Fiera - feudo di quella Compagnia delle Opere senza la cui presenza si può capire ben poco delle dinamiche non solo urbanistiche milanesi - ha il problema di cosa farne. La struttura funziona a pieno regime solo nei cinque giorni del Salone del Mobile, quando ogni anno per l'affluenza di visitatori l'intero sistema della mobilità milanese va in tilt: ingorghi colossali, code di centinaia di metri fuori dalla metrò e alle fermate dei taxi. Per il resto dell'anno molta parte della megastruttura è inutilizzata e per compensare gli insostenibili costi di gestione l'ente progetta di vendere l'ultimo pezzo della vecchia Fiera Campionaria che aveva mantenuto in città, trasformandolo in centro commerciale e cinema multisala. Il modello per cui si finanziano con risorse pubbliche grandi strutture d'eccellenza tese a competere sul famigerato scenario globale, e poi si rimane con il problema di che cosa farsene, è in grande espansione: dal PalaFuksas di Torino al PalaGregotti di Milano, cioè il Teatro degli Arcimboldi costruito da Pirelli alla Bicocca, in utilizzato per gran parte del tempo.

Il tema di un'architettura ipertrofica e drogata che ha invertito il suo rapporto di servizio con l'uso e la necessità, è uno dei grandi temi tragicomici dell'architettura contemporanea. Che tocca anche l'Expo: su un'area di oltre un milione di metri quadrati verranno costruiti edifici che in minima parte - sembra solo i padiglioni dei paesi stranieri - verranno smontati dopo il 2015. Il resto dovrà essere riconvertito dall'eccellenza alla vita quotidiana. Su questo tema il progetto dell'Expo è di una vaghezza sconfortante: si parla di residenze universitarie e atelier per creativi. Un milione di metri quadri di atelier per creativi? Ma è lo stesso progetto architettonico e urbanistico dell'Expo a essere assolutamente aleatorio, tanto che all'indomani dell'assegnazione il sindaco Moratti, sull'onda di una campagna populista contro i grattacieli storti guidata da Berlusconi e Celentano (progetti orrendi, attaccati per la ragione sbagliata) ha cancellato in pochi minuti la torre di duecento metri che ne era il perno. Un progetto fantasma, disegnato da ghost-designers per aggirare la normativa europea che impone di affidare progetti pubblici solo mediante gare o concorsi. Una aleatorietà che non è solo un limite specifico di questo progetto ma un fattore strutturale di tutta l'architettura contemporanea della mega- macchina: le operazioni in cui essa viene messa al lavoro hanno ingredienti e procedure complesse, toccano interessi così poderosi e capitali tanto fluttuanti che la sua flessibilità deve essere totale, ma allo stesso tempo essa deve essere immediatamente spendibile sul piano dell'immagine e dello spettacolo. Avere cioè una forma memorabile ancor prima che qualcuno sappia a cosa dovrà servire. L'architettura dell'eccellenza è quindi pura aleatorietà compensata da iperrealismo. È un architettura che ambisce a quella smaterializzazione, a quella disincarnazione che Illich e Virilio hanno individuato come tratto cruciale della disumanizzazione con- temporanea, un'architettura-play station che cancella ogni terrestrità: senza gravità, senza materia, senza luogo. Visti di sfuggita nella videoanimazione promozionale dell'Expo, mentre la telecamera virtuale vola come in un videogioco, l'edificio che si protende a sbalzo per cinquanta metri, senza appoggi, o i padiglioni con gli spigoli smussati come elettrodomestici o Suv, raccontano la favola agghiacciante che piace a tutti di una landa tra Milano e Rho, tra l'autostrada per Torino e il carcere di Bollate, trasformata in scenario di second Life.

Prologo

Cassinetta di Lugagnano (MI) è un comune del Parco Lombardo della Valle del Ticino, riserva della Biosfera UNESCO. Nel mezzo di una bella pianura irrigua, una mezzaluna fertile, che va da Melegnano a Legnano.

Ma come tutti i comuni a sud della grande metropoli milanese, è sottoposto ad una fortissima pressione a costruire. Infatti, il sud-ovest Milano, con il solo 19% di territorio urbanizzato, è il naturale luogo dove sfogare l’ “incontinenza” edilizia della grande metropoli e dove realizzare grandi infrastrutture, dettate dal modello di sviluppo che ha già creato Malpensa e che ci porterà (forse) Expo2015 e tutte le sue conseguenze.

Elezioni

Quando nel 2002 il sindaco Domenico Finiguerra è stato eletto, con il 51% alla guida dell'amministrazione comunale di Cassinetta di Lugagnano, il programma elettorale al capitolo “urbanistica” prevedeva in maniera molto chiara ed esplicita la volontà di:

- non procedere a nessun nuovo piano di insediamenti residenziali se non attraverso il recupero di volumi già esistenti

- puntare sulla valorizzazione del centro storico e del patrimonio artistico ed architettonico (il Naviglio Grande, le sue ville, i parchi ed i giardini)

- salvaguardare l’agricoltura

- promuovere la qualità ambientale e il turismo

- opporsi alle grandi infrastrutture legate all’aeroporto di Malpensa.

Crescita Zero

La scelta del risparmio del suolo e l’adozione del principio ispiratore cosiddetto della “crescita zero” per tutta la politica urbanistica dell’amministrazione derivava dalle seguenti convinzioni/constatazioni:

- non è sostenibile un modello di sviluppo che prevede il consumo sistematico del suolo, l’impoverimento delle risorse naturali, la progressiva ed inesorabile urbanizzazione e conurbazione tra diverse città e paesi;

- non è più sostenibile il meccanismo deleterio che spinge le amministrazioni a “utilizzare” il territorio come risorsa per finanziare la spesa corrente.

La decisione

La decisione di adottare la “crescita zero” quale faro della politica urbanistica, anche se già ampiamente prevista dal programma amministrativo, è stata confermata successivamente anche attraverso assemblee pubbliche aperte a tutta la cittadinanza.

Nell’ambito del procedimento partecipato di elaborazione del PGT il dilemma da sciogliere è stato sostanzialmente il seguente: “per finanziarie le opere e i servizi necessari alla comunità, la comunità stessa preferisce:

- ricorrere al finanziamento delle opere necessarie per mezzo di nuove lottizzazioni (e conseguente incremento di popolazione, e conseguente necessità di nuovi servizi, e conseguente necessità di nuove lottizzazioni, e via così fino all’esaurimento delle aree libere);

- oppure, ricorrere al finanziamento per mezzo di accensione di mutui con conseguente ricaduta sulla fiscalità locale?

Dal dibattito che ne è sortito, non c’è stata nessuna levata di scudi in nome del motto “giù le tasse”, anzi, le considerazioni più ricorrenti sono state: “vogliamo mantenere integro il territorio e non vogliamo crescere”, oppure “siamo scappati dall’hinterland milanese e abbiamo scelto Cassinetta di Lugagnano per la sue qualità ambientale”.

L’amministrazione, pertanto, con grande sorpresa anche degli urbanisti incaricati ha ritenuto giusta e confermato la decisione di non prevedere nessuna zona di espansione.

Il bilancio comunale

Fin dall’insediamento, la politica di bilancio è stata improntata al massimo rigore, puntando alla realizzazione di un importante e strategico obiettivo: “l’emancipazione” del bilancio dagli oneri di urbanizzazione. Progressivamente, a partire dal 2002, è stata ridotta fino allo 0 (zero) % (obiettivo raggiunto contestualmente all’approvazione del PGT) la quota di oneri di urbanizzazione destinata al finanziamento delle spese correnti.

Inoltre, anche sul lato delle spese in conto capitale (investimenti) si è proceduto con una intensa e faticosa ricerca di contributi provinciali, regionali e statali a fondo perduto.

Il Comune di Cassinetta di Lugagnano, nell’ultimo quinquennio ha realizzato opere per circa 4 milioni di euro grazie a contributi della Regione Lombardia e della Provincia di Milano.

I pochissimi interventi di recupero dei volumi esistenti o alcuni micro-interventi sono stati autorizzati dall’amministrazione a fronte di ingenti opere pubbliche (a titolo di esempio, con il recupero di una villa del ‘500 e di annesso fienile a fini abitativi, l’amministrazione si è vista realizzare opere aggiuntive per 400 mila euro; la costruzione di una nuova farmacia privata è stata accompagnata alla realizzazione del nuovo polo sanitario).

Moltissime sono state le iniziative realizzate per mezzo di sponsorizzazioni (si cita a titolo di esempio la sponsorizzazione del Piano Colore allegato allo stesso PGT da parte di Caparol).

La scuola materna è stata costruita accendendo un mutuo finanziato con l’incremento di un punto dell’ICI sulle attività produttive.

L’ICI sulla prima casa è rimasta ferma al 6 per mille e l’addizionale Irpef al 2%. La tariffa rifiuti prevede il recupero del 100% a carico dei contribuenti. Ma la raccolta differenziata è oltre il 73%.

Si fa notare che se non avesse scelto l’opzione crescita zero, l’amministrazione avrebbe potuto ridurre, e di molto, la pressione fiscale sui cittadini e sulle imprese.

L’offerta di servizi sociali, educativi e culturali è aumentata e non è stato fatto nessun taglio alla spesa per servizi alla persona.

Piano di Governo del Territorio

Il PGT del Comune di Cassinetta di Lugagnano è stato approvato definitivamente nel mese marzo 2007, alla vigilia delle elezioni amministrative. Non prevede nessuna zona di espansione. E’ incentrato sul recupero e sulla valorizzazione del patrimonio esistente ed è corredato di un dettagliatissimo Piano del Colore.

Conclusioni

Riassumendo arrivare ad un PGT a crescita zero è possibile, ma sono necessarie le seguenti condizioni:

1. solidità della maggioranza e impermeabilità alle pressioni esterne che spesso pongono l’amministratore di fronte a offerte difficili da rifiutare: “se mi fai realizzare questo intervento edilizio, ti sistemi il bilancio, fai tante opere pubbliche utili senza sforzo e vieni rieletto oppure fai carriera”.

2. forte condivisione della scelta da parte della comunità e continua partecipazione della stessa (i bambini, le associazioni, i gruppi informali, i singoli cittadini) alle decisioni assunte dell’amministrazione

3. seria politica di bilancio che renda indipendenti sia le spese correnti che quelle in conto capitale dagli oneri di urbanizzazione dovuti a nuovi insediamenti e che ricerchi risorse alternative

4. utilizzo ed incentivo al recupero di tutti i volumi esistenti

Una postilla

Alle ultime elezioni amministrative del 2007, la lista civica (rosso-verde) è stata riconfermata con oltre il 63% dei voti, in netta controtendenza rispetto a tutta la provincia di Milano, dove il centrosinistra ha perso in comuni importanti come San Donato Milanese, Rho, Pieve Emanuele, Buccinasco, Monza.

Il 14 Giugno a Bergamo si è costituita la “Rete lombarda dei Comitati per la difesa del territorio e dell’ambiente”: al nuovo organismo di coordinamento hanno aderito, sino a ora, 114 comitati locali da tutte le province. La Rete è costituita da realtà territoriali e persone.

Ad ognuno, pur nella tutela della propria identità e autonomia, viene proposto di mettersi in rete per costituire un collegamento tra le varie iniziative locali. Si tratta di un primo nucleo che conta di estendersi e coordinarsi su tutta la regione e mantenere rapporti con reti analoghe (come quella piemontese, emiliana e toscana presenti con i loro portavoce Becarelli, Gavioli, Asor Rosa).

Le forme flessibili di coordinamento e di relazione tra reti sono fin dall’inizio aperte e saranno da precisare e condividere nel dibattito e nel funzionamento reale. Si è compilato un indirizzario regionale che si svilupperà per adesione libera e che verrà già nei prossimi giorni distribuito a tutti gli attuali registrati e messo in chiaro sui siti web di comune interesse. La Rete lombarda dei Comitati ambientali si muoverà su sei aree tematiche: pianificazione urbanistica, energia, beni comuni, parchi, centri commerciali, infrastrutture e mobilità, che si daranno comitati tecnico- scientifici di riferimento.

In Lombardia la situazione di degrado e di crisi ambientale non è solo conseguenza quantitativa dell’alta densità degli insediamenti produttivi e residenziali, o dei modelli di consumo e del congestionamento del trasporto individuale. E’ anche e soprattutto il frutto di una politica orientata all’abbandono di strumenti di programmazione e di governo del territorio e a dare preminenza all’interesse privato rispetto all’interesse pubblico. Nel corso di questi anni abbiamo assistito ad una prassi di saccheggio fondata su un’idea di crescita senza limiti, rivolta a rilanciare la nostra Regione come “territorio della competizione e del consumo”, con lo sfruttamento dell’ambiente, delle risorse naturali, dei beni comuni.

Questo è il rischio cui è esposto il progetto di Expo 2015, che mette al centro i temi agroalimentari e energetici, ma che per Formigoni e la Moratti sarà il paravento dietro cui nascondere una nuova ondata di speculazioni.

Di contro, si sono costruite nel corso degli anni una molteplicità di iniziative di denuncia e di mobilitazione. Iniziative ambientali e pratiche di partecipazione per lo più agite sul piano locale, rivolte a difendere i propri territori dalla devastazione e dalle privatizzazioni.

Metterle in rete corrisponde a quanto si era fatto con i Consigli di fabbrica, quando dai reparti e dagli uffici si ricostruiva il ciclo di produzione completo attraverso i delegati: nel caso in questione si cerca di ricostruire il ciclo di messa a profitto del territorio attraverso la rappresentanza dei singoli comitati. Come per le vertenze sull’organizzazione del lavoro, puntiamo alle vertenze sull’organizzazione del territorio.

Queste pratiche e iniziative territoriali rappresentano un potenziale di cambiamento, la possibilità di un altro modo di fare economia e di interagire positivamente con i cicli ambientali. Un’idea che parte da ridurre e recuperare rifiuti, fermare la cementificazione e le grandi opere speculative, affermare il diritto alla mobilità superando l’auto individuale e qualificando il trasporto pubblico, riprogrammare il fabbisogno energetico, attuare una politica di riuso urbano e di difesa dei beni comuni e contrastare i cambiamenti climatici, visto che la Lombardia produce un quinto di tutte le emissioni italiane di CO2.

E’ in corso il tentativo di marginalizzare le richieste di controllo popolare sugli interventi che riguardano il territorio, mentre è forte la domanda di nuove modalità di convivenza e di una democrazia partecipata. Una sinistra che si riunifica dal basso non può trascurare prospettive come questa in maturazione, dato che occorre uscire dalla frammentazione e collegarsi e comunicare per promuovere un’idea comune di socialità e per passare dall’opposizione alla proposta.

Le realtà associative che operano sui temi della salvaguardia del territorio e dell’ambiente e che attuano una politica di prossimità, possono rappresentare - laddove la politica tradizionale segnala una sua crisi profonda di rapporto con l’insediamento sociale - un terreno di ricostruzione di una nuova stagione di partecipazione. Credo che in questo momento una prospettiva per la sinistra possa giungere anche dall’aggregazione delle realtà che lavorano a contatto con il territorio e che superano nelle loro rivendicazioni l’astrattezza di posizioni identitarie che spesso dividono. In questo senso l’iniziativa di Bergamo è un contributo su cui dovrebbero riflettere i congressi in corso, troppo rinchiusi al loro interno per rispondere alla sfida che la destra porta ai fondamenti della libertà e della democrazia.

Qui i documenti d'avvio della Rete dei comitati lombardi, e qui il resoconto dell'iniziativa di eddyburg coinbtro la "legge mangiaparchi"

Si scrive VAS ma si legge «Valutazione ambientale strategica» ed è una delle tante, proficue norme che l’Europa ha immesso nel nostro ordinamenento. Infatti con la direttiva europea 42/2001/CE, la l.r. 12/2005, si è introdotto l’obbligo di accompagnare tutti i piani attinenti l’organizzazione del territorio, tra i quali il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale, con la Valutazione Ambientale Strategica. Proprio il sito della Amministrazione Provinciale di Pavia spiega che la «procedura di VAS consiste nell’elaborazione di un rapporto relativo all’impatto sull’ambiente (rapporto ambientale), conseguente all’attuazione del piano, da redigere anche mediante lo svolgimento di consultazioni e la messa a disposizione delle informazioni».

E giustamente si sottolinea sempre, da parte dell’Amministrazione Provinciale di Pavia, come il cuore della VAS sia «la partecipazione, il confronto tra l’Amministrazione e i soggetti che sul territorio rappresentano interessi diffusi.»

Il progetto di realizzazione dell’autostrada Broni-Pavia-Mortara, l’opera più ingente prevista nel corso del prossimo decennio sul territorio provinciale, costituisce ovviamente il banco di prova della VAS. Non a caso nella conferenza dei servizi del febbraio 2007 i sindaci dei Comuni coinvolti hanno deliberato un ordine del giorno che impegnava Infrastrutture Lombarde e la Regione Lombardia ad avviare una Valutazione Ambientale Strategica, una VAS appunto, dell’opera.

Adesso a poche settimane dall’assegnazione, che dovrebbe avvenire a luglio, della progettazione esecutiva dell’autostrada, è stato consegnato ai sindaci il ponderoso dossier che contiene lo «studio tecnico-scientifico sugli effetti ambientali e territoriali dell’autostrada Broni-Pavia-Mortara». Per chi non è un addetto ai lavori, difficile comprendere se questo documento rappresenti la VAS, prevista dalla normativa europea e di cui parla il sito provinciale, o invece ne costituisca una sorta di interpretazione secondo il rito ambrosiano officiato dalla Regione Lombardia, sotto forma di una Valutazione Ambientale Sintetica - chiamiamola VAS bis - introdotta dal Pirellone e alla quale fa riferimento Infrastrutture Lombarde nel presentare il suo vasto studio redatto da una pluralità di soggetti di peso e autorevoli esperti.

Uno studio che parrebbe dimostrare come «le criticicità siano superabili» e dunque si possa sollecitamente procedere. Da osservatori esterni, non si può che dire come ora, con questo dossier, la palla sia passata ai sindaci che, si presume, staranno girando e rigirando le centinaia di pagine del documento chiedendosi, si spera, come farne tesoro. Da un lato dovrebbero disporre, davanti alla mobilitazione di competenze e professionalità schierate da Infrastrutture Lombarde, di un contrappeso scientifico ed analitico adeguato per verificare, dal loro punto di vista, che tutto sia stato obiettivamente analizzato e valutato. Dall’altro, realisticamente, conosciamo le risorse di cui i Comuni, soprattutto i più piccoli, possono disporre.

Il confronto che sarebbe auspicabile orchestrare su questo dossier sugli effetti ambientali e territoriali della futura autostrada rischia dunque di essere un dialogo tra dei nani senza voce contrapposti a un gigante di stentoree capacità. Questa dissimmetria, e i tempi strettissimi a disposizione, rischiano perciò di vanificare quell’auspicio alla partecipazione - che costituisce il cuore della VAS, intesa come Valutazione Ambientale Strategica - che non si capisce se batte anche nel cuore della VAS bis. Ovvero della Valutazione Ambientale Sintetica.

Il timore è che la «sintesi» in questo caso si traduca - se non viene declinata anche in partecipazione effettiva - in un tagliar corto, nel tacitare suggerimenti, nello stoppare alternative che magari sarebbe proficuo per tutti soppesare. Compito dei sindaci coinvolti e soprattutto dell’Amministrazione Provinciale e del suo presidente è dimostrare a questo punto, con una mirata ed efficace opera di comunicazione verso i cittadini, che non è così. Le prossime settimane consentiranno di capire se questa, della partecipazione è la strada scelta. O se invece, pressati dalla fretta, ci si è incamminati su un altro viottolo.

Dimentichi del proverbio secondo cui «da soli si va veloci. In compagnia si va lontano».

Nota: per qualche informazione in più si veda in allegato la Reazione Tecnico-Ambientale della Provincia di Pavia sull'Autostrada; per questo progetto (e le altre devastanti trovate degli sviluppisti indigeni) abbondano naturalmente i riferimenti, in questa stessa cartella SOS Padania (f.b.)

Giuseppe Boatti, col suo intervento su Eddyburg del 10 aprile ha portato all’attenzione di politici, amministratori, urbanisti ed associazioni ambientaliste la situazione allarmante per la pianificazione urbana lombarda a seguito dell’ennesima variante apportata alla legge regionale per il governo del territorio, ossia la LR 12/2005. Con le nuove disposizioni la regione disapplica il DM 2 aprile 1968 n. 1444, fatta salva, negli interventi di nuova costruzione, la distanza tra gli edifici, la quale però è derogabile all’interno dei piani attuativi! Si è trattato di un colpo di spugna col quale si è voluto mettere decisamente fine alle conquiste dell’urbanistica riformista che mirava a porre fine alla carenza di standard e ad una organizzazione caotica delle città. La vita difficoltosa di questo decreto ministeriale è nota. Sempre avversato dalle rendite immobiliari è stato via via attaccato dall’urbanistica neoliberista, unitamente al modello di pianificazione a cascata previsto dalla L. 1150/1942.

In Lombardia la sua applicazione nella legislazione regionale ha retto fino ai primi anni 2000. Il primo significativo attacco risale infatti al 2001, allorquando venne approvata la L.R. 15-1-2001 n. 1. È con questa legge infatti che la Regione, a guida Formigoni, cominciò ad intervenire in modo strutturale sulla pianificazione locale per avviare un processo di sua progressiva e radicale modifica in senso neoliberista. Tra i principi costitutivi della legge vi era l’assunzione di “metodi di valutazione ispirati a principi di libertà nella gestione del territorio, sintetizzabili nella nozione ‹‹ quello che non è espressamente vietato è ammesso›› (DGR n 7/7586 del 21/12/2001) e l’introduzione della nozione di “interesse generale” accanto a quella di “interesse pubblico” per giustificare l’ingresso formale e paritetico dei privati nella gestione del territorio e dei servizi pubblici. Essendo la nuova legge ispirata a principi del tutto nuovi, si dichiarava esplicitamente il superamento della “disciplina vincolistica” contenuta nel DM 1444/68, in particolare i disposti del decreto ministeriale in materia di standard che dovevano essere considerati “superati in toto” (Circ. 13-7-2001 n. 41 dell'Assessorato al Territorio e Urbanistica).

Si eliminò anzitutto l’obbligo dello zoning (la nuova normativa distingueva il territorio comunale in due ambiti: le aree edificate e le aree di espansione ed i lotti liberi) e si introdusse ufficialmente nella legislazione urbanistica lombarda l’obbligo del ricorso al Piano dei servizi, uno strumento che era già presente in alcune elaborazioni locali connesse ai Programmi integrati di intervento, ma che ancora non disponeva di una veste giuridica. Si deliberò così il passaggio dallo standard “quantitativo” allo standard “prestazionale” al fine di inserire “a pieno titolo nel dibattito sulla concorrenza dei territori” uno strumento appropriato per rendere competitivo il territorio, sintetizzabile nel concetto di “marketing territoriale” (DGR n 7/7586 del 21/12/2001). Si demandò dunque ai Comuni il potere di definire l’individuazione dei servizi reputabili, ai fini urbanistici, quali standard e si legiferò intervenendo sul dimensionamento del PRG, dando ad essi la possibilità di ridurre fortemente gli obblighi vigenti connessi alla quantificazione delle aree da destinare a standard. Queste modifiche furono apportate senza che nessun Comune battesse ciglio e ignorando le proteste delle Organizzazioni Sindacali degli inquilini. Anzi, molti Comuni, pur potendo mantenere nei propri PRG e nei piani attuativi dotazioni maggiori (la legge fissava i valori minimi al di sotto dei quali non si poteva scendere), hanno in genere optato per ridurre all’interno delle NTA e del Piano dei servizi, le aree da destinare a standard regalando alle rendite immobiliari significative aree per l’urbanizzazione.

Con le recenti modifiche alla legge regionale lombarda per “il governo del territorio” si aggiunge quindi un altro tassello ad un processo di delegificazione che la regione Lombardia pratica da diversi anni e che, unitamente ad una interpretazione leghista del principio di sussidiarietà, devolve ai Comuni, senza più un quadro di riferimento generale, responsabilità crescenti anche in ambito della pianificazione del territorio. Va da sé che in presenza di una pianificazione di vasta area indebolita, i Comuni, lasciati ora liberi di decidere ognuno per proprio conto, accentueranno nella pianificazione locale le spinte concorrenziali territoriali mettendo a disposizione delle infrastrutturazioni connesse al terziario e commercio (logistica e media distribuzione) e delle espansioni residenziali quote crescenti di aree non urbanizzate. E poiché al peggio non c’è mai fine, ora sta venendo avanti un progetto di legge di iniziativa della Giunta regionale (Pdl 0226) riguardante le “infrastrutture di interesse concorrente statale e regionale”, in cui, oltre a prevedere il ricorso a poteri sostitutivi da parte della Regione “in caso di inerzia dei competenti organi statali e qualora il ritardo arrechi pregiudizio”, si concede ai costruttori la possibilità di finanziare le opere costruendo lungo le fasce laterali delle autostrade (art.10, comma 3) al fine di ottenere maggiori introiti e ammortizzare più facilmente gli investimenti, con buona pace del consumo di suolo (vedere articolo di Bottini - Eddyburg 15 aprile). Gli emendamenti presentati nelle Commissioni ignorano completamente questa problematica.

Ma tornando alla disapplicazione del DM 1444/68, Boatti fa presente nel suo intervento il silenzio con cui è passato in Regione l’emendamento. Vogliamo a questo proposito ricostruire anche il modo con cui la Giunta regionale lo ha imposto al Consiglio, secondo una prassi ormai invalsa di sottrarsi in Commissione a un dibattito trasparente e di calare in Consiglio testi di difficile comprensione. All’assessore, per regolamento, è consentito di presentare emendamenti direttamente in aula al testo licenziato in Commissione, mentre ai consiglieri corre l’obbligo di presentare i testi 24 ore prima, in modo che siano a tutti noti. Così, nel pieno del dibattito, sono stati calati “emendamenti tecnici” stesi in modo criptico, con citazioni di numeri e date di articoli di decreti e leggi da modificare, di cui era impossibile rilevare tutta la portata senza una indagine preventiva. L’attenzione era tutta dedicata all’”emendamento ammazzaparchi”, il cui ritiro aveva assorbito l’attenzione di tutta l’opposizione e è parso ininfluente l’”emendamento tecnico” che ha effetti così pesanti sulla normativa. E’ una disattenzione comunque colpevole, ma vorremmo qui porre i rilievo un venenum in cauda che tradisce le regole.

Come Gruppo regionale di Rifondazione comunista assicuriamo il nostro impegno affinché non venga ulteriormente peggiorata la LR 12/2005 e garantiamo che ci batteremo nelle Commissioni regionali e in Consiglio al fine di impedire che passi il progetto di legge sulle infrastrutture. Per dare forza a queste iniziative è indispensabile ancora una volta la mobilitazione di associazioni, movimenti e urbanisti. Una mobilitazione come quella che di recente ed alla quale ha dato un notevole contributo anche Eddyburg, ha permesso di impedire l’ennesimo assalto delle rendite immobiliari ai parchi lombardi. Una mobilitazione che sembra già essere in campo attraverso una petizione per il ritiro del progetto di legge n. 226/2007 che ha raccolto in breve tempo numerose adesioni e che anche noi sottoscriviamo e sosteniamo.

Sabato 14 giugno, dalle 10 alle 16, alla sala conferenze del Teatro Donizetti di Bergamo, si tiene l’assemblea costitutiva della Rete lombarda dei Comitati per la difesa del territorio e dell'ambiente. Introdurranno la manifestazione Ezio Locatelli e Mario Agostinelli, e interverrà Alberto Asor Rosa.

Come eddyburg aveva auspicato l’esempio della Rete toscana si sta estendendo. Dopo una regione il cui passato ha lasciato patrimoni considerevoli custoditi per secoli e solo recentemente abbandonati al degrado, scende in campo una regione in cui da decenni dominano ideologie distruttive.

La costituzione della Rete lombarda vede svolgere un ruolo centrale sia alle componenti storiche dell’ambientalismo di sinistra sia al recente movimento per la tutela dei parchi regionali, cui eddyburg ha fornito tutto il suo sostegno. Auguri alla nuova Rete, di cui pubblichiamo il manifesto e, in calce, le firme dei promotori.

VERSO LA COSTITUZIONE DELLA RETE LOMBARDA DEI COMITATI PER LA DIFESA DEL TERRITORIO E DELL’AMBIENTE

Il grado di vivibilità e di sostenibilità ambientale del territorio lombardo sta notevolmente peggiorando. Questo è quanto dice tutta una serie di indicatori che attestano uno scadimento dei parametri relativi alla qualità dell’aria, sistemi di trasporto, rifiuti, qualità dell’acqua, siti contaminati, inquinamento acustico, inquinamento elettromagnetico, cementificazione.

Siamo in presenza di una situazione di degrado e di crisi ambientale che non è solo conseguenza di un dato quantitativo determinata dall’alta densità degli insediamenti produttivi, residenziali, o di modelli di consumo e di trasporto individuali. Questa situazione è anche e soprattutto il frutto di una politica orientata all’abbandono di strumenti di programmazione e di governo del territorio, di una politica orientata a dare preminenza all’interesse privato rispetto all’interesse pubblico. Ed ancora, nel corso di questi anni abbiamo assistito ad una politica di sviluppo fondata su un’idea di crescita senza limiti, rivolta a rilanciare la Lombardia come “territorio della competizione e del consumo” tramite una piena valorizzazione economica - meglio sarebbe dire pieno sfruttamento - dei fattori del territorio: ambiente, risorse naturali, beni comuni, servizi. Questo è il rischio cui è esposto, in definitiva, il progetto di Expo 2015 presentato come un progetto che mette al centro i temi agroalimentari e energetici, Expo può diventare il paravento dietro cui nascondere una nuova ondata di speculazioni immobiliari, cementificazioni, realizzazioni di grandi opere, autostrade, alta velocità.

Di contro a questo modello di sviluppo, che è causa di distruzioni ambientali sempre più vistose e visibili, si sono costruite nel corso degli anni una molteplicità di iniziative di denuncia, di dibattito, di mobilitazione. Iniziative ambientali e pratiche di partecipazione per lo più agite sul piano locale, rivolte a difendere i propri territori dal saccheggio e dalle privatizzazioni. Noi riteniamo che queste pratiche e iniziative territoriali, al di là di essere una risposta fondamentale sul terreno della difesa della qualità della vita e della salute, rappresentino un potenziale di cambiamento, la possibilità di delineare un altro modo di fare economia, di intendere lo sviluppo non più incentrato sulla crescita fine a se stessa, ma basato sulla capacità di interagire positivamente con i cicli ambientali. Un’ idea di sviluppo qualitativo capace di ridurre e recuperare rifiuti, di fermare la cementificazione e le grandi opere speculative, di affermare il diritto alla mobilità nei termini di un rilancio delle diverse forme di trasporto pubblico e collettivo, di approntare una politica energetica fondata sul risparmio e le fonti rinnovabili, di attuare una politica di risanamento territoriale, di riuso urbano e di difesa dei beni comuni, di contrastare i cambiamenti climatici, tema quest’ultimo per il quale è prevista l’importante manifestazione nazionale del 7 giugno a Milano.

I comitati, le diverse realtà associative che operano sui temi della salvaguardia del territorio e dell’ambiente possono rappresentare - laddove la politica tradizionale allo stato attuale registra e segnala una sua crisi profonda di rapporto con l’insediamento sociale - un terreno di ricostruzione di una nuova stagione di partecipazione, di vertenze in direzione di una difesa durevole delle risorse ambientali e territoriali, di un ripensamento del nostro modello di sviluppo. Unitamente al riconoscimento e alla valorizzazione piena di tutti i contributi e le sollecitazioni che sono proprie di una politica di prossimità, ci sembra altrettanto importante costruire la dimensione di una riflessione e di un intervento più a carattere regionale attraverso la condivisione di obbiettivi comuni e molteplici.

A tal proposito, come persone, comitati, organismi impegnati a vario titolo sui temi della salvaguardia del territorio e dell’ambiente, nonché della difesa dei beni comuni, proponiamo un incontro regionale per dare vita ad una rete aperta a tutti gli interessati - come già avviene in Toscana e in altre regioni - quale strumento di supporto alle forme di partecipazione, di mobilitazione, di vertenze presenti a livello locale.

Promotori

Mario Agostinelli (Consigliere regionale e Portavoce contratto mondiale energia), Ezio Locatelli (già Consigliere regionale e Parlamentare, comitati ambientalisti) Pino Vanacore (portavoce Unaltralombardia), Luigi Mara (Centro per la Salute Giulio A. Maccacaro), Domenico Finiguerra (Sindaco Cassinetta di Lungagnano), Bruno Muratore (ex Dirigente Regione Lombardia-settore Agricoltura), Ivana Brunato, (Camera del Lavoro - Varese), Giorgio Ferraresi (Politecnico di Milano), Gianni Beltrame (Professore di urbanistica), Francesco Chiodelli (dipartimento architettura e pianificazione del Politecnico di Milano), Francesco Macario (urbanista nonché assessore al Comune di Bergamo), Fausto Amorino (Assessore all’ambiente al Comune di Bergamo),Marco Caldiroli (Medicina Democratica), Andrea Di Stefano (direttore rivista Valori), Franco Morabito (Presidente Circolo Peppino Impastato Paullo), Antonio Frascone (Unaltralombardia Magenta), Paolo Cagna Ninchi (Unaltralombardia Milano), Massimo Tafi (esperto di comunicazione, Varese), Livio Muratore (Cgil Varese) Bianca Dacomo Antoni (Lista Fo), Luca Trada (No expo), Sergio Finardi (Attac Italia), Andrea Savi (Associazione ex Fornace Rho), Antonio Corbelletti, (Rete Green, Pavia), Dijiana Pavlovic (cittadina italiana, Comunità Rom), Salvatore Amura (Vicepresidente Associazione Rete Nuovi Municipi), Roberto Fumagalli (Presidente Circolo ambientale “Ilaria Alpi” Merone-Como), Nicoletta Pirotta (Territorio precario-Como), Massimo Patrignani (Forum Ambientalista), Maurizio Mazzucchetti e Marina Zanella (Comitato contro l’interporto di Montello), Matteo Gaddi (Associazione culturale Punto Rosso), Davide Biolghini (Lilliput Milano), Rolando Mastrodonato (Vivi e Progetta Milano), Amalia Navoni (Comitato San Siro Milano), Franco Azzali (Lega Cultura di Piadena), Roberto Molinari (Forum Sinistra Canegrate), Sergio Cordibella (ex Consigliere regionale), Sergio Clerici (No Polo logistico, Arese), Tronconi Pierattilio (No centrale di Bertonico), Adriano Pirotta (ingegnere, esperto in trasporti e territorio), Francesca Berardi (Comitato per l’acqua pubblica Cremona), Giorgio Simone e Stefano Zenoni (architetti), Emanuela Garibaldi (architetto), Marco Brusa (ingegnere nucleare, consulente associazioni ambientaliste), Rocco Cordì (Unaltralombardia Varese), Alessandro Moroni (Comitato promotore Parco Agricolo/Ecologico Bergamo), Giovanna Galli (Comitato Ambientalista Treviglio), Pino Timpani (Associazione per i Parchi del Vimercatese), Daniele Icari (Terra Nostra), Rete Bassa Ceru, Mattia Avigo (Collettivo uscita di sicurezza), Comitato per la salvaguardia sociale e ambientale della Martinella, Paolo Longaretti (Comitato di Levate), Alberto Scanzi (Presidente Circolo Gramsci di Bergamo), Adele Ghilardi (Comitato pendolari Romano di Lombardia), Anna e Joris Bettoni (Tavernola Democratica), Adriana Beretta (Comitato ecologico Caravaggese), Milvo Ferrandi (Comitato per Redona), Claudio Sala (Comitato contro il megacentro commerciale di Quitntano), Vittorio Armanni (consigliere provinciale di Bergamo), Luca Benedini (Codiamsa di Mantova), Partecipa Ezio Corradi (coordinamento dei Comitati ambientalisti Lombardia), Antonietta Bottini (Comitato Broni-Mortara)

Dopo via Corelli, in Lombardia è in arrivo un nuovo Cpt. Vicino a Malpensa. Tre le località candidate (Lonate Pozzolo, Somma Lombardo e Ferno) anche se sull'esatta collocazione della nuova struttura dal Viminale il riserbo è ancora strettissimo.

La volontà di aumentare il numero dei Cpt — in sostanza, un raddoppio — era stata annunciata dallo stesso ministro dell'Interno Roberto Maroni durante la presentazione del pacchetto sicurezza.

Con la nuova normativa i Cpt (centri di permanenza temporanea) hanno cambiato nome. Oggi si parla di Cie, centri di identificazione ed espulsione.

«I centri di permanenza temporanea ora si chiamano Centri di identificazione ed espulsione»

Sarà nei pressi di Malpensa il nuovo Cpt lombardo. O meglio, il nuovo Cie, visto che nel recente pacchetto sicurezza il nome è cambiato: quelli che erano i centri di permanenza temporanea ora si chiamano Centri di identificazione ed espulsione. Sull'esatta collocazione della nuova struttura del Viminale, il riserbo è strettissimo: le polemiche hanno contraddistinto la storia dei Cpt fin dalla loro istituzione. Ma con ogni probabilità, un secondo Cie lombardo da circa duecento posti — l'altro è quello di via Corelli a Milano, da 112 posti — troverà spazio in uno dei tre comuni in cui parte degli abitanti sono stati «delocalizzati» per l'eccessiva vicinanza a Malpensa: e dunque, la «rosa» si riduce a Lonate Pozzolo, Somma Lombardo e Ferno.

La volontà di aumentare il numero degli ex Cpt — in sostanza, un raddoppio — era stata annunciata dallo stesso ministro dell'Interno Roberto Maroni durante la presentazione del rinnovato pacchetto sicurezza. Un aumento connesso con l'allungarsi dei possibili tempi di permanenza in queste strutture fino a sei mesi, qualora l'identificazione degli ospiti risultasse incerta. Per quanto riguarda i tempi di realizzazione, Maroni a suo tempo aveva parlato di un paio di mesi, inclusa la definitiva approvazione del pacchetto sicurezza da parte del parlamento. Ad ogni modo, una commissione mista tra i ministeri del-l'Interno e della Difesa è già lavoro per valutare le diverse possibili localizzazioni.

Fino a questo momento, come sede per i nuovi centri di espulsione si è parlato soprattutto di caserme dismesse o edifici analoghi. Nel caso dell'area di Malpensa, potrebbe non essere così. A giocare comunque a favore dell'area sono soprattutto due fattori. Il primo è la vicinanza all'aeroporto, e dunque la facilità di raggiungere il luogo finale dell'espulsione. E in linea di massima, la vicinanza agli aeroporti contraddistinguerà tutti i nuovi Cie.

In secondo luogo, a facilitare l'operazione è la proprietà unica. A Lonate, Somma e Ferno esiste un'ampia disponibilità di edifici di proprietà regionale derivanti dal piano di «delocalizzazione » degli ultimi anni, il trasferimento degli abitanti dalle frazioni e dalle località più esposte al rombo degli aerei.

Ma in Regione, per il momento, prevale la cautela. Spiega l'assessore al Territorio Davide Boni che «i tavoli per discutere questi problemi stanno per essere istituiti, e certamente la collocazione di un Cie a Malpensa potrebbe rispondere a molti requisiti. Ma al momento, l'argomento è prematuro».

postilla

Dopo le ultime elezioni si è molto dibattuto sulla capacità della Lega di mantenere stretti rapporti col “territorio”. Con l’ultima proposta di realizzazione di un Centro di Identificazione e Espulsione nell’area del Parco Ticino, già devastata dai mal pianificati insediamenti connessi all’hub aeroportuale di Malpensa, forse si chiarisce meglio quali siano effettivamente le idee di “territorio” magari inconsapevolmente sottoscritte da una parte dell’elettorato:

a) si vuole realizzare nell’isolamento della brughiera del Parco Ticino una fortezza inattaccabile e di fatto socialmente incontrollabile: una sorta di “duty free ” del razzismo;

b) si vogliono, forse con l’esca di qualche posto di lavoro fantasma, colpire ancora le popolazioni locali, già fortemente penalizzate dall’insediamento aeroportuale;

c) con la scusa della solita “emergenza” si aggireranno quasi certamente le normali regole urbanistiche, in un’area ambientalmente sensibile come quella del Parco fluviale, e in linea con le mire del centrodestra lombardo nell’attacco alle zone protette.

Basterebbero anche questi pochi motivi, tutto sommato secondari rispetto all’impianto culturale e politico che sottende l’idea dei Centri di Identificazione ed Espulsione, per respingere decisamente il progetto di questa Guantanamo della brughiera (f.b.).

L'enorme potenza di fuoco legislativo della Regione Lombardia colpisce ancora, dopo l'ammazzaparchi (momentaneamente ritirato ma già pronto a ricomparire nell'ambito della revisione della legge quadro sui parchi), ci si mantiene in allenamento approvando una "leggina" che in sintesi dice:

- Pratiche veloci per le infrastrutture (hop-hop-hop via tutta quella carta e quelle lungaggini...)

- Mano libera ai privati che hanno partecipato alla realizzazione dell'opera: 20 anni di concessione non bastano? Bene, che gli scatoloni (logistiche, centri commerciali, cinema a 48 sale e via scatolonando) sorgano fino al sospirato pareggio.

Sado-masochismo territoriale e buoni sentimenti federalisti si mescolano nei commenti del post-voto. L'assessore regionale Raffaele Cattaneo gioca con le parole e con la nostra intelligenza sostenendo che si tratta di "federalismo territoriale". Come se non fosse possibile un modello federalista che abbia a cuore la tutela del territorio invece del suo consumo indiscriminato.

Grazie a HelpConsumatori da cui è tratta la cronaca che segue.

IL Consiglio Regionale lombardo ha approvato in data 18-05-08 la nuova Legge Obiettivo numero 226 in materia di infrastrutture. Il voto - rinviato nella seduta precedente per mancanza del numero legale - è stato espresso in maniera favorevole dalla maggioranza, con l'astensione del Pd e il parere contrario del resto dell'opposizione (Sd e Prc). La legge intenderebbe velocizzare la realizzazione di infrastrutture strategiche varie o ferroviarie di interesse nazionale per le quali è già stato riconosciuto il "concorrente' interesse nazionale e regionale". Scopo dichiarato del provvedimento è la riduzione delle procedure introducendo la regionalizzazione dell'istruttoria e assegnando alla Regione tutti quelli strumenti utili per superare l'eventuale inerzia degli organi statali.



In sintesi, qualora non si raggiungessero le intese per regolare ruoli, competenze e tempi, la Regione potrà intervenire con propri provvedimenti per evitare che eventuali lentezze da parte degli organi statali competenti possano frenare la realizzazione delle infrastrutture. Con l'approvazione di questa norma è possibile inserire all'interno della concessione per la costruzione di nuove strade e autostrade anche la possibilità di realizzare insediamenti e strutture di vario genere nelle aree vicine al tracciato. Il provvedimento prevede anche l'avocazione alla Regione di una serie di prerogative decisionali e autorizzative finora in capo al Governo nazionale. Delle nuove norme potranno beneficiare opere come la Pedemontana, la Brebemi e la Tem, oltre alle tratte ferroviarie Arcisate-Stabio, la connessione Malpensa-Ferrovie Sempione, la Chiasso-Monza e la Gallarate-Rho.



"Oltre all'aspetto contraddittorio nei confronti delle competenze governative - afferma Pietro Mezzi, assessore al Territorio e Parchi della Provincia di Milano - va lanciato un vero e proprio allarme per lo stravolgimento del territorio che questa norma comporta. Da oggi, infatti, sarà possibile intasare per una larga fascia i nuovi tracciati con insediamenti indiscriminati, al solo scopo di permettere al concessionario di ripagarsi l'opera in assenza di un ritorno economico dai pedaggi. Bisogna porsi l'obiettivo di ricostruire il paesaggio attorno al tracciato di una nuova autostrada, e cercare di contestualizzarla, non costruirle intorno capannoni e centri commerciali stravolgendo il territorio. In questo modo - continua l'assessore Mezzi - si produce un impoverimento complessivo dell'ambiente e ci allontaniamo dalla positive esperienze realizzate in molti Paesi esteri, dove si cerca di ridare fisionomia e qualità al paesaggio attorno ai grandi tracciati". Diversa la posizione della maggioranza regionale, secondo cui "la via del federalismo deve passare anche per autostrade e ferrovie", come ha dichiarato l'assessore alle Infrastrutture della Lombardia, Raffaele Cattaneo, che usa proprio il termine di ''federalismo infrastrutturale'' per descrivere la legge appena approvata. "La speranza, adesso, è che la legge non venga impugnata dal governo - ha continuato Cattaneo - non mi sorprenderebbe se dei funzionari ministeriali proponessero il ricorso perché la nostra legge è innovativa, ma su questo misureremo la politica''.



Sulla legge, ha ricordato il presidente della commissione Territorio del Consiglio regionale Marcello Raimondi, c'è già stato un confronto con i ministri del passato Consiglio. ''Per questo siamo sereni sul fatto che al governo non interessi fare ricorso, tanto più che l'attuale maggioranza parlamentare ha un orientamento federalista. Il ricorso sarebbe un un autentico controsenso''. Comunque, il Consiglio ha approvato anche un ordine del giorno per chiedere al governo di approvare una legge speculare a quella della Lombardia, che dia alle Regioni la possibilità, nel caso di infrastrutture concorrenti, di fissare discipline istruttorie più snelle e veloci.
''Quello che facciamo è prenderci tutti gli spazi di federalismo che ci consente la Costituzione'' ha aggiunto Cattaneo spiegando che l'effetto della Lgge obiettivo regionale "sarà quello di tagliare i tempi e abbassare i costi". Diversa la visione dell'opposizione di sinistra, secondo cui la legge lombarda stravolgerà in maniera irresponsabile il territorio.



"E' una legge miope e irresponsabile, poiché assume come bussola e ratio suprema la fretta di fare le grandi opere autostradali, come Pedemontana, Brebemi e Tem, senza porsi troppi problemi sul come operare e sul conseguente impatto ambientale e territoriale", afferma in una dichiarazione Luciano Muhlbauer, consigliere regionale lombardo del Prc. "La nuova legge, infatti - sottolinea Muhlbauer - non prevede soltanto un potere sostitutivo da parte del Governo regionale rispetto a quello nazionale in caso di ritardi procedurali, ma inserisce con l'articolo 10 una sorta di maxi-deroga agli strumenti urbanistici e paesistici, laddove stabilisce che le concessioni per le infrastrutture, approvate dal Presidente della Regione, possono comprendere anche l'autorizzazione per l'edificazione delle aree limitrofe. E come se non bastasse, la definizione di cosa e dove esattamente si può costruire, è talmente ambigua e generica, che praticamente tutto diventa possibile. E l'unico vero criterio per tali interventi diventa così che i margini operativi di gestione possano contribuire all'abbattimento del costo dell'esposizione finanziaria dell'infrastruttura". La preoccupazione della sinistra che ha votato contro - mentre il Pd si è semplicemente astenuto - è che questa norma sia anticostituzionale. "Pur guardando con favore alla partecipazione di privati per la costruzione delle opere infrastrutturali - ha rimarcato il vicepresidente del Consiglio Marco Cipriano (Sd) - credo che questi soggetti dovrebbero investire non per un tornaconto diretto ma attraverso i benefici indiretti sulla attività economica". Una delle questioni più discusse, infatti, riguarda l'articolo che prevede la possibilità che le concessioni riguardino non solo i tracciati ma anche le zone a loro vicine per "ottenere maggiori introiti".



Contro questo punto diverse associazioni - fra cui Italia Nostra e Rete Lilliput - hanno iniziato una raccolta firme e proposto un emendamento per cancellare la norma, presentato in primis dal consigliere del Prc Muhlbauer. "Poiché sono noti e significativi i problemi finanziari che comportano le faraoniche opere autostradali - ha spiegato Muhlbauer - Regione Lombardia non trova di meglio che offrire come una preda il territorio più o meno adiacente al tracciato delle autostrade". Ha parlato invece di un "miglioramento" il consigliere dell'Udc Gianmarco Quadrini, mentre Stefano Tosi del Pd ha spiegato la scelta astensionista come una "perplessità su alcuni strumenti e alcune incongruenze con la legge urbanistica, anche se è una misura importante perchè va nella direzione di ridurre i tempi delle procedure di progettazione e realizzazione delle infrastrutture decisive per il territorio, oggi oggettivamente troppo lunghe e farraginose e perché può avere un impatto positivo sulle politiche di sviluppo".

Il futuro della padania sta anche in Danimarca.

Un recente articolo [1], racconta come nel piccolo paese nordeuropeo stiano iniziando a emergere i primi risultati pratici del già notato (dalla stampa economica) passaggio in forze dei maghetti finanziario-amministrativi al settore delle energie rinnovabili. Nel caso specifico, una joint-venture istituzionale e di impresa sta sviluppando con tecnologie esistenti e sperimentate un sistema regionale di trasporti dove si sommano virtuosamente auto elettrica e turbine a vento. Essenzialmente a riprodurre la medesima rete territoriale e organizzativa che ben conosciamo, dei veicoli privati e delle stazioni di rifornimento. Con buona pace, almeno potenzialmente, dei declinatori locali di crisi petrolifere globali, e di futuri autarchici su asini, o neotecnologicamente rigidi lungo linee di metropolitane leggere.

Insomma, a quanto pare la macchina in garage e fuori dovremo tenercela ancora per un bel po’, e fiduciosi gli strateghi padani spingono per farla arrivare ovunque, ad esempio a quell’infinita promessa di hub che sta nelle brughiere di Malpensa. È passata un po’ in sordina, inaugurata da un ministro dimissionario e in piena crisi di mercato e occupazionale dell’aeroporto, l’inaugurazione della nuova bretella stradale Magenta-Lonate Pozzolo, più nota (ma mica tanto di più) dal nome dei due svincoli di Boffalora-Malpensa.

Le polemiche a proposito hanno riguardano ovviamente sia l’utilità dell’opera, a servizio di quello che rischia di diventare uno dei tanti scali padani in balia di un mercato internazionale a montagne russe, che l’attraversamento di un’area parallela al corso del Ticino e relativo parco regionale. C’è però dell’altro, di cui certo si parla, ma molto meno di quanto si dovrebbe.

Un aspetto lo si nota annusando meglio da vicino il tracciato. Comincia con una grossa rotatoria sulla Padana Superiore lungo la circonvallazione di Magenta (poco prima della discesa nella valle del Ticino) e dopo lo svincolo con la Milano-Torino al casello di Boffalora prosegue a quattro corsie in trincea, con lunghi tratti coperti a farsi notare un po’ meno, per 19 chilometri, fino a congiungersi poco prima di Malpensa al prolungamento dell’altro raccordo, dall’Autostrada dei Laghi. La cosa più interessante, però, si nota da fuori.

Qualche tempo fa, un responsabile della pianificazione di coordinamento dell’area mi raccontava dell’insistenza delle amministrazioni per ottenere una o più uscite all’interno del proprio territorio. E usandole appunto per uscire dalla trincea, queste uscite, una dopo l’altra, e facendosi un giretto nei paraggi, si capisce anche perché. Bei terreni piatti, aperti, molto lontano dall’abitato, serviti dalla strada che, vecchia o nuova, collega il vecchio tracciato della Padana Superiore-Malpensa a questo nuovo. E il pensiero corre a quei terreni, identici, che negli anni ’60 formavano le ampie fasce laterali della superstrada dall’Autolaghi a Malpensa, e su cui ora si ammassa di tutto, a formare un “paesaggio” degno del migliore James Ballard.

È quello, il tipo di sviluppo a cui si pensa per questi altri 19 chilometri, magari con qualche siepe in più, e tonnellate di dichiarazioni sull’ineffabile “misura d’uomo” di tutto quanto? Il decantato capitalismo molecolare sceso dalle valli a dilagare in pianura, spinto dall’impulso di fantasiosi cantori, e nuovi equilibri politici più o meno locali, si riprodurrà soprattutto in molecole di cemento e asfalto? E non è finita, ovviamente.

Non è finita, perché come sanno benissimo gli oppositori dei vari tratti di questo grande disegno, qui si tratta appunto di quella che Patrick Geddes avrebbe a modo suo definito man reef, madrepora umana, ma che nell’attuale crisi ambientale rischia di esprimersi come micidiale crosta, a soffocare il poco che resta dell’ambiente naturale di un’area immensa.

Sulla linea intermedia degli sbocchi di valle a nord del capoluogo, quella che ironizzando Guido Martinotti chiama “la città infinita che comincia a Varese e finisce a Bergamo” [2] sta nascendo l’autostrada Pedemontana, fortemente voluta in modo bi-partisan dai principali decisori, e recentemente riverniciata da un positivo progetto di compatibilizzazione del tracciato.

Lungo la fascia occidentale della regione metropolitana, parallela alla valle del Ticino, si sviluppa per ora “solo” il raccordo appena descritto, dall’Autolaghi, a Malpensa, alla Milano-Torino. Però bisogna a questo punto tornare a quella rotatoria sulla Padana Superiore, da cui eravamo partiti per la prima ricognizione.

Da quella rotatoria, guardando verso est, si nota un cavalcavia con un cartello che annuncia la strada Est Ticino. Imboccando quel percorso, dopo un centro commerciale termina l’abitato di Magenta, e la strada prosegue molto stretta attraversando prima un quartiere di Robecco, poi dopo uno stretto ponte sul Naviglio e la zona industriale imbocca la circonvallazione di Abbiategrasso, dove si raccorda con altre direttrici.

Un giro fra strade locali e aggirando centro storici semipedonalizzati, per adesso. Solo per adesso, perché come si vede bene anche nella tavola infrastrutture del Piano territoriale provinciale, da quella rotatoria sulla Padana dovrebbe partire, nella direzione opposta a quella per Malpensa, anche il cosiddetto “Collegamento veloce Abbiategrasso-Tangenziale Ovest”. Che da Magenta attraversa tutte le aree “libere” a nord del Naviglio fra i territori comunali di Robecco e Cassinetta di Lugagnano, e più o meno all’altezza del nucleo di Albairate si innesta sul tracciato della provinciale esistente che taglia trasversale la profondità del Parco Sud fino a ricongiungersi alla Tangenziale Ovest, svincolo di Cusago.

Non è un caso che le opposizioni più decise a questo nuovo raccordo che appare slegato da esigenze locali e “ orientato a servire traffici di lunga percorrenza[3]” vengano da parte del comune di Cassinetta di Lugagnano, significativamente impegnato in un nuovo documento di Piano di Governo del Territorio orientato alla “crescita zero”, ovvero al contenimento massimo del consumo di suolo. Con il nucleo centrale urbanizzato compatto e circondato dalla corona delle aziende agricole, che come si intuisce anche solo osservando il tracciato della nuova arteria vedrebbero gravemente compromessa l’unitarietà insediativa e funzionale. E questa opposizione di principio, alla logica stessa che sottende quanto a prima vista apparirebbe come un forse inadeguato ma abbastanza innocuo adeguamento viabilistico (paesaggio e agricoltura a parte, naturalmente), si capisce meglio scorrendo i paragrafi iniziali di un altro documento di Osservazioni al progetto, dove a titolo di premessa si afferma, più o meno: si discute di seguito il collegamento Magenta-Abbiategrasso-Milano, ma lo sappiamo anche noi, che state pensando alla Tangenziale Sud.

In particolare: “ La reale finalità del progetto è quella di creare un nuovo tassello per la realizzazione di quel secondo anello tangenziale di cui si parla oramai da più di quindici anni e che recentemente è tornato alla ribalta anche con i progetti Pedemontana e Tangenziale Est esterna (e che il Ministro Lunardi chiama Grande raccordo Anulare, sul modello di quello romano). Non possiamo non evidenziare, con un certo sgomento, le ripercussioni, da un punto di vista urbanistico, sul territorio della provincia milanese[4].

Ecco, di cosa si sta parlando.

Ecco, qual è il senso complessivo di quelli che vengono presentati e discussi sulla stampa come “opere”, e che invece sono soltanto tasselli di un grande piano di dimensioni più che metropolitane, e che va anche ben oltre il pur enorme anello della viabilità di tipo autostradale e delle opere di raccordo connesse.

Val la pena tornare, ancora, al vecchio raccordo Autolaghi-Malpensa, a cos’era negli anni ’60 e cosa è diventato oggi, coll’impasto di capannoni, villette, sotto e sovrappassi buttato lì un po’ a caso, quasi si trattasse di un’autostrada urbana entrata a tagliare il vivo dei quartieri preesistenti, e non di corsie posate più o meno nel vuoto delle campagne fra l’abitato di Busto Arsizio e quello di Gallarate. O magari, col senno di prima e di poi, farsi un giretto dall’altra parte dell’area metropolitana, oltre i ponti sull’Adda a vedere cosa sta provocando il tracciato virtuale della Bre.Be.Mi. prima ancora che venga mossa una zolla di terra dei cantieri. Centri commerciali, nuove zone artigianali, bretelle, raccordi, rotatorie, circonvallazioni, e a colmare il poco che resta qualche bel nuovo quartiere di villette “a dieci minuti da …”.

Naturalmente questa T.O.M. Traiettoria Orbitale Metropolitana non la si vede su nessuna mappa, così come non si vedono ancora le formazioni compatte dei nastri di capannoni che arriveranno prima o poi a popolarla, cancellando definitivamente qualunque idea di territorio agricolo o greenbelt, per quanto discontinua. Ma basta ricalcare con un dito la Pedemontana e poi proseguire verso sud a piacere: verso Malpensa sul lato ovest parallelo al Ticino, lungo la TEM a est, su quello dell’Adda. Da un lato si arriva, come detto, a quella rotatoria della Padana Superiore sulla circonvallazione di Magenta. Dall’altro, ancora virtualmente, ci si raccorda dalle parti di Melegnano con tracciato della A1, nelle campagne che puntano verso la zona di Bascapè, ancor oggi posto famoso solo perché ci è caduto l’aereo di Mattei tanti anni fa. Ma l’idea c’è, e ben chiara, come spiega ad esempio un articolo trovato abbastanza a caso sul web e che decanta le potenzialità di un centro logistico collocato lungo “ il tracciato della futura tangenziale esterna sud di Milano, che partendo da Agrate (A4) raggiungerà Melegnano, Binasco e l’aeroporto di Milano Malpensa[5]. Quel centro si trova adiacente all’abitato di Lacchiarella, lungo la Melegnano-Binasco, a qualche centinaio di metri dal berlusconiano Girasole, guarda caso posizionato lungo la medesima direttrice. Che conclude logicamente la T.O.M nel tratto residuo, dai campi di Bascapè a quelli di Cassinetta di Lugagnano.

E iniziano ad assumere senso più compiuto e meno episodico, anche dal punto di vista di una vera e propria strategia territoriale, ad esempio le cosiddette varie proposte “ammazzaparchi” che tante polemiche continuano a suscitare. Oppure il nuovo progetto di legge lombardo che nel caso di opere a carattere autostradale mira alla “ valorizzazione massima delle aree infrastrutturali, comprese le aree connesse[6], ovvero a promuovere insediamenti a nastro di carattere prevedibilmente commerciale e di servizio, e altrettanto prevedibilmente assai simili a quanto visto crescere sinora nei casi analoghi.

Si capisce anche meglio qual’era e qual è, il vero oggetto del contendere dei sindaci delle fasce esterne vogliosi di “nuove espansioni urbane”. Che solo in minima parte pensano a servizi per i propri cittadini, o ai – piuttosto pateticamente - citati nuovi alloggi per le giovani coppie costrette altrimenti a cambiare comune. I nuovi e certamente non piccoli quartieri di espansione residenziale andranno invece quasi certamente ad offrirsi ai milanesi priced-out dall’enorme processo di trasformazione e “valorizzazione” urbana del capoluogo. I nuovi insediamenti produttivi, commerciali, di servizio avranno invece la classica crescita a nastro indifferenziata vista sinora, a rafforzare l’effetto barriera dell’infrastruttura stradale e a spingere forse verso la realizzazione di nuove radiali a raccordo fra i due anelli.

Per la grande fascia di verde agricolo pare scontata con queste premesse la scomparsa in quanto tale, con buona pace dei mercatini di vendita diretta dei “prodotti del territorio” lanciati di recente a Milano. Auspicando un buon uso delle tecniche di compatibilizzazione e attenuazione degli impatti locali, si può anche sperare in un relativo mantenimento di alcuni corridoi, o magari anche di un sistema con qualche tipo di continuità, come quello tentato ora nel quadro del Piano Territoriale Provinciale nella fascia nord dell’area metropolitana.

Ma forse è il caso di fermarsi per il momento qui, e chiedersi: è questo che vogliamo?

Nota: di seguito scaricabile il pdf di questo articolo con qualche immagine che (forse) aiuta a capire meglio (f.b.)

[1]Andrew Williams, “Traffic goes electric green”, Green Futures, 15 aprile 2008

[2] Guido Martinotti, “La Città Diffusa: costi e vantaggi”, intervento al Festival Città Territorio, Ferrara 18 aprile 2008

[3] Alfredo Drufuca, Osservazioni al progetto preliminare del collegamento tra la SS11 a Magenta e la Tangenziale Ovest: aspetti trasportistici, giugno 2003

[4] Associazione Parco Sud Milano – EcoAlba Albairate – NaturArte Magenta – Legambiente circolo “I Fontanili” Cisliano – Comitato per il Programma Mab nel Parco del Ticino – Il Germoglio Cisliano, Osservazioni in merito al progetto denominato “Collegamento tra la SS11 “Padana Superiore a Magenta e la Tangenziale ovest di Milano”, 2004

[5] Marco Cattaneo, Milano Logistic Center: un nuovo Polo per il Sud Milano, sito http://www.logisticamente.it 9 luglio 2003

[6] Regione Lombardia, progetto di Legge n. 0226, Infrastrutture di Interesse Concorrente Statale e Regionale, presentato il 3 aprile 2008

MILANO - L'ultimo annuncio arriva da Brescia: l'aeroporto di Montichiari ha ottenuto l'ok dalla regione Lombardia ad allungare la sua pista fino a 3.200 metri. Ma anche Bergamo non vuole essere da meno: a Orio al Serio è partita la corsa per costruire il nuovo terminal e la società di gestione dello scalo punta al traguardo degli 8 milioni di passeggeri l'anno. Poi c'è Malpensa, che prova a elaborare il lutto dell'abbandono di Alitalia sottoscrivendo un accordo con Lufthansa (lontano comunque dal colmare il vuoto lasciato dalla compagnia della Magliana). Insomma, ognuno dei principali aeroporti lombardi continua la sua corsa solitaria, una crescita spontanea che non guarda in faccia a nessuno, nemmeno al vicino di casa. Tutto bello e tutto possibile?

Partenza obbligata da Brescia dove il «Gabriele D'Annunzio » di Montichiari si è visto approvare il piano d'area dal Pirellone; il piano contiene un lunga serie di vincoli e permessi, il principale dei quali è l'allungamento della pista. «Sarà un importante fattore di crescita per lo scalo - dice il presidente Francesco Bettoni - perché grazie a questa novità potranno partire e atterrare anche aerei di grandi dimensioni. Questo porta la capacità teorica di Montichiari a 3 milioni di passeggeri l'anno e 500 mila tonnellate di merci. La nostra strategia è rivolta principalmente al settore merci, ma reclamiamo da tempo maggiore autonomia rispetto ai nostri vicini di Verona, la cui società è azionista di maggioranza a Montichiari».

Bergamo si conferma aeroporto dei record: anche a marzo ha ampliamente migliorato la sua performance rispetto ai dodici mesi precedenti, incrementando i passeggeri del 17%: Orio è ormai stabilmente ben oltre i 5 milioni di transiti l'anno.

Ma nei cieli di Lombardia, scossi dalla crisi di Alitalia, c'è posto per tutti? E come viene vista da Malpensa e dalla Regione l'attivismo degli altri scali lombardi? La miccia della polemica è stata accesa qualche giorno fa da Mario Agostinelli, consigliere regionale della Sinistra Arcobaleno: «Il sì a Montichiari dimostra che Lega e Forza Italia hanno cavalcato in campagna elettorale la crisi di Malpensa solo per guadagnare voti. E' chiaro che la crescita di Brescia entra in concorrenza con l'hub varesino».

«Le statistiche confermano che il traffico aereo in tutto il pianeta cresce del 5-6% l'anno - ribatte Raffaele Cattaneo, assessore regionale alle infrastrutture nonché consigliere di amministrazione di Sea, la società che gestisce Malpensa - dunque c'è posto per tutti, anche perché ogni singolo scalo continua ad avere la sua specificità. Detto questo è auspicabile un maggior dialogo tra le varie società di gestione».

Il dato riguardante la crescita generale del traffico viene confermato da Renato Piccardi docente ed esperto di trasporto aereo del Politecnico di Milano: «Entro il 2020 i passeggeri che prendono l'aereo in Lombardia potrebbero passare dai 40 milioni attuali a 100 milioni. Le piste dunque potrebbero non bastare, ma siamo in una zona altamente congestionata dal punto di vista urbanistico. Occorre ponderare bene ogni nuovo passo: per una questione di impatto ambientale ma anche per evitare doppioni o il fatto che aeroporti vicini finiscano per rubarsi la clientela e dunque per danneggiarsi a vicenda».

In un recente articolo su Liberazione l’urbanista Sergio Brenna, a proposito dell’Expo 2015, citava le parole pronunciate nel ’43 da De Finetti in uno dei suoi saggi riguardanti la pianificazione della città e del territorio. Una citazione che ci sentiamo di riprendere per la sua impressionante attualità e viste le proposte contenute nei programmi dei due maggiori schieramenti politici in materia di governo del territorio e tutela dell’ambiente. De Finetti avvertiva “di non lasciar prendere la mano ai praticoni o ai cosiddetti uomini d’azione che si battono per il sistema del fare pur di fare perché il tempo stringe e la necessità è grande”. E sì, perché se da un lato conosciamo molto bene le scelte di politica urbanistica promosse dalle destre, dall’altro scopriamo nel programma riformista del Pd affermazioni in materia di governo del territorio che rasentano il paradosso. In linea con la politica del “ma anche” e del “più”, troviamo quella del “basta” poiché la crescita economica richiede che si “debba fare”. In tema di ambiente si dice allora: “…basta con l’ambientalismo che cavalca ogni movimento di protesta e impedisce la crescita dell’Italia…” e si ribadisce che per modernizzare il Paese c’è bisogno “del nostro ambientalismo del fare”.

Date queste prospettive ed utilizzando ancora le riflessioni di De Finetti ritengo che “…conviene precederli e cercar di fissare qualche concetto fondamentale per lo sviluppo della città” e, aggiungiamo noi, anche del territorio, “…che valga anche a difenderli dagli improvvisatori”.

Il presupposto fondante della linea politica comune a entrambi gli schieramenti è la dottrina neoliberista che affida al mercato anche la definizione degli assetti territoriali ed allo Stato l’assunzione di un ruolo minimale. I neoliberisti non sono contro l’intervento dello Stato nel mercato ma ritengono che esso debba operare per integrarlo ed aiutarlo (Hayek). In quest’ottica il decisore pubblico dovrebbe intervenire solo per sostenere l’interesse privato, considerato il vero motore dello sviluppo economico. Secondo gli apologeti del neoliberismo la pianificazione dovrebbe pertanto rinunciare definitivamente alla pretesa di svolgere, a qualunque livello ed in qualunque modo, un ruolo di “sistema” nei confronti delle attività private. Da qui il fatto che il governo del territorio, a loro avviso, dovrebbe essere affidato ad una strumentazione minimale, altamente flessibile che liberi il mercato dai “lacci e laccioli” della politica, considerati un freno all’obiettivo primario della crescita economica. Esplicativo a questo proposito è il progetto di legge che era stato presentato sotto il governo Berlusconi dall’ex Assessore lombardo Lupi che, approvato alla Camera grazieanche ai voti ed alle convergenze di Margherita e DS, fortunatamente non è andato in porto per la scadenza della legislatura. Si trattava di un progetto neoliberista che in nome della “regola aurea” per cui il bene pubblico deve essere conseguito con il minimo sacrificio della proprietà privata, privatizzava di fatto l’urbanistica ponendo al centro dell’agire pubblico l’interesse ed il ruolo dei privati, ossia quello delle rendite immobiliari. Si trattava di un disegno di legge ispirato alla legge lombarda per “il governo del territorio” (LR 12/2005), una legge in cui alle rendite fondiarie si riconoscono il diritto “naturale ad edificare” ed un ruolo “sociale” oltre che economico. In questa legge regionale, che interpreta in chiave leghista il principio di “sussidiarietà”, si pongono forti limiti ai poteri di pianificazione di “area vasta” delle Province e li si devolvono ai Comuni, i quali se ne servono per far quadrare i propri bilanci mettendo a disposizione delle rendite immobiliari vaste aree del proprio territorio non ancora urbanizzato. É una legge che fa propria la politica del “pianificar facendo” già in essere da diversi anni e praticata dai Comuni ricorrendo astrumenti urbanistici che hanno consentito di aggirare i PRG vigenti. Un recentissimo studio (Legambiente – DIAP) ha evidenziato che in Lombardia, nel solo periodo 1999-2004, ogni anno sono stati sottratti all’agricoltura ed alla campagna ben 4.950 ettari. Ogni giorno sono stati coperti di cemento e asfalto ben 135.600 mq. E poiché questo non basta, da alcuni mesi l’Assessore lümbard all’urbanistica Boni sta profondendo tutto il suo impegno per peggiorare la legge regionale vigente, proponendo emendamenti che prevedono di dare ai Comuni la possibilità di urbanizzare anche nei Parchi. Fin’ora l’Assessore è stato stoppato grazie ad una massiccia mobilitazione che ha visto impegnati Associazioni ambientaliste, urbanisti, cittadini e l’opposizione di centro-sinistra in regione Lombardia. Ciò nonostante il caparbio Assessore ha promesso che ci riproverà, con buona pace delle direttive dell’U.E. che invitano gli Stati membri a dar corso a politiche per lo “sviluppo urbano sostenibile” che pongano al centro il contenimento del consumo di suolo, la tutela della biodiversità e degli spazi verdi. E, se questi sono i prodromi, ne vedremo delle belle quando si presenteranno i progetti relativi all’Expo 2015! Sotto il governo Prodi si è tentato di dare al Paese una legge quadro che ponesse un freno al dilagare di leggi regionali neoliberiste ed a politiche di urbanizzazioni prive di limiti. Purtroppo l’interruzione della legislatura non ha permesso al Parlamento di approvare un testo unico in cui anteporre l’interesse pubblico e generale a quello privato affidando la responsabilità del governo del territorio e delle città esclusivamente ai poteri pubblici, i quali la devono esercitare impiegando il metodo e gli strumenti della pianificazione. Ora, visti i programmi dei due maggiori schieramenti il rischio di vedere riesumato il progetto di legge Lupi è assai concreto.

I soggetti e le associazioni che hanno concorso a dar vita a “La Sinistra l’Arcobaleno” e che nel corso di questi anni hanno sviluppato iniziative di lotta per la difesa dell’ambiente e del territorio hanno contribuito a diffondere una coscienza collettiva di essi quali “beni comuni”. Una consapevolezza necessaria e da cui bisogna partire per intraprendere il faticoso ma indispensabile percorso verso uno “sviluppo socialmente ed ambientalmente sostenibile”.

“La Sinistra l’Arcobaleno”, riconoscendo la valenza di queste pratiche e l’importanza del tema dello sviluppo sostenibile ne ha fatto un punto imprescindibile del proprio programma. Un obiettivo programmatico decisivo che presuppone una concezione del territorio e dell’ambiente diametralmente opposta a quella dominante. Si tratta di concepire il territorio non più come un mero supporto fisico da sfruttare in funzione dell’insediamento delle attività umane. Si tratta di concepire l’ambiente non come ricettacolo/pattumiera atta a raccogliere qualsiasi “scarto” di un modello di sviluppo che si fonda su una crescente produzione di merci ad alto contenuto energetico, di materie prime non facilmente riproducibili e difficilmente degradabili.

Territorio e ambiente sono beni necessari, indispensabili e soprattutto finiti. Ed è propria la coscienza del loro limite che deve spingere verso un radicale cambiamento di rotta nella loro gestione ed organizzazione. Ma per poterli gestire e governare in modo virtuoso e consapevole è necessario ridare centralità alla pianificazione pubblica. Solo entro un processo di pianificazione del territorio e di ciò che interagisce con esso è possibile recuperare un equilibrio ecologico da tempo compromesso.

Un processo che deve essere necessariamente affidato al potere pubblico poiché solo in questo ambito è possibile ricercare le risposte ai problemi che minacciano il clima e la vita sul pianeta. Pubblico e partecipato perché si tratta di gestire in modo efficace, trasparente e condiviso risorse che appartengono alla collettività. Soltanto entro questo processo che è anche un processo di apprendimento e crescita culturale, è possibile dare concretezza ad una diversa idea di società.

Mario Agostinelli è Capogruppo PRC–SE nel Consiglio regionale della Lombardia; Andrea Rossi è Consigliere PRC SE alla Provincia di Lodi

Una Camargue italiana dove i cavalli corrono liberi sulle dune lungo il fiume, fino al mare. Dove migliaia di uccelli migratori fanno tappa nelle sterminate paludi ricche di cibo, mentre altre centinaia di specie si fermano a nidificare. Dove sontuosi esemplari di cervo abitano i boschi, insieme a daini, lepri, scoiattoli e volpi. Dove specie rare di anfibi, come l’ululone dal ventre giallo, un piccolo rospo divenuto per i biologi un po’ il simbolo delle specie da proteggere, hanno trovato l’habitat assolutamente ideale. Un ambiente magico da cui partono per riprodursi, nelle loro cicliche migrazioni verso il mare dei Sargassi, le anguille. È qui nel territorio dimenticato del Parco del Delta del Po, tra Chioggia e Comacchio, a cavallo tra il Veneto e l’Emilia, che il Wwf e il mensile Geo, terranno in occasione delle giornate italiane della biodiversità, il 9, 10 e 11 maggio prossimi, il censimento e la mappatura degli animali che abitano l’intera area. Cinquanta ricercatori, coordinati dal naturalista Fernando Spina, dell’Istituto Nazionale della Fauna Selvatica, esploreranno il territorio, divisi in piccoli gruppi, per lanciare una sfida in difesa di uno straordinario ambiente minacciato.

«Sabato 10 maggio ci porterà la sua benedizione, sul posto, il premio Nobel Dario Fo, particolarmente sensibile ai temi ambientali - racconta soddisfatta Fiona Diwan, direttore di Geo, motore dell’iniziativa. - Perché il Delta non è più terra di malaria e povertà (ci morì Anita Garibaldi), ma scrigno delle meraviglie naturalistiche italiane, da conoscere e proteggere». La minaccia più insidiosa si chiama Euroworld, un’immensa colata di cemento per realizzare un parco divertimenti che intende riprodurre, con tanto di funicolare, su una superficie complessiva di 124 chilometri, in provincia di Rovigo, una gigantesca ricostruzione, ad uso turistico, dell’intero continente europeo. Un’operazione assolutamente da cancellare secondo tutti i naturalisti che amano il parco. «Difendere la biodiversità non significa semplicemente difendere il numero delle specie presenti in un determinato habitat - spiega Fernando Spina. - Ma capire le interconnessioni, le relazioni esistenti tra specie e specie, di cui lo stesso uomo fa parte. La biodiversità non è qualcosa di estetico, da guardare, non è un lusso inutile. Ma è la chiave della vita sul pianeta. Ogni specie è come una tessera di un immenso mosaico. Ha una sua identità, certo, ma è solo la relazione con le altre tessere che ci permettere di capire il disegno complessivo».

L’Italia è il paese europeo con la maggiore ricchezza di sistemi ecologici. Corridoio biologico tra l’Europa e l’Africa. «Un territorio unico che ospita complessivamente 57.468 specie animali e 9 mila botaniche - ricorda Enzo Venini, presidente del Wwf Italia. - La biodiversità è importante perché fa funzionare meglio gli ecosistemi, che con un numero maggiore di specie sono più stabili. Gli ambienti con biodiversità elevata dimostrano infatti maggiore resistenza al cambiamento. E anche una maggiore resilienza, la capacità cioè di tornare allo stato originario una volta perturbati. Insomma investire sulla biodiversità è un po’ come fare un’assicurazione sulla vita del pianeta».

Nota: di seguito un interessante commento sul progetto, che ho ripreso dal forum del sito per appassionati www.parksmania.it ; allegati anche due pdf scaricabili: la presentazione “istituzionale” del progetto con alcuni dati quantitativi, e il comunicato stampa degli ambientalisti,; per qualche altra informazione "interessata" sul progetto di parco tematico c'è il sito http://www.euroworld-italia.it (f.b.)

Io abito nella zona in cui dovrebbe essere costruito il parco (il delta del Po, in provincia di Rovigo) e devo ammettere che stando alle dichiarazioni comparse su un periodico locale (la Città) la situazione è abbastanza nebbiosa. La ditta (svizzera mi pare) che vuole costruire il parco vuole garanzie dagli enti locali in breve tempo per iniziare i lavori il prima possibile e aprire per il 2013-2014, ma i nostri sindaci e amministrazioni comunali stanno facendo una specie di ostruzionismo dicendo "che devono parlare, decidere se una cosa del genere può relamente incentivare il turismo (mi chiedo pensano a sta roba, sono anni che cercano di portare turisti dove l'attrattiva e le strutture turistiche sono pressocheè nulle o fatiscenti)" e cose simili, ma tutte senza presentare un vero interesse al progetto, che porterebbe pure circa 20-30000 posti di lavoro secondo le stime. A questo si aggiunge un precente storico non indifferente: alla fine degli anni 80 il comune di Taglio di Po, in questo caso interessato marginalmente dal progetto, ma che è comunque coinvolto nelle trattative e la cui approvazione è necessaria per dare il via alla progettazione del parco, ha rifiutato categoricamente e senza appello la costruzione di Mirabilandia sul suo territorio, parco che è poi stato realizzato a Ravenna.

Diciamo che allo stato attuale, date le richiesta di "decidere presto" fatte dai costruttori e il "voler rallentare " dei comuni diciamo che il parco si farà in Italia al 10%.... al 90% andrà costruito in Croazia o Spagna

PS. Il parco sarà costituito da una parte tematica (però non si sa niente sulle attrazioni che potrebbero essere presenti) e da un parco acquatico. E' interessante notare che se il parco verrà realizzato si troverà ad appena 60 km da Mirabilandia.

Lombardia: una tomba di cemento per il verde

il manifesto, ed. Milano

Coldiretti Milano e Lodi

Una colata di cemento si sta mangiando i campi della Lombardia.

A lanciare l’allarme sono le associazioni delle imprese agricole, Coldiretti di Milano e Lodi, Confagricoltura e Cia che hanno presentato i dati sul trend di scomparsa delle aree verdi attorno al capoluogo e nelle altre province della regione. Fra la provincia di Milano e l’area metropolitana si arriva, secondo dati del Politecnico, a oltre il 42 per cento del consumo di suolo con quasi 840 chilometri quadrati fra terreni già urbanizzati e altri ancora da edificare. La situazione peggiore si registra nella zona a nord di Milano (con una fetta già consumata e a rischio dell’83 per cento), all’interno del capoluogo (70 per cento), nel Rhodense e nel Legnanese che si attestano sul 58 per cento e la Brianza sul 54 per cento. “A forza di asfalto e cemento rischiamo di trovarci senza più terreni sufficienti da coltivare, con un conseguente danno per l’ambiente.

Noi non siamo contro tutto a priori, ma serve una politica di concertazione sull’uso del territorio che veda coinvolto in prima persona chi di questo territorio si occupa, fra cui noi”, dicono gli agricoltori, che in questa battaglia sono affiancati da Legambiente, Wwf, Fai e associazioni dei consumatori.

Attorno al capoluogo lombardo c’è la situazione peggiore con la Tem (Tangenziale est esterna) che per 40 chilometri attraverserà il Parco agricolo Sud Milano, con la Brebemi che si collegherà alla Tem all’altezza di Melzo, con raddoppio della Paullese fra Milano e Crema, con il collegamento della Tem alla Cerca nell’area di Melegnano.

Senza dimenticare poi tutto il sistema degli accessi alla Fiera e all’aeroporto di Malpensa, i collegamenti fra la Padana superiore e la Tangenziale Ovest con 14 svincoli fra Abbiategrasso e Magenta e il collegamento a nord con la Boffalora-Malpensa. “Se andiamo avanti così più che infrastrutture in mezzo alla campagna lombarda, ci ritroveremo una spianata di capannoni e strade punteggiata ogni tanto da qualche terreno agricolo.

Un paradosso, vista l’importanza che le coltivazioni hanno sempre avuto e che stanno assumendo ancora di più oggi anche a livello internazionale – afferma Carlo Franciosi, presidente della Coldiretti di Milano e Lodi - Il suolo non è una risorsa infinita. Non si può certo pensare di coltivare grano e mais sulla corsia di sorpasso della tangenziale o della Brebemi, o di trasformare l’ingresso di una cascina in un casello della Brebemi. Serve una mobilitazione che salvaguardi le aree agricole come zone ad alto valore ambientale evitando che finiscano cannibalizzate da strade che molte volte invece di diminuire il traffico, al contrario lo aumentano, con inquinamento e smog”.

L’avanzata del cemento sta colpendo anche il sud della Lombardia, fra le province di Mantova, Lodi e Pavia, dove si stanno espandendo capannoni, strade e poli logistici. Secondo dati raccolti da Legambiente, fra il 1999 e il 2004, a Mantova ogni anno sono spariti oltre 6 milioni di metri quadrati di terreni verdi, a Lodi oltre 2 milioni, a Pavia quasi 5 milioni e mezzo.

Con indici di consumo procapite per abitante fra i più alti della Lombardia: 16 a Mantova, 11 a Lodi e anche a Pavia. Secondo gli agricoltori serve un atteggiamento responsabile degli enti locali per quanto riguarda le pianificazioni urbanistiche e i via libera a insediamenti che potrebbero stravolgere le ultime aree verdi rimaste. Una posizione condivisa anche da ambientalisti e consumatori con i quali Coldiretti, Confagricoltura e Cia stanno dando vita a un patto per la difesa del territorio.

Gli agricoltori sotto assedio "Il cemento ci sta uccidendo"

la Repubblica ed. Milano

di Ilaria Carra

Cemento e catrame occupano in provincia di Milano il 34% del suolo. Ma ci sarà una crescita, fino arrivare al 42,7% quando saranno costruite le aree edificabili. Per questo gli agricoltori lanciano l’allarme e chiedono di potersi sedere ai tavoli dove si decide il futuro della Lombardia. «A forza di asfalto e cemento rischiamo di trovarci senza più terreni sufficienti da coltivare. Serve una politica di concertazione sull’uso del territorio, in cui si mettano a punto anche forme di compensazione» sostengono Coldiretti, Cia e Confagricoltura, che hanno presentato il documento, "Un futuro per l’agricoltura milanese", con cui chiedono maggiori tutele per la salvaguardia del territorio agricolo dai progetti infrastrutturali. Una posizione sottoscritta anche da Fai, Slow food, Italia Nostra, Legambiente, Wwf, e Adiconsum.

I dati rivelano che l’avanzata del cemento sta colpendo anche il Sud della Lombardia, rimasta in passato più tutelata rispetto al nord, fra le province di Mantova, Lodi e Pavia, dove si stanno espandendo capannoni, strade e poli logistici. Fra il 1999 e il 2004 a Mantova ogni anno sono spariti oltre 6 milioni di metri quadrati di terreni verdi, a Lodi oltre 2 milioni, a Pavia quasi 5 milioni e mezzo.

A Milano seconda città agricola d’Italia, e quinta provincia in Lombardia, con 90mila ettari coltivati e 370milioni di euro lordi di prodotti della terra, la situazione è già compromessa da tempo: secondo i dati del Politecnico tra provincia e area metropolitana il consumo di suolo supera il 42 per cento, con quasi 840 chilometri quadrati fra terreni già urbanizzati e altri in attesa di edificazione. Le preoccupazioni degli agricoltori nel Milanese riguardano in particolare i progetti stradali (Tem, Brebemi, i collegamenti con la Fiera e Malpensa, Pedemontana) e quelli dei centri come il Cerba che sorgeranno nei parchi. Senza contare i progetti edilizi in chiave Expo. «Che è basato, prima di tutto, sull’agroalimentare: ma senza territorio come facciamo?», si chiede Carlo Franciosi, presidente Coldiretti Milano e Lodi. «L’Expo dovrebbe portare, invece, a un’eccellenza agricola - auspica Paola Santeramo, presidente provinciale della Cia - chiediamo un piano di recupero delle cascine abbandonate, uno sviluppo degli agriturismo e un piano di insediamento di giovani imprenditori». A difesa del territorio divorato dal mattone si schiera anche Pietro Mezzi, assessore provinciale al Territorio, che chiede «di porre un limite prima di arrivare al punto di non ritorno». In altre parole: giù le mani dai parchi a chi pensa di ritoccarne i confini per costruire.

Giulia Crespi: "La nuova legge allenterà la tutela". E rispunta la contestata norma "ammazzaparchi"

Da piccola era solita andare al Parco agricolo sud con il padre, quando ancora si sentiva il profumo del fieno. «Oggi quasi non si sente più, con esso sono scomparse molte aree verdi di Milano e provincia. E se passa il progetto di legge della Regione sui parchi sarà un danno ulteriore per il nostro territorio». È con il Pirellone che se la prende Giulia Maria Crespi, presidente del Fai (Fondo italiano per l’Ambiente), che, dopo aver sottoscritto il documento "Un futuro per l’agricoltura milanese", attacca il progetto di legge regionale sui parchi. «Stanno pensando - denuncia - di estendere la caccia nelle aree protette e di eliminare la tipologia dei parchi regionali, mettendo ai vertici personaggi politici che non hanno le competenze adatte per quell’incarico». Una preoccupazione condivisa anche dai Verdi con il consigliere Carlo Monguzzi, che denuncia «la maggior libertà di edificare dei Comuni dopo la riforma urbanistica voluta dalla Regione». Dove ora, alla commissione Ambiente, si sta discutendo appunto il nuovo progetto di legge, che approderà in consiglio entro l’estate.

Tre i punti fondamentali: la riduzione notevole dei membri dei cda dei parchi, la possibilità per la Regione di intervenire in contenziosi sorti tra comuni ed enti gestori delle aree protette (un’eventualità già respinta in passato, battezzata "ammazzaparchi", e che ora ritorna), e la nomina dei direttori da parte della giunta regionale selezionando i candidati da un albo accessibile a chiunque abbia i requisiti. «Vogliono gestire i parchi come le Asl», critica Francesco Prina, consigliere del Pd al Pirellone. «Vogliamo soltanto razionalizzarne la struttura - spiega Marco Pagnoncelli, assessore regionale all’Ambiente - i parchi devono diventare attori protagonisti. Lo sviluppo ha il suo prezzo ma andrà di pari passo con la tutela del territorio».

Con la pubblicazione delle ennesime, per ora ultime consistenti modifiche alla legge urbanistica regionale lombarda 12/2005, introdotte dalla legge regionale 4/2008 si è consumato un nuovo episodio del processo apparentemente inarrestabile di deregulation urbanistica.

L’attenzione del pubblico è stata richiamata, anche dall’opposizione, soltanto sul cosiddetto emendamento “ammazzaparchi” che consentiva alla giunta regionale di decidere in via definitiva sulle richieste dei comuni di modifica dei Piani territoriali di coordinamento dei parchi stessi. L’emendamento è stato alla fine ritirato dallo stesso assessore competente.

E’ invece stato approvato, nel silenzio generale, un altro emendamento, quello che introduce il comma 1 bis dell’art.103. Tale emendamento disapplica nella Regione il decreto 2 aprile 1968 n. 1444, tranne che per la distanza minima di dieci metri tra edifici.

Morte accertata per l’urbanistica riformista.

Chi conosce non solo il decreto, ma anche l’impianto e lo spirito della legge 12 non faticherà ad intuire quanto vaste e sconvolgenti possano essere sul territorio le conseguenze di questo articoletto di poche righe. Per tutte mi limito a qualche esempio.

Partiamo dalla questione degli standard urbanistici. L’articolo 9 della legge 12 continua a prevedere che, in quella porzione dello strumento urbanistico generale denominato “piano dei servizi”, sia rispettata la quantità minima di spazi pubblici pari a 18 mq per abitante. Si apre però una fila lunghissima di interrogativi, dei quali fornirò ancora una volta solo qualche esempio. Come si calcolano i mc per abitante? Non vi sono più obblighi di previsione degli standard, in misura quantitativamente definita, per gli insediamenti non residenziali? E gli standard di livello urbano dove sono andati a finire?. E cosa garantisce l’applicazione degli standard nella pianificazione attuativa?. Come sempre ormai, in Lombardia, terremoto e totale incertezza del diritto. O meglio, perdita di ogni omogeneità di comportamento, e facoltà per ciascuno dei 1546 comuni in cui è sminuzzato il territorio regionale di darsi o anche di non darsi regole e principi di comportamento civili e moderne.

Ma la disapplicazione dello storico decreto produce una serie di altri effetti di portata difficilmente calcolabile rispetto alla prassi urbanistica faticosamente conquistata negli ultimi quarant’anni. La definizione di centro storico sparisce dalla legislazione urbanistica e resta affidata al solo fragilissimo baluardo del piano paesistico regionale. I limiti massimi di densità edilizia e di altezza che ci avevano consentito di uscire faticosamente dall’incubo urbanistico degli anni 50 non esistono più; il nuovo incubo fa pensare ad una generalizzazione del modello Pudong.

E’ solo qualche esempio, ma sufficiente per capire dove ci stanno portando le istituzioni lombarde, circondate dal silenzio praticamente totale di associazioni, organismi culturali ed università. Orbene, la legge è appena entrata in vigore. Il governo, giunto al termine della propria vita, ed in particolare il Ministero dell’ambiente avranno la forza di reagire? Avrà la voglia di reagire la Provincia di Milano? Oppure a resistere saranno lasciati ancora una volta, da soli, i “comitati”?

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