sprawl è un vero e proprio incubo di frammentazione spaziale e sociale, altro che
Personalmente una verifica ho provato a farla, anche mio malgrado, sulle assai discusse ma pare poco praticate trasformazioni globali/locali dell'area metropolitana milanese, quelle indotte dalle opere autostradali connesse al traguardo Expo 2015, che interessano per ora la fascia orientale di Milandia, segnatamente Tangenziale Esterna, BreBeMi e opere direttamente collegate. L'occasione, la scintilla diciamo così, è stata una prima passeggiata critica durante la preparazione dei Seminari di Eddyburg, dove con Serena Righini avevo deciso di presentare brevi riflessioni sui “nodi di urbanità” a scala sovracomunale, individuati nella città lineare continua dall'anello interno al confine dell'Adda. Nodi di urbanità assai vistosi, consolidati, che parevano invocare a gran voce “e dateci questa Città Metropolitana una volta per tutte!”, ma che verificati direttamente sul territorio lasciavano intravedere anche qualche discontinuità vistosa, troppo vistosa per non disturbare. Per comune accordo, sia sul versante della comunicazione che sulle prospettive di osservazione, era Serena ad essersi assunta il compito di restituire una immagine globale, attraverso gli strumenti dei piani e delle strategie di medio-lungo periodo. A me restava la verifica locale, a sostegno della tesi comune: Città Metropolitana reale, sostanziata in spazi fisici e identità collettiva, contro territorio a rischio di frammentazione e degrado, da sprawl e politiche infrastrutturali a dir poco miopi.
BreBeMi al punto di innesto sulla Tangenziale esterna |
Per vederli meglio in una prospettiva locale, ho usato il medesimo strumento: spostarsi in bicicletta, anziché lungo un asse lineare, sull'arco che taglia trasversalmente il settore metropolitano orientale, dall'altezza della Martesana a una fascia un po' a sud della strada Rivoltana, più o meno. Per chi osservasse una carta delle grandi opere in corso, si tratta dell'area di maggior concentrazione di tracciati, incroci, adeguamenti collaterali, dove spesso anche le vecchie e nuove arterie di collegamento fra le autostrade vere e proprie sono state concepite coi medesimi criteri di sovrapposizione autoreferenziale al territorio. Se ne raccolgono immagini e sensazioni del tutto soggettive, e influenzate dalla stagione autunnale, ovvero dal fatto che per via dei tempi di spostamento tutto il percorso lungo l'arco trasversale in corso di trasformazione è avvenuto mentre il sole scendeva verso l'orizzonte, e mentre saliva il traffico dell'ora di punta serale.
C'è naturalmente il disagio dei cantieri, dei tantissimi cantieri grandi e piccoli sparsi ovunque, sia che ci lavori qualcuno, sia che appaiano come voragini in attesa di qualcosa che non sta arrivando. Il concetto di margine così come definito da Kevin Lynch, che nell'insediamento lineare urbano appare chiaramente svolgere un ruolo di guida e orientamento, qui diventa brutale interruzione, sovrapposizione, fa esplodere spazi e flussi. Il segnale, chiarissimo, è quello delle strade secondarie intercomunali, per intenderci il tipo di percorsi di solito usati localmente da abitanti e mezzi agricoli, più raramente e occasionalmente da chi attraversa questa rete irregolare su scala metropolitana. Ecco, oggi i margini indotti da cantieri e nuovi tracciati irrisolti stravolgono il ruolo delle ex strade campestri, facendone assi di comunicazione di una certa importanza, sia a scaricare spontaneamente il traffico, sia in una logica “pianificata” (virgolette d'obbligo) come si capisce dalle segnalazioni o dagli occasionali semafori mobili di senso unico alternato. Anche quando non si verifica una interruzione totale di flusso, attorno ai ponti o svincoli in costruzione i tracciati deviati cancellano qualunque gerarchia, ficcando nel medesimo trogolo i camion dei trasporti internazionali, i trattori al lavoro che saltano da un podere all'altro, e obbligatoriamente anche lo sventurato ciclista, traballante a evitare un fosso fangoso sulla destra, e la collisione del gomito con una portiera a sinistra. Sensazioni personali a parte, l'idea che ne esce suona più o meno: siamo tutti nella stessa autostrada, nel laissez faire trasportistico del terzo millennio. Dov'è finito il territorio metropolitano, con le sue gerarchie, i suoi spazi abitabili, la sua campagna più o meno tutelata da greenbelt o semplici interessi economici?
Un cantiere minore sulla viabilità di collegamento |
Le mille luci della città ricompaiono all'orizzonte, una specie di insegna della prima calamita di Howard, e col relativo sollievo si fa strada una domanda: è questo ritagliare bantustan territoriali incomunicanti, fra le corsie di comunicazione dedicate, il destino ineluttabile del territorio concepito in funzione autostradale? Indipendentemente dalle strategie, di sicuro perverse, che hanno indotto qualcuno a progettare, sostenere, finanziare e realizzare la ragnatela di interventi, c'è un'idea di rete complementare parallela, che possa in tutto o in parte restituire organicità spaziale, sociale, ambientale, identitaria, a questa fetta d'anguria metropolitana? O meglio, visto che la pianificazione a questa scala languisce in quanto tale, sostituita appunto dai puri mega-progetti ingegneristici, c'è qualche prospettiva per una reazione, propositiva, progressiva, di società locali che provino a pensare “globalmente”, almeno alla scala di queste trasformazioni? Difficile dirlo.
(qui di seguito i tracciati delle opere principali e un sommario perimetro del territorio percorso in bicicletta)
L'Autore citato in occhiello è Robert Bruegmann, quando nel suo bestseller Sprawl: a compact history (University of Chicago Press, 2005), spiega: "Formy purpose I found the best source of information was the builtenvironment. A great deal of my research has consisted of going outand looking around"
Corriere della Sera Lombardia, 25 ottobre 2013, postilla (f.b.)
Gentile Signor Ministro Orlando,
dopo alcuni anni di silenzio, riappare tra i progetti delle cosiddette infrastrutture strategiche il raccordo tra le autostrade A21 e A26, noto come Autostrada Broni-Mortara, in provincia di Pavia. Un’opera progettata circa un decennio fa, che già allora suscitava forti dubbi e contrarietà e che oggi diventa quasi paradossale, in un momento di crisi sia dal punto di vista economico sia da quello ambientale.
Il tracciato previsto riguarda un’area della Lomellina, zona famosa per il suo territorio agricolo tra i migliori al mondo per fertilità e per l’integra bellezza del suo paesaggio. In questo contesto prezioso si vuole inserire un’opera autostradale lunga 52 km, larga oltre 45 metri e, per più di 40 km, alta 4,5 metri sopra il piano campagna. L’infrastruttura diventerebbe un vero e proprio muro che per decine di chilometri modificherebbe la prospettiva visuale del paesaggio agricolo, interrompendo inoltre — con un danno irrimediabile — il reticolo di canali e rogge che lo caratterizzano da secoli e distruggendo i preziosissimi fontanili, patrimonio naturale e storico.
Sappiamo che questa infrastruttura è stata fortemente voluta dalla Regione Lombardia, nel quadro di una logica di sviluppo vecchia, che riteniamo superata. Ci rivolgiamo a Lei, signor Ministro, perché si è appena aperta la procedura di integrazioni sulla valutazione di compatibilità ambientale (Via) nella piena fiducia che, attraverso questo strumento, sia possibile rigettare il progetto. I volumi di traffico attuali e previsti sono infatti largamente insufficienti per giustificare l’infrastruttura, a meno che non si vogliano imporre pedaggi intollerabili per il traffico locale.
Inoltre, per questo territorio, è sempre più necessario ed urgente l’investimento nella ferrovia, come dimostra la crescente domanda di mobilità soprattutto verso Milano e per i collegamenti interni. Ci troviamo in una zona dove semmai la priorità di intervento è la manutenzione delle strutture viarie esistenti, che versano in condizioni pessime, ponti sul Po inclusi. Inoltre, anche se la «Broni-Mortara» fosse una nuova alternativa per collegare la bassa Pianura Padana con il Nord-Ovest del Paese, senza dover passare da Milano, bisogna considerare che già l’A21 oggi collega adeguatamente questi due poli. Mentre, sempre con riferimento ai collegamenti est-ovest, recenti grandi investimenti nella tratta Milano-Torino per l’ampliamento dell’autostrada e all’Alta Velocità ferroviaria hanno molto rinforzato le connessioni tra i due grandi centri urbani.
Le scriviamo dunque, signor Ministro, preoccupati dall’impatto di quest’opera, ma anche spronati dalle Sue recenti dichiarazioni sulla necessità di tutelare il suolo agricolo e, più in generale, sulla necessità di misure urgenti per la riduzione del consumo del suolo. Quest’opera produrrà infatti un impatto rilevante in termini di consumo di suolo: 839 ettari sottratti alla conduzione agricola, ben 602 le aziende agricole coinvolte, 218 di queste attraversate direttamente dall’infrastruttura. Gli scavi e le discariche necessari al cantiere consumerebbero ulteriore suolo, senza contare le cave da cui estrarre 11 milioni di metri cubi di sabbia e ghiaia e l’eventuale indotto — per nostra esperienza inevitabile! — che porterebbe capannoni e zone industriali lungo il tracciato.
Anche l’impatto ecologico ci preoccupa: il progetto infatti interferisce in modo irreversibile sulla rete ecologica individuata dal Parco del Ticino, dalla Regione Lombardia e dalla Provincia di Pavia, andando a pregiudicare la continuità del corridoio ecologico della valle del Ticino, patrimonio mondiale dell’Unesco, così come le riserve naturali limitrofe. Le infrastrutture di cui abbiamo realmente bisogno e che porterebbero a una misurata ma stabile crescita sono quelle di riassetto del territorio e di valorizzazione dell’enorme patrimonio storico, agricolo, culturale, ambientale di cui l’Italia, malgrado tutto, ancora dispone. Non certamente di opere come la «Broni-Mortara». Ci appelliamo dunque a lei, signor Ministro, insieme a molti esponenti del territorio pavese e lombardo, affinché il suo Ministero, con tutti gli strumenti a sua disposizione, respinga definitivamente questo progetto, inutile e dannoso sotto tutti i punti di vista.
postilla
Coerentemente con la propria cultura e il proprio mandato, i due ambientalisti si soffermano su alcuni aspetti dell'impatto diretto di questa surreale infrastruttura, e forse è indispensabile richiamarne anche altri, che si chiamano in gergo “sprawl programmato”. Come ho provato puntualmente anni fa a sottolineare esaminando il progetto e il contesto in cui si colloca esiste infatti qualcosa che va molto oltre gli impatti ambientali dell'opera, ed è la sua intenzione dichiarata di grimaldello per indurre urbanizzazione dispersa, il cosiddetto sviluppo del territorio locale fatto di lottizzazioni industriali aggrappate agli svincoli, schiere di villette sparse qui e là, tutto quanto ben conosciamo insomma, e che alimenta certi appetiti. Questa dispersione insediativa indotta, in più, andrebbe a sabotare anche l'equilibrio millenario di terra e acqua costituito dal sistema delle risaie, per cui quel territorio è famoso. Il tutto per trasportare fisicamente il modello già consolidato nella fascia pedemontana (Padana Superiore) anche nel cuore verde a cavallo del Po, ancora oggi insediativamente definito dall'antico asse della Postumia romana. Lo stato di fatto di quei territori ho provato a raccontarlo nel saggio pubblicato nella raccolta No Sprawl (a cura di M.C. Gibelli e E. Salzano, Alinea 2005, qui un sommario della lezione da cui trae origine il saggio). Qui una descrizione più puntuale - scaricabile il testo integrale col le mappe - della Autostrada della Lomellina (f.b.)
Corriere della Sera Lombardia, 12 agosto 2013, postilla (f.b.)
PAVIA — Arriva la green economy e il valore dei terreni agricoli schizza alle stelle. Raddoppia, triplica mettendo in difficoltà produzioni e aziende che in questo modo rischiano di essere sfrattate dalla loro sede tradizionale. Sono gli effetti collaterali di una attività economica considerata in forte espansione (anche grazie all'apporto di incentivi statali) e di importanza strategica. La storia è contenuta in un verbale di gara della fondazione Policlinico San Matteo che, come periodicamente avviene, ha messo all'asta l'affitto di suoli agricoli di sua proprietà, frutto il più delle volte del lascito di benefattori.
Questi terreni si trovano nei comuni delle campagne attorno a Pavia e sono prevalentemente coltivati a mais, utilizzato poi come mangime per l'allevamento; l'assegnazione dei fondi è in genere un'operazione di routine: c'è una base d'asta e la famiglia o l'azienda che l'ha in uso presenta un'offerta di poco superiore alla cifra di partenza. Quest'anno (il verbale di gara è del 22 luglio scorso) è accaduto però qualcosa che ha scombinato le carte in tavole. Alcune delle offerte messe sul tavolo moltiplicavano la base d'asta. E' il caso del Podere Vignazza di Gambolò per il quale sono stati messi sul tavolo 51.500 euro contro un dato di partenza di 26.375; o per un altro appezzamento nello stesso comune valutato 34.400 euro e salito addirittura a 124.000.
Chi ha fatto saltare il banco? L'offerta parte quasi sempre da società con il nome simile e registrate a Torino e Aosta, riconducibili tra l'altro ai medesimi amministratori. La visura camerale rivela che tra le ragioni sociali di queste aziende, oltre a quelle tradizionali agricole compare anche «la produzione e cessione di energia elettrica e calorica da fonti rinnovabili agroforestali o fotovoltaiche». Società dunque che appartengono alla crescente schiera degli «energy farmers», contadini che dalla produzione di cibo si convertono a quella di kilowatt: produzioni non più finalizzate alle eccellenze agricole regionali (carni e latticini in primis) ma convinte dagli incentivi statali a installare impianti per la produzione di biogas (alimentato sempre a mais) o distese di pannelli fotovoltaici.
L'esito a sorpresa della gara ha lasciato strascichi. «Il San Matteo ha scelto il criterio del massimo profitto - dichiara Giuseppe Ghezzi, presidente di Coldiretti Pavia - e dal loro punto di vista tutto è corretto. Ma ora si apre uno scenario insostenibile per gli agricoltori tradizionali edf è tutto sommato una forma di concorrenza sleale: solo chi si dedica al business del biogas è in grado di far fronte a quei costi. La nostra organizzazione bloccherà contratti che superino valori di 40 - 50 euro a pertica, altrettanto mi auguro facciano altre rappresentanze della nostra categoria». I terreni non sono ancora stati assegnati, la procedura prevede ancora un mese di tempo almeno per effettuare tutte le valutazioni del caso. Ma nei campi lombardi si è aperta una nuova era.
postilla
Salta agli occhi come la questione economica, pur grave con questo impennarsi dei prezzi, sia solo la punta di un iceberg: lo sfruttamento delle superfici agricole per qualunque attività diversa dalla produzione di alimenti (e dalla manutenzione del territorio) deve iniziare ad essere regolamentato come se tutte queste funzioni fossero assimilabili a quelle urbane, ovvero edilizia, infrastrutture, parcheggi, industria ecc. Perché è ovvio, con queste premesse, che la tendenza a concentrazioni, eventuali abusi (nel senso di illegalità) e comunque sviluppi che con l'equilibrio ambientale e socioeconomico fanno a cazzotti, vede spalancarsi territori di conquista infiniti. Anche solo restando agli aspetti socio-economici evocati dall'articolo, esclusione di operatori tradizionali vuol dire quasi sempre concentrazione nelle mani di pochi potenti soggetti, in grado di controllare così vaste porzioni di territorio con propri criteri, ad esempio di sfruttamento, ma anche sotto il profilo ambientale, degli impatti, e del rapporto con gli enti di regolamentazione e controllo, analogamente alla pratica globale del Land Grabbing ripetutamente denunciata e documentata in questo sito, Certo se si dedicasse a queste cose un decimo dell'attenzione di quella riservata ai potenziali danni delle sigarette elettroniche, avremmo fatto un bel passo avanti (f.b.)
Il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2013, postilla (f.b.)
Le casse dei comuni languono e il sindaco di Somma Lombardo (provincia di Varese), per rimpinguare le finanze lancia l’idea di trasformare la frazione di Case Nuove in un quartiere a luci rosse. Si tratta ovviamente di una provocazione, lanciata per riaccendere i riflettori sulla difficile situazione in cui versa la frazione che sorge a due passi dalle piste dell’aeroporto di Malpensa dove, dal varo dell’ampliamento dello scalo in poi, i residenti se ne sono andati quasi tutti, lasciando le abitazioni di Case Nuove in uno stato di abbandono pressoché totale. Negli anni gli amministratori del territorio hanno chiesto interventi per utilizzare gli immobili lasciati vuoti per effetto della delocalizzazione, ma mai nessuno ha preso seriamente in considerazione il problema.
In questi giorni è dunque arrivata la boutade che Guido Colombo (a capo di una giunta di centrodestra) ha affidato al quotidiano locale La Provincia di Varese: “Esiste un mercato parallelo davvero importante che muove grosse cifre in maniera sotterranea: perché non regolamentarlo e regolarizzarlo qui?”.
Del resto basta sfogliare un qualsiasi giornale di annunci o visitare le pagine di siti dedicati per capire quanto la prostituzione sia diffusa attorno al grande scalo aeroportuale. “C’è chi ha scelto questo “mestiere” – spiega ancora Colombo – anche se facciamo finta di non vedere o di non sapere il problema esiste nell’intorno aeroportuale”. Dunque regolamentare il fenomeno e circoscriverlo in una zona ben definita, per giunta lontana dal centro del paese, potrebbe essere una soluzione anche alla massiccia seppur discreta presenza delle prostitute nei comuni attorno a Malpensa? “Si darebbe dignità al lavoro più vecchio del mondo e si ridarebbe vita alla frazione dove ancora oggi la maggior parte delle case sono murate”, senza contare ovviamente che il comune di Somma Lombardo, accendendo le luci rosse a Malpensa, potrebbe incassare i quattrini che mancano per far quadrare i conti.
Il sindaco di Somma Lombardo non è l’unico a pensare di poter fare cassa tramite l’emersione del mercato nero della prostituzione. Prima di lui l’idea l’ha lanciata anche il primo cittadino di Mogliano Veneto, che ha proposto una raccolta firme a sostegno di un referendum che porti all’abrogazione della Legge Merlin. Evidentemente in tempi di vacche magre, con i comuni in mutande, certe idee vengono formulate più facilmente.
postilla
Premessa: ho un paio di conflitti di interesse. Il primo è che a Case Nuove, quando Malpensa era solo un piccolo scalo militare perso nei boschi, una sessantina d'anni fa ci sono nato. Il secondo è che il geometra Guido Colombo una quarantina d'anni fa, prima di portarsi a casa non so come una laurea in architettura, mi ha aiutato a trovare un posto dove dormire a Venezia, quando ero matricola. Chiariti questi conflitti di interesse, riassumo che per assecondare altri interessi un po' meno dichiarabili, prima si è sviluppata la strampalata e fallimentare idea dell'hub intercontinentale, sfondando un parco, un territorio, e tante comunità locali, senza alcun risultato. E poi, davanti all'evidente fallimento di qualsiasi, e ripeto qualsiasi, strategia di “sviluppo del territorio”, si sono continuate a partorire micidiali stupidaggini, dal centro di espulsione rapida per immigrati ventilato da Maroni (a occupare con una specie di Alcatraz razzista altri ettari di ottimo bosco dando lavoro a qualche sbirro di area politica), e adesso la puttanopoli del geometra Colombo. Che, questo l'articolo non lo dice, potrebbe accelerare la deportazione in corso delle residue famiglie e attività che nonostante tutto resistono, da anni, ai tentativi di fare dell'ex villaggio, e in genere del territorio circostante l'aeroporto, un luogo compiutamente ballardiano. Un posto dove casi come l'assassinio della sindaca di Cardano (giusto dall'altra parte delle piste farlocche) potrebbero verificarsi senza far tanto notizia, magari con un distretto speciale a denominazione anglofona, dove vige qualche legge speciale, il codice Colombo-Maroni, chissà. Mandiamoli a lavorare, togliamoceli di torno, per favore! (f.b.)
Corriere della Sera Lombardia, 4 agosto 2013, postilla (f.b.)
Paiono proprio Qui, Quo, Qua, ma bisogna segnarsi i nomi: Raffaele Straniero (PD), Mauro Piazza (Pdl) e Antonello Formenti (Lega). Tutti convinti che il già demente secondo anello di tangenziali che sta sbancando il territorio attorno a Milano sia solo l'inizio della trionfale futura saturazione a colpi di mattoni di quanto resta fra i margini dell'area metropolitana e le pendici delle Prealpi. Poi forse lasceranno il campo ai paladini dei trafori trans-resegonici, ma per adesso tengono il campo coi loro sedicenti progetti faccia di bronzo. Che ideona, prolungare il braccio di collegamento della Tangenziale Est con la Pedemontana, oggi attestato sulla linea della vecchia SS36 fino allo sbocco dell'Adda dal lago, a Olginate, ovvero già ampiamente in vista delle montagne. Poi si tratterà solo di continuare nella medesima logica, gettando il cuore degli altri oltre l'ostacolo, e via verso l'Europa in un tunnel di sciocchezze alla leggera!
Il Resegone visto da "dietro" |
Come se già non bastasse il ramo di tangenziale esistente che si prolunga da Vimercate, ad alimentare la dispersione insediativa, proprio nell'area in cui anni fa si provava ad arginare il consumo di suolo con la cosiddetta Dorsale Verde, riflesso sbiadito della greenbelt metropolitana meridionale milanese. Lì si sono aggrappati tutti i soliti appetiti delle amministrazioni locali per il nuovo complesso chicchessia, che ci porterà prosperità e benessere eccetera. E invece serve solo a soffocare quel po' di respiro momentaneamente arrivato con la nuova arteria. Ma niente paura, ci sono Qui, Quo, Qua a proporre il nuovo ramo dell'autostrada urbana, perché ormai di città compatta e continua si tratta, dal core metropolitano a Lecco, nonostante i palpiti localisti e ruralisti di chi va a caccia di voti a destra, e anche a sinistra a quanto pare.
Ma non c'è un rimedio, magari farmacologico, a questa totale mancanza di buon senso? In fondo, dovrebbe bastare un'occhiata a GoogleEarth dal telefonino, per far desistere dall'idea (chiamiamola così) chiunque. Evidentemente non basta. Di seguito, per crederci, uno scarabocchio del tracciato, sovrapposto al già mastodontico schema autostradale esistente e in progetto nel Nord Milano
In un paese un pochino più avvezzo al giornalismo attento, forse sarebbe sbucata già nel titolo la parola chiave: sprawl, o equivalente. E magari qualche giornalista più preparato avrebbe perfino accennato al fatto che gli enti sovracomunali, e i loro compiti di pianificazione, sono necessari. Corriere della Sera Lombardia, 29 giugno 2013 (f.b.)
MILANO — La rivoluzione verde? In Lombardia tarda ancora ad arrivare. Se è vero che biciclette e trasporti pubblici hanno sempre più appeal è altrettanto vero che, nonostante la crisi, le auto circolanti in tutta la regione sono ancora in crescita: 674.673 quelle contate in più in 16 anni, dal 1995 al 2011 (ultimo dato disponibile). Sono i numeri dell'Aci elaborati dall'Anfia, l'associazione nazionale filiera industria automobilistica che ha fotografato però una realtà molto variegata all'interno della regione. Mentre in quasi tutti i dodici comuni capoluogo il parco auto circolante (cioè le macchine immatricolate in un dato anno più quelle immatricolate negli anni precedenti e non rottamate) è in diminuzione, nelle province è in aumento.
Nel comune di Mantova, per esempio, le auto circolanti nel 1995 erano 31.055, mentre al 31 dicembre 2011 sono scese a 29.131. In provincia, invece, erano 209.791 nel '95, sono salite a 255.297 nel 2011. Stessa dinamica a Bergamo, Brescia, Como, Cremona, Milano, Pavia, Sondrio e Varese. Fanno eccezione solo Lecco, Lodi e Monza (di cui si ha il dato del comune dal 2005, mentre quello della provincia nel '95, nel 2000 e nel 2005 è compreso in quella di Milano), dove il parco auto è in aumento sia nei comuni che nelle province. Fatto sta che in 16 anni nei dodici comuni capoluogo le auto si sono ridotte di più di 84 mila unità, mentre nelle province sono aumentate di quasi 760 mila. E anche se il possesso di un mezzo non implica automaticamente il suo utilizzo, è comunque probabile che all'aumentare del parco circolante corrisponda un traffico maggiore sulle strade.
Secondo gli esperti, diversi sono i motivi. Il primo è quello demografico. «Da molti anni ormai le grandi città si stanno svuotando a favore dei piccoli centri in provincia», prova a spiegare Andrea Boitani, docente di Economia politica alla Cattolica di Milano ed esperto di mobilità e trasporti. «Qui la vita e le case costano meno, la popolazione quindi aumenta e con questa il numero delle auto. E dal momento che la maggior parte delle sedi di lavoro si trova nei capoluoghi, aumentano anche gli spostamenti e quindi il traffico dalle cinture extraurbane alle città».
Secondo motivo, la scarsa capillarità dei trasporti pubblici. «A Milano e nelle altre grandi città le aziende di trasporti locali soddisfano abbastanza bene la domanda di mobilità — dice Dario Balotta, responsabile trasporti di Legambiente Lombardia —. Tenuto anche conto che si hanno meno soldi a disposizione, si tende a usare meno la macchina. Nelle province, invece, e nelle città più piccole i servizi sono carenti. Le aziende di trasporti tendono a privilegiare i centri dove la domanda è maggiore e così, nonostante la crisi, molti sono costretti comunque a usare la macchina. Il servizio pubblico, però, proprio in quanto tale dovrebbe essere presente ed efficiente ovunque».
Per decongestionare le province, dunque, parecchio ci sarebbe da fare. «Bisogna intervenire sugli spostamenti sistematici casa-lavoro — dice Boitani — garantendo collegamenti migliori con gli autobus tra i piccoli centri e le stazioni ferroviarie». Utile anche l'integrazione tariffaria: «In Lombardia servirebbe un biglietto unico per tutti i mezzi gestito dallo stesso soggetto, cioè la Regione», aggiunge Balotta. «E poiché la maggior parte degli spostamenti che si fanno in auto sono a media e corta percorrenza, il Pirellone dovrebbe smetterla di costruire nuove autostrade per concentrarsi invece solo sulle strade che davvero servono».
La Repubblica Milano, 9 marzo 2013, postilla (f.b.)
ROBERTO Maroni vara un piano per salvare i cantieri della grandi opere autostradali in vista di Expo 2015. La posizione della Regione è chiara: «I cantieri non possono fermarsi, le grandi opere vanno completate ». I costruttori di Tem, la nuova Tangenziale est esterna, Pizzarotti, Impregilo e Coopsette sono disponibili a discutere il versamento di una parte della quota dell’aumento di capitale necessario per completare la realizzazione dell’opera. Pari ai restanti 34 milioni di euro che dovranno essere sottoscritti entro il 15 marzo. Tem ha già infatti sottoscritto 72 dei circa cento milioni del totale del nuovo finanziamento previsto. Banca Intesa si è detta disponibile a fare la sua parte, successivamente. Asam, la holding delle partecipazioni societarie che fanno capo alla Provincia, al contrario, ha ribadito di non essere in grado di dare il suo contributo. Mentre la Cassa depositi e prestiti condivide l’operazione dell’aumento di capitale di Tem.
La svolta ieri durante un vertice in Regione tra il neogovernatore Maroni, l’assessore regionale alle Infrastrutture uscente Andrea Gilardoni, il presidente della Provincia Guido Podestà, l’amministratore delegato della Cassa depositi e prestiti Giovanni Gorno Tempini e i rappresentanti di Banca Intesa e dei costruttori di Tem e Brebemi. Del resto, Maroni lo aveva preannunciato due giorni fa. Quando al termine di un nuovo incontro con i dirigenti della Regione aveva precisato che le tre questioni più importanti di cui si sarebbe occupato sarebbero state: Expo, le grandi opere e la crisi economica. Tanto che martedì mattina ha già convocato i sindacati per discutere del rifinanzimento della cassa integrazione in deroga. E nel pomeriggio volerà a Roma per incontrare il ministro del Welfare Elsa Forneno, per tentare di sbloccare la situazione.
Sul tavolo dei vertice di ieri sulle infrastrutture anche il nodo della Pedemontana. La nuova autostrada che dovrà collegare tutte le province del Nord della Lombardia che rischia di fermarsi al primo lotto, la tratta tra le autostrade A8 e A9 da Cassano Magnago a Lomazzo in via di completamento. Quando mancano ancora 32 milioni di euro da aggiungere ai 64 già versati da Milano- Serravalle, la società autostradale che detiene il 68,36 per cento di Pedemontana spa. Nel frattempo, la quota di finanziamento del governo è ancora al vaglio dell’Authority sulle autostrade. Soddisfatto il presidente di Milano Serravalle Marzio Agnoloni presente alla riunione, che ha ribadito come la società stia compiendo un ulteriore sforzo per garantire la prosecuzione dei
lavori.
L’accelerazione di Maroni sulla realizzazione delle nuove autostrade, però, non convince l’opposizione di centrosinistra. «Ci vuole senso di responsabilità — osserva Andrea Di Stefano, ex candidato alle primarie per il Patto civico — Se la Tem non fosse completata sarebbe un disastro. Ma gli studi tecnici ci dicono che c’è stata una netta flessione sia del traffico civile che di quello commerciale. Siamo sicuri che il progetto originale della Pedemontana sia ancora valido»? Legambiente boccia senza appello lo sblocco delle grandi opere. «Da Maroni ci aspettiamo un segno di discontinuità rispetto al lasciar fare del passato sulla realizzazione delle grandi infrastrutture — attacca il presidente Damiano Di Simine — Se il nuovo governatore intende continuare nella missione suicida aperta dal precedente assessore regionale alle Infrastrutture Raffaele Cattaneo, sarà una sciagura per tutti i lombardi ».
postilla
Qualche ottimista, o frescaccione, chissà, nel corso della campagna elettorale tuonava da pulpiti di centrosinistra “La Città Infinita è Finita”. Come se bastassero gli slogan a vanvera per convincere un elettorato già scettico di suo: ci voleva un programma alternativo, che rilanciasse le economie del territorio, l'occupazione, l'abitabilità, in una prospettiva radicalmente diversa da quella dello sprawl. Il traballante schieramento che voleva opporsi a Lega, Pdl, 'ndrangheta e interessi affini non ha saputo esprimere niente del genere. Gli elettori, morsi alle chiappe dalla crisi, non se la sono proprio sentita di mettersi nelle mani di possibili rappresentanti del forse, mah, chissà. E adesso l'opposizione alla micidiale Città Infinita potranno farla solo soggetti extra-istituzionali, con tutti i limiti del caso, e col rischio di caricarsi dei contenuti sostanzialmente nimby-conservatori già emersi chiaramente (f.b.)
Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2013, postilla (f.b.)
MILANO - Niente linea 4 della metropolitana milanese, né Pedemontana né Tangenziale Est esterna di Milano (Tem). Queste sono solo alcune delle opere infrastrutturali che non saranno realizzate in tempo per Expo 2015. Lo afferma Assolombarda, l'associazione che riunisce gli imprenditori milanesi, durante la presentazione del rapporto Oti avvenuta, ieri, a Milano. «L'unica infrastruttura autostradale che sarà completata in tempo utile – dice il vicepresidente Giuliano Asperti – è la Brebemi (direttissima Brescia-Milano), per la quale i lavori sono già al 65% e dovrebbero concludersi entro il 2015 senza problemi».
E le altre autostrade? «Di Pedemontana - continua Asperti - sarà nel migliore dei casi completata solo la bretella di collegamento tra le autostrade A8 e A9; per quanto riguarda la Tem si dovrebbe riuscire a ultimare soltanto il cosiddetto arco Tem, cioè quel tratto di tangenziale che unirà la Cassanese alla Rivoltana per smaltire il traffico di Brebemi ed evitare che la nuova autostrada sfoci in aperta campagna». Nubi si addensano sulla continuità finanziaria di Pedemontana e Tangenziale esterna: complessivamente occorre ancora reperire un miliardo di euro di capitale sociale e quasi 4,5 miliardi a debito sui mercati finanziari. Visti i tempi, con la crisi che continua a mordere, non c'è alcuna certezza che l'operazione vada in porto con successo.
Nemmeno la quarta linea della metropolitana milanese (M4) vedrà la luce entro il 30 aprile 2015, vigilia di Expo, mentre sono stati abbandonati i progetti per le vie d'acqua, per le vie di terra, per una sesta linea della metropolitana e per una variante della strada statale Varesina. Questi sono solo alcuni dei progetti che non prenderanno corpo in tempo per Expo 2015, mentre tra quelli a rischio slittamento Asperti individua «le aree a parcheggio, il collegamento tra la statale 11 e la Varesina» e altro ancora.
«Queste infrastrutture - commenta Alberto Meomartini, presidente di Assolombarda - sono opere vitali per la Lombardia e, di conseguenza, per l'Italia, che è collegata all'Europa e al mondo tramite questa regione. Chiunque governerà il territorio lombardo troverà in Assolombarda un alleato critico e autocritico, ma in ogni caso si dovrà insistere, insistere, insistere per adeguare le nostre infrastrutture agli standard mondiali e restare competitivi. Basta con gli escamotage, le merci e i passeggeri in circolazione nel mondo sono in aumento e c'è necessità di servizi adeguati al loro trasporto».
Postilla
Si parla negli ultimi giorni, dietro le quinte ma non troppo, della contraddizione abbastanza evidente fra dichiarate adesioni a un modello di sviluppo “sostenibile” per la ex padania felix, e realtà dei processi in atto, nonché di una consolidata cultura intrecciata con altrettanto consolidati interessi. Basta scorrere le dichiarazioni dei candidati (per esempio quelle riportate ieri anche su questo sito) per capire che spesso ci si arrampica parecchio sui vetri, nel tentativo di far quadrare il cerchio. L'alternativa, forse, potrebbe essere quella di scaricare, aiutati dalla fine della Emergenza Expo, anche il modello territoriale disperso ed energivoro che sinora si è portata appresso. Scaricando in modo esplicito e fermo anche certe culture, ahimè assai ben rappresentate nel sottobosco delle candidature “progressiste” e delle consulenze, elettorali e future. Si è ascoltato ultimamente qualcuno dire che “La Città Infinita è Finita”: non bastano le chiacchiere per gonzi, anche quando le si elargisce coi soliti toni ispirati e lo sguardo sognante (f.b.)
La Repubblica Milano, 30 gennaio 2013 (f.b.)
LA CRISI ha colpito duro, negli ultimi anni, anche il settore delle costruzioni, con un calo della produzione del 22,1 per cento, che tradotto fa 44.500 occupati in meno nell’edilizia. Per il rilancio, ieri l’associazione dei costruttori, l’Ance, si è rivolta ai candidati presidenti che si sfidano per la Regione. Prima Roberto Maroni, poi Umberto Ambrosoli, infine Gabriele Albertini hanno ascoltato a lungo i delegati di tutta la Lombardia, dibattendo con loro sui singoli programmi e portando via, alla fine, il documento con le 22 richieste che l’associazione fa a chi vincerà. Le principali: con un occhio di riguardo alla green economy applicata all’edilizia, Ance chiede più incentivi per gli operatori virtuosi che utilizzino sistemi di costruzione ecologici e biocompatibili; un intervento sulla disciplina delle opere di urbanizzazione a scomputo; un piano di piccole opere infrastrutturali, con interventi immediatamente cantierabili da parte dei Comuni (questo creerebbe anche un circolo virtuoso sull’occupazione e sulle economie locali), l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti oggi nelle mani solo dei grandi cartelli. A proposito di appalti: visto l’aumento dei casi di infiltrazioni mafiose nell’edilizia lombarda, la richiesta è quella di un albo degli operatori da cui i Comuni e gli enti locali possano prendere nomi sicuri e puliti. E ancora, i costruttori chiedono — non solo loro — uno snellimento della burocrazia e un maggior coinvolgimento nelle scelte della Regione.
Ambrosoli:Stop alla Pedemontana e a tutte le opere inutili
LE INFRASTRUTTURE? Finire quelle già avviate, cancellando invece dal libro dei sogni (o degli incubi) quelle progettate e mai partite per mancanza di fondi. Il programma del candidato del Patto Civico Umberto Ambrosoli affronta ampiamente il tema delle grandi opere viarie, del consumo di suolo, del costruire ecosostenibile. Partendo sempre da un presupposto: vanno rivisti i piani “cesaristici” degli anni passati. Sulle autostrade, quindi, si concluderà la già quasi completa Brebemi e le opere previste nel dossier di presentazione di Expo (come le strade di accesso al sito), mentre è probabile — utilizzando il “metodo Castellano” usato per il piano parcheggi di Milano — l’addio a Pedemontana, Tem, alla Broni Mortara perché «bisogna non solo valutare costi non più sostenibili, ma anche se queste opere servono davvero », spiega Andrea Boitani, esperto di Economia dei trasporti e candidato nella lista Ambrosoli. L’idea è quella, in caso di vittoria, di commissionare una valutazione indipendente di tutte le opere infrastrutturali programmate per decidere quali salvare.
Albertini:Ok ai progetti avviati edilizia a impatto zero
GABRIELE Albertini, candidato alla presidenza con la lista Movimento Lombardia civica e sostenuto anche dall’Udc, promette di colmare il “gap” della Lombardia sulle grandi opere autostradali rispetto alle altre reti europee. Al primo posto, «il completamento in tempi più rapidi» di Brebemi e Tem, la nuova tangenziale esterna. Progetti che definisce «nevralgici». Di primaria importanza non solo in vista di Expo Milano 2015, ma per rispondere alle esigenze di chi opera e produce.
Un capitolo a parte del suo programma è dedicato alla tutela del suolo. Albertini propone un piano di edilizia a impatto zero. Attraverso l’attuazione della legge Sviluppo già approvata dalla Regione che anticipa al 2015 gli standard edilizi europei fissati al 2020. Tutti gli edifici di nuova costruzione privati o pubblici dovranno essere ad altissima prestazione energetica con fabbisogno molto basso o quasi nullo e coperto in misura significativa da materiale rinnovabile.
Maroni: Credito in volumetria a chi risparmia terreno
ROBERTO Maroni, candidato di Pdl e Lega alla presidenza nel suo programma punta sulle infrastrutture. Propone in primo luogo una forte accelerazione nella realizzazione di Pedemontana, Tem e Brebemi. Opere che definisce «prioritarie », già avviate dalla Regione con l’amministrazione uscente. «Ogni miliardo di euro destinato allo sviluppo delle infrastrutture — sostiene infatti Maroni — genera 20mila nuovi posti di lavoro». Un capitolo del programma del candidato del centrodestra è dedicato all’urbanistica. Al primo posto, l’attenzione alla qualità delle aree urbane. Tra le priorità: l’uso razionale del suolo; introdurre un credito in volumetria se si evita di consumare nuovo suolo; la definizione di parametri stringenti che permettano lo sviluppo di nuove realizzazioni solo in rapporto con l’aumento demografico; il rafforzamento del riuso dei terreni e degli immobili dismessi e del patrimonio sottoutilizzato; l’introduzione di norme per promuovere e premiare i progetti che riutilizzino il tessuto urbano.
La Repubblica Milano, 12 gennaio 2013 (f.b.)
OGNI inverno sciare a Caspoggio aveva del miracoloso. Tutti sapevano che l'apertura della stagione sciistica era a rischio. Poi però la nevicata buona arrivava, la manutenzione alla seggiovia rimetteva tutto a posto, e la mitica pista Vanoni riusciva a mantenere il suo appeal. Ma la stazione pioniera dello sci in Valmalenco era ormai troppo acciaccata. È bastata una crisi (finanziaria) un po' più forte, per accorciarne l'agonia. Caspoggio era da secoli terra di arrotini, una tradizione che finì di colpo nel 1959 quando una seggiovia trasformò gli affilatori di lame e forbici in albergatori, battipista e noleggiatori di attrezzatura per il nuovo sport del momento, lo sci. Il benessere viaggiava sulle piste disegnate da Zeno Colò, i residenti da 900 passarono rapidamente a 1500 e i nuovi alloggi per i milanesi andavano via come il pane.
Ora Caspoggio ha chiuso, per sempre. Non sarà più una stazione sciistica, seggiovie e skilift diventeranno archeologia turistica. Peccato che non lo sapesse nessuno la settimana di Natale, quando centinaia di famiglie milanesi armate di sci e scarponi si sono affacciate alle biglietterie della seggiovia Piazzo Cavalli. Un fulmine a ciel sereno per chi aveva prenotato nei cinque alberghi o nelle case-vacanza. «Eravamo in tanti, imbufaliti, siamo corsi dal sindaco - dice Sergio Molino, milanese, amante di quelle piste da oltre trent'anni - ma ci ha detto che gli impianti sono privati e lui non può mettere becco». Tant'è, gli affari sono affari e per il patron della seggiovia, Franco Vismara, erede della stirpe di salumai di Casatenovo, Caspoggio era da tempo un peso: troppi investimenti, pochi introiti.
Ci mancava poi un temporaneo intoppo nell'innevamento artificiale causa lavori dell'Enel; e così la Caspoggio dello sci ha finito bruscamente di esistere. Chiuse le sue belle piste, la Avanzi-Motta, le due "nere" Vanoni e Costera, che tanto piacevano ai più esperti, la Dosso dei Galli e la Sole, chiamata così mica per niente, ma perché Caspoggio ha la fortuna di essere assolata, contro la più buia dirimpettaia Chiesa. Eppure Chiesa è cresciuta negli anni: la sua Snow Eagle, enorme funivia, trasporta masse verso il Palù. Gli impianti di Chiesa sono sempre della Fab Srl di Vismara: Caspoggio la bad company, Chiesa il core business si direbbe in termini economici.
Caspoggio, immagine estiva della (preponderante) parte nuova, foto F. Bottini |
La Repubblica, e Corriere della Sera 6 gennaio 2013, postilla (f.b.)
la Repubblica
"Neve finta e boschi violati così le mie montagne sono diventate un luna park"
Intervista a Mauro Corona, di Caterina Pasolini
ROMA - «Hanno ucciso la montagna per quattro schei, hanno svenduto la sua innocenza per soddisfare chi ha la frenesia della vita breve, chi vuole neve firmata e vive cercando di sfuggire la noia usando, consumando tutto e gettandolo via velocemente. Tra piste illuminate di notte dai fari invece che dalla luna, elicotteri che rompono il silenzio e motoslitte che vanno come razzi e coprono le impronte delle volpi. E cosi, tra superficialità e improvvisazione, accadono le tragedie».
Mauro Corona, scultore, alpinista, scrittore innamorato della montagna, «che credo abbia voce e ci parli, solo che molti non la vogliono sentire perché ci mette a nudo», il giorno dopo la sciagura del Cermis se ne sta nella sua baita di Erto. Pochi metri quadri affollati da duemila libri e riscaldati dalla stufa vecchia trecento anni ereditata dai bisavoli. Pronto ad uscire con le ciaspole per andare in alto, nel silenzio che «rigenera, dà energia mentre i tuoi passi fanno scricchiolare la neve».
Chi ha violato la montagna? «I più grandi distruttori sono stati gli stessi montanari che hanno fiutato la ricchezza nel soddisfare i ricchi che non vogliono faticare, che vogliono tutto e subito e sempre. E così neve anche a bassa quota e piste sempre più in alto perché a furia di distruggere la natura non nevica più, e impianti di risalita invece delle ciaspole, motoslitte a velocità pazzesche in cerca di emozioni».
Perché tutta questa frenesia? «La gente ha capito che la vita è sofferenza, è breve e quindi molti sono diventati dei nuovi nichilisti in cerca del piacere immediato e forte. E le montagne sono diventate solo un oggetto da consumare come al luna park, qualcosa da vendere o comprare, non da capire o amare».
E la montagna si vendica? «No, è che non la conosciamo, non la rispettiamo e così accadono gli incidenti. Non abbiamo il senso della misura, della sua forza, della nostra piccolezza. Non abbiamo più un vero contatto con gli elementi, non vogliamo il freddo, non sopportiamo il silenzio: persino nei rifugi e sulle piste c´è musica, frastuono, nessuno ascolta più la musica degli vento tra gli alberi».
Valli e vette sfregiate? «Non solo, è tutta la montagna ad essere violata: ci sono le concessioni del taglio dei boschi che cosi vengono distrutti dai boscaioli per amore di denaro. E io li ho visti: ora al posto delle mucche nella stalla hanno la Ferrari. E poi le centraline elettriche che bloccano i torrenti, la ghiaia portata via con la scusa delle esondazioni. Senza dimenticare i servizi ai piccoli comuni montani cancellati: i negozi chiudono, dimezzano treni e bus e i ragazzi per andare a scuola devono fare dei viaggi. Così si uccide la montagna: spingendo, costringendo la gente a scendere a valle per sopravvivere».
Cosa fare per salvarla? «Riscoprire la lentezza, ora non si ha neppure il tempo di guardare quello che ci circonda tra motoslitte, skilift e macchine, e poi puntare sui bambini. Se i genitori sono teorici dell´usa e getta forse bisognerebbe mandare guide alpine nelle scuole ad insegnare ai ragazzini cos´è la vera montagna, ad avere rispetto e la giusta cautela. È tempo per tornare a insegnare ai bambini che l´alta quota non può essere solo divertimento. Non va bene. Se non nevica non si va a sciare, punto. Ma fortunatamente è arrivata la crisi».
La crisi è positiva? «Sì, la crisi economica aiuterà a riscoprire le cose vere, per quello che sono, senza macchine e tecnologia».
Corriere della Sera
La montagna degli eccessi che diventa pericolosa
di Isabella Bossi Fedrigotti
Sei turisti sono morti ieri notte in val di Fiemme e altri due sono feriti gravi; sono morti in vacanza, nel corso di un'escursione che doveva essere spensierata e, perciò, ogni parola rischia di essere eccessiva, fuori luogo, forse anche per qualcuno inaccettabile. E tuttavia, purtroppo, il concetto va suggerito e pronunciata la parola. Si chiama riminizzazione della montagna, ed è stata inventata da un albergatore della vicina val Badia che la montagna la ama moltissimo e da molti anni combatte per difenderla e per trovare adepti della sua difficile battaglia.
Definisce — la riminizzazione — quel fenomeno per cui la Disneyland nella quale si sono trasformate ormai da tempo le nostre principali spiagge è stata trasferita anche nelle più belle, più incontaminate valli alpine. Ciò vuol dire baite in quota praticamente trasformate in pub, dove, al suono frastornante di musiche da discoteca, si festeggiano interminabili happy hour, dalle dieci di mattina fino al tramonto, e dove lo sci si riduce spesso a un pretesto per sfoggiare magnifici, strabilianti completini sportivi.
Queste location — in che altro modo chiamare rifugi alpini svuotati della loro vera funzione? — sono circondate da tutti quegli orpelli che conosciamo dalle spiagge alla moda, e cioè bandiere, striscioni, palloncini colorati, video che mostrano se stessi in piena attività: giusto per il caso che qualcuno, forse sordo, non le avesse sufficientemente notate.
Nulla di male si è costretti a dire, tranne che per quanti ricordano i paesaggi incontaminati e le baite di un tempo, l'incanto silenzioso dei boschi e delle malghe, il calore protettivo dentro i rifugi dopo la fatica e il gelo delle piste, forzati — dall'avanzare della riminizzazione — a cercare tutto questo in luoghi sempre più lontani e più inaccessibili. Tuttavia le conseguenze che il fenomeno porta con sé non sono soltanto di natura estetica, non offendono solo occhi e orecchie: infatti, alla conclusione delle happy hour in quota, sfrecciano poi disordinatamente in pista sciatori e snowbordisti che spesso e volentieri hanno troppo alzato il gomito, e gli incidenti, anche mortali, purtroppo non sono più una rarità.
Ma la riminizzazione non termina con il tramonto, continua anche nella notte, forse ancora più pericolosa. E perciò piste illuminate, impianti che funzionano fino ad ora tarda, discese alla luce della luna dopo polente bene annaffiate nei rifugi, corse in slitta o in motoslitta. Nulla di più divertente, di più eccitante per chi ama il genere, facilmente portato a credere che la montagna sia davvero una specie di parco dei divertimenti, controllabile a piacere, versione più emozionante — perché più vera — della più emozionane delle giostre, dove basta pagare il biglietto per accedere allo spasso e, quando si è stufi o stanchi, basta fare un cenno per poter scendere. La montagna — e questi terribili, crudeli incidenti vengono periodicamente a ricordacelo — pur addomesticata, pur resa accessibile a chiunque, pur truccata da allegra e benevola Gardaland è, però, tutt'altro e chi la frequenta davvero lo sa bene: soprattutto di notte non vi si può mai essere al cento per cento sicuri.
Postilla
Premetto che una prospettiva come quella di Mauro Corona, allineata almeno nel linguaggio alla gran moda dell’ambientalismo nostalgico, non interesserebbe molto di per sé il sottoscritto. Ce ne sono fin troppi di nostalgici che guardano, spesso in modo abbastanza acritico, a una specie di passato mitico, di presunto equilibrio fra uomo e natura, e li lascerei volentieri alle loro dissertazioni davanti al fuoco: avranno pure qualche ragione.
Se non fosse che la questione della montagna, in sostanza l’unico vero e proprio brandello di territorio naturale italiano, pare del tutto assente dal dibattito sulle trasformazioni in senso urbano, mentre invece ne stanno avanzando a bizzeffe, con opposizioni anche aspre ma esclusivamente locali. Come implicitamente riconosce anche Isabella Bossi Fedrigotti nel suo lucido intervento sulla "riminizzazione". Nella mia purtroppo breve esperienza di titolare di un corso di Riqualificazione Urbana al Politecnico di Milano ho avuto quasi per caso, alcuni anni fa, spalancata una piccola prospettiva di progetti di trasformazione, alberghi, quartieri di seconde case, piani di iniziativa privata per valorizzazioni e rilanci vari.
Vere e proprie astronavi scaraventate in qualche valle, la cui (a volte) apparente relativa esiguità in termini di metri cubi nascondeva impatti immensi in termini di uso materiale del territorio, fatto di impianti di risalita, gente che va e viene su e giù dalla montagna come se fosse un supermercato, e praticamente paga alla cassa nella strettoia di valle prima di tornarsene a casa. Di queste cose non si parla mai, salvo quando succede qualcosa di tragico come l’allegra comitiva un po’ alticcia con la motoslitta scivolata nel burrone. Qualcuno ci fa caso, al copione esattamente identico a una strage del sabato sera contro un pilone di superstrada sotto l’insegna di una discoteca?
Copione identico perché identico è lo scenario, di fatto: sprawl a bassa densità, le piste invece degli svincoli, le pendenze invece della solita pianura, ma tutto deve rientrare nel modello cash & carry, che non ammette deviazioni. Le montagne stanno lì a fare da sfondo, come grosse grotticelle da madonnina in giardino.
Forse guardarlo in questo modo, quel territorio, esattamente come guardiamo al suo cugino sprawl di pianura, aiuta a capire meglio, lasciando il club dei gentlemen di campagna a rimpiangere i bei tempi, e poi a votare gli stessi amministratori che chiamano qualche improvvisato guru sociologico sviluppista a tenere una conferenza sul rilancio economico della valle, magari con lo slogan della Montagna Infinita (f.b.)
«Basta errori in nome di Alitalia, serve una svolta radicale» L'imprenditore e il futuro: «In Germania tre maxi-scali, non possiamo restare indietro»
lettera di Bernardo Caprotti al Direttore
Caro direttore,
ho visto sul Corriere del 24 ottobre che personalità di grande spicco affermano che Milano deve diventare lo hub, il mozzo, il perno, delle comunicazioni tra il nord Europa e l'Europa mediterranea. Lodevole progetto per una città che ha perso il suo primato industriale!, ma che ne detiene ancora ben altri.
Questo mi porta a ripensare all'annuncio fatto da Esselunga su Linate e la sua utilità.
Esselunga ha fatto quell'annuncio perché i suoi 44 ingegneri ed i suoi 88 compratori hanno la continua necessità di visitare fornitori, fiere, eccetera in giro per l'Europa. Il che vale naturalmente anche per chi vuole venir qui.
Quell'annuncio ha suscitato molti improperi alla mia persona, «il patron che si schiera per Linate». Gli italiani amano le fazioni, addirittura le inventano.
Però il mio pensiero di raro utilizzatore, ma di capo d'azienda, è tutt'altro.
Linate è uno straordinario city-airport, che sarà collegato al centro città dalla metropolitana ormai in costruzione, come ce ne sono in altre città, vedi i collegamenti di London-City con Anversa (da 2 a 4 voli al giorno), con Nantes, Berna...
Alla City occorre essere connessa; la City dell'Italia è Milano.
Questo concetto non impedisce tuttavia di formularne un altro, forse dirompente: l'alta Italia non ha mai avuto e non ha un aeroporto intercontinentale, un aeroporto cioè che possa servire l'Italia del Nord, 28 milioni di persone, da Treviso a Torino, da Trento a Bologna a Genova. Altro che Milano!
Perché l'alta Italia è stata così trascurata? Perché c'era l'Alitalia, azienda romana col suo hub ed i suoi dipendenti a Roma: la linea aerea all'amatriciana che ci è costata oltre diecimila miliardi di vecchie lire in perdite e sovvenzioni.
Coloro i quali dovrebbero autorevolmente sollevare questo problema volano tutti con i loro jet privati. Pesenti (Italcementi), De Benedetti, Berlusconi, Meomartini, Presidente di Assolombarda (Eni)... Ma costoro non hanno anche loro 100 dirigenti che debbono spostarsi su Stoccarda oppure Chicago?
Poiché è entrato nel comune modo di pensare che sia normale per un abitante dell'alta Italia di dover passare per Francoforte, Roma, Londra o Parigi per andare in qualsiasi parte del mondo.
Da una recente intervista all'Amministratore Delegato di Alitalia (Panorama del 10 ottobre) apprendiamo che quando Air France-KLM acquisterà Alitalia, quella compagnia di hub ne avrà tre: Amsterdam, Parigi e Roma. E noi? Rimaniamo tagliati fuori per sempre?
La Germania di hub ne ha tre: Francoforte, Monaco e Berlino. Ha anche una compagnia che funziona! Ma questo è secondario. Se ci fosse lo scalo «giusto», più di una compagnia si candiderebbe a servire 28 milioni di abitanti!
Il vero blocco mentale è costituito dal convincimento generale che Malpensa un aeroporto intercontinentale lo sia. Non lo è. Né mai lo potrà essere.
Innanzi tutto perché è sorto lassù, per caso, sulla vecchia pista dei Caproni — costruttori di aerei anni Trenta —, assolutamente fuori mano.
Il terminal è mal concepito e non potrà mai funzionare. Quando ci si arriva da Monaco, da Barcellona o da Atene, da italiani, si prova vergogna.
Le due piste sono sullo stesso lato e gli aerei devono attraversare la prima pista per raggiungere il terminal; come si può pensare di costruirvi la terza?
L'aeroporto intercontinentale dell'alta Italia non deve essere pensato per Milano, deve essere centrale alla Valle, deve essere uno hub, ma deve essere in posizione facilmente navettabile con Linate e Orio, come il Kennedy e il La Guardia a New York.
L'Italia del Nord è stata penalizzata per decenni da Alitalia. Occorre affrancarla da altri interessi. Ma soprattutto occorre sbloccare i cervelli da un modo di affrontare il problema secondo me proprio distorto, cioè teso a risolvere problemi di volta in volta particolari.
L'attenzione quindi è rivolta a Malpensa, che non funziona e per farla funzionare vi si trasferiscono i pochi voli europei rimasti a Linate; oppure a Linate che ci collega con gli hub d'Oltralpe, e non deve; o al bilancio della SEA; o all'Alitalia, che ci ha afflitto quanto basta.
Del servizio ai cittadini, alle imprese, al turismo della «Grande Valle» nessuno si preoccupa. Là dove i numeri dicono chiaramente ciò che a loro necessita.
L'accanimento sull'errore iniziale andrebbe superato da uno slancio visionario verso una soluzione radicale che a mio avviso già c'è. Io, a mie spese, ho imparato: insistere ad investire su un impianto sbagliato è diabolicum.
Caro direttore, con tutto questo, sia chiaro, io non sono contro Fiumicino, Roma o Venezia, mete superlative, dove il traffico oltretutto continuerà a crescere. Ma certo non crescerà nella tratta Linate-Fiumicino, dato l'avvento di una assai più comoda e conveniente Alta Velocità.
Io mi scuso con Lei per queste molte, troppe idee farfugliate, ma mi sembrerebbe il caso che su un argomento così grave, quale la vita o l'asfissia della nostra città e di una parte tanto grande del Paese, si aprisse un dibattito, innanzi tutto coinvolgendo degli esperti di aviazione non interessati e poi altri giornali e persone informate e intelligenti, da Albertini a Molgora, da Armani ad Abravanel.
Coi miei più cordiali saluti.
L'aeroporto del signor Esselunga: hub a Montichiari come a Parigi
di Alessandra Mangiarotti
Bernardo Caprotti costruisce il suo «sillogismo» con il piglio pragmatico dell'imprenditore che sa trasformare le idee in azioni: «Il Nord Italia non ha un aeroporto intercontinentale»; «Malpensa non sarà mai l'hub del Nord, Montichiari avrebbe tutte le carte in regola per diventarlo». Conclusione: «Perché non trasformare lo scalo bresciano nell'aeroporto che 28 milioni di abitanti chiedono?».
«Il mio è il ragionamento di un droghiere», premette il patron dell'Esselunga. «Ma questa, dopo Monaco, Ruhr e Île-de-France è la quarta regione più ricca d'Europa: non abbiamo forse diritto a un nostro aeroporto intercontinentale?».
Montichiari oggi è uno scalo fantasma: zero passeggeri, tremila metri di pista su cui rullano solo voli postali e qualche cargo, una gestione che in dieci anni ha perso più di 40 milioni. Eppure l'Ente per l'aviazione civile l'ha appena certificato per operazioni con Boeing 747-8, il gigante dei Jumbo jet. E il nuovo piano nazionale degli aeroporti gli attribuisce un ruolo di «scalo cargo e nel lungo periodo quello di riserva di capacità» per il Nord. Spiega Caprotti: «Montichiari ha tutto: posizione, bacino d'utenza, un'area vincolata di 44 kmq (ci sta dentro un Charles de Gaulle!), futuri collegamenti. Buttiamo tutto per salvare Malpensa?». Nella sua testa il futuro di Montichiari-hub è inserito in un piano che riserva un ruolo a ciascun aeroporto: «Malpensa: traffico cargo e passeggeri low cost per destinazioni lontane; Linate: city-airport con potenziamento dei collegamenti business su città come Nizza, Ginevra, Stoccarda».
E i soldi? «Da qui a 15-20 anni ci saranno. Bisogna guardare lontano».
Per il 2030 nel Nord Ovest si prevede una domanda di traffico di oltre 75 milioni di passeggeri. Afferma Giulio De Carli, architetto esperto di pianificazione aeroportuale e coordinatore del piano nazionale degli aeroporti: «Già oggi il bacino è importante, 30 milioni e più. Ma non bisogna cadere nell'illusione che la risposta sia un hub. Da subito Montichiari è perfetto per il trasporto cargo, pochi investimenti e si recuperano in parte le perdite. Tra vent'anni potrebbe diventare sì un aeroporto intercontinentale. Ma per farne un hub oltre alla struttura ci vorrebbe un grande vettore con base li».
Come Londra, Parigi, Francoforte. «E visto che abbiamo perso la possibilità di avere una nostra grande compagnia (in Europa non c'è più spazio, già premono gli asiatici) la soluzione è quella di creare uno scalo aperto ai vettori globali». Come Berlino: «Costruito potenziando accessibilità e infrastrutture. Allo stesso modo serve subito pianificare strade e ferrovie (con la fermata dell'Av il più vicino possibile a Montichiari) e salvaguardare le aree vicine come a Madrid».
Oliviero Baccelli, vicedirettore del Certet Bocconi, ricorda che di un grande Montichiari si parla da anni. Per lui stesse condizioni: «Vincolo delle aree e pianificazione dell'Alta velocità che ad oggi prevede un tracciato lontano dall'aeroporto. Serve però acquisire l'area militare di Ghedi, quindi rivedere potenziamento di Venezia e realizzazione della terza pista a Malpensa». Caprotti però su una cosa ha ragione: «Se si traccia una mappa isocrona per capire quanta gente attrae l'aeroporto quasi sicuramente Montichiari vince su Malpensa».
Postilla
Di un “Grande Montichiari”, come ad esempio ha ricordato anche il poco esperto sottoscritto tanto tempo fa, ne parlavano (e con cognizione) gli esperti trasportisti all’epoca in cui Malpensa era solo una scintilla progettuale nella mente di qualcuno, e fisicamente ancora un campo militare dell’ex Caproni perso tra le brughiere della valle del Ticino. La questione però, per non farla troppo lunga in una sede indebita, è di metodo, ovvero NON sostituire alla pura logica delle lobbies legaiole e altro,localiste e nazionali, trionfante sino a poco tempo fa, quella di nuove lobbies e cordate, col solo risultato di aprire buchi nella pianura padana lasciando inutilizzate altre voragini. Il rischio, con l’approccio contabile a tutto quanto che pare diventato vangelo, è proprio questo, in assenza di una strategia diversa che si ponga domande adeguate. Gli aeroporti sono un sistema, e gli hub virtuali con adeguata rete di collegamento veloce via terra (quello che nessuno si sogna mai di realizzare davvero) a integrare la regione urbana possono secondo molti esperti svolgere esattamente il ruolo dell’hub fisico unico. Si sono programmate e in parte realizzate già varie grandi opere, che potrebbero andare in questo senso, mentre altre (certi sistemi autostradali come la sciagurata Città Infinita dei pataccari tuttologi) lo perderebbero quasi tutto. Si spera che la politica, quella emergente che si vuole portatrice di innovazione, sappia cogliere la sfida: essere moderati ma progressisti magari potrebbe significare anche questo, semplicemente pensare. Si chiede troppo?
p.s. in eddyburg.it archivio naturalmente pullulano gli articoli sugli aeroporti padani come sistema, nonché i casi specifici; faccio riferimento per brevità al mio primo Hub? Burp dedicato a Montichiari disponibile anche su Mall
Corriere della Sera Lombardia, 12 novembre 2012 (f.b.)
MALPENSA (Varese) — Una città fantasma fatta di ville, condomini, interi quartieri dove adesso regna il silenzio spettrale. Circa 2 mila persone negli ultimi anni hanno abbandonato 600 abitazioni intorno all'aeroporto di Malpensa. Molti hanno preso i soldi dell'operazione «delocalizzazione» e sono andati altrove per non sentire più il rumore degli aerei. Però le case abbandonate sono ancora lì. Dovevano diventare uffici, magazzini, centri logistici per dare occupazione e sviluppo a tutto il territorio, ma i fondi erogati dalla legge che ha permesso l'esodo di massa sono finiti quest'anno, mentre le risorse dei privati stentano ad arrivare: «Siamo arrivati al punto che non abbiamo nemmeno più il denaro per murare le finestre e impedire l'ingresso dei malintenzionati — osserva il sindaco di Lonate Pozzolo Piergiulio Gelosa — è uno scenario drammatico, anche sul fronte sicurezza».
Lo stallo dell'economia ha peggiorato la situazione: «Il mercato è fermo, le imprese di costruzioni non ce le compreranno mai — continua Gelosa — buttare giù una grande palazzina costa 2 milioni di euro, le uniche due che abbiamo abbattuto finora ci sono costate 700 mila euro l'una, chi volete che si accolli queste spese?». Un sopralluogo a ottobre del Consiglio provinciale ha certificato la situazione: di concreto nel futuro della aree intorno a Malpensa non c'è quasi nulla; tra le poche cose realizzate una scuola per tecnici aeroportuali a Case Nuove, la frazione di Somma Lombardo inghiottita dalle piste.
E' in questo quadro che è nata nelle ultime settimane una possibile via d'uscita, che dovrebbe passare da un accordo firmato in Regione.
«L'unica soluzione secondo noi — afferma il sindaco — è che la Sea si renda parte diligente nella demolizione». Il coinvolgimento della società aeroportuale sta mettendo i sindaci gli uni contro gli altri e il motivo è comprensibile. La Sea è disponibile a investire ma a una condizione: e cioè se il ministero dell'Ambiente approverà il cosiddetto Masterplan, ovvero un allargamento dell'aeroporto stesso che prevede, tra l'altro, magazzini logistici e anche la terza pista di Malpensa. Gli ambientalisti lo vedono come il fumo negli occhi. I sindaci dei tre Comuni che si ritrovano le case abbandonate sul groppone, ovvero Somma Lombardo, Lonate Pozzolo, e Ferno chiedono quantomeno di poterne parlare senza essere accusati di voler autorizzare la terza pista. Oggi si terrà un'assemblea congiunta con i sindaci e i consiglieri dei tre Comuni che si annuncia molto calda.
postilla (f.b.)
“A fine Febbraio 2000 i Sindaci pro tempore di Somma Lombardo, Ferno e Lonate Pozzolo firmarono l'accordo di "delocalizzazione" che dava a Malpensa la "licenza di uccidere". Questo perché, con la firma dei tre Sindaci (Brovelli, Canziani e Colombo) si creava, per i residenti in certe zone a ridosso del sedime aeroportuale individuate come particolarmente rumorose, la possibilità di vendere casa e trasferirsi altrove. L'operazione veniva definita di "mitigazione" e Malpensa poteva così svilupparsi, con licenza di uccidere chi restava. L'assenso dei tre Sindaci fu bollato, forse mai adeguatamente, già a suo tempo. L'individuazione delle zone inserite nell'accordo omicida fu effettuata sulla base di ipotetiche curve isofoniche stabilite prima dell'apertura di Malpensa 2000, cioè con un traffico teorico e rotte provvisorie (tali sono ancora). Le persone delocalizzabili secondo l'accordo erano nell'ordine delle centinaia mentre, secondo il Ministro dell'Ambiente di allora, Edo Ronchi, entro l'area dove diventava disumano vivere si venivano a trovare migliaia di cittadini. Quindi noi chiedemmo: si delocalizzino invece gli aerei! (Patto per il Territorio, Turbigo, 19/02/00) Ora si può tristemente verificare, leggendo i dati rilevati dalle centraline della rete di misura del rumore, che in aree soggette all'accordo, per esempio Somma-Case Nuove, Lonate-S. Savina e Lonate-Moncucco, il rumore rilevato è inferiore a quello di Somma-Rodari, Somma-Cabagaggio, Arsago-Cimitero, Casorate-Monte Rosa… aree a cui l'accordo non si applica.”
Come si sa, solo una parte degli aventi diritto vendette casa all'ALER e si trasferì, ed i colpi di coda di questo iniquo accordo si vedranno lunedì sera. Innanzi tutto è utile sottolineare la “mancata par condicio del rumore”, così la definimmo all'epoca, e cioè che chi subiva un rumore più elevato doveva restare. Negli anni si verificarono poi variazioni del traffico aereo, attualmente sceso a livelli tali per cui l'accordo di delocalizzazione, applicato col criterio del superamento dei 65 dB, ora sarebbe rivoluzionato da livelli di rumore probabilmente ridotti, cioè case ieri delocalizzate forse oggi non lo sarebbero più. Livelli di rumore che, se il gestore della rete di misura del rumore (SEA) pubblicasse i dati come dovuto, potremmo meglio conoscere.
Quindi delocalizzazione farsa e falsa, costata enormi somme di danaro ai contribuenti e in procinto di costare altri 12 milioni d Euro, presi non si sa bene dove o, come è già stato segnalato, forse sottratti agli scopi a cui erano destinati. 12 milioni che, se è vero quel che sembra, odorano di scambio, per non dire di ricatto. Quindi altri soldi che finiranno nel buco nero di Malpensa senza che producano alcun utile collettivo. Cosa ci dobbiamo aspettare ora da questi 3 sindaci? Definendo “licenza di uccidere” l'accordo di delocalizzazione che permetteva lo sviluppo di Malpensa, fummo facili profeti perchè i danni provocati dagli aeroporti si conoscono da decenni e quindi non è stata una sorpresa il +54% di decessi nei Comuni del CUV rispetto al + 10% nel resto della provincia. Non avremmo voluto ma ora contiamo i morti.
I Sindaci di oggi, appollaiati come avvoltoi sulle spalle del + 54%, contano invece i soldi per l'abbattimento degli immobili liberati dall'accordo fallito. Se nella storia di Malpensa scriviamo ora questo ulteriore grottesco capitolo, se Malpensa tutto può permettersi, è perché gli Enti Locali a tutto acconsentono. Sindaci, rompete il muro di omertà, avete dati terribili sulla salute dei vostri cittadini, fate il vostro dovere: intervenite! Gallarate, 10 novembre 2012
UNI.CO.MAL. Lombardia - Il Presidente Beppe Balzarini
Postilla
Come forse si intuisce dal testo, la delocalizzazione di ampie fasce dell’abitato attorno al baraccone di Malpensa, prima pista militare poi hub internazionale e in futuro chissà, riguarda la vita di famiglie, l’economia locale, per dirla con un po’ di retorica la carne e il sangue delle generazioni. Manco fossimo a Fukushima, si deporta la gente, e le istituzioni aiutano tra l’altro nel tempo vari soggetti a speculare sugli immobili, in cambio di cose misteriose. Perché a fronte di una devastazione a dir poco spaventosa di un ampio territorio ex rurale e naturale (siamo in piena valle del Ticino, il parco regionale che l’Europa ci invidiava) c’è un’infrastruttura monca, dal futuro incerto, un aeroporto che come può raccontare chiunque ci sia passato lavora assai al di sotto delle capacità attuali. Ma che egualmente si vuol continuare ad ampliare, nella solita logica per cui prima si fanno le opere, e poi si pensa a se e come usarle per qualche scopo. Anche Malpensa si inserisce nel delirio liberista-mafioso-insostenibile della cosiddetta Città Infinita, delle opere scombinate utili solo a chi le fa, o a chi le autorizza. Prima si poteva dare la colpa a Formigoni, e adesso? Adesso siamo in piena crisi del modello di sviluppo ciellino, ma ammazzali se i signori dell’opposizione candidati alla “alternativa” hanno aperto bocca su qualcosa di simile a un’idea, sul sistema aeroportuale, dei poli urbani, sulle infrastrutture di collegamento. Ovvero su quanto consentirebbe almeno di dare un senso, per quanto tragico, alle deportazioni di persone di cui ci ha brevemente raccontato il comunicato stampa (f.b.)
MILANO — Rinnovabili e pulite. Di fonti di energia alternativa se ne parla da decenni, in Italia, ma forse non è ancora arrivato il loro tempo. Perché nel Paese non sì è mai fermata la ricerca e l'estrazione del petrolio. E, in Lombardia, la caccia all'oro nero addirittura si sta intensificando: nella Pianura Padana, dove è ancora attiva una delle raffinerie Eni più efficienti d'Europa, quella di Sannazzaro de' Burgondi (Pavia), l'attività è intensa, mentre compagnie italiane e straniere si stanno mettendo in fila per chiedere le autorizzazioni al ministero dello Sviluppo economico.
Ultime tra queste la Exploenergy, che a marzo scorso ha chiesto il via libera all'operazione Lograto per esplorare un'area di 290 chilometri quadrati tra Bergamo, Brescia e Cremona; la Compagnia generale idrocarburi, con il progetto Momperone, e il colosso nazionale Enel Longanesi con Rocca Susella, che si stanno contendendo 360 chilometri tra Varzi e Voghera, nel Pavese, e Tortona, nell'Alessandrino, tutta terra di vigneti doc, per cercare idrocarburi, soprattutto gas; ma c'è anche l'americana Mac Oil, sede in Oklahoma e uffici italiani a Roma, che ha già avuto il via libera dal Pirellone per il progetto San Grato e ora sta aspettando quello del ministero per avviare un'indagine sismica non soggetta a verifica di impatto ambientale per individuare eventuali giacimenti e poi perforare qualche pozzo esplorativo tra Cremona, Lodi, Milano e Pavia.
A conferma dei nuovi piani di sviluppo e ricerca ci sono i numeri della Direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche, che fa capo al ministero dello Sviluppo economico. A oggi in Lombardia sono 17 le concessioni vigenti di coltivazione idrocarburi e 7 quelle di stoccaggio gas. Ma altrettante sono le nuove richieste: 14 i permessi di ricerca già concessi, mentre 11 in oltre 40 comuni sono quelli in fase di valutazione, quasi una richiesta per provincia lombarda, tutte coinvolte tranne Lecco e Sondrio. I petrolieri stessi, tramite Assomineraria, hanno già fatto sapere di essere pronti a estrarre tutto il nostro oro nero, investendo nell'arco dei prossimi quattro anni 12 miliardi di euro per nuovi impianti produttivi in tutta Italia. «Da un impegno finanziario così rilevante — sostiene Assomineraria — potrebbero derivare almeno 70 mila nuovi posti di lavoro, oltre 40 miliardi di euro di nuove entrate per lo Stato in 20 anni e un risparmio sulla bolletta energetica di 120 miliardi di euro nello stesso periodo».
Il motivo di questa nuova stagione «texana»? Per Assomineraria l'attività petrolifera deve ripartire, anche in Lombardia, a causa dei prezzi alti dei barili stranieri e delle frequenti difficoltà di approvvigionamento. Tanto più che, nel nostro Paese — l'ha rivelato Pietro Dommarco nel suo saggio «Trivelle d'Italia. Perché il nostro Paese è un paradiso per i petrolieri», appena uscito per Altreconomia —, è sempre stato conveniente produrre petrolio: le royalties, cioè il corrispettivo che le compagnie petrolifere versano a Stato ed enti locali come compensazione per lo sfruttamento del territorio, sono bassissime, il 10% per le estrazioni in terraferma contro, per esempio, l'80% della Russia e il 60% dell'Alaska. Con esenzioni dal pagamento delle royalties sulle prime 20 mila tonnellate di greggio e sui primi 25 milioni di metri cubi di gas estratti in terraferma.
Ma i nuovi permessi di ricerca richiesti in Lombardia arriveranno? Corrado Passera, ministro dello Sviluppo economico, ha già tracciato la linea: obiettivo del governo è raddoppiare nel giro di pochi anni la produzione italiana di idrocarburi, cercando di raggiungere per via interna il 20% dei consumi contro il 10% attuale. E allora, anche vicino al Po, aspettiamoci nuove trivelle.
In questi giorni parecchi trafiletti di stampa nazionale riferiscono di una curiosa ma non certo clamorosa crisi di un’amministrazione locale, determinata da motivi per così dire sentimentali. Succede che un Sindaco nomini Vice Sindaco la sua amata morosa, e che invece di far passare tutto sotto il solito complice silenzio qualcuno (per altri motivi di bottega presumibilmente) abbia scatenato la polemica. Lo sappiamo tutti come viene gestito spesso e volentieri il potere locale italiota, amministrativo o accademico o altro che sia: c’è il o la brillante carrierista di punta, che si trascina appresso con vari ruoli e visibilità la corte dei miracoli amicale e parentale. E le cosiddette strategie dell’ente – chiacchiere e distintivo per placare i gonzi a parte - si piegano e modellano secondo discrezionalità e solidi interessi della fauna dominante.
Ecco, stavolta pare che la fauna dominante l’habitat della valle dell’Adda, specificamente il territorio comunale di Capriate San Gervasio (Bg), col suo patto di ferro tra fidanzati volesse tendere un agguato all’Umanità tutta, cancellandone in un colpo solo un bel pezzo di patrimonio: quel genere di “Patrimonio dell’Umanità” che tale ente non leghista e non bergamasco, l’ONU ogni tanto riconosce per misteriosi motivi suoi. Il glorioso comune di Capriate comprende nelle propaggini meridionali quel mucchio di mattoni e vecchie ciminiere denominato Crespi d’Adda, che è appunto stato classificato bene di interesse planetario dalle Nazioni Unite, nella stessa seduta in cui si è classificata così anche l’Isola di Pasqua, per capirci. Ma questo fa un baffo all’amministrazione fidanzata, assai più attenta a cose moderne come le giostre, l’autostrada, lo zucchero filato e l’architettura postmoderna. Proprio il genere di cose che sta di fianco al villaggio operaio Crespi d’Adda, e che si chiama parco a tema Minitalia.
Così il fidanzamento si è allargato di soppiatto (the swinging local administrators) al comune accanto, Brembate, con la benedizione della provincia pure a maggioranza verde padana. A suggellare il rapporto aperto, due bei progetti di ambito territoriale uno di fianco all’altro, anche se apparentemente senza nessun rapporto ufficiale, se no qualcuno potrebbe diventare geloso. Uno si chiama Accordo di Programma per la riqualificazione del parco a tema, sostenutissimo anche dalla formigoniana Regione, sempre amica delle costruzioni nelle fasce autostradali. L’altro comincia esattamente sui confini comunali su cui si ferma il precedente, ed è classificato Ambito di Trasformazione nel piano regolatore. Basta però accostare le mappe per fare due più due: il progettone è esattamente lo stesso, ovvero allargare le giostre (e le tonnellate di cemento complementari, incluso un bel grattacielo) sino a fidanzarsi col villaggio operaio ottocentesco. Ma cosa dico fidanzarsi: avvolgerlo sensualmente tutto, fargli un cappottino amoroso di metri cubi.
La storia, del progetto, con qualche indispensabile particolare in più, l’ho raccontata a suo tempo qui su eddyburg e sul Giornale dell’Architettura, ma certamente le ultime notizie … ehm … politiche locali aprono nuovi ed entusiasmanti orizzonti interpretativi, del resto perfettamente in linea sia con le note saghe familiari lombarde di trote e dintorni, sia con le lontane ma assai affini contemporanee della valle del Tevere. Insomma dobbiamo rilanciare un bello slogan anni ’60, ricordando il povero Scott McKenzie e il suo flower power: fate l’amore, non la politica. Ma fatelo a casa vostra, please, non in sala consiliare!
Torna il rischio di una nuova colata di cemento sul verde lombardo. L’assessore regionale ai Trasporti ciellino Raffaele Cattaneo è infatti pronto a dare ai concessionari di autostrade i diritti per costruire immobili anche ai bordi delle stesse. Cioè nelle aree finora protette dalle cosiddette "salvaguardie", e riducendo contemporaneamente gli oneri di compensazione a favore degli enti locali. L’opposizione di centrosinistra e le associazioni ambientaliste annunciano battaglia oggi in Commissione Territorio. L’emendamento 4 ter all’articolo due del progetto di legge 146 presentato dall’assessore Cattaneo parla chiaro: la deroga ai vincoli di salvaguardia si «applicherà anche agli interventi infrastrutturali su cui sono già stato apposti i vincoli». In altre parole, anche ai progetti già in fase di esecuzione. Come la nuova autostrada Broni-Mortara e Cremona-Mantova.
O la nuova Tangenziale Esterna Est. Opere che saranno realizzate in aree già molto edificate. La maggioranza di centrodestra conta di approvare le modifiche già nella seduta di oggi per portarlo in Consiglio regionale alla prossima seduta martedì 25. Si tratta del terzo tentativo dopo i due falliti. La prima volta quando la Regione cercò di inserire la modifica nella nuova legge urbanistica. La seconda un anno fa, quando l’articolo 36 della legge Cresci Lombardia, che ampliava i contenuti delle concessioni autostradali per coprire i costi delle opere, fu stralciato a furor di popolo dopo le proteste del centrosinistra e l’allarme lanciato da Legambiente.
«C’è il rischio che la Regione, pur di far costruire autostrade inutili che nemmeno più le banche vogliono finanziare, favorisca gli speculatori edilizi - denuncia il presidente lombardo di Legambiente Damiano Di Simine - Se passa questa legge il rischio è che le rampe delle autostrade diventino l’accesso a grandi lottizzazioni che consumeranno altro suolo».Il consigliere regionale del Pd Franco Mirabelli annuncia che il suo partito farà le barricate. «La cosa più grave - attacca - è che con il nuovo testo la Regione si arroga di decidere di dare la possibilità di costruire anche in prossimità degli svincoli autostradali». Secondo la Regione, invece, l’obiettivo della legge è solo «di «favorire il concessionario dell’autostrada che affronta onerosi investimenti per la realizzazione dell’opera».
postilla
Per capire cos’hanno in mente i poco fantasiosi proponenti di questa “norma strisciante” (nel senso che lavora sulle strisce autostradali) non c’è bisogno di ragionare troppo: basta riguardarsi qualche mappa del rapporto Urban Sprawl in Europe: the Ignored Challenge (2006) e vedere come già spontaneamente l’insediamento di varie attività impropriamente definite urbane si vada a collocare di fianco alle infrastrutture. I nostri eroi vogliono solo dare un ben assestato aiutino alla naturale tendenza degli spiriti animali dell’imprenditoria locale. Quella che chiede sussidi per realizzare capannoni da lasciar vuoti perché già impegnata a chiedere nuovi sussidi per nuovi scatoloni altrove … In tutto il mondo civile si discute di sostenibilità, tutela delle superfici agricole e naturali, mobilità dolce, e invece chi si dichiara pronto a una specie di secessione per diventare il terzo o quarto motorino di sviluppo europeo, con la cosiddetta Macroregione, ci offre questa prospettiva. Ovvero muratori magari in nero, speculatori, giochetti per aggirare le poche norme ambientali, e sopra tutto la grande regia (come certificato dalla magistratura) della criminalità organizzata. Stiamo freschi. Mandiamoli a lavorare (f.b.)
Milano. Dalla Cascinazza di Monza alla Company town di Milano 3. Corre lungo questo perimetro l’ultimo sogno edilizio di Paolo Berlusconi. Nel primo caso, però, il fratello del Cavaliere, dopo vent’anni di trattativa, ha visto naufragare il progetto e si è ritrovato indagato per istigazione alla corruzione. Nel secondo, invece, l’affare, che mette sul piatto, nel comune di Basiglio, quasi 300mila metri cubi di cemento per un utile netto stimato in 150 milioni di euro, sembra non trovare ostacoli. Tanto più che qui il business plan, a differenza del progetto monzese, non ha bisogno di variante ma rientra nel nuovo Programma di governo del territorio, voluto da Marco Flavio Cirillo, sindaco Pdl al secondo (e ultimo) mandato, già in lizza per la carica di coordinatore provinciale del Popolo della libertà, poltrona poi persa a favore del larussiano Sandro Sisler.
Ai nastri di partenza dell’ennesima speculazione, che si svilupperà tra un campo da golf e un laghetto, ci sono l'Immobiliare Leonardo e la Green Oasis. La prima è partecipata al 100% dalla Finsec, srl di Paolo Berlusconi (95%) e della figlia Alessia (5%). Amministratore delegato della Leonardo è Antonio Anzani, architetto storico di Arcore, presente con la sua Milano real & Com.
Lo stesso Anzani può vantare una carica di consigliere nella Milano Serravalle Engineering, società di progettazione partecipata al 100% dalla Milano-Serravalle, detenuta per il 52% dall'Azienda sviluppo e mobilità, a sua volta riferibile (per l'82%) alla Provincia. Ha sapore berlusconiano anche la Green Oasis. La società entra nella partita dopo aver rilevato le quote della In House srl (già titolare dei terreni). Patron dell’operazione è l'imprenditore Fulvio Claudio Monteverdi, il quale, nel gennaio 2010, firma l'atto di compravendita. A dicembre In House viene incorporata nella Green Oasis riconducibile sempre a Monteverdi. La società è partecipata per il 30% dalla Deb Holding fondata da un ras della finanza come Daniel Buaron, il quale con la sua First Atlantic (poi Idea Fimit), pur non indagato, finirà in mezzo all'inchiesta sull'Enpam (Istituto di assistenza previdenziale dei medici), per alcune compravendite di immobili.
Tra gli assetti societari della Deb Holding compare anche Maurizio Carfagna, consigliere della Banca Mediolanum di Ennio Doris e di Molmed, azienda specializzata nelle ricerca nucleare con un goloso libro soci composto, tra gli altri, da Fininvest, dal San Raffaele di don Luigi Verzé e da Marina Del Bue, il cui fratello Paolo è tra i fondatori di Arner, la banca d'affari accusata dalla Procura di Milano di aver gestito i fondi neri della stessa Fininvest. Tutto bene, dunque? Non proprio perché sul Pgt di Basiglio si allunga la protesta dell’Associazione per il Parco sud Milano e del Comitato cittadino per il territorio di Basiglio. Loro, dicono, questo mare di cemento non lo vogliono. “La popolazione – sostengono – è in diminuzione, oltretutto il 10% delle case presenti risultano vuote”.
Le due associazioni, inoltre, si mettono, ventre a terra, a raccogliere firme per un referendum consultivo, che faccia esprimere la popolazione. A luglio il via libera e in poche settimane il comitato referendario mette in fila oltre 1.500 firme. Quorum raggiunto. Si voterà. Il risultato non sarà, però, vincolante. Il sindaco potrà anche non tenerne conto e procedere con il Pgt.
Eccoci, dunque, a sud-ovest di Milano. Poco oltre, il cemento di Rozzano, le bretelle ingolfate di traffico, i centri commerciali. Accanto il comune di Basiglio (il più ricco d'Italia): 500 anime fino al 1975, quando le gru della Edilnord di Berlusconi trasformano prati e rogge in una città satellite a pochi chilometri dal Duomo. Tanto cemento, ma in fondo, non troppo. Il verde viene salvaguardato. Nel 1993, però, Paolo Berlusconi torna alla carica. Tenta una variante al Pgt: 257 metri cubi di cemento e utile netto di 300 miliardi di lire. In prima fila la Cantieri Riuniti Milanesi di Berlusconi junior. Finirà male. Operazione bloccata. Decisivo un referendum, voluto e messo nel regolamento comunale dall'allora sindaco Dc Alessandro Moneta, un manager vicino al Cavaliere di Arcore.
Adesso, vent'anni dopo, la storia sembra ripetersi. E mentre buona parte della popolazione lancia l'allarme, la giunta comunale affida una consulenza (per il 2011) in materia urbanistica ad Antonino Brambilla, già coinvolto in Mani Pulite e che da lì a poco (gennaio 2012) verrà arrestato per corruzione assieme al consigliere regionale Pdl Massimo Ponzoni. Dubbi, ombre, domande che il Fatto Quotidiano ha rivolto al sindaco Cirillo attraverso il suo ufficio stampa, senza, però, ricevere risposta.
SOMMA LOMBARDO (Varese) — «C'è stato un terremoto, ma ha colpito una sola famiglia». La funzionaria comunale fa una sintesi efficace. I «terremotati» sono davanti a lei in municipio. Giuliano Rovelli, imprenditore di 41 anni, la moglie Francesca Perra, assistente capo della Polizia di Malpensa, i loro sei figli piccoli, una coppia di cingalesi che vive con loro e che amministrava la casa, la figlioletta di questi ultimi.
La mattina del 2 maggio il costone di un meraviglioso belvedere sul fiume Ticino è franato durante le forti piogge. Pochi giorni dopo, il bel giardino lungo 50 metri è scomparso, inghiottito da un'altra frana, e la villetta ora si trova in bilico: «Tra un po' vedrete il filmato su Youtube di una casa finire dentro il fiume — sbotta Giuliano — siamo un paese che cade a pezzi». Gli undici sfollati di Somma Lombardo stanno vivendo una storia all'italiana. Non sarebbero le piogge le vere responsabili della frana, ma, secondo le prime analisi, il principale sospettato è un tubo sotterraneo che trasporta le acque reflue del comune (provenienti dal depuratore comunale e da uno scolmatore di piena della rete fognaria). Perdeva, e ha creato uno smottamento del terreno.
«Ho affidato a un geologo di parte una perizia — spiega il proprietario della casa — non è una fatalità. Secondo noi è stato l'uomo a provocare questa frana». Le accuse dell'imprenditore sono vagliate dalla procura di Busto Arsizio, che ha aperto un'inchiesta. L'Arpa, l'agenzia regionale dell'ambiente, aveva segnalato alla magistratura già a febbraio che quel tubo che perdeva acqua e che stava erodendo il terreno.
Il sindaco di Somma Lombardo tira in ballo la burocrazia: «Avevamo un progetto per aggiustare il depuratore, ma la Regione non l'hanno finanziato — osserva Guido Colombo — e allora abbiamo messo a bilancio 450 mila euro. Ultimamente il Parco del Ticino ci ha chiesto di ritardare ancora i lavori perché era un periodo di nidificazione». Morale: ora il comune dovrà spendere almeno 1 milione e mezzo di euro, perché nel frattempo è franata mezza montagna. Giuliano Rovelli e Francesca entrano nell'ufficio del sindaco, guardano i mappali, chiedono rassicurazioni. Sono persone abituate a gestire gli imprevisti. Rovelli ha fondato nel 1994 una grossa azienda di parcheggi aeroportuali, e oggi ha 250 dipendenti. «Faremo una causa civile certo — osserva — ma non ho alcuna fiducia, sarà una cosa lunga e intanto abbiamo perso la casa. La comprammo nel 1998, era di un professore milanese che la usava per le vacanze. Ha una vista meravigliosa sul fiume e sulle Alpi. Ma non siamo degli irresponsabili, guardate che nessun documento ha mai segnalato alcun pericolo, era perfettamente abitabile».
Gli sfollati non torneranno mai più in quella casa: «Abbiamo preso i vestiti e siamo scappati — dicono Giuliano e Francesca —, non possiamo neanche più entrare». Intanto lo smottamento rischia di continuare. L'area va messa in sicurezza entro stasera, prima che ricominci a piovere. Gli elicotteri dovranno installare 28 gabbioni di ferro sul costone.
Chissà come andrà a finire la faccenda, speriamo ovviamente nel migliore dei modi per tutti, senza che sia necessario l’intervento di un Edgar Allan Poe varesotto a raccontarci la metafora di una nuova Casa Usher su cui si accanisce una maledizione naturale eterna. La vicenda però pur nella sua essenzialità restituisce un significativo spaccato di sistema decisionale, responsabilità culture, trasformazioni del territorio: lo stesso, si badi molto bene, che poi valuta e decide cosucce come gli hub intercontinentali fantasma, le terze piste quasi nel letto del fiume su cui non atterrano gli aerei ma le aspettative di sviluppo socioeconomico, un po’ di poli multifunzionali qui e là, sparsi su nuove bretelle e svincoli, sulle cui funzioni specifiche si vedrà in seguito, eccetera eccetera. Ecco, sono proprio gli stessi personaggi. Altro che Edgar Allan Poe, verrebbe da pensare così istintivamente. O no? (f.b.)
Edwin Arlington Robinson, The House on the Hill
They are all gone away,
The house is shut and still,
There is nothing more to say.
Through broken walls and gray
The winds blow bleak and shrill:
They are all gone away.
Nor is there one today
To speak them good or ill:
There is nothing more to say.
Why is it then we stray
Around the sunken sill?
They are all gone away.
And our poor fancy-play
For them is wasted skill:
There is nothing more to say.
There is ruin and decay
In the House on the Hill
They are all gone away,
There is nothing more to say.
La pianura padana era una terra di agricoltori. Era il granaio d'Europa, un territorio dove la terra era la madre di tutti i valori. Poi l'industrializzazione ha cominciato a mangiare il suolo, a relegare i terreni agricoli a marginali, in attesa che divenissero edificabili, con tutto ciò che questo ha comportato. Negli ultimi anni la cementite si è ulteriormente aggravata, con le nuove infrastrutture che si apprestano a tagliare ulteriormente il territorio.
Grandi infrastrutture come la BreBeMi e la Pedemontana, e poi nuove opere in progettazione, le cosiddette autostrade regionali, come la Broni-Mortara o la Bergamo-Treviglio, in una ubriacatura da autostrada di cui non si vede la fine. La fine coinciderà probabilmente con la fine della campagna, ma in cambio avremo guadagnato pochi minuti in un viaggio divenuto nel frattempo a pagamento. E a quel punto tutto sarà più semplice, la crisi come d'incanto scomparirà, le piccole imprese potranno tornare competitive, perché si sa, il tempo è denaro e quindi potranno correre molto di più, assumere nuovo personale e affrontare senza paura i grandi Paesi emergenti che oggi ci schiacciano.
È uno scenario che definire demenziale è un complimento. Sarebbe più onesto dire che le nuove opere sono un tentativo di rianimare un'economia asfittica, anche se nessuno dice che in queste opere chi lavora sono sempre e solo le grandi imprese, mentre le famose ricadute non sono altro che briciole, soprattutto in termini di margini di profitto. E da un punto di vista ambientale sarebbe più onesto sostenere che questo territorio è talmente compromesso che qualunque tentativo di contenere il consumo di suolo è assolutamente inutile, la bellezza del paesaggio non c'è più da tempo, tanto vale rassegnarsi a viaggiare in tunnel con ai lati pannelli fonoassorbenti sempre più alti che ci impediscono di vedere cosa stiamo attraversando. Meglio destinare le attenzioni ambientaliste al Chianti, verrebbe da dire, qui si deve produrre, si devono abbassare i costi e si deve essere veloci, e quindi alta velocità e autostrade sono fondamentali per i mercati globali, non c'è tempo di romantici pensieri bucolici.
Muoversi è fondamentale, le nuove opere costano miliardi di euro, che dovranno essere ripagati con pedaggi sempre più alti, ma non importa. E così via con le autostrade regionali, colate di cemento con ricadute di lavoro per le imprese, di oneri per le amministrazioni e per tutto l'indotto a queste collegate, fatto di consulenti di ogni tipo. Aumentare l'offerta di infrastrutture autostradali non ridurrà l'inquinamento e il traffico; l'unica speranza ambientalista è purtroppo la crisi economica che potrà portare a un mancato reperimento delle ingenti risorse necessarie e a rivedere i piani di traffico per il ritorno degli investimenti. Sperare nella crisi per salvare il territorio è una triste visione, ma purtroppo visioni lungimiranti non ce ne sono, da nessun soggetto economico e/o istituzionale, tutti impegnati nello stesso gioco al massacro che ci farà andare sì più veloci, ma verso il baratro.
Postilla
I ciellini, come risulta anche da certe inchieste sociologiche sui consumi culturali, pare ascoltino musica di produzione autarchica, tipo Frate Cionfoli, semisconosciuta al resto del mondo. Quindi molto probabilmente ignorano quell’attacco classico di rock demenziale anni ’70 che suona: Sono veloce / Nelle scarpe il piede cuoce /Il cervello prende vento / Ma si cuoce dal di dentro .Se lo conoscessero, si sarebbero infatti chiesti dove andremo a finire, con la loro macchina autostradal-territoriale saldamente avvitata alla montagna di balle sullo sviluppo che ci stanno propinando da lustri. Visto che l’articolo del Corriere pare (insieme ad altri che spuntano qui e là negli ultimi tempi) porsi una domanda del genere, si può azzardare una risposta. Il futuro immaginato da Celeste & Co. vede una Lombardia interamente ricoperta dalle autostrade, che servono a spostarsi da un laghetto per la pesca delle trote all’altro. Infatti per fare le autostrade serve scavare cave, e le cave poi vengono ripristinate a laghetti per la pesca cosiddetta sportiva a pagamento, da imprese amiche degli amici. Quindi nel futuro le attività economiche principali saranno la manutenzione autostradale, la pesca della trota (con la T minuscola), la spesa nei centri commerciali delle catene amiche collocati nelle fasce autostradali in deroga ai piani comunali, la cura dell'inevitabile stress nelle cliniche private convenzionate che si alternano nelle fasce autostradali senza deroga. Questo scenario non è una fantasia degna di un vecchio numero di Urania , ma una specie di ragionevole proiezione di quanto accade oggi. L’unica variante possibile è quella di un elettorale sonoro calcio nel sedere a questi figuri, ai loro sodali, e poi qualche secolo di duro lavoro per rimediare dove possibile ai danni (f.b.)
CREMONA — Scavare argilla e «spianare» il Pianalto della Melotta che si estende per una decina di chilometri quadrati tra Soncino e Romanengo, nella campagna cremonese, equivarrebbe a «scrostare un importante affresco da una parete». Via la pittura, quel pezzo di muro perderebbe ogni valore. Via l'argilla, resterebbe solo un'immensa montagna di arida sabbia.
Questa metafora, cui ricorre il geologo e portavoce di Italia Nostra Giovanni Bassi, è il modo più efficace per introdurre l'incredibile vicenda di cui è oggi protagonista un sito che il geologo ed esploratore Ardito Desio, per primo nel 1965, mise in relazione con eventi sismici che interessarono la nostra regione nel Pleistocene, 400 mila anni fa.
Quel pianalto, che si eleva di alcuni metri rispetto alla pianura, si sollevò per uno scontro tra faglie sismiche. E gli strati superficiali e così antichi sono di tale importanza che l'Unione Europea nel 2000 lo inserì tra i siti di importanza comunitaria (Sic).
Un tempo terreno agricolo, il Pianalto è stato acquistato dai titolari di una fornace che un anno fa hanno chiesto, in extremis, di valorizzarlo come «giacimento» per una futura attività estrattiva di preziosa argilla, modificando il piano cave decennale in scadenza nel 2013. Sordi alla protesta degli ambientalisti e anche di un sindaco, uno soltanto, quello di Romanengo, prima la Provincia di Cremona, poi i consiglieri regionali, hanno spalancato le porte ad un piccolo ma significativo disastro ambientale. Che sarà mai, è arrivato a far notare il relatore della commissione regionale, il leghista Frosio, «grattare» via tre metri dalla sommità del Pianalto? Sarà che in quei tre metri sta incisa l'antichissima storia della terra lombarda, lacerata da terremoti, ben prima di quello devastante del 1802 o più recente di Salò del 2004. «Per tutelarlo nel tempo è stato inserito tra le riserve naturali — precisa Ferruccio Rozza, già direttore del Parco del Serio —. Il geosito è tutelato dalla legge regionale e dai Prg».
Quella miniera preziosa di argilla (si progetta di scavarne 3 milioni e mezzo di metri cubi nei prossimi dieci anni) sorge accanto ai comuni di Ticengo, Soncino e Casaletto di Sopra, che pare si accontentino, in cambio dello sfregio alla loro terra, di avere a disposizione due piste ciclabili e una rotonda. La commissione ambiente regionale ha detto sì alla maxicava di argilla (in questa zona, tra l'altro, è solo l'ultima di una serie). E le ore di vita per il geosito sembrano contate. Entro la fine del mese di aprile la palla passerà al Consiglio regionale per il voto che deve creare un varco nella legge 12 del 2005, la stessa legge che a quello stesso sito attribuiva così tanta importanza. Poco importa se quelle terre argillose e antiche custodiscano anche importanti tracce di associazioni botaniche, il castagno e la ginestra dei carbonai, tipiche di zone montane.
A combattere è rimasto un don Chisciotte, il consigliere del Pd, Agostino Alloni: «Chiederò il voto segreto in aula. Quel terreno ha quattro vincoli. È più esteso della Città del Vaticano. Farò appello alla coscienza dei singoli consiglieri». «Il tema della conservazione del Geosito della Melotta — continua Alloni — è ineludibile. È l'emergenza geologica più importante del territorio provinciale». La battaglia, insomma, continua. E nel caso in cui lo scempio venga confermato, gli ambientalisti hanno già deciso di ricorrere a Bruxelles o alla Procura.
PAVIA — Non sarà la Tav della Lomellina questa ferita profonda che da Est a Ovest taglia (per ora solo sulla carta) la terra del riso, attraversando l'area protetta del Parco del Ticino. Ma contro i 50 chilometri di autostrada (più 32 di svincoli e varianti della viabilità ordinaria) destinati a sconvolgere equilibri già delicati, è cresciuto in questi mesi il dissenso tra cittadini e istituzioni.Il progetto della Broni-Mortara, più elegantemente battezzato «integrazione del sistema infrastrutturale padano», dopo otto anni di gestazione è arrivato alla svolta finale. Lunedì è scaduto il termine per la presentazione delle «osservazioni», e ora la valutazione di impatto ambientale (Via) è all'esame dei ministeri competenti (Ambiente e Beni culturali). Lì si deciderà il futuro dell'opera, ma il parere contrario della Provincia di Pavia (che con la precedente amministrazione era invece favorevole), ha già posto una pesante ipoteca sulla realizzazione dell'autostrada, il cui progetto definitivo è stato approvato nel dicembre scorso dalla Regione.
Sul fronte del no, oltre a diversi Comuni, sono schierati il Coordinamento dei cinque Comitati e Associazioni, con Italia Nostra, Legambiente, WWF, Lipu, La Rondine, Slow Food, Amici di Beppe Grillo e comitato agricoltori.Eppure, all'inizio, l'idea di quest'opera — che aveva come grande sponsor il «faraone» Giancarlo Abelli, ex assessore regionale e sino a qualche mese fa potente luogotenente del Pdl a Pavia — aveva convinto molti. Alla prima conferenza dei servizi, nel 2007, su trenta enti partecipanti solo sei si erano detti contrari. I favorevoli al progetto sono convinti che la Broni-Mortara contribuisca a creare un corridoio Est-Ovest alternativo alla congestionata A4 Torino-Trieste, «colmando nel frattempo carenze infrastrutturali nella Lomellina e nell'Oltrepò». Si sostiene anche che l'opera rientra a livello europeo nel «corridoio 5», collegamento ideale tra Barcellona e Kiev (che in realtà è un tracciato ferroviario). Si parla poi di generici benefici allo sviluppo dell'economia locale. Intanto l'esecuzione dei lavori in project financing(il costo è di oltre un miliardo di euro, messo dalle banche) è stata affidata alla Sabrom, società appositamente costituita, di cui l'Impregilo ha il 40%. Costruirà l'autostrada e l'avrà in concessione per 42 anni.
Dall'altra parte, il fronte del «no» sostiene che si tratta di un collegamento inutile e dannoso. Inutile perché la zona avrebbe eventualmente bisogno di sviluppare la viabilità Nord-Sud e non Est-Ovest, inoltre si inserisce in una provincia che ha già 3200 km di strade, di cui 2000 provinciali (che spesso versano in situazioni disastrose a causa della mancanza di fondi) e 80 di autostrade. E avrebbe bisogna prima di tutti di altre cose, tipo un nuovo ponte della Becca (quello che c'è sta cadendo a pezzi) e migliori collegamenti tra Pavia e l'Oltrepò. «Manca un'analisi costi-benefici», dice Renato Bertoglio di Legambiente. Ma se su i benefici non ci sono certezze, sui danni sì.
Prima di tutto l'intera autostrada sarà realizzata «in rilevato», cioè con un'altezza di almeno 2,5 metri dal piano di campagna (ma in alcuni punti di svincolo arriva sino a 16 metri, come a San Martino Siccomario). Questo comporta la costruzione di terrapieni con materiale di cava per l'astronomico totale di 13 milioni di metri cubi. «È un dato impressionante — dice Legambiente — in una provincia in cui ci sono già 1200 cave dismesse». Il territorio rischia di diventare un'enorme groviera, anche se 4 milioni di metri cubi verranno dal riutilizzo di materiali di demolizione (e si è già visto con la Brebemi, sottolineano gli ambientalisti, i pericoli ambientali che possono correre).
L'autostrada attraverserà più di cento aziende agricole, devastando l'area in cui si trovano le produzioni di riso che fanno del Pavese il principale produttore europeo. E - dicono sempre i contrari - sarà fonte di inquinamento in una zona che già deve fare i conti con pesanti livelli di polveri sottili. A Parona, che è alle prese pure con una contaminazione di diossina dell'aria e del terreno, quest'anno a febbraio si è registrato il record lombardo di PM10 (225 microgrammi). Per il presidente della provincia Daniele Bosone, l'autostrada accorcerebbe di soli 20 km il collegamento A21-A4 già esistente e danneggerebbe in modo irreparabile il reticolo irriguo e le colture risicole. «Regione e Comuni — dice Bosone — devono capire che quest'autostrada non serve, danneggia l'economia del territorio e soprattutto non è sostenibile sotto il profilo ambientale».
(di qualche anno fa la nostra descrizione del tracciato f.b.)
Si sono divorati un intero aeroporto in meno di dieci anni. Una voragine di oltre 92 milioni di euro nel bilancio della società a maggioranza pubblica, ma prima di andarsene hanno abbellito l’ingresso all’aerostazione con diciotto bellissimi olivi, affittati a 3722 euro a chioma. Più di una vacanza natalizia ai tropici con imbarco al Catullo. Totale: 67 mila euro, sottratti alla Avio Handling, società controllata dalla Catullo spa, che controlla gli scali di Verona e di Montichiari di Brescia. La Avio, però, è sull’orlo del fallimento e a novembre dello scorso anno è stata ricapitalizzata con tre milioni di euro, pur di non chiudere, con i dipendenti a rischio licenziamento. Anche alla holding dell’aeroporto non scherzano con i debiti. Dei 92,3 milioni di euro di debiti iscritti a bilancio, 19 sono solo di perdita nell’esercizio 2011, mentre vi sono 50 milioni verso le banche, 21 verso i fornitori, 11,8 milioni tributari, 1,35 milioni verso l’Inps, 7,7 nei confronti di altri. Di quei 50 milioni di euro di debiti verso gli istituti bancari, il Banco Popolare di Verona ha chiesto l’immediato rientro entro marzo di 41 milioni di euro. Se non vengono rinegoziati, la bancarotta è alle porte, i libri finiscono in tribunale.
Pur con un quadro debitorio compromesso, nel 2010, l’allora presidente dello scalo, Fabio Bortolotti, sigla un accordo capestro con Ryanair, togliendo proprio al gemello Montichiari i pochi voli rimasti. Per ogni passeggero che sbarca a Verona, il Catullo verserà alla compagna irlandese 15 euro, cioè il doppio rispetto agli altri scali nazionali e internazionali. Inoltre si aggiungono altre clausole capestro, che impongono un esborso complessivo annuo alla società aeroportuale sui due milioni di euro annuo a favore di Ryanair. L’aumento di passeggeri c’è, ma non risolve il deficit di bilancio. Intanto il procuratore capo di Verona, Giulio Mario Schinaia ha aperto due inchieste: la prima per presunta cattiva gestione, la seconda perché le nuove infrastrutture dell’aeroporto sarebbero prive della Valutazione d’impatto ambientale e delle relative autorizzazioni dell’Enac. La grana più grossa che ha portato al disastro finanziario, parte da un’altra scelta: la costruzione dello scalo di Montichiari alle porte di Brescia, al posto del vecchio aeroporto militare.
Nel 1998 il Catullo di Verona chiude per qualche mese, si inaugura il nuovo aeroporto, spendendo 50 miliardi di lire. Sistemate le piste, gli aerei tornano a Verona e a Montichiari non rimane quasi nulla. Nessun passeggero, tuttavia il personale è al suo posto. Un deserto nella Padania. Già nel 2002 il Montichiari si è mangiato 50 milioni di euro e la voragine si allarga di anno in anno. Nel bilancio 2003, il Montichiari dichiara una perdita pari a 3,8 milioni di euro l’anno. Fino ai 5 milioni di euro l’anno negli anni successivi. Per un po’ le floride casse del Catullo di Verona, in perenne crescita per numero di passeggeri, sopporta le perdite, poi si opta per artefici di bilancio. Come nel bilancio 2006, quando si dichiara ufficialmente un attivo di 236 mila euro, si registrano minori costi per 1,7 milioni di euro, invece aumentano i debiti verso i fornitori e si ricorre sempre più spesso a nuovi prestiti. La perdita reale 2006 per il Catullo, si fa trapelare dalla società, sia vicina ai 3 milioni di euro.
Quell’anno l’esposizione verso le banche è di 15,5 milioni di euro e 22,5 milioni di euro sono i debiti verso i fornitori. Nessuno, tuttavia, dice nulla. Mentre i consiglieri del cda si spartiscono 267 mila euro l’anno di emolumenti, come nel 2010. In una società controllata da enti pubblici, i cui consiglieri sono nominati da Province e Comuni, in particolare di Verona e Trento, che detengono una quota rilevante del pacchetto azionario. Le continue ricapitalizzazioni non hanno sanato i conti in rosso. Mentre Brescia è sempre rimasta alla porta fino a poco fa, quando ha sottoscritto un aumento di responsabilità societaria per il rilancio di Montichiari,conunapartecipazionedel25%diquote nella società unica Aeroporti del Garda, alla quale fanno capo i due scali. I soci bresciani finora non hanno aperto il portafogli e Verona gli ha intimato di pagare la loro quota di debiti. Intanto l’aeroporto di Brescia perde 20 mila euro al giorno, 600 mila al mese, 8 milioni di deficit l’anno.
Su questo sito già diversi anni fa si era seguita la vicenda di un fantomatico neo-hub intercontinentale padano: padano sia per la collocazione geografica che per la coloritura diciamo così politica. Ovvero la fusione a freddo dei due campi di Montichiari e Ghedi, che si trascinavano appresso scalo TAV, infiniti lavori stradali, massiccio decentramento funzionale (funzioni dal superfluo al decisamente comico allo squisitamente virtuale)dal centro di Brescia. Sempre che queste funzioni siano mai esistite, naturalmente. Il tutto, con previsioni di passeggeri da far tremare tutta la megalopoli, a fronte di una crisi nera dell’altro hub padano, quella Malpensa da sempre fiore all’occhiello della lobby lagaiolo-gallaratese. C’era del marcio in padania, e la puzza si sentiva da lontano, solo dando una scorsa al grandioso progetto. Adesso, eccoli qui, magari a dire “ma noi non potevamo sapere”. Invece è meglio ricordarsi, dando un’occhiata per nulla storica almeno al nostro primo reportage completo, quello seriosamente intitolato Hub? Burp!. (f.b.)